Università degli Studi di Napoli Federico II
Giuseppe Antonio Di Marco
IL LAVORO
DELLA TALPA
Scritti su Marx
Università degli Studi di Napoli Federico II
Giuseppe Antonio Di Marco
Il lavoro della talpa
Scritti su Marx
a cura di Roberto Evangelista, Roberta Gimigliano,
Anna Pia Ruoppo, Irene Viparelli
Il lavoro della talpa : scritti su Marx / Giuseppe Antonio Di Marco ;
a cura di Roberto Evangelista, Roberta Gimigliano, Anna Pia Ruoppo,
Irene Viparelli. – Napoli : FedOAPress, 2018. – 416 p. ; 24 cm.
Accesso alla versione elettronica:
http://www.fedoabooks.unina.it
ISBN: 978-88-6887-046-1
DOI: 10.6093/978-88-6887-046-1
Pubblicato con un contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Napoli
Federico II (fondi per la ricerca 2016 e 2018).
© 2018 FedOAPress - Federico II University Press
Università degli Studi di Napoli Federico II
Centro di Ateneo per le Biblioteche “Roberto Pettorino”
Piazza Bellini 59-60
80138 Napoli, Italy
http://www.fedoapress.unina.it/
Published in Italy
Prima edizione: dicembre 2018
Gli E-Book di FedOAPress sono pubblicati con licenza
Creative Commons Attribution 4.0 International
Indice
Prefazione
7
Nota bibliografica
13
Sezione I - Mistificazioni: politica e religione
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico». L’affermazione di
Engels e Marx alla luce del problema: politica e natura umana
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Ludwig Feuerbach e
Karl Marx
17
Sezione II - Crisi: riforme e conflitti
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe: una ricognizione della prospettiva marxiana
4. Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
6. Dopo l’abolizione dell’articolo 18: retrospettiva e prospettive
65
113
157
187
241
Sezione III - Globalizzazione: resistenza e lotte
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale. Una declinazione del tema “filosofia e politica” in Michael Hardt e Antonio
Negri
253
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo
operaista degli anni Settanta
317
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero.
Vladimir Il’ič Lenin, Michael Hardt e Antonio Negri
355
5
Prefazione
Intorno al 2000, in un’aula occupata da un collettivo universitario, era possibile trovare una fotografia attaccata al muro con un pezzo di scotch, stampata su
un foglio A4, in bianco e nero (possibilmente non troppo nitidamente). Questa
fotografia rappresentava un cancello aperto su una strada di periferia al quale era
appeso un cartello con la scritta: «uscita operai». Qualcuno, con un pennarello,
aveva scarabocchiato una frase: «ma allora gli operai esistono davvero?», svelando
così il motivo per cui quella foto era stata affissa al muro.
Erano anni particolari, in cui anche gli intellettuali marxisti (o ex marxisti)
si erano convinti che lo schema di una società divisa in classi non poteva essere
più considerato un valido metodo di lettura della realtà. Era opinione diffusa che
la classe operaia si fosse frammentata in una serie di soggetti diversi e che anche
l’idea di lavoro fosse ormai mutata con il passaggio di secolo, arrivando quasi a
dissolversi. Con essa, si era dissolta, o sembrava sparire dal dibattito pubblico,
l’idea che la società fosse mossa al suo interno da un conflitto più o meno latente.
Questa, infatti, veniva presentata in due maniere contrapposte, ma ugualmente
viziate: o come un ente pacificato, in cui il conflitto veniva negato perché la storia (o almeno uno dei suoi aspetti più visibili) si era in qualche modo compiuta;
oppure come un piano in cui il conflitto era continuo ma mai risolutivo, perché
si rivolgeva ad aspetti e categorie considerate universali: i diritti ambientali, la
riappropriazione di una cultura localistica e resistenziale, la libertà di espressione
e di comunicazione. Si assisteva al compimento di una mutazione del paradigma ideologico, anche e soprattutto all’interno degli ambienti che proponevano
un mutamento sociale. La foto di quel cancello, dunque, era il simbolo di una
resistenza, fosse essa ragionata oppure viscerale, a questa proposta teorica, per
ristabilire il centro della critica marxiana della realtà: il conflitto capitale-lavoro.
Questa necessità emerge in gran parte dell’impegno che Giuseppe Antonio
Di Marco ha profuso nello studio dell’opera di Marx ed Engels e delle correnti
contemporanee del marxismo.
La necessità di riprendere determinate categorie, senza stravolgerle ma provando ad adattarle a un esistente che sicuramente è cambiato, è una delle carat7
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
teristiche dell’impegno marxiano di Giuseppe Di Marco; un impegno che si è
mosso nelle profondità di un pensiero complesso, che – seguendo Marx – non si
“limita” a comprendere la realtà, ma cerca soluzioni adeguate per la sua trasformazione, andando verso la realizzazione di una società in cui l’individuo possa
esprimere totalmente le sue potenzialità. Condizione, questa, che può presentarsi
solo in una dimensione realmente e sostanzialmente collettiva.
Ci stupisce, ma non dovrebbe, la coerenza di questo volume di saggi, che
è il risultato di un lavoro di scavo che assomiglia al lavoro della talpa. Questi
contributi, infatti, possono essere letti come un percorso lento e inesorabile di
critica all’ideologia del mondo borghese: a partire dalla messa in discussione delle
pretese di universalismo rappresentate dall’idea di una natura umana eterna, o di
un potere politico slegato dalla sfera dei bisogni e delle necessità sociali, passando
per la considerazione della centralità del conflitto che la società Borghese tende
a negare, per arrivare infine alla critica puntuale delle proposte post-marxiste di
Hardt e Negri. Il percorso così delineato aiuta il lettore a orientarsi in una delle
categorie più sovra-interpretate della storia del pensiero contemporaneo: quella,
appunto, di comunismo.
Nella produzione scientifica di Giuseppe Di Marco, Marx ha dunque ricoperto un ruolo decisivo ed è questa una delle ragioni che ci ha spinto a raccogliere
in questo volume alcuni degli scritti più significativi sul pensiero marxiano. Non
solo, quindi, una necessità editoriale dovuta al fatto che tra gli interessi scientifici
di Di Marco, proprio a Marx non sia stata ancora dedicata una monografia, ma
soprattutto il bisogno – crediamo condiviso – di rendere fruibili lavori che hanno un forte contenuto demistificatorio e un indiscutibile valore rispetto a temi
tornati prepotentemente di attualità.
Certo, come sempre avviene, qualche aspetto di questo lungo lavoro rimane escluso dalla raccolta: quello più importante, ci pare essere proprio il lavoro
militante di Di Marco, lavoro che è sempre stato affiancato a quello accademico, alimentandolo e probabilmente perfezionandolo. Questo tipo di impegno,
però, è molto legato a interventi orali, le cui registrazioni meriterebbero di essere
trascritte. Per il momento, tuttavia, i contributi qui raccolti permettono di far
emergere un quadro teorico definito, rendendo di nuovo “disponibili” alcune
categorie epistemologiche, che con troppa fretta sono state considerate superate.
I due contributi che fanno parte della prima sezione del volume si preoccupano di indagare due mistificazioni fondamentali: quella del potere politico e
quella della religione. La prima, considerata nel saggio «Il pubblico potere perderà
il suo carattere politico». L’affermazione di Engels e Marx alla luce del problema:
8
Prefazione
Politica e natura umana, riporta al centro il presupposto secondo cui l’uomo
si autoproduce in società. Da questo punto di vista, la politica non è altro che
una delle tante affermazioni umane, dipendente dal modo di produzione storicamente determinato e dalle relazioni e dai rapporti sociali che di volta in volta
in volta l’umanità costituisce. Teorie politiche come quella di Carl Schmitt (altro
riferimento importante nel lavoro scientifico di Giuseppe Antonio Di Marco)
che affermano, al contrario, l’assoluta originarietà del politico sono appunto una
mistificazione, rappresentazione ideologicamente capovolta di una società contraddistinta dalla divisione del lavoro e dal conseguente antagonismo della classi.
Allo stesso modo la mistificazione religiosa, che si riscontra anche nei conflitti armati dell’inizio del XXI secolo mascherati da scontri tra culture o tra civiltà,
viene considerata nel secondo saggio, «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Ludwig Feuerbach e Karl Marx. Questo modo di rappresentare il rapporto
socio-economico globale nel conflitto culturale e religioso è in realtà «una coscienza capovolta dei rapporti reali essi stessi capovolti, perché caratterizzati dal
passaggio a una completa sottomissione planetaria dell’intera società alla forma
di produzione dove domina lo scambio di merci». Il cosiddetto feticismo della
merce, dunque, non è altro che un rapporto sociale espresso nella sua forma capovolta, in una società in cui è necessario coprire il conflitto esplicito tra capitale e
lavoro. Solo passando attraverso la soppressione dei rapporti antitetici, potranno
infine scomparire anche le forme oppressive e mistificatorie della religione, della
mercificazione e degli scontri culturali.
La seconda sezione, cogliendo i riferimenti di quella precedente, mette al
centro proprio la categoria di conflitto frutto della contraddizione insanabile tra
forze produttive e rapporti di produzione, elemento diremmo sostanziale del capitale. I saggi di questa sezione definiscono uno schema delle crisi e dei conflitti
che le attraversano e, allo stesso tempo, riflettono sulle risposte che il potere
politico ha provato a dare negli ultimi anni. Si tratta, come vedremo, di tentativi
che avrebbero dovuto sopprimere i conflitti esistenti, ma allo stesso tempo (e –
appunto – contraddittoriamente), hanno preparato quelli futuri.
Il primo contributo La politica e la guerra come violenza organizzata di classe:
una ricognizione della prospettiva marxiana sottolinea il carattere assolutamente
endemico del conflitto e della violenza in una società divisa in classi, tanto che,
scrive Di Marco, «solo in un ordine di cose in cui non vi saranno più classi né antagonismo di classi le evoluzioni sociali cesseranno di essere rivoluzioni politiche».
Il saggio Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale riprende una tematica
importante nella letteratura marxista italiana, anche se rimasta un po’ nell’om9
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
bra: il rapporto tra forma dello Stato e sviluppo delle forze produttive. La Costituzione italiana rappresenta un “luogo” in cui questo conflitto emerge con particolare visibilità, perché rappresenta un compromesso tra le forze uscite vincitrici
dalla Resistenza al nazi-fascismo. Lo spazio definito dalla costituzione, tuttavia,
comincia a subire mutamenti sia attraverso le lotte operaie sviluppatesi a partire
dagli anni ’60, sia attraverso le risposte del padronato, che hanno decretato la
revoca di conquiste faticose. Il mutamento della forma-Stato va dunque letto alla
luce di una dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione, dialettica che
non può che essere conflittuale e che ritorna anche nello spazio legislativo creato
per rispondere a un fenomeno nuovo nel contesto italiano: quello delle migrazioni. Così, in Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalistica, Giuseppe Di Marco commenta l’evoluzione del quadro
normativo in materia di immigrazione fino al 2012, spiegandone gli effetti ricorrendo alla categoria marxiana di esercito industriale di riserva, aspetto centrale
del conflitto tra capitale e lavoro. Chiude la sezione un contributo sulla riforma
dell’articolo 18 (Dopo l’abolizione dell’articolo 18: retrospettiva e prospettive), che
ha tra le altre cose il merito di spiegare come ogni riforma risulti inquadrata in
un movimento globale del capitalismo, che in questo caso tende al progressivo
accentramento dei mezzi di produzione.
I testi raccolti nella terza sezione del presente volume ci presentano il confronto di
Di Marco con la tradizione dell’operaismo italiano e, in particolare, con la prospettiva
ontologico-costituente di Michael Hardt e Antonio Negri. Si tratta di contributi tra
loro eterogenei, che abbordano tematiche molto differenti, ma in cui è sicuramente
possibile individuare un elemento costante: la continua problematizzazione dei presupposti metodologici dell’operaismo. L’assoluta centralità della soggettività operaia
esprime, da un lato, l’indiscussa marca di originalità e la ragione dell’importanza teorica e politica dell’operaismo; dall’altro, però, ne indica anche il punto massimamente
problematico. La separazione di soggettivo e oggettivo, per Di Marco, tende a dissolvere il “nucleo dialettico” delle categorie marxiane e orienta la teoria verso l’ontologia
e verso l’inedita ibridazione con il post-strutturalismo francese.
Di Marco non contesta la legittimità di tale operazione teorica, ma si interroga piuttosto sulla sua necessità e sui suoi effetti politici, nella convinzione che il
carattere dialettico delle categorie marxiane, lungi dall’esprimere un’insufficienza teorica, sia piuttosto l’indice della loro persistente capacità di comprensione
del capitalismo.
Nel primo contributo qui presentato Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale. Una declinazione del tema “filosofia e politica” in Michael
10
Prefazione
Hardt e Antonio Negri, tale questione epistemologica è assolutamente centrale. Di
Marco, infatti, passa in rassegna l’intero apparato categoriale di Hardt e Negri –
comunismo, lavoro immateriale, produzione biopolitica, Impero – e ne mette in
luce quella «torsione fortemente a-dialettica della relazione tra capitale e lavoro»,
Questo passaggio teorico, per Di Marco, permette di sviluppare una concezione
della temporalità e del movimento, una rappresentazione «differenziale del tempo come evento» che definisce un paradigma nuovo, differente e incompatibile
con la tradizione marxiana.
Il contributo La soggettività comunista tra lotta antimperialista e resistenze contro l’ impero: Vladimir Il’ ič Lenin, Michael Hardt e Antonio Negri si concentra
sull’interpretazione della teoria leninista dell’imperialismo e sulla proposta teorica del passaggio dall’imperialismo all’Impero. Di Marco mette in discussione
la lettura hardt-negriana della teoria dell’imperalismo di Lenin, fondata sulla
presunta scissione tra il piano teorico (la realizzazione dell’ultraimperialismo monopolistico) e quello politico (lo sviluppo della potenza antagonista della classe
operaia su base mondiale). Di Marco ricompone questa scissione, mettendo in
luce l’intrinseco legame tra la critica marxiana dell’economia politica e la teoria
leninista dell’imperialismo.
Il terzo contributo della sezione, Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista degli anni Settanta, si propone di «fotografare a Napoli [il] passaggio capitalistico dal fordismo al postfordismo», attraverso
una rilettura del testo di Ferrari Bravo e Serafini Stato e sottosviluppo. Il caso del
Mezzogiorno italiano (1973). Il dispositivo operaista diventa in questo caso un
utile strumento teorico per riflettere sulle trasformazioni del meridione italiano
in generale e della città di Napoli in particolare. Anche in questa analisi della
“questione meridionale” Di Marco si preoccupa di mettere in luce il nucleo problematico della metodologia operaista. Da un lato, infatti, Di Marco riconosce
a Ferrari Bravo e Sarafini il merito di «accentuare il significato soggettivo del
rapporto tra sviluppo e sottosviluppo», mostrando come il controllo della forza-lavoro rappresenti la primaria condizione di esistenza del capitale. Dall’altro,
però «questo fare della classe operaia sempre il primo motore dello sviluppo attraverso la lotta» resta un’operazione epistemologicamente problematica, perché
non permette di tenere in conto il carattere internamente contraddittorio dello
sviluppo del capitale.
Non è stato semplice restituire una parte del lungo e soprattutto generoso impegno marxiano di Giuseppe Di Marco, e sicuramente questa selezione è manchevole. Abbiamo però provato a ragionare dialetticamente anche nell’organizza11
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
zione di questo volume, provando a rappresentare un’idea cara al nostro maestro
(gli piaccia o meno la definizione): quella della società umana come qualcosa di
storicamente determinato, come prodotto su un rapporto sociale specifico, retto
su un antagonismo e su un conflitto strisciante, carsico, che come una talpa scava
la sua inesorabile galleria. Proprio per questo, infatti, la società umana è in uno
stato di continuo dinamismo e trasformazione e il lavoro del filosofo non può
essere, almeno per il momento, che quello di leggere la realtà con le categorie più
adatte per lavorare a un cambiamento quanto mai necessario.
Nel licenziare questo lavoro che vuole essere un dono per il Settantesimo
compleanno di Peppe Di Marco, il nostro grazie va al prof. Paolo Amodio e al
prof. Felice Ciro Papparo che hanno finanziato la pubblicazione con i loro fondi
di ricerca dipartimentali; al prof. Roberto Delle Donne per averlo accolto nelle
pubblicazioni dell’Università di Napoli Federico II presso FedOA press e al prof.
Edoardo Massimilla per aver seguito e incoraggiato con attenzione e amicizia il
lavoro di edizione a partire dalla sua ideazione, in ogni sua fase. Un ringraziamento particolare, inoltre, va a Teresa Caporale, per averci generosamente aiutato
nella sistemazione e correzione dei testi.
Il nostro pensiero va inoltre ai tanti compagni di viaggio, studenti, dottorandi, ricercatori che in questi anni hanno avuto la fortuna di imparare il mestiere
del fare ricerca sotto la guida attenta e appassionata del prof. Di Marco. La curiosità intellettuale di ognuno e l’impegno del ricercare di tutti hanno contribuito
a rendere il lavoro di studio e di ricerca di questi anni un’esperienza formativa
particolare.
Non tutti hanno potuto partecipare attivamente a questo lavoro di edizione,
ma è certamente l’esperienza di cooperazione di questi anni che ha fornito a chi
scrive il desiderio di realizzarlo e l’energia per portarlo a buon fine.
È al Maestro Peppe che dobbiamo l’aver saputo creare le condizioni per una
ricerca libera e autonoma e per un confronto autentico, pur nelle diverse prospettive. Per la sua capacità di prestare attenzione alle domande di tutti, per la
sua generosità durante il “ricevimento del venerdì”, ma non solo, e per tutti gli
insegnamenti ricevuti nel tempo, non smetteremo mai di ringraziarlo.
Roberto Evangelista
Roberta Gimigliano
Anna Pia Ruoppo
Irene Viparelli
12
Nota bibliografica
I contributi di questo volume sono stati già pubblicati dall’autore in riviste e
volumi collettanei.
