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Tech house e pulsione di morte

2024, Nazione Indiana

https://www.nazioneindiana.com/2024/04/20/tech-house-e-pulsione-di-morte/ Fin dall’iconografia – pasticche, K di ketamina e lingue estroflesse dominano la scena – questo genere musicale si presenta come un inno alla “festa” in cui sballo e sesso sono padroni indiscussi. Nonostante la professata levità, però, dopo un po’ le voci abbassate di tono, i suoni patinati ma aggressivi e l’insistenza di frasi come “You take another” fanno sprofondare questa compulsory happiness in un mare di inquietanti incubi stroboscopici. Se il neoliberismo riduce l’essere umano a soggetto di prestazione che ottimizza sé stesso fino a morire, la tech house ne è il manifesto sonoro.

Tech house e pulsione di morte nazioneindiana.com/2024/04/20/tech-house-e-pulsione-di-morte/ 20 aprile 2024 di Lorenzo Graziani Che la quota di oscurità nella popular music – ascoltata in solitudine o ballata in compagnia – sia in costante crescita è un fenomeno sotto gli occhi di tutti. E non serve lambiccarsi troppo il cervello per notare la connessione con il ripiegamento nichilista che ha segnato la storia della controcultura: dagli inni soul per i diritti civili degli afroamericani e dal il rock pacifista dei primi Settanta, nel giro di dieci anni si è passati al punk, il cui spirito antisistema è stato ben presto assorbito dal mercato (discografico e dell’abbigliamento), capitalizzato e quindi disinnescato; poi è stato il turno dell’associazione a delinquere del gangsta rap, che del mondo se ne fregava e del ribellismo manteneva solo l’aspetto criminale; ora ascoltiamo le sbrodolate autotunizzate della trap in cui la reificazione capitalista raggiunge il suo culmine e la liberazione sessuale degli anni Sessanta sembra essere stata fagocitata dai circuiti neurali neoliberisti per generare la Perversa Equazione (PE) “sesso = soldi”, secondo cui il potere d’acquisto è tutto e si manifesta sotto forma di potere di fottere. 1/7 Stessa storia per la cultura della droga. Certo, le porte della percezione sono state aperte e poi sbattute in faccia già negli anni Settanta, in cui il riflusso dell’ondata psichedelica di dieci anni prima sembrava imprigionato in un terrorizzante flashback da LSD: “Siamo stati costretti a smettere da cose terribili” sono le amare parole della Nota dell’autore che chiude Un oscuro scrutare di Philip K. Dick, romanzo dedicato agli amici persi a causa della droga. Ma le sottoculture giovanili non hanno per questo smesso di fare uso di sempre nuove sostanze. Con la rave-culture degli anni Novanta si è diffusa l’ecstasy, e oggi è il turno di analgesici e ansiolitici come Xanax, Percocet e OxyCotin; ed è in particolare la codeina a giocare un ruolo fondamentale nell’informare il suono trap. In pezzi come “Codeine” – appunto – di Playboi Carti lo strumentale e la voce si fondono in un plasma di ricordi infantili liquefatti: tintinnii da camioncino dei gelati, jingle di cartoni animati e gridolini di bambini al parco che sembrano riprodotti da un Hal 9000 a cui David Bowman sta gradualmente cancellando la memoria. Drogarsi non serve più a meditare e nemmeno a medicare: l’irrealtà digitale di questi brani pare ricordarci come non ci sia più nessun altrove, nessuna alternativa all’infantilizzazione della società e alla schizofrenia neoliberista. Tuttavia, è forse fin troppo facile rintracciare tendenze autodistruttive nella trap, e ancor più facile è metterle in relazione con la PE prodotta dal dominio capitalista dell’inconscio. Per motivi diversi, lo stesso vale per molta EDM (Electronic Dance Music) che, per decenni, pare aver seguito un trend da economie di scala passando dai 125 bpm della house-music ai 200 e rotti della gabber. Gli impulsi autodistruttivi sono palesi soprattutto nei generi più duri e freddi, “tutta macchina”, come la techno. Ciò che li rende meno interessanti dal mio punto di vista, però, è che, sebbene abbiano un certo seguito, rimangono comunque generi di nicchia, tradizionalmente e – almeno in parte – consapevolmente anti-sistema. Ho invece il sospetto che le tendenze autodistruttive siano ben più pervasive. E per trasformare il sospetto in una tesi non conosco metodo migliore che cercare di rintracciarle in luoghi dove non sono evidenti. Effettivamente, queste tendenze si manifestano in molta (sotto)cultura musicale come vere e proprie pulsioni di morte, emersioni di un rimosso che solitamente sta al di sotto del livello di coscienza. Quindi la mia attenzione si è concentrata sulla tech house, un genere esploso solo di recente, ascoltato da persone che danno tutta l’impressione di essere integrate nel sistema. Che cos’è la tech house? Se si cerca online, le migliori definizioni disponibili suoneranno così: “La tech house è un sottogenere della house-music che combina elementi stilistici della techno”. Mi sembra una buona definizione perché ha quantomeno il merito di incasellare correttamente questo genere musicale: è un tipo di house che dalla techno prende in prestito soltanto qualche accessorio. 