Per quanto riguarda la prima sezione, il testo «Il pubblico potere perderà il suo
carattere politico». L’affermazione di Engels e Marx alla luce del problema: Politica e
natura umana è stato pubblicato in «Forme di vita», L’animale pericoloso: Natura
umana e istituzioni politiche, Derive e Approdi, Roma 2005, pp. 65-97; il testo
«Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Ludwig Feuerbach e Karl Marx è
stato pubblicato in Religione e Politica. Mito, autorità e diritto, a cura di P. Pisi e
B. Scarcia Amoretti, Edizioni Nuova Coltura, Roma 2008, pp. 305-346.
La seconda sezione, invece, raccoglie il saggio La politica e la guerra come
violenza organizzata di classe: una ricognizione della prospettiva marxiana, apparso
in Dire la guerra. Fare la guerra, a cura di Jeanne Clegg e Angelo Turco, Reggio
Emilia 2007, pp. 19-54; il contributo Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalistica che è apparso in Bioetica Pratica
e cause di esclusione sociale, Mimesis, Milano/Udine 2012, pp. 119-172. Il contributo Dopo l’abolizione dell’articolo 18: retrospettiva e prospettive, invece, è apparso
online sul blog Contropiano, al seguente indirizzo: http://contropiano.org/documenti/2015/05/05/dopo-l-abolizione-dell-articolo-18-retrospettiva-e-prospettive-030588. Infine il saggio Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale è stato
pubblicato invece dalla Phoebus Edizioni, Casalnuovo di Napoli 2006.
Nella terza sezione del volume, invece, sono stati raccolti i saggi: Intellettualità
di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale. Una declinazione del tema ‘filosofia e
politica’ in Michael Hardt e Antonio Negri, pubblicato in «Dissensi», 2003, pp. 7-54;
Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista degli
anni Settanta, accolto in P. Amato, G. Borrelli, G. A. Di Marco, A. Martone, B.
Moroncini, M. Zanardi, Aporie napoletane. Sei posizioni filosofiche, Cronopio, Napoli 2006, pp. 135-186; La soggettività comunista tra lotta antimperialista e resistenze
contro l’impero: Vladimir Il’ič Lenin, Michael Hardt e Antonio Negri, precedentemente pubblicato in Crisi, Governance, Imperialismo. Contributi per una lettura
critica della contemporaneità, La città del sole, Napoli 2016, pp. 205-263.
13
Sezione I
Mistificazioni: politica e religione
1.
«Il pubblico potere perderà il suo carattere politico».
L’affermazione di Engels e Marx alla luce del problema:
politica e natura umana
1. L’unità di uomo e natura nella produzione sociale dell’esistenza degli individui
In alcune pagine de La Sacra Famiglia, dedicate alla discussione che Bruno
Bauer fa del materialismo francese moderno, Friedrich Engels e Karl Marx sottolineano che nella storia del materialismo un ruolo decisivo lo hanno avuto René
Descartes e John Locke. Descartes aveva dato nella parte fisica del suo pensiero
una forma auto-creatrice alla materia il cui atto vitale è il movimento meccanico.
In questo modo il sistema di Descartes si presenta scisso e separato in una fisica e
in una metafisica, e entro l’ambito della fisica la materia è l’unica sostanza e l’unico fondamento dell’essere e della conoscenza. Locke aveva risposto alla questione
dell’origine dell’intelletto umano e, in tal modo, gettato le basi della filosofia del
bon sens, del sano intelletto umano mostrando indirettamente che non ci può
essere una filosofia astratta e separata dai sensi e dall’intelletto il quale poggia su
di essi. In questa formulazione sistematica la filosofia di Locke viene elaborata in
chiave sensistica e materialistica in Francia, in primo luogo da Etienne Bonnot de
Condillac, che, accanto alla confutazione della metafisica del secolo XVII, giunge a dire che «non solo l’anima, ma anche l’arte della percezione sensibile sono
fatti dell’esperienza e della abitudine»1. Se dunque esperienza e abitudine sono le
condizioni di formazione innanzitutto dei sensi e delle percezioni sensibili e poi
dell’anima e delle idee, quindi, se tutto il nostro patrimonio di conoscenze e di
azioni, dai sensi fino all’attività mentale e pratica, politica ecc., sono condizionati
dall’esperienza e dall’abitudine, allora «tutto lo sviluppo dell’uomo dipende […]
dall’educazione e dalle circostanze esterne»2, appunto perché le abitudini e l’esperienza possono essere modificate. Claude-Adrien Helvétius muove parimenti da
Locke e mette immediatamente il materialismo teorico in relazione alla vita so-
1
F. Engels, K. Marx, La sacra famiglia ovvero Critica della critica Contro Bruno Bauer e soci, tr.
it. di A. Zanardo, Roma 1967, p. 170.
2
Ibid.
17
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
ciale. Infatti, per lui il fondamento di ogni morale è dato dalle qualità sensibili,
dall’amore di sé e da un beninteso interesse personale. Inoltre, egli afferma la
bontà naturale dell’uomo, la connessione tra il progresso della ragione e quello dell’industria, e, sulla base di questa bontà naturale, il carattere progressivo
della ragione umana, l’«onnipotenza dell’educazione»3, quindi la possibilità di
plasmare una materia già di per sé buona e dunque capace di progresso morale
e economico. Nel concepire l’uomo-macchina sulla base dell’animale-macchina
cartesiano, Julien Offray de La Metrrie unifica l’elemento materialistico contenuto nella fisica di Cartesio, con il materialismo inglese che fonda tutto sui sensi.
Paul Heinrich D’Holbach parimenti unifica, nella parte del suo pensiero dedicato alla fisica, il materialismo francese con quello inglese, mentre la parte morale
è modellata sulla filosofia di Helvétius.
Questo esempio ed altri, servono ad Engels e Marx per documentare come
il materialismo francese discenda da un lato dalla fisica di Descartes e dall’altro
lato dal materialismo inglese. Su questa base i francesi condussero la loro polemica contro la metafisica di Spinoza, Malebranche, Leibniz, e contro quella dello
stesso Descartes, il cui sistema è effettivamente diviso in una parte metafisica e in
una parte fisica materialistica. I tedeschi divennero consci di questa opposizione
alla metafisica, condotta dal pensiero francese, solo quando essi stessi si opposero
alla metafisica speculativa, e questa fu l’opera di Ludwig Feuerbach il quale, nella
sua lotta contro Hegel, ha contrapposto la «filosofia sobria»4 alla «speculazione
ubriaca»5. Così come nell’ambito teorico Feuerbach ha rappresentato la coincidenza del materialismo con l’umanismo, così nell’ambito pratico il materialismo
francese e inglese ha rappresentato la coincidenza dell’umanismo col comunismo. Infatti, per Engels e Marx, fermo restando che entrambi gli orientamenti,
quello proveniente dalla fisica di Cartesio e quello proveniente da Locke, si intrecciano nel loro sviluppo, l’esito della fisica cartesiana è lo sviluppo successivo
delle scienze della natura, mentre l’orientamento che muove dalla rielaborazione
francese di Locke va a finire «direttamente»6 nel socialismo e nel comunismo.
3
4
5
6
Ivi, p. 171.
Ivi, p. 164.
Ibid.
Ivi, p. 172.
18
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
Dove sta la connessione tra questa linea del materialismo inglese e francese,
da un lato, e il socialismo e comunismo, dall’altro?
Dicono Engels e Marx che questa connessione è evidente se si muove proprio
dalle dottrine materialistiche della bontà naturale dell’uomo, dell’eguale capacità intellettuale data per natura, dall’esperienza, dall’abitudine, dall’educazione,
dall’influsso delle circostanze esterne, dalla grande importanza data all’industria
e al godimento.
Se l’uomo si forma ogni conoscenza, ogni percezione ecc., dal mondo sensibile e dall’esperienza nel mondo sensibile, ciò che importa allora è ordinare il mondo empirico in
modo che l’uomo, in esso, faccia esperienza di ciò – e prenda abitudine a ciò – che è
veramente umano, in modo che l’uomo faccia esperienza di sé come uomo. Se l’interesse bene inteso è il principio di ogni morale, ciò che importa è che l’interesse privato
dell’uomo coincida con l’interesse umano. Se l’uomo è – nel significato materialistico
– non libero, cioè se è libero non per forza negativa di evitare questo o quello, ma per
il potere positivo di far valere la sua vera individualità, si deve necessariamente non
punire il delitto nel singolo, ma distruggere gli antisociali luoghi di nascita del delitto,
e dare a ciascuno lo spazio sociale per l’estrinsecazione essenziale della sua vita. Se l’uomo è plasmato dalle circostanze, è necessario plasmare umanamente le circostanze. Se
l’uomo è sociale per natura, egli sviluppa la sua vera natura solo nella società, e il potere
della sua natura deve avere la sua misura non nel potere dell’individuo singolo, ma nel
potere della società7.
Notiamo in questo importante passo alcune connessioni molto strette. La
prima, evidente, è tra umanismo e socialismo o comunismo. Questa connessione è fondata su un nesso tra natura umana e modificabilità delle circostanze che
influiscono sull’uomo, quindi sulla centralità dell’abitudine e dell’educazione.
La seconda è la non-contraddizione che emerge tra l’interesse individuale bene
inteso e l’interesse della società. L’uomo è per natura uomo e la sua umanità
piena si realizza nella società, quindi coincide con la sua naturale socialità. Di
conseguenza l’interesse individuale, se inteso correttamente, coincide con l’interesse di tutta la società. Dove invece l’interesse individuale si mette contro
quello della società, ecco che ci troviamo dinanzi a una circostanza negativa
che si può modificare attraverso l’abitudine e l’educazione. Ma allora, se le cir-
7
Ibid.
19
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
costanze si possono modificare, ciò avviene solo nella società, e la società qui
non è altro che la natura più propria degli individui, la cui estrinsecazione, proprio in quanto individui, è possibile solo socialmente. È perciò interessate per
questo rapporto di coincidenza tra interesse individuale bene inteso e interesse
della società l’osservazione sulla libertà umana. L’uomo è libero non perché può
evitare questo o quello, ma perché può liberamente estrinsecare la propria individualità. Segue l’affermazione che, date queste premesse, non si deve punire il
delitto del singolo, ma solo distruggere gli spazi antisociali e quindi antiumani
che rendono possibile il delitto, e dare a ciascuno la possibilità di estrinsecare la
propria vita, cioè lo spazio sociale entro cui questo può avvenire. Da tale affermazione risulta con chiarezza che non solo tra individuo, inteso proprio come
individuo, e società non c’è nessuna contraddizione, ma che l’estrinsecazione
davvero individuale e quindi veramente umana della propria vita è possibile
solo in società, ossia l’individuo è individuo perché è sociale e non viceversa,
ossia che la società è il punto di arrivo di individui isolati liberi solo di evitare
questo o quello. Se l’individuo è libero non perché evita questo o quello, quindi
in negativo, ma lo è in positivo, perché è capace di estrinsecare la sua individualità, allora egli è individuo perché sociale sulla premessa della sua naturale
socialità, e questa socialità originaria prova la bontà dell’uomo. Di conseguenza, la modificabilità delle circostanze è da intendersi nel senso che l’uomo può
fare esperienza di ciò che è veramente umano, esperienza di sé come uomo,
ossia come individuo pienamente sviluppato, non solo grazie alla società come
qualcosa di altro da lui, ma appunto in quanto uomo ossia in quanto naturalmente sociale. Centrale mi sembra il concetto di interesse del singolo “bene
inteso” perché mette in luce due cose: in primo luogo la non contraddizione
tra singolarità e socialità; in secondo luogo la modificabilità delle circostanze
in questo senso, ossia il fatto che esse possono essere modificate nella misura in
cui possono far fraintendere proprio il senso più autentico, bene inteso di ciò
che è individuale.
Nelle Tesi su Feuerbach Marx coglie i limiti di tutto questo materialismo
che connette umanismo e comunismo. Importante per comprendere questa
critica, espressa nella Terza tesi, mi sembra partire dalla critica rivolta nella
Prima tesi a tutto il materialismo, sia teorico che pratico, avutosi fino ad oggi,
quindi compreso il materialismo di Feuerbach. Infatti, tale materialismo ha
considerato «l’oggetto (Gegenstand), la realtà, la sensibilità […] solo sotto la forma dell’obbietto (Obiekt) o dell’intuizione, ma non come attività sensibile uma20
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
na, prassi; non soggettivamente»8. Viceversa, il lato soggettivo, dunque attivo,
è stato sviluppato dall’idealismo tedesco, ma in termini astratti in opposizione
al materialismo, cioè come attività del pensiero e non come attività sensibile.
Per Feuerbach sicuramente gli oggetti, la realtà, stanno nei sensi e sono distinti
dal pensiero. Ma non concependo egli la sensibilità come attività sensibile, ecco
che l’attività umana non diventa per lui «attività oggettiva»9, quindi l’uomo non
diventa un soggetto oggettivo. Infatti, Feuerbach considera dell’uomo solo il
pensiero teoretico e perciò non può giungere all’attività pratico-rivoluzionaria,
alla prassi in cui, come dice la Seconda tesi, «l’uomo deve provare la verità,
cioè la realtà, il potere, il carattere immanente del suo pensiero»10. Se dunque
è la prassi, ossia l’attività umana sensibile, a provare la realtà, la verità, il potere del pensiero, ecco che, dice la Terza tesi, «la dottrina materialistica della
modificazione delle circostanze e dell’educazione dimentica che le circostanze
sono modificate dagli uomini e che l’educatore stesso deve essere educato. Essa
è costretta quindi a separare la società in due parti, delle quali l’una è separata dalla società»11. Come abbiamo visto, nel caratterizzare il materialismo
francese, quello dove umanismo e comunismo coincidono, Engels e Marx, a
proposito del rapporto tra uomo e circostanze, osservano che secondo questo
materialismo, se l’uomo è plasmato dalle circostanze, allora bisogna modificare
umanamente tali circostanze. Ma ecco il punto di cui questo materialismo non
si avvede: le circostanze che plasmano l’uomo e che l’uomo deve a sua volta modificare umanamente attraverso l’educazione, sono state a loro volta plasmate
dagli uomini e trasformate dalla sua prassi precedente, perché ogni sensibilità
è attività sensibile e quindi prassi rivoluzionaria. Di conseguenza non c’è una
società che deve essere educata e un educatore che si pone al di sopra della
società e la educa, in base al criterio secondo cui l’uomo per natura è buono
e gli individui per natura sono eguali e vi è un nesso tra ragione e progresso
dell’industria, cosicché col progresso dell’industria automaticamente l’uomo
migliora. Anche l’educatore è, piuttosto, frutto delle circostanze, le quali sono
state appunto modificare dagli uomini, quindi anche l’educatore è a sua volta
da modificare, da educare umanamente. Di conseguenza, non è concepibile
Idd., Werke, Bd. 3, Berlin 1978, p. 5; tr. it. di F. Codino, Opere V 1845-1846, Roma 1992
(rist.), p. 3.
9
Ibid.
10
Ibid.
11
Ivi, p. 6; tr. it., cit., p. 4.
8
21
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
una società separata in due parti, una che è da plasmare e un educatore al
di sopra della società, ma vi è solo una società la quale è interamente prassi
umana che si auto-trasforma, quindi vi è una coincidenza tra il variare delle
circostanze e attività umana. Questa coincidenza, ovvero questa auto-trasformazione, «può essere concepita o compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria»12. Dunque, la società non è scissa in due parti e l’educatore stesso
deve essere educato, per cui la modificazione delle circostanze e l’educazione
sono solo un’auto-modificazione pratica della società e non la sua educazione
secondo un modello ideale, regolativo, di umanità. La società si auto-trasforma
come prassi umana rivoluzionaria, mediante la quale vengono prodotti degli
individui sociali di un determinato grado di sviluppo onnilaterale; la socialità
di questi individui non è data in astratto come coincidenza naturale tra auto-estrinsecazione dell’individuo e la società, ma piuttosto l’individuo sociale
che si estrinseca nel pieno delle sue facoltà in modo onnilaterale è un prodotto
della società storicamente realizzatosi. Non vi è nessuna natura originaria buona dell’uomo (e neanche cattiva) né ciò che l’uomo acquista è una natura già
presente in lui in potenza e occultata dalle circostanze, ma l’uomo la trasforma
la sua natura continuamente, e produce la sua socialità, e quindi anche la sua
individualità, certamente in modo solo sociale, ma la produce, perché questa
socialità è prassi trasformatrice, prassi rivoluzionaria. Entro questa prospettiva
dell’auto-trasformazione intesa come prassi rivoluzionaria, in cui il variare delle
circostanze è solo “attività umana sensibile”, entro cui è possibile concepire la
coincidenza tra il variare delle circostanze e l’auto-trasformazione dell’uomo,
si comprende come il vecchio materialismo resti fermo agli individui singoli
della società borghese, mentre invece solo a partire dall’auto-trasformazione e
quindi dalla prassi sociale rivoluzionaria, è possibile un materialismo che abbia
come punto di vista «la società umana o l’umanità sociale»13, come osservano
la Nona e la Decima tesi. In che modo è possibile e avviene secondo Engels e
Marx, questa auto-trasformazione pratico-critica-rivoluzionaria?
Nel frammento L’ ideologia in generale e in particolare l’ ideologia tedesca, Feuerbach, A, del 1846, Engels e Marx abbozzano i presupposti da cui muovono per
la loro concezione materialistica. Tali presupposti «sono gli individui reali, la loro
azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato
12
13
Ibid.
Ivi, p. 7; tr. it., cit., p. 5.
22
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
già esistenti, quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi presupposti
sono constatabili per via puramente empirica»14. Si vede subito che, in accordo
con ogni concezione materialistica, essi pongono l’oggetto come sensibile, distinto dal pensiero il quale è preceduto dalla realtà empirica e quindi dai sensi che la
constatano; ma al tempo stesso, a differenza che nel materialismo tradizionale,
oggettiva è anche l’attività umana, quindi la sensibilità è anche attività. Innanzitutto, gli individui vengono subito intesi come attività quindi come la loro stessa
azione, e poiché si tratta di azione pratica e sensibile, essa avviene entro condizioni parimenti materiali, e queste sono sia le condizioni già esistenti che quelle
prodotte dalla loro attività stessa. Quindi, il primo presupposto è evidentemente
che esistano individui viventi dunque la strutturazione fisica di tali individui e,
in connessione stretta a tale organizzazione fisica, il loro rapporto con la natura.
Anche le condizioni fisiche sono ovviamente modificate dall’azione stessa degli
uomini nel corso della storia. Dicono Engels e Marx che certamente è possibile
distinguere gli uomini dagli animali per la religione, come fa Feuerbach, o per la
coscienza o per quanto altro si vuole; ma essi si cominciarono a distinguere dagli
animali nel momento in cui essi «cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza»15. Dunque, gli animali i mezzi di sussistenza non li “producono”, mentre
l’uomo li deve produrre e questo è dovuto alla loro organizzazione fisica. Questa
produzione dei mezzi di sussistenza è allo stesso tempo una produzione indiretta
della loro vita materiale.
Dobbiamo allora addentrarci nel senso di questo termine “produrre”. Gli
uomini non creano dal nulla i mezzi di sussistenza, ma li trovano e quindi li
devono riprodurre. La produzione indiretta della loro vita materiale è perciò in
primo luogo condizionata dalla natura di questi mezzi di sussistenza trovati e da
riprodurre. Ora però in questo modo di produrre i mezzi di sussistenza non si
tratta soltanto della mera riproduzione dell’esistenza fisica: «Esso è già un modo
determinato dell’attività di questi individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli individui estrinsecano la
loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque con la loro produzione
K. Marx, F. Engels, J. Weydemeyer, Die Deutsche Ideologie. Artikel, Druckvorlagen, Entwürfe,
Reinschriftenfragmente und Notizen zu I. Feuderbach und II. Sankt Bruno. Text e Apparat, 2004;
bearbeitet von I. Taubert et al., «Marx-Engels-Jahrbuch 2003», hg. von der Internationalen
Marx-Engels-Stiftung Amsterdam/Berlin, p. 107; tr. it. di F. Codino, Opere V 1845-1846, cit.,
pp. 7-104, qui p. 16.
15
Ibid.; tr. it., cit., p. 17.
14
23
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione»16.
Dunque, l’attività sensibile umana è produzione, e se è vero che la vita umana
come vita sensibile è attività, ecco che nella produzione gli individui estrinsecano
la propria vita. Allora, essi si differenziano nel senso che le differenti forme di vita
umana sono differenti modi di produrre la propria esistenza: quindi le individualità, le singolarità, le differenze sono date da ciò che gli individui producono e
da quello che essi producono, e tutto questo è storicamente determinato, quindi
varia in maniera dinamica. Il principio di differenziazione e di individuazione
è dunque dinamico perché è un produrre, quindi la differenza è differenza di
modo di produrre e di oggetti prodotti – ecco perché la Prima tesi su Feuerbach parla di “attività oggettiva”. Ma poiché la produzione vuole uno strumento
di produzione e, come abbiamo visto, questi mezzi gli uomini non li creano
dal nulla, ma li trovano e poi li riproducono, ecco che le condizioni materiali
complessive della produzione condizionano l’essere stesso degli individui. Perciò,
l’essere qui non è un’identità statica che si dice in più modi, ma coincide solo con
l’esternazione, l’espressione, l’estrinsecazione in determinati modi di vita, ragion
per cui gli individui sono quello che esternano, quello che esternano è ciò che
producono e il modo in cui lo producono, condizionato materialmente sia da
quel che trovano nella natura sia dalla retroazione della loro stessa attività. Qui
“produzione” è intesa nel senso più ampio, quindi non coincide semplicemente
con il lavoro nel senso della divisione del lavoro, divisione che, come vedremo,
costituisce una parte della produzione umana in epoche storicamente determinate dello sviluppo degli individui che producono, e che è, come Engels e Marx
riportano, in San Max, dalla rivista comunista tedesca “Stimme des Volks”, «soltanto quella parte della produzione ripugnante e pericolosa, che religione e morale
onorano del nome di lavoro»17, del quale viene enfatizzato il fatto che nobilita
l’uomo o costa il sudore della fronte e simili. Invece la “produzione” copre uno
spettro più ampio del “lavoro”, giacché riguarda «anche le relazioni degli uomini
sotto gli aspetti piacevoli e liberi»18, relazioni di cui la morale dominante, che
restringe la produzione al lavoro, «parla con disprezzo benché siano anch’esse
16
17
18
Ivi, p. 107-108; tr. it., ibid.
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 3, cit., p. 197; tr. it., cit., p. 209.
Ibid.; tr. it., cit., p. 210.
24
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
un produrre»19. Quindi in questa prospettiva anche la passività, il consumo ecc.
sono “produzione”, in quanto modo determinato di estrinsecare la vita dell’uomo
che è attività sensibile.
Ora, il fatto che gli uomini si distinguono dagli animali in quanto producono i loro mezzi di sussistenza e così indirettamente la loro vita materiale, cosicché
essi sono la loro stessa produzione e quindi si differenzino tra loro per quello
che essi producono e per come producono: questo fatto appare solamente «con
l’aumento della popolazione. E presuppone a sua volta relazioni tra gli individui.
La forma di relazioni a sua volta è condizionata dalla produzione»20. Così il tema
materialistico dell’uomo per natura sociale, che sviluppa la sua vera natura solo
nella società, per cui l’interesse individuale bene inteso è quello che coincide con
l’interesse della società, viene trasformato. La questione della natura umana è
vista certamente sotto la forma della sensibilità, ma non nel senso semplicemente
dell’oggetto e dell’intuizione, ma come attività sensibile, quindi, come dice l’Ottava tesi, «tutta la vita sociale è essenzialmente pratica»21. È perciò vero che gli
individui sono costitutivamente sociali, ma la questione non va vista in termini
di un uomo buono per natura, ma praticamente, ossia dal punto di vista della
loro attività sensibile. Essi sono sociali perché si distinsero dagli animali nel momento in cui cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, condizionati,
nel modo di produrre, dalla natura di quei mezzi; ma “produrre” significa estrinsecare la loro vita e non semplicemente sopravvivere, ragion per cui la forma delle
relazioni fra gli individui – giacché solo socialmente gli uomini producono i loro
mezzi di sussistenza – è condizionata dalla produzione e quindi dal tipo di produzione che essi di volta in volta fanno.
Dunque, il mondo sensibile che ci circonda non è «una cosa immediatamente
data dall’eternità, sempre uguale a se stessa, bensì il prodotto dell’industria e delle
condizioni sociali; e precisamente nel senso che è un prodotto storico, il risultato
dell’attività di tutta una serie di generazioni, ciascuna delle quali si è appoggiata
sulle spalle della precedente, ne ha ulteriormente perfezionato l’industria e le relazioni e ne ha modificato l’ordinamento sociale in base ai mutati bisogni»22. In
questa visione la questione del rapporto dell’uomo con la natura può essere risolta
19
20
21
22
Ibid.
K. Marx, F. Engels, J. Weydemeyer, Die Deutsche Ideologie. cit., p. 108; tr. it., cit., p. 17.
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 3, cit., p. 7; tr. it., cit., p. 5.
K. Marx, F. Engels, J. Weydemeyer, Die Deutsche Ideologie, cit., p. 8; tr. it., cit., p. 25.
25
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
facilmente, perché uomo e natura non sono due cose separate, anche se si può
considerare la storia da due lati, come storia della natura e scienza degli uomini.
Il rapporto tra uomo e natura è sempre stato un rapporto di unità nell’industria e
la cosiddetta antitesi tra natura e storia, e la lotta dell’uomo con la natura esistono solo fino a quando l’uomo non abbia sviluppato su una base adeguata le sue
forze produttive. Infatti, come Marx osserva nei Manoscritti economico-filosofici
del 1844, «la storia dell’industria e l’esistenza oggettiva già formata dell’industria
[sono] il libro aperto delle forze essenziali dell’uomo, la psicologia umana presente
ai nostri occhi in modo sensibile»23. Quindi la storia dell’industria è in stretta
connessione con l’essere dell’uomo, e se fino ad oggi questa connessione è stata
intesa come una relazione esteriore di utilità, ciò dipende dal fatto che la storia
dell’industria si è svolta entro l’estraniazione provocata dal rapporto di proprietà
privata. Perciò, come manifestazione del vero essere dell’uomo, della sua essenza
generica, si sono intese la religione o la storia come politica, ossia nella sua essenza
astratta, come arte ecc., invece che come “industria”. Quindi, nell’industria ordinaria, materiale, noi abbiamo dinanzi a noi oggettivate le forze essenziali dell’uomo
sotto forma di oggetti sensibili, estranei, utili, sotto forma dell’estraniazione»24.
Qui l’industria è intesa tanto come una parte speciale della produzione umana,
quanto come la produzione umana nel suo complesso e nel suo movimento universale quale si svolge nell’estraniazione ossia come lavoro. Allora, abbiamo qui
che l’industria considerata come movimento universale coincide con la stessa storia universale ed è la manifestazione dell’essere dell’uomo, che è industria ovvero
lavoro nella misura in cui tale realizzazione dell’essere dell’uomo si è svolta dentro
l’estraniazione. Ma in questo modo vediamo come ciò che caratterizza l’uomo
rispetto agli animali sia appunto il fatto che essi producono i loro mezzi di sussistenza e questa produzione avviene in modo sociale e al tempo stesso storico, perché la natura dei mezzi di produzione, il modo della loro produzione e gli oggetti
prodotti condizionano le manifestazioni della loro vita. L’industria è il modo con
cui gli uomini producono dentro l’estraniazione dalla loro essenza generica, ma
resta chiaro che la loro essenza generica è in connessione con la storia dell’industria o, in altri termini, la storia dell’industria è la manifestazione dell’essenza
generica dell’uomo, con il che è chiaro che l’essenza generica dell’uomo è storica.
K. Marx, F. Engels, Werke, Ergänzungsband (Schriften - Manuskripte - Briefe bis 1844), Erster Teil,
Berlin, p. 542; tr. it. di N. Bobbio, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino 1968, p. 120.
24
Ivi, pp. 542-543; tr. it., ibid.
23
26
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
Storico non significa contrapposizione a naturale: certo, la natura preesiste all’uomo e l’uomo la trova già davanti a sé, ma se ne appropria e la trasforma, e finché
ci sono gli uomini la storia della natura avviene nella stretta relazione con la storia
degli uomini che in realtà sono parte della storia della natura. Poiché l’industria
è la storia delle forze essenziali dell’uomo, del suo essere ente generico, entro
l’estraniazione, quindi sotto forma di oggetti utili ma non essenziali (in realtà lo
sono, solo che appaiono meramente utili perché questa essenzialità è estraniata),
ecco che le scienze naturali sono rimaste estranee alla filosofia e la stessa storia
le considera come momento di utilità in connessione ad alcune scoperte. Ma se
l’industria è la manifestazione delle forze essenziali dell’uomo, del suo essere ente
generico dentro l’estraniazione, ecco che proprio attraverso l’industria le scienze
naturali si sono intromesse praticamente nella vita dell’uomo e preparano la sua
emancipazione, anche se per farlo ne devono portare a compimento la disumanizzazione. Ma pur nella disumanizzazione l’industria e la scienza naturale che
ne è divenuta la base, preparando l’emancipazione dell’uomo e quindi togliendo
le condizioni per la lotta dell’uomo con la natura, confermano che non c’è scissione tra uomo e natura, per cui la stessa loro reciproca estraniazione è un momento
della storia di questa unione: «L’industria è il rapporto storico reale della natura
e quindi della scienza naturale con l’uomo; perciò, se essa viene intesa come la
rivelazione essoterica delle forze essenziali dell’uomo, viene pure compresa l’essenza
umana della natura o l’essenza naturale dell’uomo»25. Quindi le scienze naturali,
essendo divenute la base dell’industria ossia della vita umana estraniata, diventano esse stesse la base della scienza umana, per cui non c’è differenza, dato il
nesso tra industria moderna e scienze naturali, tra base della scienza e base della
vita. Questa scissione tra scienze naturali e scienza umana è solo il risultato della
forma estraniata in cui si presentano nell’industria le scienze naturali come base
della vita umana reale. «La natura che diviene nella storia dell’uomo, nell’atto di
nascita della società umana, è la natura reale dell’uomo, onde la natura, quale
diviene attraverso l’industria, se pure in forma estraniata, è la vera natura antropologica»26. Quindi, la reale natura dell’uomo è la natura che diviene nella sua
storia. Ma la storia dell’uomo è stata finora la storia dell’industria, cioè la sua
attività alienata, dunque la sua natura si è manifestata nell’industria, vale a dire
in una produzione alienata. Ma poiché nell’industria la natura e l’uomo sono la
25
26
Ivi, p. 543; tr. it., cit., p. 121.
Ibid.; tr. it., cit., p. 122.
27
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
stessa cosa – e infatti le scienze della natura ne sono la base, perché nell’industria
l’uomo si appropria della natura sia pure in forma alienata – ecco che la natura
quale diviene nell’industria, sia pure dentro l’estraniazione, è l’autentica natura
umana, e l’antropologia si risolve nella storia dell’industria. Perciò, tornando a
Feuerbach e la storia, quando Feuerbach parla della scienza della natura come
segreti che solo allo scienziato si rivelano, Engels e Marx osservano che la scienza
della natura, anche la più pura, non sarebbe nulla senza, e ottiene il suo scopo e
il suo materiale attraverso il commercio e l’industria, quindi attraverso l’attività
pratica degli uomini. Certamente la priorità della natura rimane, infatti essa
esiste ovviamente prima che esistessero gli uomini e i primi uomini prodotti da
generazione spontanea. E inoltre questa natura originaria già Engels e Marx per i
loro tempi osservano che non esiste più salvo in qualche isola corallina di nuova
formazione. Credo vada ribadito anche che se gli uomini scomparissero non per
questo scomparirebbe tutta la restante natura.
Il primo presupposto perché gli uomini possano fare la storia è che siano
in grado di vivere nel senso di soddisfare i bisogni del mangiare, del bere, del
vestire, dell’abitare ecc. La creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni costituisce «la prima azione storica»27, in quanto essa è la produzione materiale della
vita stessa, produzione che è la condizione fondamentale di ogni vita storica e che
perciò viene compiuta ogni giorno dagli uomini fin dalle loro origini. A questa
prima azione storica è connesso che il primo bisogno soddisfatto, il mezzo per
soddisfarlo e l’azione di soddisfazione di tale bisogno producono subito nuovi
bisogni. Contemporaneamente gli uomini cominciano a riprodursi, per cui, rifacendo ogni giorno la propria vita, rifanno altri uomini. Pertanto, la produzione e
la riproduzione degli uomini (genitivo soggettivo e oggettivo) avviene in società,
e infatti il primo rapporto sociale è la famiglia. Successivamente, poiché, mediante la produzione di sempre nuovi mezzi di soddisfazione dei bisogni e il conseguente aumento dei bisogni stessi, si producono rapporti sociali sempre più ampi
e complessi, la famiglia stessa viene subordinata a questi ultimi. In tal modo, la
produzione della vita umana, propria e altrui, si presenta come un duplice rapporto, da un lato naturale e dall’altro sociale, ossia che avviene mediante la cooperazione di più individui quali che siano le condizioni di questa cooperazione.
Definita la natura dell’uomo come la sua stessa storia in forza del fatto che
l’essere dell’uomo è la sua produzione e riproduzione simultaneamente, questa
27
K. Marx, F. Engels, J. Weydemeyer, Die Deutsche Ideologie, cit., p. 12; tr. it., cit., p. 27.
28
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
produzione, e quindi la storia stessa dell’uomo, avviene socialmente, vale a dire
l’uomo produce cooperando con altri uomini. Ne deriva che un determinato
modo di produzione è sempre unito a un determinato modo di cooperazione, il
quale è esso stesso una forza produttiva. Gli uomini solo hanno una storia proprio in quanto producono e riproducono la loro vita socialmente, e questo modo
di produrre trasforma il modo delle relazioni e della cooperazione, e in questo
senso esso è storico, dà luogo a una storia. Ecco perché «la “storia dell’umanità”
deve essere sempre studiata e trattata in relazione con la storia dell’industria e
dello scambio»28.
Soltanto in connessione a questo fatto che l’uomo produce i mezzi di sussistenza propri e riproduce altri uomini attraverso la cooperazione di più individui, sorgono, a loro volta in stretta connessione, la coscienza e il linguaggio.
Quest’ultimo è antico quanto la coscienza perché entrambi sorgono dal bisogno
del rapporto con altri uomini, dato che proprio il rapporto con gli altri uomini è
fin dall’inizio esso stesso una forza produttiva per riprodurre la propria esistenza.
Sono quindi propri della natura del rapporto sociale, caratteristico degli uomini,
la coscienza e il linguaggio, perché un rapporto intanto esiste in quanto esiste
solo per me; per questo motivo l’animale non ha rapporti: «La coscienza è dunque fin dall’inizio un prodotto sociale e tale resta fin tanto che in genere esistono
uomini»29. All’inizio questa coscienza connessa inscindibilmente al linguaggio si
presenta come coscienza dell’immediato ambiente sensibile e di una limitata cerchia di rapporti con altre persone; è coscienza della natura avvertita come forza
estranea e pericolosa da cui si dipende, quindi è «una coscienza puramente animale della natura»30, come viene espresso nella religione naturale; ed è coscienza
della necessità di stabilire rapporti con altri uomini, dunque è sempre coscienza
sociale, che è l’elemento che distingue l’uomo dall’animale pur in questa fase di
coscienza ancora animale della natura.
Ma poiché la produzione di altri uomini provoca ed è condizionata dall’aumento della popolazione, e la produzione della propria vita è fatta in modo tale
che ogni bisogno soddisfatto genera nuovi bisogni e nuovi mezzi di produzione,
ecco che aumento di popolazione e aumento dei bisogni fanno sviluppare la
divisione del lavoro. All’origine essa era la divisione nell’atto sessuale e divisione
28
29
30
Ivi, p. 15; tr. it., cit., p. 29.
Ivi, p. 16; tr. it., cit., ibid.
Ibid.; tr. it., cit., p. 30.