2/7 Dal punto di vista ritmico, infatti, è dominata da un classico house-beat four-on-the-floor. Indubbiamente, rispetto al genere di origine, bassi e cassa sono stati sottoposti a trattamento anabolizzante, avvicinandoli così al suono della techno, ma si cercherebbero invano altri procedimenti tipici di quest’ultima, come rumble e poliritmie. Malgrado i vari generi EDM tendano oggi all’uniformità, tech house e techno vengono solitamente arrangiate diversamente. E, pure in questo caso, la prima mostra chiaramente la sua discendenza house poiché le manca la caratteristica più evidente della techno: la costruzione a strati, ossia l’accumulo graduale di tensione ottenuto attraverso l’aggiunta progressiva di materiale sonoro in loop. Questo rende la tech house un genere a prima vista molto meno ripetitivo della techno (le figure ritmiche e melodiche si ripetono mediamente di meno prima di cambiare). Ma la varietà guadagnata sul singolo pezzo viene meno sul lungo tragitto: se non si pone attenzione al campionamento vocale distintivo o a quell’unico suono dal timbro originale, anche dopo un certo allenamento è difficile distinguere un brano dall’altro tanto ritmo, melodia e arrangiamento si ripresentano invariati. Si tratta quindi di una ripetizione sicuramente meno palese di quella en plain air della techno, ma – forse proprio per questo – ancor più inquietante. Enter the Freud Proprio la coazione a ripetere ci mette sulle tracce di Freud poiché è il punto di partenza da cui egli parte per teorizzare la pulsione di morte. Non si può certo dire che colui che riteneva di poter ricondurre tutte le motivazioni umane alla volontà di sopravvivere e accoppiarsi abbia mai mostrato un atteggiamento particolarmente ottimista a proposito della nostra natura e civiltà. Tuttavia, il folle connubio di morte e tecnologia dispiegato sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale ebbe un forte impatto sul pensiero di Freud, tanto da indurlo a ritenere che fare appello alle pulsioni sessuali non fosse sufficiente a spiegare l’inclinazione all’ingiustizia e alla sopraffazione che caratterizzano la razza umana. Sono queste riflessioni a guidare la scrittura di Al di là del principio di piacere, saggio che sin dal titolo allude a un noto libro di Nietzsche di cui condivide il disincanto nei confronti dell’etica ufficiale. Lo scritto risale al 1920 e prende le mosse dalle osservazioni compiute dal medico viennese su di un ampio numero di pazienti sofferenti di nevrosi traumatiche causate dal recente conflitto. Questi ultimi, mentre nella vita vigile si sforzano di non pensare all’evento traumatico da cui scaturisce la loro nevrosi, lo rivivono continuamente nei loro sogni. Si tratta di un fatto che colpisce Freud in quanto sembra contraddire la sua precedente teoria dei sogni che, come è noto, tendono all’appagamento di un desiderio. Ci deve dunque essere qualcosa di diverso dal principio di piacere che disturba e devia la funzione del sogno dai suoi scopi. Ancor più sconvolgente è però la scoperta che la tendenza a ripetere precedenti esperienze anche se spiacevoli è presente pure in soggetti sani. Troppi fenomeni sembrano pertanto a Freud rimanere senza spiegazione a meno di non postulare che la coazione a ripetere sia “più originaria, più elementare, più pulsionale di quel principio di piacere di cui non tiene alcun conto.” 