29
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
sulla base di differenti disposizioni fisiche, del caso e così via. Realmente come
tale si presenta invece nel momento in cui diventa divisione tra lavoro manuale
e lavoro mentale: a questo punto si può avere una coscienza che si rappresenta
come autonoma, come diversa dalla semplice coscienza della prassi esistente e
quindi come coscienza cosiddetta “pura” quale si esprime nella filosofia, nella
teologia, nella morale ed altro. Perciò la cosiddetta coscienza pura non esiste fin
dall’inizio, quando la coscienza sta in relazione al linguaggio e ai suoi caratteri
sensibili di suoni, strati d’aria agitati ecc., e non esiste perciò come coscienza
pura, ma è in realtà un prodotto sociale conseguente alla divisione del lavoro, e
anche dove questa coscienza entra in rapporto conflittuale con i rapporti sociali,
da cui pure essa proviene, ciò accade perché «i rapporti sociali esistenti sono entrati in contraddizione con le forze produttive esistenti»31. La contraddizione può
verificarsi anche tra la coscienza avanzata universale che una nazione ha raggiunto e la prassi progredita di altre nazioni, ma non di questa dove si era prodotta la
coscienza universale: era questo il caso della Germania del tempo, la quale aveva
sviluppato una filosofia dello Stato all’altezza dello sviluppo dei popoli moderni e
in contraddizione con quello sviluppo ulteriore, ma entro la sua ristretta cerchia
nazionale corrispondevano rapporti sociali arretrati anche rispetto allo sviluppo
che gli altri popoli moderni stavano già superando. Quindi, in forza dell’accentuata divisione del lavoro si creano necessariamente contraddizioni tra l’attività
spirituale e l’attività materiale, la produzione e il godimento, che possono toccare
a individui diversi. Abbiamo così la contraddizione, che ha caratterizzato alcune
fasi della storia umana avutasi finora, tra forze produttive, relazioni sociali e coscienza. In tal modo la divisione del lavoro, in forza della ripartizione conflittuale
tra individui diversi di produzione e consumo, di lavoro e godimento, produce
l’ineguale ripartizione quantitativa e qualitativa del lavoro e dei suoi prodotti,
quindi produce i rapporti di proprietà privata accennati già nella famiglia con la
divisione del lavoro tra uomo, donna e figli, e raggiunge il suo punto più coerente
appunto nella proprietà privata che si identifica con la stessa divisione del lavoro32. Ed è sulla base del rapporto di proprietà privata antagonistico, determinato
dalla divisione del lavoro, che si formano le classi sociali e la lotta tra di esse.
Insieme alla divisione antagonistica tra forze produttive, relazioni sociali e
coscienza, ovvero tra lavoro e godimento, produzione e consumo, quindi insieme
31
32
Ivi, p. 18; tr. it., ibid.
Cfr. ivi, p. 19; tr. it., cit., p. 31.
30
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
al rapporto di proprietà privata e alle classi sociali in lotta, la divisione del lavoro
produce la contraddizione tra l’interesse dell’individuo o della famiglia singola e
l’interesse collettivo cioè l’interesse di tutti gli individui che hanno reciproci rapporti. Sulla base di questo antagonismo tra interesse individuale e interesse collettivo, quest’ultimo «prende una configurazione autonoma come Stato, separato
dai reali interessi singoli e generali, e in pari tempo come comunità illusoria, ma
sempre sulla base reale di legami esistenti in ogni conglomerato familiare e tribale, come la carne e il sangue, la lingua, la divisione del lavoro accentuata e altri
interessi, e soprattutto […] sulla base delle classi già determinate dalla divisione
del lavoro, che si differenziano in ogni raggruppamento umano di questo genere
e delle quali una domina tutte le altre»33. Perciò tutte le lotte che si sviluppano
all’interno dello Stato, tra monarchia, aristocrazia e democrazia, per il diritto di
voto e così via, sono soltanto «le forme illusorie nelle quali vengono condotte le
lotte reali delle diverse classi»34. Ogni classe che aspira al dominio deve presentare il suo interesse particolare come interesse collettivo, e ciò vale anche per la
classe, come il proletariato, che vuole sopprimere e superare l’intera forma sociale
fondata sulla divisione del lavoro: quando, attraverso un rivoluzione, essa diviene
classe dominante, quindi potere politico, è costretta a presentarsi come interesse
collettivo in antitesi agli interessi individuali, benché l’interesse collettivo rispecchi quello della stragrande maggioranza al punto che, soppressa ogni divisione
del lavoro e ogni rapporto di classe, lo Stato diviene superfluo.
«La divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che […] fin
tanto che esiste […] la scissione fra interesse particolare e interesse comune, fin
tanto che l’attività, quindi, è divisa non volontariamente ma naturalmente, l’azione propria dell’uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo
soggioga, invece di essere da lui dominata»35. Non si tratta evidentemente del
fatto che un’attività non debba avere una sua interna misura e specificità, che non
richieda un lavoro determinato – tutte caratteristiche che a loro volta cambiano
con il progredire delle forze produttive e dei rapporti sociali di produzione –, ma
che fin quando esiste la divisione del lavoro l’attività è divisa necessariamente e
non per scelta volontaria degli individui, i quali, «se non [vogliono] perdere i
33
34
35
Ivi, p. 20; tr. it., cit., p. 32.
Ibid.
Ibid.; tr. it., cit., p. 33.
31
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
mezzi per vivere»36, si trovano imposta la loro attività nella comunità, corporazione ecc., come avviene nelle forme di società precedenti quella borghese moderna,
o soprattutto a causa della libera concorrenza, come avviene in quest’ultima.
Così, «nel corso dello sviluppo storico, e proprio attraverso l’indipendenza inevitabile che entro la divisione del lavoro acquistano i rapporti sociali, emerge una
differenza tra la vita di ciascun individuo in quanto essa è personale, e in quanto
è sussunta sotto un qualche ramo di lavoro e sotto le condizioni relative»37. Nelle
tribù e ancora negli ordini, la differenza tra individuo come persona individuale
e come membro di una classe in seguito alla divisione del lavoro, è ancora nascosta, per cui la posizione di un nobile nella divisione del lavoro appare come una
qualità che è inseparabile anche dalla sua individualità, quindi sembra che qui
individui e condizione derivante dalla divisione del lavoro coincidano. Ma con la
comparsa della classe borghese moderna, cioè nelle condizioni di avanzata divisione del lavoro, emerge con chiarezza la differenza tra individuo personale e individuo come membro di una classe. Qui all’individuo personale sembrano essere del tutto casuali le proprie condizioni di esistenza. Ma questa differenza
dipende proprio dal fatto che questi individui sono membri di una classe in
quanto hanno interessi comuni contro un’altra classe, mentre per il resto essi
sono divisi nella concorrenza, perciò è solo mediante la concorrenza che essi colgono la casualità delle loro condizioni di vita generali e quindi aumenta la scissione tra individuo personale e individuo come membro di una classe. Ciò significa che quella libertà che gli individui percepiscono nella società borghese come
non-coincidenza tra l’individuo sociale e l’individuo personale, derivando dalla
concorrenza, è immaginaria, perché nella realtà gli individui sono subordinati
alla forza oggettiva della divisione borghese del lavoro, che li pone in questa scissione tra condizioni di esistenza apparentemente casuali e individui personali,
solo nell’immaginazione più liberi di quelli inseriti nella comunità tribale o feudale. Questa situazione di libertà apparente ma in realtà di estrema subordinazione a una forza oggettiva, si manifesta in particolare nell’antagonismo tra borghesia e proletariato. Infatti, i servi della gleba, appena si emanciparono dal dominio
feudale, fecero valere contro la nobiltà condizioni di vita, proprietà mobiliare e
lavoro artigiano, che avevano già sviluppato allo stato latente entro i vincoli feudali e che in un primo tempo assunsero parimenti la forma feudale, come avven-
36
37
Ibid.
Ivi, p. 74; tr. it., cit., p. 64.
32
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
ne nelle corporazioni cittadine. Certamente, essi consideravano come casuale la
servitù feudale rispetto alla loro personalità, ma ciò avveniva in quanto si liberavano non come classe, ma isolatamente fuggendo dalle campagne. Invece in
quanto classe essi conservavano, una volta fuggiti nella città, non solo la forma
feudale degli ordini formando così un nuovo ordine, ma anche il modo di lavoro
che avevano già sviluppato sotto il sistema feudale, accumulando proprietà mobiliare grazie alla ripartizione parcellare data dall’impossibilità di sviluppare
un’economia in grande. Perciò essi perfezionarono lo stesso lavoro che avevano
sotto il sistema feudale, solo liberandolo dal vincolo alla nobiltà terriera che tenevano sotto la proprietà fondiaria. Invece per i proletari il lavoro stesso è diventato
qualcosa di casuale e di accidentale, e insieme con il lavoro tutte le condizioni di
vita della società in cui vivono. Su queste condizioni «nessuna organizzazione
sociale può dare loro il controllo»38, a differenza dei servi della gleba fuggitivi, i
quali non come individui ma come ordine controllavano nelle città le loro condizioni di vita. Invece il proletario è posto fin dalla giovinezza sotto la divisione del
lavoro e non può arrivare, entro la sua classe, alle condizioni che lo farebbero
passare nell’altra classe, come era avvenuto per i sevi della gleba i quali, fuggendo
nelle città per affermare condizioni di esistenza che avevano già maturato entro
il sistema feudale, conservavano comunque la struttura della divisione del lavoro
e così riproducevano la struttura di classe nella società. Quindi i servi della gleba
poterono liberarsi personalmente entro l’ordine e entro la divisione del lavoro,
perciò arrivarono solo al lavoro libero, e solo a questa condizione superarono la
contraddizione tra esistenza personale e esistenza come membri di una classe.
Quindi per loro la divisione del lavoro non era un ostacolo per affermarsi come
individui personali e al tempo stesso come membri di una classe. Invece per i
proletari la possibilità di un’affermazione personale è possibile solo in quanto
eliminano la condizione che li pone in questa scissione tra casualità delle condizioni di vita ed esistenza personale: la divisione del lavoro ossia il lavoro stesso,
onde produrre della totalità delle manifestazioni umane. «I proletari, per affermarsi personalmente, devono abolire la loro propria condizione di esistenza quale è stata fino ad oggi, che in pari tempo è la condizione di esistenza di tutta la
società fino ad oggi, il lavoro»39. Ma la divisione del lavoro crea l’antagonismo tra
interesse individuale e interesse collettivo, e quest’ultimo assume la forma dello
38
39
Ivi, p. 76; tr. it., cit., p. 65.
Ivi, p. 77; tr. it., cit., p. 66.
33
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
“Stato” come interesse collettivo separato degli interessi individuali, sulla base
della divisione della società in classi, divisione grazie a cui una classe domina
sull’altra ponendosi apparentemente come rappresentante dell’interesse collettivo. Di conseguenza, i proletari «si trovano […] anche in antagonismo diretto con
la forma nella quale gli individui della società si sono dati finora un’espressione
collettiva, lo Stato, e devono rovesciare lo Stato per affermare la loro personalità»40. Nella società comunista la divisione del lavoro è soppressa giacché il lavoro
non è più un mezzo per vivere, tale che se uno non vuole perdere i mezzi di sussistenza, deve accettare l’attività determinata imposta dalla società direttamente,
o indirettamente nella libera concorrenza. Viceversa, «ciascuno non ha una sfera
di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società
regola la produzione generale»41, dunque, le condizioni della produzione stanno
sotto il controllo di ciascuno e così cessa la separazione tra l’individuo personale
e l’individuo come membro di una classe. Nelle forme di società dove vige la
divisione del lavoro, e in modo estremo e aperto nella società borghese, il rapporto di comunità è possibile solo sotto l’aspetto del rapporto di classe, ossia gli individui entrano in rapporto di comunità solo in quanto hanno interessi comuni
contro un’altra classe, quindi solo come «individui medi»42 separati dalla loro
esistenza personale. Invece nella società comunista gli individui sono direttamente in comunità appunto come individui, ossia l’individuo si realizza pienamente
come individuo direttamente nel rapporto comune, e il rapporto comune non è
altro che il pieno sviluppo di questi individui. Tale rapporto comune non è da
intendersi nel senso della comunità tribale, degli ordini ecc., cioè di comunità
dove vigeva una meno sviluppata divisione del lavoro, giacché lì l’esistenza comune rimane unilaterale. La forma di esistenza della società comunista – dove gli
individui partecipano alla vita comune proprio come individui, perché le loro
condizioni generali di esistenza non si ergono contro di loro come potenze estranee ma sono messe sotto il loro controllo – presuppone che sul terreno di quell’estraniazione si sia sviluppata una tale separazione tra gli individui e le loro condizioni di esistenza da essere insostenibile. Questa separazione e la sua
insostenibilità consiste nel fatto che, essendo la divisione del lavoro divisione tra
lavoro e godimento, produzione e consumo, quindi ineguale distribuzione del
40
41
42
Ibid.
Ivi, p. 20; tr. it., cit., p. 33.
Ivi, p. 77; tr. it., cit., p. 66.
34
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
lavoro e dei suoi prodotti ovvero la proprietà privata, una gran massa dell’umanità è resa priva di proprietà. Però questa grande miseria presuppone che la massa
priva di proprietà, separata dalle sue condizioni di esistenza, venga contrapposta
a un’enorme ricchezza e cultura quale finora solo la divisione del lavoro ha potuto produrre moltiplicando a dismisura le forze produttive attraverso la cooperazione di diversi individui, anche se questa cooperazione è forzata e non volontaria, quindi si erge come una potenza estranea, come una comunità che non
appartiene agli individui che pure ne sono gli unici attori. Questo presupposto
dello sviluppo di un’enorme ricchezza sul terreno della divisione del lavoro e
quindi della separazione degli individui dalle loro condizioni di esistenza, fa esistere empiricamente gli uomini «sul piano della storia universale anziché sul piano locale»43 e crea «relazioni universali fra gli uomini»44. Ciò significa in negativo
l’espropriazione generalizzata per tutti i popoli attraverso la concorrenza prodotta dal mercato mondiale, la generalizzazione dell’insostenibilità di questo potere
estraneo sugli individui, e la sostituzione «agli individui locali [di] individui inseriti nella storia universale, individui empiricamente universali»45, sostituzione
che avviene entro la miseria più totale. «La massa di semplici operai – forza lavorativa privata in massa del capitale o di qualsiasi limitato soddisfacimento – e
quindi anche la perdita non più temporanea di questo stesso lavoro come fonte di
esistenza assicurata, presuppone, attraverso la concorrenza, il mercato mondiale.
Il proletariato può dunque esistere solo sul piano della storia universale, così come
il comunismo, che è la sua azione, non può affatto esistere se non come esistenza
“storica universale”»46. Se non vi fossero queste condizioni storico-universali sia
pure in negativo, cioè la separazione da un’enorme ricchezza prodotta nel mercato mondiale generato a sua volta dalla cooperazione forzata della divisione del
lavoro, il comunismo generalizzerebbe solo la miseria e allora si ritornerebbe alla
situazione primitiva dell’aumento dei bisogni dopo il primo bisogno soddisfatto,
la prima azione del soddisfarlo e il mezzo già acquisito per soddisfarlo, quindi si
riproporrebbe di nuovo la divisione del lavoro. Se gli individui non esistessero sul
terreno della storia universale, il comunismo sarebbe solo un fenomeno locale, lo
scambio non si svilupperebbe come mercato mondiale, procurando così l’insoste-
43
44
45
46
Ivi, p. 22; tr. it., cit., p. 34.
Ibid.
Ibid.
Ivi, p. 23; tr. it., cit., ibid.
35
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
nibilità delle condizioni di vita date dalla divisione del lavoro, e un allargamento
dello scambio distruggerebbe il comunismo locale.
Dall’analisi svolta finora emerge che non ha senso porre un problema della
“natura umana” in astratto. Si tratta invece degli individui che continuamente
producono direttamente e indirettamente la loro vita, e questo è qualcosa di fine
a se stesso, un’estrinsecazione della propria vita stessa in modi sempre determinati. Questa produzione e riproduzione della vita avviene in modo, al tempo stesso,
naturale e sociale, in quanto è «l’elaborazione della natura da parte degli uomini
[e] l’elaborazione degli uomini da parte degli uomini»47. Quindi non ha senso contrapporre individuo, società e natura, perché l’individuo con la sua condizione
fisica e la sua azione sulla natura opera sempre socialmente, e le relazioni sociali
sono esse stesse forze produttive. In alcune fasi dello sviluppo avutosi finora,
quindi non come legge metafisica imposta a priori alla storia, ma come risultato
dell’osservazione empirica, gli uomini hanno prodotto e riprodotto la loro esistenza socialmente attraverso la divisione del lavoro cioè attraverso la separazione
tra la loro esistenza personale e la loro esistenza comune in quanto individui
medi appartenenti a una classe. Ma questo non significa né che ci siano prima
gli individui e poi la società né viceversa, perché essi, proprio in quanto individui
che prendono le mosse da se stessi, sono sempre in rapporto e quindi sono sempre
individui sociali. Anche l’individuo personale, separato dalle condizioni generali
di esistenza in quanto membro di una classe, è radicalmente sociale perché è dentro la divisione del lavoro caratteristica della società borghese, quindi è dentro la
cooperazione che egli viene posto come individuo privato in opposizione al suo
stesso rapporto comune con gli altri individui, così come il comune è a sua volta
solo la relazione tra gli individui che si erge come una potenza estranea verso
loro stessi. Questa separazione è il processo storico di una determinata forma
di relazione di individui sociali in alcune fasi determinate, quelle caratterizzate
dalla produzione sociale antagonistica, la quale si scandisce nelle famose epoche
schiavistica, feudale e borghese moderna. Ma una tale condizione storica, segnata
dall’esistenza antitetica dell’individuo sociale come individuo personale e come
individuo in rapporto di comunità in quanto membro di una classe, non vi è
stata sempre e può essere soppressa alla condizione di uno sviluppo universale
dell’individuo sociale quando arriva a produrre la ricchezza non più mediante
il «lavoro immediato […] né [mediante] il tempo che egli lavora, ma [mediante]
47
Ibid.; tr. it., cit., p. 35.
36
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura
e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale»48. A quel punto
la divisione del lavoro nella forma dell’opposizione di capitale e lavoro salariato
diventa «una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata
nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa»49. Quella base
miserabile crea la massa dell’umanità priva di proprietà, attraverso «il furto del
tempo di lavoro altrui»50 e diventa insostenibile perché gli uomini, nella concorrenza del mercato mondiale, perdono il lavoro, ossia i mezzi di sussistenza, non
temporaneamente. D’altra parte, quel grande incremento della forza produttiva
sul piano della storia universale, che tale base miserabile ha creato attraverso la
cooperazione forzata della divisione del lavoro, costituisce una condizione «per
far saltare in aria questa base»51.
2. “Pubblico” e “politico”
Come abbiamo visto, lo Stato nasce come conseguenza della divisione del lavoro, segnatamente quando questa produce la contraddizione tra l’interesse del singolo individuo o della singola famiglia e l’interesse collettivo, che prende appunto
un’autonoma configurazione come Stato, il quale si sviluppa sulla base della lingua,
del sangue o della divisione tra le classi sociali, dove la classe che aspira al dominio
deve presentare il proprio interesse come universale. Quindi lo Stato non è sempre
esistito, ma è sorto in un momento determinato dello sviluppo storico, ossia quando, sul terreno della divisione del lavoro che coincide con il rapporto di proprietà
privata, gli antagonismi tra le classi diventano inconciliabili. Infatti, come afferma
Engels, lo Stato non è una potenza imposta dall’esterno, la realizzazione dell’idea
etica, l’immagine e la realtà della ragione, alla maniera di Hegel, ma nasce dal fatto
che la società, ad un certo grado del suo sviluppo, quello caratterizzato appunto
dalla divisione del lavoro, si scinde nel rapporto antagonistico tra detentori dei
mezzi di produzione e produttori, quindi in antagonismi di classe che non possono
K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (Rohentwurf) 1857-1858; Anhang
1850-1859, Berlin 1974; tr. it. di E. Grillo, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia
politica, 1857-1858, voll. 2, Scandicci 1997, qui p. 593; tr. it., cit., p. 401.
49
Ibid.
50
Ibid.
51
Ibid; tr. it., cit., p. 402.
48
37
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
essere conciliati. Allora, «perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici in conflitto, non distruggano se stessi e la società in una sterile lotta, sorge
la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui
il conflitto, lo mantenga nei limiti dell’“ordine”; e questa potenza che emana dalla
società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre più da essa, è lo
Stato»52. Quindi non vi è uno stato di natura con individui singoli isolati che solidalmente e volontariamente, per far fronte alla loro ipotetica naturale pericolosità,
espropriano il loro potere a una persona sovano-rappresentativa che li protegga e
a cui danno in cambio obbedienza, ma piuttosto la classe più forte nella società,
affinché le classi non si distruggano in una lotta sterile, si presenta come la classe
dell’interesse generale, benché questo sia solo l’imposizione dell’interesse particolare al di sopra della società. Commenta Lenin: «Per Marx lo Stato è l’organo del
dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un’altra; è la
creazione di un “ordine” che legalizza e consolida questa oppressione, moderando il
conflitto tra le classi […]. Attenuare il conflitto [non] vuol dire […] conciliare [ma]
privare le classi oppresse di determinati strumenti e mezzi di lotta per rovesciare gli
oppressori»53. Quindi l’ordine come moderazione del conflitto tra le classi, non si
crea per accordo tra le classi stesse – cosa, impossibile, giacché, come abbiamo visto,
le classi esistono solo nel reciproco antagonismo derivante dalla divisione del lavoro – ma perché la classe più forte impone il suo dominio e lo fa privando la classe
dominata dei mezzi per rovesciarla dalla posizione di classe dominante. Come si
vede, lo Stato riflette, sul piano dei rapporti di potere, quello che nella produzione
si verifica sul piano dei rapporti di proprietà privata. Come qui la classe dominante
è quella che detiene gli strumenti di produzione espropriando i produttori, così,
per mantenere il possesso dei mezzi di produzione, essa deve mantenere il potere
politico e quindi espropria la classe oppressa dei mezzi di dominio.
E allora, lo Stato non è sempre esistito ma nasce dalla condizione, storicamente determinata, della divisione del lavoro, cioè dal momento in cui l’attività
sociale si fissa al di sopra degli individui come una potenza estranea che sfugge
al loro controllo e che non appare come il proprio potere unificato, ma come
una potenza al di fuori di essi. Ma, come abbiamo visto, questa estraniazione
conseguente alla divisione del lavoro si può eliminare non appena essa diventa un
F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Roma 1963, p. 200.
V. I. Lenin, Stato e rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella
rivoluzione, a cura di V. Gerratana, Roma 1970, pp. 61-62.
52
53
38
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
potere insostenibile, avendo reso la massa degli uomini priva di proprietà sotto il
presupposto dello sviluppo della ricchezza e di individui universali esistenti sul
piano della storia universale. Di conseguenza, cessando per soppressione rivoluzionaria questa divisione del lavoro che si erge come potenza estranea rispetto agli
individui separandoli dalle loro condizioni di produzione, cessa di essere anche lo
Stato che ne deriva. Insomma, lo Stato esiste solo da quando sono esistite le classi
e queste ultime non sono esistite sempre, ma sono il prodotto di una determinata
fase storica. Perciò lo Stato finisce con il cessare delle classi e del loro antagonismo ossia con il cessare della divisione del lavoro e del rapporto di proprietà privata, da cui derivano le classi e l’antagonismo tra interesse dei singoli individui e
interesse collettivo, apparenza, quest’ultima, con cui una classe domina sull’altra.
Dice Engels:
Lo Stato non esiste dunque dall’eternità. Vi sono state società che ne hanno fatto a
meno e che non avevano alcuna idea di Stato e di potere statale. In un determinato grado dello sviluppo economico, necessariamente legato alla divisione della società in classi, proprio a causa di questa divisione lo Stato è diventato una necessità. Ci avviciniamo
ora, a rapidi passi, ad uno stadio di sviluppo della produzione nel quale l’esistenza di
queste classi non solo ha cessato di essere una necessità ma diventa un ostacolo effettivo
alla produzione. Perciò esse cadranno così ineluttabilmente come sono sorte. Con esse
cadrà ineluttabilmente lo Stato. La società, che riorganizza la produzione in base a una
libera ed eguale associazione di produttori, relega l’intera macchina statale nel posto
che da quel momento le spetta, cioè nel museo delle antichità accanto alla rocca per
filare e all’ascia di bronzo54.
Dunque, con il diventare superflua la divisione del lavoro e quindi la divisione in classi derivante dall’ineguale ripartizione del lavoro e del consumo, diventa
superfluo anche lo Stato perché cessa l’antitesi tra interesse individuale e interesse
collettivo. E questa antitesi non ha più ragione di essere in quanto gli individui
stessi sottomettono a sé le condizioni di esistenza, dato che essi sono giunti a
uno stadio di sviluppo tale che per produrre la ricchezza non c’è più bisogno, o
ce n’è in misura molto minore, di lavoro immediato, essendo essa prodotta dalla
conoscenza della natura e dal domino sulla natura, raggiunti grazie allo sviluppo
pieno degli individui come individui sociali.
54
F. Engels L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, cit., p. 204.
39
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Afferma Marx in Miseria della filosofia:
Dopo la caduta dell’antica società ci sarà una nuova dominazione di classe, riassumentesi in un nuovo potere politico? No. La condizione dell’affrancamento della classe
lavoratrice è l’abolizione di tutte le classi, come la condizione dell’affrancamento del
“terzo stato”, dell’ordine borghese, fu l’abolizione di tutti gli stati e di tutti gli ordini. La classe lavoratrice sostituirà, nel corso del suo sviluppo, all’antica società civile
una associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo, e non vi sarà più potere
politico propriamente detto, poiché proprio il potere politico è l’espressione ufficiale
dell’antagonismo all’interno della società civile55.
Se le classi nascono dalla divisione ineguale del lavoro e dei prodotti, e se,
di conseguenza, alle classi è connesso il loro antagonismo, perché gli individui
in tanto formano una classe in quanto hanno comuni interessi contro un’altra
classe, ne deriva che con la soppressione della divisione del lavoro è abolita non
una classe a vantaggio di un’altra, ma tutte le classi. Pertanto, anche la classe
sociale che abolisce la divisione del lavoro, ovvero il lavoro stesso, nell’atto in cui
ne abolisce la forma estrema quale si afferma nella società borghese, deve necessariamente sopprimere non solo la classe borghese ma, insieme ad essa, anche se
stessa come classe. Infatti, ricordiamolo ancora, «il servo della gleba, lavorando
nel suo stato di servo della gleba, ha potuto elevarsi a membro del comune, come
il cittadino minuto, lavorando sotto il giogo dell’assolutismo feudale, ha potuto
elevarsi a borghese»56, dunque queste classi hanno potuto emanciparsi contro la
classe dominante restando però classe, cioè conservando la divisione del lavoro. Invece i proletari in quanto classe sono esclusi da ogni ricchezza e da ogni
proprietà, quindi non possono emanciparsi restando classe, cioè non possono
emanciparsi dentro il lavoro libero entro cui invece si emanciparono i borghesi.
Perciò la condizione della loro emancipazione individuale è al tempo stesso quella
collettiva, ossia l’abolizione della loro intera condizione di esistenza quale è stata
fino a questo momento, ossia della divisione del lavoro e della produzione ridotta
a mero lavoro. E poiché è da questa divisione del lavoro che nascono le classi e i
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 4, Berlin 1972, pp. 63-182, qui pp. 181-182; tr. it. di F. Rodano, Miseria della filosofia. Risposta alla Filosofia della Miseria del signor Proudhon, Roma 1969,
p. 146.
56
Ivi, p. 473; tr. it., cit., p. 103.
55
40
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
loro antagonismi, l’emancipazione del proletariato comporta, insieme con la soppressione della classe dominante borghese, l’abolizione delle intere «condizioni di
esistenza dell’antagonismo di classe, cioè [delle] condizioni d’esistenza delle classi
in genere»57. Infine, poiché è proprio sulla base degli antagonismi di classe che
nasce lo Stato, con l’abolizione delle classi del loro antagonismo, quindi di ogni
possibilità di dominazione di classe, scompare il potere politico propriamente
detto. Perciò, dice Engels:
La società esistita sinora, muoventesi sul piano degli antagonismi di classe, aveva necessità dello Stato, cioè di una organizzazione della classe sfruttatrice in ogni periodo, per
conservare le condizioni esterne della sua produzione e quindi specialmente per tener
con la forza la classe sfruttata nelle condizioni di oppressione date dal modo vigente
di produzione (schiavitù, servitù della gleba, semiservitù feudale, lavoro salariato). Lo
Stato era il rappresentante ufficiale di tutta la società, la sua sintesi in un corpo visibile,
ma lo era in quanto era lo Stato di quella classe che per il suo tempo rappresentava, essa
stessa, tutta quanta la società: nell’antichità era lo Stato dei cittadini padroni di schiavi,
nel medioevo lo Stato della nobiltà feudale, nel nostro tempo lo Stato della borghesia.
Ma, diventando alla fine effettivamente il rappresentante di tutta la società, si rende,
esso stesso, superfluo58.
Nelle fasi in cui esiste lo Stato, la rappresentanza di tutta la società è apparente, poiché l’ordine è la legalizzazione dell’oppressione di una classe sull’altra,
dunque non la conciliazione degli interessi contrapposti della società civile, ma
il risultato del predominio di una classe che ha privato l’altra degli strumenti di
produzione e della possibilità di rovesciamento di quell’ordine. Ma se lo Stato è
l’espressione ufficiale degli antagonismi della società civile, l’apparenza ordinata
del conflitto, che è in realtà squilibrato, tra oppressori e oppressi, ecco che l’abolizione dello Stato va di pari passo con la soppressione della società civile, la quale
è il luogo di quegli antagonismi di classe, da cui deriva lo Stato. Infatti, afferma Marx: «Non si dica che il movimento sociale esclude il movimento politico.
Non vi è mai movimento politico che non sia sociale al tempo stesso»59. Perciò
alla vecchia società civile – vecchia perché era essa il luogo degli antagonismi
57
58
59
Ivi, p. 482; tr. it., cit., p. 121.
F. Engels, Antidühring, Roma 1950, p. 305.
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 4, cit., p. 182; tr. it., cit., p. 146.
41
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
che si esprimono ufficialmente nello Stato – viene sostituita, dal proletariato,
un’associazione la quale, non avendo carattere politico, perché non ha più classi e
rapporti antagonistici tra di esse, non può avere neanche i caratteri della società
civile, la quale va sempre insieme con lo Stato, perché quest’ultimo esprime ufficialmente gli antagonismi della società, dunque proprio quella società civile che
esso deve mantenere e riprodurre.
Dicono Engels e Marx nel Manifesto del Partito comunista: «Quando le differenze di classe saranno scomparse nel corso dell’evoluzione, e tutta la produzione
sarà concentrata in mano agli individui associati, il pubblico potere perderà il suo
carattere politico. In senso proprio, il potere politico è il potere organizzato di una
classe per opprimerne un’altra»60. Dunque, è possibile, a determinate condizioni
storiche, un’associazione pubblica che non abbia carattere politico. La differenza tra
“pubblico” e “politico” non è la differenza tra “politico” e “sociale”, perché il politico, come abbiamo visto, è al tempo stesso sociale. Ciò si comprende se facciamo
riferimento al doppio significato racchiuso nel termine “individuo sociale”, cioè
da un lato come individuo sempre socialmente cooperante nella produzione della
propria esistenza, anche nelle fasi in cui, a causa della divisione del lavoro, egli si
scinde in individuo personale e individuo come membro di una classe, e dall’altro
lato come l’individuo pienamente sviluppato nella sua esistenza di corpo sociale,
attraverso cui egli giunge all’appropriazione della sua produttività generale, alla
comprensione e dominio sulla natura, esigendo, in forza di ciò, che salti in aria la
base miserabile costituita dalla divisione del lavoro. Orbene, alla fase sociale storicamente caratterizzata dalla divisione del lavoro, che si manifesta nella differenza
tra individuo personale e individuo come membro di una classe, appartengono la
società civile come luogo di tutti questi antagonismi, e, in stretta connessione, il
potere politico che li esprime in modo ufficiale, ossia legalizza la prevalenza conflittuale di una parte della società sull’altra. È allora evidente che una fase storica, la
quale non ha più la forma dell’antagonismo di classe ossia della divisione del lavoro che scinde gli individui, sempre socialmente cooperanti, dalle stesse condizioni
sociali della loro vita, ma dove gli individui hanno il controllo diretto delle loro
condizioni di esistenza, quindi si sviluppano pienamente come individui sociali,
non può esprimere una forma di società con carattere politico. Il “politico” è solo
l’espressione determinata di una fase dello sviluppo sociale, quello caratterizzato
dall’antagonismo delle classi che trova la sua espressione apparente nell’antitesi tra
60
Ivi, p. 482; tr. it., cit., p. 121.
42
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
Stato e società civile e nella sintesi meramente ufficiale che il primo fa della seconda. Perciò, dice Marx, «è solo in un ordine di cose in cui non vi saranno più classi
né antagonismo di classi, che le evoluzioni sociali cesseranno d’essere rivoluzioni
politiche»61, benché questa transizione dovrà avvenire ancora con una rivoluzione
politica e avere perciò ancora un carattere politico.
3. Assiomi antropologici, “politico” e Stato in Carl Schmitt
In Carl Schmitt il concetto di “politico” è presupposto a quello di “Stato”,
il quale è l’istanza concreta che nella modernità ha assunto il monopolio di tale
“politico”, ma non ne esaurisce concettualmente il campo di relazioni. Rispetto
agli altri ambiti della vita, relativamente autonomi e definibile ciascuno in base
a specifiche contrapposizioni (“buono” e “cattivo” sul piano morale, “bello” e
“brutto” sul piano estetico, “utile” e “dannoso” sul piano economico ecc.), la
contrapposizione fondamentale che permette di distinguere il carattere politico
di determinate azioni e motivazioni, è la distinzione di “amico” e “nemico”. Questa distinzione oppositiva, però, ha rispetto alle altre una caratteristica peculiare,
poiché il nemico, e di conseguenza l’amico che vi sta in relazione dialettica, consiste in un concreto raggruppamento umano che si contrappone ad un altro e ne
mette in questione il peculiare modo di vita. Di conseguenza il campo di relazioni del politico varia di continuo giacché tutti i possibili ambiti della vita (morale,
religioso, economico ecc.) possono divenire terreno di una concreta contrapposizione e quindi dar luogo alla formazione di raggruppamenti amico-nemico. Perciò il concetto di politico, ossia la distinzione di amico e nemico, non può avere
un contenuto determinato ma indica «l’estremo grado di intensità di un’unione o
di una separazione, di un’associazione o di una dissociazione»62, quali che siano
i contenuti di questa intensificazione estrema dell’unione o della separazione. A
tal proposito Schmitt sottolinea il significato politico della celebre formulazione
di Hegel della conversione della quantità in qualità, la quale formulazione «è una
manifestazione della consapevolezza che il punto culminante del politico, e con
Ivi, p. 182; tr. it., cit., p. 147.
C. Schmitt, Der Begriff des Politischen. Text von 1932 mit einem Vorwort und drei Corollarien,
Berlin 1996, p. 27; tr. it. a cura di G. Miglio e di P. Schiera, Il concetto di “politico”: testo del 1932
con una premessa e tre corollari, in Id., Le categorie del ‘politico’, Bologna 1972, pp. 87-208, qui p.
109.
61
62
43
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
esso un’intensità qualitativamente nuova dei raggruppamenti umani, può essere
raggiunta a partire da ogni settore della realtà»63. È dunque comprensibile perché
il concetto di politico sia un presupposto di quello di “Stato”, e che i due termini non si identifichino: infatti il primo termine indica un campo di intensità
estremo di formazione di raggruppamenti umani mediante un’associazione e una
dissociazione, intensità che ogni volta dà luogo a raggruppamenti politici qualitativamente nuovi; il secondo termine, dal canto suo, indica la specifica intensità qualitativamente nuova di quei raggruppamenti politici che si formarono sul
suolo europeo nell’età moderna e che giungono al tramonto nella fase nihilistica
contemporanea. Oggi i concetti giuridici elaborati a partire dalla fase storica moderna, caratterizzata da un ordinamento globale della terra, centrato sullo Stato
e sull’Europa (Stato e sovranità, costituzione e legge, legalità e legittimità), sono
adoperati con finalità completamente diverse dai nuovi soggetti politici non più
statali che danno luogo a raggruppamenti umani di intensità qualitativamente
diversa, dunque a nuovi e diversi raggruppamenti amico-nemico (classi, razze,
formazioni partigiane).