3/7 La connessione tra pulsionalità e coazione a ripetere viene esplicitata attraverso quella che Freud chiama la “proprietà universale delle pulsioni, e forse della vita organica in generale”, che non è contraddistinta da una forza propulsiva, bensì conservativa e orientata a “ripristinare uno stato precedente”. In altre parole, la Vita di Freud è l’esatto contrario della Vita di Bergson: se per quest’ultimo la “vita pienamente vivente” è una granata che non cessa di esplodere, per il padre della psicoanalisi è un elastico teso che tende a riassumere la forma di partenza una volta cessata l’azione di forze esterne, o un motore che, esaurito il carburante, procede per inerzia. Data la natura conservativa delle pulsioni, esse non possono spingere le forme di vita verso uno stadio successivo; al contrario, le pulsioni le riconducono alla comune partenza, ossia la morte, in quanto gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi. Accanto alle pulsioni sessuali o di vita, fa così la sua comparsa la pulsione di morte che – con linguaggio schopenhaueriano – viene presentata da Freud come “più originaria”. Infatti, nonostante il proclamato dualismo, verso la conclusione dello scritto, l’attenzione viene posta su due caratteristiche delle pulsioni di vita che suggeriscono una loro possibile discendenza da quelle di morte. La prima è la componente sadica delle pulsioni sessuali, che si esprime nella fase orale attraverso l’impossessamento e l’annientamento dell’oggetto erotico; qualora non venga superata, nel corso dello sviluppo diviene una perversione che prevede la sopraffazione del partner nell’atto sessuale. La seconda riguarda il meccanismo regolato dal principio di piacere che in questa sede viene definito – usando l’espressione di Barbara Low – “principio del Nirvana”: poiché ha il compito di scaricare l’energia psichica in eccesso per mantenerla al minimo, esso stesso pare derivare dalla pulsione di morte. Pulsione di morte, società della performance e tech house Ora, torniamo alla tech house. Fin dall’iconografia – pasticche, K di ketamina e lingue estroflesse dominano la scena – questo genere musicale si presenta come un inno alla “festa” in cui sballo e sesso sono padroni indiscussi. Nonostante la professata levità, però, dopo un po’ le voci abbassate di tono, i suoni patinati ma aggressivi e l’insistenza di frasi come “You take another” fanno sprofondare questa compulsory happiness in un mare di inquietanti incubi stroboscopici. “I think I took too much, I can’t feel my bones, I can’t feel my soul, don’t take me home” recita il testo di “Too Much” di TOBEHONEST. Le frasi vengono pronunciate con quel tono a metà strada tra l’inquieto e il narcotizzato che si ha quando si è preoccupati per le proprie condizioni, ma troppo fatti per comprenderne la reale gravità. “I lost my mind”, ma la musica è trascinante; dopo aver ballato per ore, l’effetto ancora non è finito: stai male, eppure il tuo sistema limbico – ancora sovraeccitato – ti impedisce di tornare a casa. L’overdose sarà pure un incidente, un divertimento finito in tragedia, ma l’abuso di droga viene qui invocato con una consapevolezza e un cinismo inquietanti: “You’re not in control” (Beltran, “Warning”). Gli stessi saliscendi ritmici che caratterizzano il genere ricordano la sensazione di disorientamento temporale causata da alcol&MD. 4/7 A ben vedere, le pulsioni di morte che scorrono al di sotto della patina lucida sono tutte collegate a un fenomeno fin troppo evidente nella nostra società: la pressione a dare il massimo. In pezzi come “The Game” di Pleight e Bess Maze il processo pare lambire le soglie dell’Io, pur rimanendo almeno in parte inconscio: nell’intermezzo in cui la tensione si rilassa e la cassa picchia di meno si distinguono a stento le parole immerse nel riverbero di quello che verosimilmente è un discorso sulle cause dell’ansia da prestazione (“everybody must join, everybody must work, everybody must belong, then freedom disappears”). La stessa tipologia della droga menzionata così tante da volte da entrare in un certo senso a far parte dell’identità del genere musicale ci fa riflettere su quanto sia forte l’ossessione per la prestazione. Non è la codeina della trap, bensì ecstasy: un eccitante, non un ansiolitico. La droga serve a continuare la festa, a continuare la performance, a far vedere che non ci si ferma mai (non sto dicendo che la trap non sia, a suo modo, un genere esibizionista; qui mi riferisco solamente agli effetti della droga utilizzata). Sicuramente l’essere riconosciuti dagli altri è una necessità dell’essere umano, animale sociale per eccellenza; ma da dove deriva questo bisogno di mettersi in mostra per far vedere la propria forza? Non credo che nemmeno in questo caso si debba cercare a lungo per trovare la risposta. In una società come la nostra in cui tutto è merce, e deve quindi essere esibito per essere, l’esibizione diventa valore assoluto. La concorrenza è spietata, se non