Dal fatto che la distinzione tra amico e nemico non deriva da un contenuto
determinato ma dal grado estremo di intensità di un’unione o di una separazione, e che quindi qualsiasi contenuto della vita può essere terreno di formazione
di raggruppamenti politici, consegue che questa distinzione ha un carattere radicalmente “esistenziale”. Essa è formale in quanto non è contenutistica, ma non è
affatto vuota, perché indica una possibilità concreta estrema: la messa in questione del mio concreto modo di vita da parte dell’altro, che è il mio nemico. Perciò
è decisivo alla definizione del nemico non questa o quella qualità etica, estetica,
economica ecc., ma il fatto che nella relazione tra amico e nemico sia in gioco il
modo di vita di chi è messo in questione. Di conseguenza, «la possibilità di una
conoscenza e comprensione corretta e perciò anche la competenza ad intervenire
e decidere è qui data solo dalla partecipazione e dalla presenza esistenziale. Solo
chi vi prende parte direttamente può por termine al caso conflittuale estremo; in
particolare solo costui può decidere se l’alterità dello straniero nel conflitto concretamente esistente significhi la negazione del proprio modo di esistere e perciò
sia necessario difendersi e combattere, per preservare il proprio, peculiare, modo
di vita»64. Quindi, la comprensione di chi è il nemico è al tempo stesso la decisione
63
64
Ivi, p. 62; tr. it., cit., p. 147.
Ivi, p. 27; tr. it., cit., p. 109.
44
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
su chi nel caso concreto è il mio nemico, ossia su quando ricorre il caso estremo
in cui è messo in questione il mio modo di vita e quindi devo esistenzialmente
difenderlo per mantenerlo.
Poiché la distinzione tra amico e nemico è data dal grado estremo di intensità
di un’unione o di una separazione, dunque dalla decisione esistenziale, ossia presa
nella diretta presenza, meglio, nella sfida del caso concreto circa la soglia in cui la
quantità si converte in qualità, ne deriva che il concetto di nemico implica l’eventualità sempre concreta di una lotta e che questa non consiste in una discussione
che si presume “puramente spirituale” o nel fatto che la vita è sempre una lotta,
quindi ciascun uomo, gli piaccia o no, deve sempre lottare nell’arco della sua
vita. Il carattere esistenziale della distinzione dell’amico e del nemico implica un
significato del tutto specifico dell’eventualità della lotta, e cioè che quest’ultima
includa la possibilità reale dell’uccisione fisica, quindi che l’ostilità contenga la
possibilità della guerra, ossia di una lotta armata condotta o tra unità politiche
organizzate o, come guerra civile, all’interno di un’unità politica organizzata la
cui unità è in pericolo. L’arma è lo strumento per l’uccisione fisica di uomini e in
questo sta il suo significato essenziale, connesso a quello di guerra. Dire però che
la guerra è l’eventualità concreta che l’inimicizia comporta, ovvero che l’inimicizia, intesa nel senso esistenziale caratteristico del politico, si realizza nella guerra,
o, ancora, che in quest’ultima consiste appunto il carattere esistenziale dell’inimicizia, non significa asserire che la guerra sia la quotidianità dell’agire politico,
né che debba essere desiderabile, ma solo che «essa deve […] esistere come possibilità reale, perché il concetto di nemico possa mantenere il suo significato»65.
Come si vede, l’affermazione che la guerra è l’eventualità reale che l’inimicizia
implica, ovvero che essa è la realizzazione estrema dell’inimicizia, è un’affermazione esistenziale e non normativa e contenutistica, in quanto non prescrive di
fare sempre la guerra, ma serve a definire il campo di relazioni del politico, a cui
appartiene anche la valutazione delle circostanze in cui la scelta più corretta sia
quella di evitare la guerra. Allo stesso modo, dalla definizione del politico come
distinzione dell’amico e del nemico, non deriva che un popolo debba essere sempre nemico di un altro o che non sia possibile la neutralità, ma, viceversa, che tale
definizione serve a comprendere un campo di relazioni che muta continuamente
sia nei contenuti su cui si forma l’ostilità sia nelle relazioni dei diversi raggruppamenti tra loro, che possono passare dall’amicizia all’inimicizia o viceversa.
65
Ivi, p. 33; tr. it., cit., p. 116.
45
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Ma quale che sia il contenuto della decisione politica ossia, in ultima analisi,
della decisione su chi in concreto è il nemico – pace, guerra, neutralità, trattativa
– la guerra è la possibilità reale che dà significato al concetto di nemico. Se una
siffatta definizione del politico implicasse un’opzione bellicista, pacifista, imperialista, militarista o simili, ecco che il concetto di politico assumerebbe un contenuto
determinato, darebbe una prescrizione normativa e perderebbe il carattere esistenziale. «La guerra non è dunque scopo o meta o anche solo il contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale, che determina
in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico
comportamento politico»66. Ciò significa che qualsiasi comportamento l’agire politico possa assumere, anche la pace o la neutralità, riceve il suo significato dalla
possibilità-limite della guerra come caso estremo dell’inimicizia, nel senso che la
decisione su chi è il proprio nemico deve mettere sempre in conto la reale eventualità che in caso estremo possa esservi una guerra, anche se essa non si farà mai. In
caso contrario, insieme alla guerra cesserebbe anche il concetto di pace o di neutralità, che da quel caso estremo prendono il loro significato e ragion d’essere. «Si può
dire che qui, come anche in altri casi, proprio il caso d’eccezione ha un’importanza
particolarmente decisiva, in grado di rivelare il nocciolo delle cose. Infatti, solo
nella lotta reale si manifesta la conseguenza estrema del raggruppamento politico
di amico e nemico. È da questa possibilità estrema che la vita dell’uomo acquista la
sua tensione specificamente politica»67. Come la comprensione e la decisione circa
il nemico in base alla possibilità reale, esistenziale, della guerra non significa che
un raggruppamento politico debba essere sempre nemico di un altro o che non sia
possibile la neutralità come scelta politicamente valida, ma solo che ogni concetto
politico, quindi anche quello di neutralità, è determinato dalla possibilità che si
verifichi il caso-limite della guerra; così, porre l’eccezione come elemento determinante il carattere esistenziale dei concetti e dell’agire politico, non significa che
bisogna vivere in eccezione permanente, ma solo che l’eccezione è il nocciolo che
rivela il significato anche della normalità, sia essa intesa come concretezza di abitudini, consuetudini, modi di vita, sia essa intesa come normatività legale. «Proprio
una filosofia della vita concreta», afferma Schmitt nella Teologia politica, «non può
ritrarsi davanti all’eccezione e al caso estremo, anzi deve interessarsi ad esso al più
66
67
Ivi, pp. 34-35; tr. it., cit., p. 117.
Ivi, p. 35; tr. it., cit., p. 118.
46
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
alto grado»68. Perciò l’eccezione non è una semplice interruzione della regola ma il
suo nocciolo, la sua vita stessa; infatti la dittatura – ossia la competenza del caso
d’eccezione che sospende il diritto vigente – crea sempre nuovo diritto perché la
normalità che essa è chiamata a ristabilire, anche nel caso di una dittatura commissaria, non è la stessa della precedente. «Non solo», dunque, l’eccezione «conferma la
regola; la regola stessa vive solo dell’eccezione»69.
Come è attestato dalla storia del pensiero politico, tutte le teorie dello Stato
connettono alla concezione politica, consapevolmente o inconsapevolmente,
una concezione sulla natura dell’uomo, un’antropologia. Queste antropologie
connesse alle concezioni politiche sono riconducibili, nella prospettiva di Schmitt, a due tendenze fondamentali polarmente antitetiche: l’una concepisce
l’uomo come per natura cattivo, l’altra come per natura buono. Da queste antitetiche concezioni derivano opposti atteggiamenti circa la natura e il significato
del potere politico e l’atteggiamento pratico verso di esso. L’antitesi antropologica «non va presa in senso specificamene morale o etico. Decisiva è la concezione problematica o non problematica dell’uomo come presupposto di ogni
ulteriore considerazione politica, cioè la risposta alla domanda se l’uomo sia un
essere pericoloso o non pericoloso, amante del rischio o innocentemente timido»70. La concezione antropologica dell’uomo cattivo per natura è connessa alle
teorie politiche che pongono la necessità della decisione e dell’autorità. Viceversa, la concezione antropologica dell’uomo buono per natura è rappresentata nel
modo più conseguente dalle teorie politiche anarchiche, le quali dall’assioma
della bontà dell’uomo fanno derivare la necessità della soppressione dello Stato
e di ogni potere politico con la medesima consequenzialità con cui dall’assioma della cattiveria o pericolosità dell’uomo si sostiene la necessità dell’autorità
e dello Stato. Anche il pensiero liberale sottende un’antropologia dell’uomo
buono per natura però non arriva alla conseguenza anarchica della negazione
radicale dello Stato, ma piuttosto della limitazione del suo intervento. «Per i
liberali […] la bontà dell’uomo non significa nient’altro che un argomento con
l’aiuto del quale lo Stato è posto al servizio della società: esso afferma soltanto
68
Id., Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, München und Leipzig
1934, p. 22; tr. it., Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranitá, in Le categorie
del ‘politico’, cit., pp. 27-86, qui p. 41.
69
Ibid.
70
Id., Der Begriff des Politischen. Text von 1932 mit einem Vorwort und drei Corollarien, cit., p.
59; tr. it., cit., p. 143.
47
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
che la società ha in se stessa il proprio ordine e che lo Stato è solo un suo sottoposto, da essa controllato con diffidenza e limitato da confini esatti71.
Anche se, con la sua teoria della limitazione dell’intervento statale e della
subordinazione dello Stato alla società civile, il liberalismo borghese manca, secondo Schmitt, di radicalità politica, tuttavia, quegli atteggiamenti liberali di
neutralizzazione di tutti i conflitti nella discussione hanno un senso indirettamente politico in quanto si volgono polemicamente contro uno Stato determinato in una situazione determinata. Come si vede la distinzione tra amico e nemico
come possibilità reale che contempla il caso estremo di una guerra, la quale però
non è detto che debba sempre verificarsi, illumina anche il concetto di neutralità.
Infatti, la dottrina liberale dell’equilibrio dei poteri serve a eludere la questione
estrema della decisione univoca su chi è il nemico. Invece per quanto riguarda la
posizione dell’anarchismo, Schmitt osserva il carattere perfettamente dialettico e
speculare di questa posizione – la quale sostiene la bontà naturale dell’uomo e da
questa fa conseguire strettamente la negazione radicale dello Stato – con la posizione di quei pensatori politici che partono dall’antropologia pessimistica circa la
pericolosità ovvero la cattiveria dell’uomo, e ne fanno derivare la necessità della
decisione ovvero della dittatura, quindi riconoscono il caso di eccezione come
estrema realizzazione dell’inimicizia nella guerra. «Se de Maistre dice che ogni
governo è necessariamente assoluto, un anarchico dice esattamente la stessa cosa,
traendo solo, con l’aiuto del suo assioma dell’uomo buono e del governo corrotto,
la conclusione pratica opposta che proprio perciò tutti i governi devono essere
combattuti, poiché tutti i governi sono dittature»72. L’anarchismo, però, nell’affermazione così radicale della bontà dell’uomo e nella negazione così radicale
dello Stato, ripropone il problema della decisione su chi sono i cattivi che pretendono il diritto alla decisione politica considerando cattivo l’uomo, e su chi sono
i buoni che vogliono decidere chi sono i cattivi. Dunque, implicitamente l’anarchismo ripropone il problema della decisione sull’amico e sul nemico, ma ciò
significa sul pericolo rappresentato da chi impone la dittatura contro l’uomo per
natura buono e perciò non bisognoso di autorità politica e religiosa. Così, paradossalmente anche l’anarchico finisce con l’ammettere l’esistenza di un problema
di pericolosità e dunque il problema del politico, confermando la connessione tra
Ivi, pp. 60-61; tr. it., cit., p. 145.
Id., Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, cit., pp. 83-84; tr. it.,
cit., p. 85.
71
72
48
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
antropologia pessimistica e teoria politica, salvo poi trarne conseguenze opposte
rispetto al pensiero autoritario circa la necessità di accettare o di combattere tutti
i governi, optando per la seconda soluzione.
Stando così le cose, non resta che concludere che dove si pone un problema
politico il nesso ultimo è con un’antropologia pessimistica, vale a dire, dovunque
viene riconosciuto il politico, necessariamente non ci può essere una concezione
ottimistica in senso antropologico, e coloro che la sostengono tendono o a distruggere e negare il politico o a neutralizzarlo nella discussione, ma direttamente
o indirettamente, come abbiamo visto, ripropongono il problema. «Perciò resta
valida la constatazione stupefacente e per molti sicuramente inquietante che tutte
le teorie politiche in senso proprio presuppongono l’uomo come “cattivo”, che
cioè lo considerano come un essere estremamente problematico, anzi “pericoloso” e dinamico»73. Infatti, dato che il pensiero e l’azione politica presuppongono
la divisione tra amico e nemico, altrimenti sarebbe impossibile ogni conseguenza
specificamente politica, i pensatori politici più consapevoli di questo sono perciò
molto netti nella loro antropologia pessimistica, quindi nella loro tesi sulla pericolosità dell’uomo, e questo accade appunto perché «essi hanno sempre in mente
l’esistenzialità concreta di un nemico possibile»74.
La prospettiva secondo la quale, a determinate condizioni storiche, sia possibile un’associazione sociale o pubblica che non abbia carattere politico, è precisamente l’opposto del criterio del politico elaborato da Schmitt. Infatti, qui
si può certo parlare di fine dello Stato, il quale è l’istanza politica decisiva in
un’epoca storica determinata, ma non per questo di fine del politico, giacché
il politico riguarda il caso estremo, il caso d’eccezione sempre possibile nella
vita dell’uomo, anzi, ciò di cui vive la stessa regola. Questa possibilità estrema
è data dall’ipotesi della pericolosità dell’uomo, pericolosità che pone il problema della decisione su chi è il nemico, decisione a partire da cui è possibile
stabilire una relazione di reciprocità tra protezione e obbedienza, relazione che
costituisce il nucleo di ogni ordinamento umano. Perciò per Schmitt non c’è
una dimensione pubblica che possa escludere il pericolo del politico. Infatti, il
nemico non è l’avversario privato, il concorrente o cose simili, ma è «un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità
reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso ge-
73
74
Ivi, p. 61; tr. it., cit., p. 146.
Ivi, p. 65; tr. it., cit., p. 151.
49
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
nere»75. Per questo motivo ciò che si riferisce al raggruppamento amico-nemico
è per eccellenza qualcosa di pubblico. «Il nemico è l’hostis, non l’inimucus in
senso ampio; il polemios non echthros»76. Infatti il passo del Nuovo Testamento
«amate i vostri nemici» (Matteo 5, 44; Luca 6, 27) suona, in latino: diligite
inimicos vestros, e non: hostes vestros, e in greco: agapate tous echthrous humon,
quindi si riferisce al nemico privato, sfera entro cui ha un senso amare il proprio nemico, che Schmitt qui intende come il proprio avversario, distinguendo
tra Feind, nemico, e Gegner, avversario, e lamentando che la lingua tedesca,
come altre lingue moderne, non distingue, nel termine “nemico”, tra privato
e politico. Ma il passo del Nuovo Testamento si riferisce non al nemico pubblico, bensì a quello privato, quindi in nessun modo «comanda che si debbano
amare i nemici del proprio popolo e che li si debba sostenere contro di esso»77.
Quindi, come il passo biblico non vuole eliminare la distinzione di buono e
cattivo in senso teologico, così non intende, comandando di amare i propri
inimicos, ossia avversari privati, eliminare la distinzione di amico e nemico,
che riguarda l’ambito pubblico. E poiché la distinzione tra amico e nemico
è il criterio del politico, in nessun modo il passo biblico intende eliminare il
politico. Pertanto, non si può eliminare dalla vita pubblica, nella misura in cui
è pubblica, la distinzione-limite tra amico e nemico, quindi il politico. Questo
anche se crolla lo Stato, cioè quella istanza politica che si è formata all’inizio
dell’età moderna ed è durata, nel suo senso originario, fino alla Prima guerra
mondiale. Lo Stato è quella specifica istanza politica moderna che pone fine
alla situazione di pericolosità estrema costituita dalle guerre civili di religione,
una vera e propria guerra di tutti contro tutti, fatta sulla base di una discriminazione del nemico. Questi era ridotto a criminale e non riconosciuto come
l’altro che mette in questione il mio proprio modo di vita e con cui, nel caso
estremo, conduco un conflitto nel quale io lo riconosco come parimenti sovrano nella sua decisione di mettermi in questione, e decido di muovergli guerra
non perché egli sia fuori dal diritto, ma perché io ritengo che il mio modo di
vita da lui messo in questione vada difeso solo attraverso una lotta. In questo
reciproco riconoscimento sta il senso di una limitazione della guerra e quindi la
possibilità di creare degli ordinamenti giuridici in cui è esclusa non la guerra,
75
76
77
Ivi, p. 29; tr. it., cit., p. 111.
Ibid.
Ivi, p. 30; tr. it., cit., p. 112.
50
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
ma la guerra di annientamento, poiché il centro dell’ordinamento giuridico è la
guerra limitata, possibile solo attraverso il riconoscimento del nemico. Ebbene,
lo Stato moderno chiuse le guerre civili di religione con una decisione sovrana
sull’amico e sul nemico, e così finì l’inimicizia discriminante che riduceva il
nemico a criminale, e fu possibile la limitazione della guerra, condotta tra entità sovrane.
Il primo effetto di razionalizzazione operato dalla formazione spaziale dello “Stato”
consistette, in politica interna e in politica estera, nella deteologizzazione della vita
pubblica e nella neutralizzazione dei contrasti sorti dalle guerre civili di religione […].
La deteologizzazione ebbe una conseguenza evidente: la razionalizzazione e l’umanizzazione della guerra, ovvero la possibilità della sua limitazione giuridico-internazionale. Questa […] sta nel fatto che il problema della guerra giusta viene separato al
problema della justa causa e posto sotto categorie giuridico-formali78.
La guerra giusta è, in questa prospettiva, la guerra combattuta tra Stati sovrani ossia tra titolari della decisione sull’amico e sul nemico, considerato come
colui che mette in questione il mio concreto modo di vita e non come colui che
è cattivo, brutto, dannoso ecc., e perciò da combattere in base a una iusta causa.
Come si vede, il concetto di nemico che lo Stato moderno assume nel suo costituirsi a entità politica, è esistenziale e non normativo, altrimenti si considererebbe
il nemico come un criminale e si combatterebbe una guerra ex iusta causa, come
avevano fatto le fazioni religiose, che perciò non riuscivano a creare nessun ordine. Invece l’ordine statuale, fondato non sul rifiuto della guerra, ma sulla sua
limitazione, ha caratterizzato l’ordinamento eurocentrico della terra per quattro
secoli. In conseguenza del nichilismo contemporaneo, nuovi soggetti politici non
più statali accantonano come anacronismo i concetti di Stato, sovranità ecc.,
salvo poi servirsene strumentalmente per combattersi a vicenda in modo discriminante, malgrado facciano tutti parte dell’organizzazione della pace mondiale.
Questi soggetti combattono contro la guerra e per la pace, ma in nome di essa
fanno guerre ex iusta causa ancora più devastanti delle guerre civili di religione,
anche perché il progresso economico mette a disposizione armi sempre più mici-
Id., Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Greven Verlag, Köln
1950, pp. 112-113; tr. it. di E. Castrucci, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello ‘Jus
publicum europaeum’, Milano 1991, p. 164.
78
51
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
diali. Dice Schmitt che il criterio di legittimità odierno è quello del nuovo contro
il vecchio e della valorizzazione di ogni cosa.
Karl Marx poteva ancora ammettere che la sovrastruttura ideologica (in cui rientrano
concetti di diritto e di legalità) si sviluppa talora più lentamente della base economico-industriale. Il progresso odierno non ha più tanto tempo e pazienza. Esso rimanda
al futuro e induce aspettative crescenti, che poi esso stesso supera con nuove aspettative sempre più grandi: Ma la sua aspettativa politica giunge alla fine stessa di tutto il
“politico”. L’umanità è intesa come una società unitaria, sostanzialmente già pacificata;
nemici non ve ne sono più; essi si trasformano in “partners” conflittuali; al posto della
politica mondiale deve instaurarsi una polizia mondiale79.
Invece a Schmitt sembra che il mondo sia lontano dall’unità politica, anche
perché l’”umanità”, in nome della quale si vuole realizzare l’unità politica, «non è
un concetto politico e ad essa non corrisponde nessuna unità o comunità politica
e nessuno status»80. Infatti, il concetto di nemico presuppone il riconoscimento
dell’altro che mette in questione il mio modo di esistenza, quindi «l’unità politica
non può essere, per sua essenza, universale, nel senso di un’unità comprendente
l’intera umanità e l’intera terra»81. Perciò, muovere una guerra in nome dell’umanità è solo un modo per fare una guerra imperialistica in senso economico, oppure una guerra particolarmente intensa, una guerra ex iusta causa che criminalizza
l’avversario: «Proclamare il concetto di umanità, richiamarsi all’umanità, monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare soltanto […] la terribile
pretesa che al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso dev’essere dichiarato
hors-la-loi e hors-l’ humanité e quindi che la guerra dev’essere portata fino all’estrema inumanità»82. Ma se la guerra fatta in nome dell’umanità per unificarla e
renderla priva di guerra e di politica, facendovi subentrare una polizia mondiale,
è una guerra per togliere al nemico la qualità di uomo, allora è evidente che «la
polizia non è qualcosa di apolitico. La politica mondiale è una politica molto
intensiva, risultante da una volontà di pan-interventismo; essa è soltanto un tipo
particolare di politica e non certo la più attraente: è cioè la politica della guerra
79
80
81
82
Id., Premessa all’edizione italiana, in Le categorie del ‘politico’, cit., pp. 21-26, qui p. 25.
Id., Der Begriff des Politischen, cit., p. 55; tr. it., cit., p. 140.
Ivi, p. 54; tr. it., cit., p. 138.
Ivi, p. 55; tr. it., cit., p. 139.
52
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
civile mondiale»83. In questa mutata situazione, dove lo Stato ha cessato di essere
il soggetto che ha il monopolio del politico, sorge il problema di capire quali
sono i nuovi soggetti politici che combattono per la fine del politico, per la pace
mondiale, per il progresso o per altre cause, e a quali condizioni si può giungere
a un nuovo ordine del mondo, pluralistico perché l’“umanità” non è un soggetto
politico. A parere di Schmitt, il criterio del politico, cioè della distinzione tra
amico e nemico, «costituisce […] un approccio a questo riconoscimento della realtà politica»84, il che significa che la perdita di centralità dello Stato non elimina
la politica e il pericolo del politico, anzi lo accentua.
Si potrebbe qui osservare che il criterio del politico è sicuramente ancora
fruttuoso per avvicinare una realtà la quale, a dispetto della perdita di centralità
dello Stato, nondimeno conserva un carattere politico, ma un giorno esso potrebbe cessare di avere significato in una realtà in cui gli uomini non hanno più
bisogno di dividersi vicendevolmente in raggruppamenti amico-nemico. Schmitt
ammette che se i popoli, le classi e i gruppi umani fossero così uniti da rendere
impensabile e impossibile una guerra, anche la guerra civile all’interno di un
impero che comprendesse tutto il mondo, «allora esisterebbe soltanto una concezione del mondo, una cultura, una civiltà, un’economia, una morale, un diritto,
un’arte, uno svago ecc. non contaminate dalla politica ma non vi sarebbe più né
politica né Stato»85. Dopo di che aggiunge: «Se e quando tale “stato” del mondo
e dell’umanità sorgerà, non so. Per ora esso non esiste»86 e sarebbe disonesto e
illusorio pensare che delle guerre mondiali possano alla fine condurre a delle paci
mondiali intese come la definitiva spoliticizzazione, perché la pace è possibile
solo a partire da un pluralistico universo politico fondato sulla limitazione della
guerra e quindi sul riconoscimento del nemico. Tuttavia, in un altro contesto e
più compiutamente Schmitt dice:
Chi posso in generale riconoscere come mio nemico? Evidentemente soltanto colui che
mi può mettere in questione. Riconoscendolo come nemico, riconosco ch’egli mi può
mettere in questione. E chi può mettermi in questione? Solo io stesso. O mio fratello.
Ecco. L’altro è mio fratello, mio nemico. Adamo ed Eva ebbero due figli, Caino e Abele.
Id., Premessa all’edizione italiana, cit., p. 25.
Ibid.
85
Id., Der Begriff des Politischen. Text von 1932 mit einem Vorwort und drei Corollarien, cit., p.
54; tr. it., cit., pp. 138-139.
86
Ibid.; tr. it., cit., p. 139.
83
84
53
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Così comincia la storia dell’umanità. Questo è il volto del padre di tutte le cose. Questa
la tensione dialettica che tiene in moto la storia del mondo, e la storia del mondo non
è ancora alla fine87.
Il nemico è mio fratello perché solo attraverso la messa in questione, da
parte sua, del mio modo di vita, io mi conosco, quindi riconoscere lui significa
conoscere me stesso. Viceversa, mio fratello è il mio nemico perché colui che fa
conoscere me stesso attraverso il fatto che io lo riconosco a mia volta, è solo colui che mi mette in questione. Se io non riconosco mio il nemico, non conosco
me stesso, quindi se anniento il nemico anniento me stesso. «Ogni annientamento è soltanto un autoannientamento. Il nemico invece è l’altro. Ricordati
delle grandi proposizioni del filosofo: il rapporto con se stessi nell’Altro, questo
è il vero infinito. La negazione della negazione, dice il filosofo, non è una neutralizzazione; al contrario, il vero infinito ne dipende. Ma il vero infinito è il
concetto fondamentale della sua filosofia»88. Anche qui, a proposito della dialettica del riconoscimento, troviamo di nuovo sottolineato il senso prettamente
politico della filosofia hegeliana. Questa dialettica di inimicizia e fratellanza,
tesa tra annientamento e riconoscimento, è iscritta fin dall’inizio nella storia
del mondo, come è detto nel racconto biblico di Caino e Abele, e poiché la storia del mondo non è ancora finita, ecco che non è finita la realtà dell’inimicizia.
Ma ciò vuol dire che per il cristiano Schmitt la dialettica dell’inimicizia arriva
fino alla fine dei tempi.
Quanto detto rimanda ancora una volta all’assioma antropologico della pericolosità dell’uomo, assioma su cui si può fondare un concetto di politico, sia
esso statale o meno. Infatti, gli esseri naturali non sono capaci di un’ostilità come
quella che si verifica a livello storico, quindi a livello umano. Gli esseri viventi
della terra non sono nemici di quelli del mare e viceversa, ma rimangono estranei
l’uno all’altro; l’orso non si metterebbe a lottare con la balena e viceversa. Anche
nello stesso elemento i predatori sanno individuare i loro confini naturali, come
l’orso che non interferisce nel terreno di caccia del leone o della tigre; comunque
i grandi predatori evitano l’ostilità a meno che non sia necessaria. Anche l’ostilità
tra il cane e il gatto è diversa da quella degli esseri umani, i quali sono capaci
Id., Ex Captivitate Salus. Erfahrungen der Zeit 1945-47, Köln 1950, pp. 89-90; tr. it. di C.
Mainoldi, Ex captivitate salus. Esperienze degli anni 1945-47, Milano 1987, pp. 91-92.
88
Ivi, p. 90; tr. it., cit., p. 92.
87
54
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
di negare all’altro la qualità di uomo per combattere contro di lui una guerra ex
iusta causa e annientarlo.
L’ostilità tra gli uomini contiene una tensione che trascende largamente l’elemento naturale. Questa trascendenza è sempre presente nell’uomo, sia che la si definisca trascendente o trascendentale. Questo plusvalore può essere definito “spirituale” e, se si vuole,
può venire espresso con la frase di Rimbaud, “Le combat spirituel est aussi brutal que la
bataille d’ homme”. Comunque sia, nell’ostilità tra gli uomini si possono individuare
gradazioni e sfumature differenti»89.
A questo scopo serve il criterio del politico, che non ha un contenuto determinato, ma esprime solo il grado estremo di intensità di un’associazione o
di una dissociazione. Gli uomini sono capaci di un’ostilità nella quale criminalizzano e mettono l’altro uomo fuori dal diritto e fuori dall’umanità, combattendo guerre dove, in nome di cause ideali, morali, economiche, ci si arroga
di essere nel diritto e di mettere l’avversario fuori dal diritto, legittimando in
tal modo il proprio diritto ad annientarlo. «In questo caso, dunque, non è la
natura ma qualcosa che è specifico dell’uomo e che ne trascende la naturalità a
provocare la tensione e l’ostilità e a innalzare la mera polarità a dialettica concreta»90. Ebbene, la pericolosità dell’uomo sta proprio in ciò che lo distingue
dall’animale, ossia in quell’elemento spirituale per cui egli, in nome di una
giusta causa, mette l’avversario fuori dal diritto attribuendo al proprio diritto
un valore assoluto, nega all’avversario la qualità di uomo e quindi legittima
una guerra di annientamento contro di lui in nome dell’umanità. Questo è un
grado di inimicizia particolarmente intenso che Schmitt chiama “inimicizia
assoluta”, da cui deriva una guerra di annientamento dell’avversario considerato un criminale. Per queste guerre l’uomo fabbrica armi sempre più micidiali,
appunto perché l’ostilità annientatrice deriva all’uomo dalla sua umanità e non
dall’elemento animale. È dunque proprio nel suo elemento “spirituale”, che
89
Id., Die geschichtliche Struktur des heutigen Welt-Gegensatzes von Ost und West. Bemerkungen
zu Ernst Jüngers Schrift: “Der Gordische Knoten”, in Freundschaftliche Begegnungen. Festschrift
für Ernst Jünger zum 60. Geburtstag, hg. A. Mohler, Frankfurt am Main 1955, p. 150; tr. it. di
G. Panzieri, La contrapposizione planetaria tra Oriente e Occidente e la sua struttura storica, in
E Jünger, C. Schmitt, Il nodo di Gordio. Dialogo su Oriente e Occidente nella storia del mondo,
Bologna 1987, pp. 133-167, qui pp. 150-151.
90
Ivi, pp. 150-151; tr. it., cit., p. 151.
55
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
risiede la pericolosità dell’uomo. Ma nel mettere l’altro uomo fuori dal diritto
e fuori dall’umanità, quindi nell’annientarlo, si annienta se stessi, perché solo
l’altro può essere il mediatore del conoscere se stessi nella dialettica di nemico
e fratello. Infatti, se l’altro è il nemico, in quanto solo lui può mettere in questione il mio proprio modo di vita, ecco che, mettendo l’altro uomo fuori dal
diritto e fuori dall’umanità e non riconoscendolo perciò come nemico, non
posso conoscere neanche me stesso. Proprio di fronte a questa pericolosità, specificamente umana, della dialettica tra annientamento e auto-annientamento,
sorge il diritto fondato sulla dialettica del riconoscimento dell’altro come nemico che mi riconosce a sua volta. Su questa base è possibile limitare la guerra
ma non eliminarla, altrimenti eliminerei il nemico ed ecco che si riaprirebbe
l’abisso di pericolosità dell’uomo.
4. Auto-trasformabilità della natura umana nel marxismo
Fondare o connettere un teoria politica a un assioma antropologico e su
questa base sostenere che la distinzione specificamente politica dell’amico e del
nemico caratterizza la storia del mondo dall’inizio alla fine dei tempi, è una
rappresentazione ideologicamente capovolta relativa a delle fasi determinate
dello sviluppo della produzione sociale degli individui, quelle contraddistinte
dalla divisione del lavoro e dal conseguente antagonismo della classi, fondato
sul rapporto di proprietà privata, che mette gli individui sociali in relazione
antagonistica. Non vi è nulla di assiomatico né nella bontà né nella pericolosità
dell’uomo. Tutti questi caratteri antropologici sono certo naturali, ossia sono
qualità dell’uomo come ente generico, ma proprio in quanto fanno parte della natura umana essi sono continuamente elaborati e trasformati socialmente
dagli individui rispettivamente come materiale, mezzo e oggetto della produzione, in ogni caso come estrinsecazione della loro vita, la quale è naturale,
storica e sociale, senza che tra questi momenti vi sia scissione. Anche dove
quest’ultima compare, essa rappresenta un momento storicamente determinato
di sviluppo dell’unità di natura, storia, individuo e società. Ciò che viene umanamente prodotto è la vita stessa, e il mezzo di produzione con cui la vita viene
prodotta è di nuovo la vita stessa, nel duplice lato, naturale e sociale, nel senso
che si avvale della cooperazione di più individui. In questo duplice rapporto,
dunque, non c’è antitesi tra uomo e natura, perché nell’industria c’è sempre
l’elaborazione della natura da parte degli uomini, insieme con l’elaborazione
56
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
degli uomini da parte degli uomini stessi, e questa continua attività sensibile,
ossia sociale e storica, è la natura stessa degli uomini.
Poiché questa elaborazione della natura (bontà, cattiveria ecc.,) dell’uomo
avviene sempre socialmente, un modo di produrre determinato è sempre legato a
uno stadio determinato di relazioni sociali, quindi muta storicamente a seconda
dello sviluppo degli strumenti di produzione e del materiale costituito dal lavoro
accumulato delle generazioni precedenti. Fino a quando le forze produttive non
si sono sviluppate su base adeguata, ecco che la relazione dell’uomo con la natura,
che è anche relazione dell’uomo con se stesso e della natura con se stessa, si presenta come una lotta dell’uomo con l’uomo, dell’uomo con la natura e della natura con se stessa. In queste fasi, in cui si stanno sviluppando le forze produttive, la
cooperazione tra gli individui, messa in moto socialmente dagli individui stessi,
si presenta come una cooperazione non volontaria ma imposta, quindi non come
il proprio potere unificato ma come una potenza estranea. È questa la fase della
divisione del lavoro, la quale fissa l’attività sociale in modo che la cooperazione
prevede attività determinate ed esclusive, a cui uno è costretto ad attenersi per
necessità se vuole sopravvivere. Questo apparente ergersi dell’attività cooperativa
degli individui come se fosse una potenza estranea ed ostile agli individui stessi
che ne sono gli attori, è però un’apparenza necessaria a sviluppare forze produttive sufficienti per abbatterla. Ebbene, in questa fase si dà la contrapposizione
tra interesse individuale e interesse collettivo, quindi lo Stato o il politico come
apparenza dell’interesse collettivo, autonomo e contrapposto all’interesse degli
individui singoli. Di conseguenza, in una fase di scissioni generalizzate tra forze
e strumenti produttivi, forme di relazioni sociali e coscienza, nasce una teoria
politica apparentemente autonoma, separata dalle altre sfere della vita parimenti
rappresentate come ambiti teorici autonomi, e all’interno delle quali le qualità
umane generiche, ad esempio “buono” e “cattivo”, vengono unilateralizzate in
assiomi contrapposti e ogni sfera della vita vede la contrapposizione a suo modo
e in antitesi all’altra. Nella sfera della teoria politica la scissione si manifesta nella
contrapposizione unilaterale tra decisionismo e anarchismo, e questa contrapposizione rivendica una sua specificità rispetto a quella della teologia, della morale
della pedagogia ecc. Se il politico, o lo Stato, nascono in questa situazione di divisione del lavoro e di unilateralizzazione delle sfere dell’attività umana, è del tutto
conseguente che le teorie politiche si possano classificare in base a presupposti
assiomatici unilaterali e contrapposti.