ce la fai è meglio che te ne resti a casa: “You should’ve stayed at home, stayed away” (NightFunk e Ranger Trucco, “In The Club”). Per esibirti devi reggere il confronto e saper sfruttare le tue armi: “Money, power, beauty, fame: choose your weapon to beat the game” (Chris Lake, Grimes e NPC, “A Drug From God”). Ma la concorrenza è spietata: per andare avanti devi “prenderne un’altra”, fino a perdere il controllo. Secondo il filosofo contemporaneo Byung-Chul Han, la logica neoliberista dell’autorealizzazione è l’arma anti-rivoluzionaria definitiva: se la dialettica materialista prevedeva che l’alienazione del lavoratore dovuta al suo sfruttamento da parte del padrone si trasformasse in desiderio di ribellarsi al dominio di quest’ultimo, ora che il padrone è divenuto evanescente è il lavoratore stesso a sfruttarsi fino alla morte, credendo di realizzarsi. La ricorrente espressione “essere imprenditori di sé stessi” equivale metaforicamente a puntarsi alla tempia la pistola della rivoluzione, e dunque ad annullare ogni spinta anti-sistema insita nello sfruttamento capitalistico. Perciò, se il neoliberismo riduce l’essere umano a soggetto di prestazione che ottimizza sé stesso fino a morire, la tech house ne è il manifesto sonoro. Pur avendo ragioni socio-econimiche, la tendenza autodistruttiva della società della performance pare dunque confermare la teoria di Freud: la nostra società, che intona peana all’immortalità digitale e si sforza in tutti modi di rimuovere la morte dalla vita, non solo si rivela ossessionata dalla morte (ipocondria e vigoressia sono facce della stessa medaglia), ma più la nega, più pare corrervi incontro. La vita che rimuove la morte, rimuove sé stessa. Si vuole l’estasi (o l’ecstasy) per tentare di dimenticare la paura di morire, e si finisce così 5/7 per accelerare il processo di autoannientamento, a livello personale e – grazie alle migliorate capacità dell’uomo di influenzare l’ambiente esterno – (inter)planetario: “Moving beyond the Earth, heading for the stars, interplanetary, we’re running out of time” (Walto, “Planetary”). Nella società della performance essere non è essere percepito, ma essere esibito. Questo genera odio verso sé stessi, mai all’altezza di ciò che pensiamo ci venga richiesto, oltre a un’angoscia strisciante eppure insostenibile, ben rappresentata da pezzi come “Don’t Wanna Be” di Broken Future (un moniker molto appropriato). Qui viene adoperato un sample vocale in cui soggetto e completamento del verbo sono talmente distorti da non risultare intellegibili. E non è un caso, allora, che il titolo della canzone li elimini completamente, restituendo all’ausiliare il suo significato proprio di esistere e alla proposizione il suo contenuto esistenziale: il desiderio, acefalo e adespota, di non essere. * PLAYLIST Trap 1. Playboi Carti, “Codeine”: https://www.youtube.com/watch?v=Pxw6s4iMG7c 2. Lil Gotit, “Uzi Anthem”: https://www.youtube.com/watch?v=q5IhSiiewNE 3. X-Kappe, “Lalah”: https://www.youtube.com/watch?v=rGnWTVqfJJg Techno 1. ABYSSVM, “Achtung”: https://www.youtube.com/watch?v=7_OQU1xk1Ac 2. Znzl, “As The Fire Consumes Us”: https://www.youtube.com/watch?v=OsixURKSBUw 3. BXTR e NN, “Asimov’s Law”: https://www.youtube.com/watch?v=6rBtwoOqcTk 4. NTBR: “Eskalation”: https://www.youtube.com/watch?v=wPaexaXDUCs 5. Minus Magnus, “inside Pax”: https://www.youtube.com/watch?v=d4sqV2kXsfg Tech house 1. TOBEHONEST, “Too Much”: https://www.youtube.com/watch?v=nfGzHERR9Tg 2. Beltran, “Warning”: https://www.youtube.com/watch?v=k9FiwBYjwdc 3. Pleight e Bess Maze, “The Game”: https://www.youtube.com/watch?v=Fdoiixwcc1k 4. NightFunk e Ranger Trucco, “In The Club”: https://www.youtube.com/watch? v=RdveZ3jeL5M 5. Chris Lake, Grimes e NPC, “A Drug From God”: https://www.youtube.com/watch? v=nsmvBR37xps 6. Walto, “Planetary”: https://www.youtube.com/watch?v=ItheVZ3F9sA 7. Broken Future, “Don’t Wanna Be”: https://www.youtube.com/watch?v=Dmhc681oixw 8. Maximo, SCHMIDT e Ben Yen, “Back Then”: https://www.youtube.com/watch? v=HzjuJubb4mY 6/7 9. Roddy Lima, “Guzman”: https://www.youtube.com/watch?v=urTZ-qNbg70 10. Dead Space e G. Felix, “Mighty Real”: https://www.youtube.com/watch? v=lYivFOI3HUQ 11. James Hype, “Say Yeah”: https://www.youtube.com/watch?v=JE4WUGzU76I 12. TOBEHONEST, “Conga”: https://www.youtube.com/watch?v=cf4PPS_2fhw 13. House Divided, “Get Twisted”: https://www.youtube.com/watch?v=Vtqf7SqH244 * Immagine: Illustrazione editoriale di Norberto Filotto Design 7/7