Quindi si può dire che, tutto sommato, la descrizione di Schmitt del rapporto tra antropologia e politica è coerente entro il suo ambito, a condizione però che
57
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
diamo già per presupposta la divisione del lavoro, da cui nasce quell’assiomatica,
la quale non è perciò nulla di originario, come non lo è la distinzione tra amico
e nemico. Ad un certo grado di sviluppo delle forze produttive, create attraverso
l’industria, con la simultanea creazione della massa dell’umanità priva di proprietà ma sul presupposto di un’enorme ricchezza accumulata, si formano, sia
pure dal lato cattivo, individui universali con relazioni universali ovvero esistenti
solo in modo storico-universale. A queste condizioni storico-universali, create in
negativo dal mercato mondiale, la divisione del lavoro diviene insostenibile grazie
al pieno sviluppo dell’individuo sociale, quindi deve essere fatta saltare insieme
con lo Stato o la politica in genere, ed essendo in tal modo gli uomini posti su un
piano di sviluppo onnilaterale di tutte le loro qualità e capacità, in conseguenza
di ciò cadono tutte le rappresentazioni assiomatiche unilaterali sulla natura umana. Nel momento in cui rende autonomo il criterio del politico rispetto agli altri
ambiti, Schmitt rimane fermo alle unilateralità derivanti dalle scissioni materiali
prodotte dalla divisione del lavoro, da cui la scissione dell’individuo sociale con
le sue qualità generiche sempre rielaborate storicamente, in assiomi antropologici
statici e contrapposti. Ed è allora del tutto coerente con questa considerazione
del politico come ineliminabile dalla natura umana, a sua volta fissata in tipi assiomatici, far cominciare la storia dell’umanità nel cielo della religione con Caino
e Abele, cioè con la dialettica di nemico e fratello, e far proseguire altrettanto
religiosamente questa dialettica fino alla fine dei tempi. La persistenza del criterio
del politico è così saldamente assicurata tra dottrina della creazione e dottrina
dell’escatologia, tra Antico e Nuovo Testamento, cosicché nel tempo intermedio
si pone e si porrà sempre il problema della decisione sull’amico e sul nemico. In
questo modo l’uomo è inchiodato alle sue unilateralità e alle sue scissioni, e non
potrà mai trasformare la propria natura, perché quando lo fa, scatena guerre di
annientamento dell’altro uomo, e così, in base alla dialettica dell’inimicizia assoluta, provoca il suo stesso annientamento in nome della legittimità del nuovo e
della valorizzazione di ogni cosa.
Ma trasformare storicamente la propria natura è la natura stessa dell’uomo.
«La teoria della creazione della terra ha ricevuto un fortissimo colpo […] dalla
scienza che presenta la formazione, il divenire della terra come un processo, come
una generazione spontanea. La generatio aequivoca è l’unica confutazione pratica
della teoria della creazione»91. E poiché uomo e natura sono solidali e la loro
91
K. Marx, F. Engels Werke, Ergänzungsband, cit., p. 545; tr. it., cit., pp. 123-124.
58
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
opposizione è solo l’apparenza creata da un insufficiente sviluppo di forze produttive umane ad opera dell’uomo stesso, l’autogenerazione della natura comprende
anche quella dell’uomo: «Siccome per l’uomo socialista tutta la cosiddetta storia
del mondo non è altro che la generazione dell’uomo mediante il lavoro umano,
null’altro che il divenire della natura per l’uomo, egli ha la prova evidente, irresistibile, della sua nascita mediante se stesso, del processo della sua origine»92 il che
rende praticamente impossibile l’esistenza di un ente estraneo.
La possibilità della soppressione dello Stato, e con esso del carattere politico
del pubblico potere e delle relazioni sociali, come conseguenza della soppressione dell’antagonismo delle classi e della divisione del lavoro, non presuppone
un’antropologia assiomatica dell’uomo buono per natura, perché l’uomo continuamente rielabora le condizioni naturali entro cui si trova, e nella fase della
divisione del lavoro le unilateralizza, spezzando successivamente quelle unilateralità grazie a un’azione storica che passa anche per una fase di rivoluzione
politica. Perciò non si tratta di misconoscere le dimensioni di pericolosità, cattiveria ecc., ma di vederle e trattarle storicamente. La dimensione politica delle
relazioni sociali è caratteristica di alcune fasi della produzione umana, perciò
bontà e cattiveria umane non hanno sempre avuto, né devono per sempre avere
un significato politico. Tale significato lo assumono solo in una fase specifica
della storia in cui sono rielaborate e riprodotte in un determinato modo conseguente alla divisione del lavoro. Infatti, Engels, quando mostra l’origine dello
Stato nella sua differenziazione dalla costituzione gentilizia dei clan, delle tribù
ecc., dice che il suo primo segno distintivo è l’organizzazione territoriale che
non è nulla di naturale, come a noi sembra essendoci ad essa abituati da secoli,
ma è frutto di una lunga lotta. Il secondo segno distintivo è «l’istituzione di
una forza pubblica che non coincide più direttamente con la popolazione che
organizza se stessa come potere armato»93 e che comprende anche appendici
come le prigioni ecc. Questi distaccamenti particolari armati sono caratteristici
specificamente dello Stato, di ogni Stato, ed è questo il punto che lo differenzia
dalla costituzione gentilizia, ossia dalla situazione di assenza di Stato, dove c’è
un’organizzazione armata autonoma della popolazione che mantiene l’ordine.
Come si vede, prima dello Stato ossia del potere politico, non c’è la guerra di
tutti contro tutti, il caos e la barbarie, ma c’è un altro tipo di organizzazione,
92
93
Ivi, p. 546; tr. it., cit., p. 125.
F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, cit., pp. 200-201.
59
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
possibile come armamento autonomo della popolazione, per amministrare appunto gli eccessi, le pericolosità antropologiche ecc., le quali perciò non hanno
ancora carattere statale ossia politico. Quando assumono tale carattere politico,
ecco che l’apparato che amministra la violenza e tiene a freno gli eccessi, si
organizza non più come autonoma struttura della popolazione, ma come un
distaccamento speciale che nasce dalla società e si eleva al di sopra di essa. Ma
perché avviene questo? Risponde Engels: «Perché un’organizzazione armata autonoma della popolazione è divenuta impossibile dopo la divisione in classi»94.
Lenin sottolinea molto, in questa osservazione di Engels, la centralità della
differenza tra l’organizzazione armata autonoma della popolazione della costituzione gentilizia e il distaccamento particolare di uomini armati che segna il
carattere del potere statale, il quale si eleva al di sopra della società e non coincide più con essa. Egli dice che Engels, quando elaborò queste tesi, si rivolgeva
ad europei della seconda metà del diciannovesimo secolo i quali non avevano
vissuto da vicino l’esperienza di una rivoluzione e perciò non potevano comprendere che cosa fosse un’organizzazione armata autonoma della popolazione
e come nascessero i distaccamenti particolari di uomini armati. E subito dopo
polemizza con «i filistei dell’Europa occidentale»95 i quali, alla domanda su
come sorge questa organizzazione posta al di sopra della società, «tirano in ballo la crescente complessità della vita sociale, la differenziazione delle funzioni
ecc.»96, ma in tal modo occultano la questione fondamentale della formazione
di questo distaccamento di uomini armati e cioè «la scissione della società in
classi inconciliabilmente nemiche»97. In questo discorso di Engels e di Lenin
sull’origine dello Stato emerge chiaramente che i raggruppamenti amico-nemico non sono nulla di originario, ma procedono dalla formazione delle classi, ed
è da queste e non dall’autonomo criterio del politico, che si comprende lo Stato,
inscindibilmente legato alla struttura di classe della società, la quale è qualcosa
che si produce storicamente. Infatti, continua Lenin: «Se non ci fosse questa
scissione, “l’organizzazione armata autonoma della popolazione” differirebbe
per la sua complessità, per la sua tecnica progredita, ecc. dall’organizzazione
primitiva d’un branco di scimmie armate di bastoni, o da quella di uomini pri-
94
95
96
97
Ibid.
V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 64.
Ibid.
Ibid.
60
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
mitivi associati in clan, ma tuttavia sarebbe possibile»98. Non necessariamente
dunque la pericolosità dell’uomo porta allo Stato e al potere politico, perciò
essa non è un assioma, ma solo una qualità naturale umana che viene elaborata
come tutte le altre dagli individui associati a seconda del determinato stadio
raggiunto dalla loro produzione e dalle corrispondenti relazioni sociali. In uno
stadio della produzione sociale non ancora progredito è possibile farvi fronte
con un’organizzazione armata autonoma della popolazione senza che si crei un
distaccamento di uomini armati e quindi uno Stato, dunque senza che il rapporto sociale assuma carattere politico.
Quando la società sviluppa una tale quantità e qualità di forze produttive e
di cooperazione sociale interviene la divisione del lavoro e con essa la ripartizione
ineguale del lavoro e dei prodotti del lavoro tra i diversi individui della società,
allora si formano le classi. Certamente si può parlare di una crescente complessità della vita sociale, di differenziazione delle funzioni ecc., ma non in senso
generico, bensì come una complessità e una differenziazione di tipo determinato,
ossia caratterizzata dalla produzione sociale antagonistica e quindi dal dominio
di classe. In questo stadio classista raggiunto dalla differenziazione della vita sociale, si formano i distaccamenti speciali di uomini armati, quindi il pubblico
potere assume carattere politico o statale. Lenin mostra la netta distinzione tra
l’organizzazione armata autonoma della popolazione e i distaccamenti particolari
di uomini armati, espressione della divisione della società in classi contrapposte,
attraverso l’esempio delle rivoluzioni. In ogni rivoluzione si vede chiaramente
come, distrutto l’apparato statale, la classe dominante si sforzi sempre di ricostruire questi distaccamenti di uomini armati che la servano, e la classe oppressa
cerchi di fare altrettanto costruendo parimenti dei distaccamenti particolari di
uomini armati che però servano non più gli sfruttatori ma gli sfruttati. In ogni
caso anche l’azione della classe dominata che fa una rivoluzione ha un carattere
politico, e questo è inevitabile dato che anche la classe dominata è una classe, e la
politica esiste perché nella società esistono le classi. Come abbiamo letto più sopra da Marx, in Miseria della filosofia, solo in un ordine di cose dove non ci saranno più classi, le trasformazioni sociali non avranno più il carattere di rivoluzioni
politiche. Ma finché ci sono delle rivoluzioni, queste hanno sempre un carattere
politico, perché, anche quando mirano a distruggere l’intera struttura di classe
della società, esse sono sempre collisioni violente tra classi, cioè tra soggetti che
98
Ibid.
61
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
sono l’unica ragione di esistenza di ogni politica. Pertanto, fino a che vi sono le
classi, ci sono distaccamenti particolari di uomini armati al di sopra della società
e non c’è un’organizzazione armata autonoma della popolazione. Ebbene, solo in
questa fase di sviluppo del rapporto dell’uomo con la natura, ovvero con se stesso e
della natura con se stessa, la pericolosità dell’uomo viene tradotta unilateralmente
in assioma antropologico ed elevata, nell’immaginazione, a fondamento teorico
del potere politico. Infatti la teoria di Schmitt, secondo cui lo Stato presuppone
il concetto di politico, il quale resta pertinente anche dopo la fine del suo monopolio da parte dello Stato moderno, fu possibile solo quando una classe come
quella proletaria, dopo il 1848 e nella prima metà del secolo XX, pose il problema dell’abolizione di tutta l’organizzazione sociale fondata sull’antagonismo di
classe e quindi anche del carattere politico del pubblico potere, ma necessariamente attraverso una rivoluzione e il suo diventare classe dominante. Mentre
però nella prospettiva marxista questa fase di persistenza del dominio politico
deve portare alla fine di ogni politica insieme col cessare delle classi, ivi compresa la classe proletaria, per Schmitt questa fase non costituisce la transizione a
un’altra in cui il pubblico potere perderà il suo carattere politico, ma caratterizza
solo un mutamento epocale dei raggruppamenti amico-nemico. Ciò comporta
la persistenza della tesi assiomatica della pericolosità dell’uomo e della centralità
del caso di eccezione, mentre nella prospettiva marxista questa pericolosità non
ha niente di assiomatico, perché tale carattere lo acquista nella fase storica in cui
viene interpretata politicamente, data l’esistenza di determinate condizioni sociali antagonistiche della produzione.
Con la soppressione rivoluzionaria della divisione del lavoro, divenuta un
ostacolo per le forze produttive che pure si erano sviluppate mediante quella,
quindi con la soppressione rivoluzionaria della società divisa in classi antagonistiche, ivi compreso il proletariato come classe, i distaccamenti particolari di
uomini armati posti al di sopra della società non hanno più ragion d’essere. Ciò
non vuol dire affatto che quegli elementi psicologici, antropologici ecc. di pericolosità perdano il loro significato, ma, dove la base classista e la sovrastruttura
politica della società scompaiono, essi non sono più trattati unilateralmente e
assiomaticamente per legittimare la necessità del dominio politico, bensì vengono elaborati e organizzati liberamente da individui sociali pienamente in
grado di farlo.
Soltanto nella società comunista, quando la resistenza dei capitalisti è definitivamente
spezzata, quando i capitalisti sono scomparsi e non esistono più classi (non v’è cioè più
62
1. «Il pubblico potere perderà il suo carattere politico»
distinzione fra i membri della società secondo i loro rapporti coi mezzi sociali di produzione), soltanto allora “lo Stato cessa di esistere e diventa possibile parlare di libertà”.
Soltanto allora diventa possibile e si attua una democrazia realmente completa, realmente senza alcuna eccezione. Soltanto allora la democrazia comincia a estinguersi, per
la semplice ragione che, liberati dalla schiavitù capitalistica, dagli innumerevoli orrori,
barbarie, assurdità, ignominie dello sfruttamento capitalistico, gli uomini si abituano a
poco a poco a osservare le regole elementari della convivenza sociale, da tutti conosciute da secoli, ripetute da millenni in tutti i comandamenti, a osservarle senza violenza,
senza costrizione, senza sottomissione, senza quello speciale apparato di costrizione che
si chiama Stato99.
E allora, come non si dà una tesi assiomatica sulla cattiveria dell’uomo, che
renderebbe il politico inevitabile da Caino e Abele fino alla fine dei tempi, allo
stesso modo non si dà neanche una tesi assiomatica sulla bontà naturale dell’uomo che riaffiorerebbe dallo stato di natura una volta soppresso lo Stato, magari
dall’oggi al domani. Nell’orizzonte dell’uomo che produce il suo sviluppo come
individuo sociale, la capacità di osservare le regole della convivenza sociale liberamente e senza costrizione non è un dato naturale originario, ma è frutto di un
lungo processo di elaborazione storica, quindi dell’abitudine, la quale in tal senso
è un fatto assolutamente dinamico, di modo che non c’è contraddizione tra abitudine alla convivenza e libertà dell’individuo.
99
Ivi, pp. 163-164.
63
2.
«Illusione religiosa» e «feticismo della merce»
tra Ludwig Feuerbach e Karl Marx
1. L’oggetto della religione è fatto dall’uomo stesso
Secondo Ludwig Feuerbach «il segreto della religione»1 consiste nel fatto
che «l’uomo oggettiva a sé il proprio essere e poi di nuovo si rende oggetto di
questa essenza oggettivata, convertita in un soggetto; egli si pensa, è oggetto a se
stesso, ma come oggetto di un oggetto, di un altro ente»2. Nella religione, dunque,
si verifica un’inversione di soggetto e oggetto. Seguiamo con Feuerbach quest’inversione nella sua fenomenologia e nella sua genesi.
La coscienza di un oggetto sensibile è qualcosa di diverso dalla coscienza
di sé, ma nella religione la coscienza dell’oggetto religioso coincide immediatamente con l’autocoscienza, perché la religione è la coscienza che l’uomo ha
della sua essenza, la quale è oggettivata in un ente altro dall’uomo. La religione
è l’autocoscienza umana che – ecco l’inversione da spiegare – diventa coscienza
di un oggetto altro da sé. La ragione di questa differenza sta nel fatto che gli
oggetti sensibili sono indifferenti alla coscienza perché si danno in se stessi,
mentre l’oggetto religioso presuppone un giudizio “critico” nel senso etimologico del termine, ossia una distinzione, una “separazione”, tra ciò che è divino e
ciò che non lo è. Ma così l’oggetto scelto “criticamente”, ossia frutto del discernimento del soggetto, «non è altro che l’essenza oggettiva del soggetto stesso»3.
Pertanto, Dio, ossia l’oggetto della religione quale deriva dal giudizio critico
che distingue divino e non divino, è solo l’oggettivazione del modo in cui
l’uomo pensa, vuole e sente, cioè l’oggettivazione di facoltà, di attributi umani
che, appunto in quanto caratteristici dell’uomo, sono “giudicati” come divini.
Perciò Dio non è altro che la coscienza di sé dell’uomo come uomo: «Dio è l’interno dell’uomo rivelato, il suo sé espresso, la religione è il solenne disvelarsi dei
1
2
3
L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, tr. it. di F. Tomasoni, Roma-Bari 2006, p. 47.
Ibid.
Ivi, p. 36.
65
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
tesori nascosti dell’uomo, l’ammissione dei suoi più intimi pensieri, la pubblica
confessione dei suoi segreti d’amore»4.
Quando qui si parla dell’“uomo” si intende l’uomo come “genere”. Infatti,
per Feuerbach l’uomo ha una vita duplice, esteriore come individuo e interiore
come genere. Considerato sotto questo profilo del genere, egli ha un’essenza infinita espressa appunto nella religione, il cui oggetto è infinito ed è niente altro
che l’essenza dell’uomo fatta presente a se stesso nella coscienza, ma capovolta in
coscienza di un oggetto estraneo. Così non avviene in un essere come l’animale,
che vive solo la vita individuale, non quella del genere, e la cui essenza è davvero
finita, perciò non può avere in senso stretto “coscienza”, perché quest’ultima si
identifica con la coscienza dell’infinito, a meno che non si intenda “coscienza” nel
senso lato di facoltà di percepire le cose esteriori, distinguere sensibilmente, nel
qual caso la si può attribuire anche agli animali. Poiché non si potrebbe avere coscienza dell’infinito se il soggetto che ha coscienza non fosse esso stesso infinito,
ed essendo qui il soggetto di questa coscienza dell’infinito (che poi è coscienza di
sé o autocoscienza) l’uomo come genere, l’essenza infinita dell’uomo, di cui egli
ha coscienza e che costituisce il suo genere, dunque l’autocoscienza dell’uomo
come genere, è data dalla “trinità” di ragione, volontà o libertà, e sentimento o
cuore. Questi attributi dell’uomo sono le facoltà o perfezioni del suo genere e, in
quanto perfette, esistono ciascuna di per se stessa, ossia la ragione esiste in vista
della ragione, la volontà in vista della libertà e il sentimento in vista dell’amore.
Inoltre, essendo perfezioni inerenti all’uomo come genere, esse «non sono facoltà
che l’uomo possieda – infatti senza di loro non sarebbe nulla, egli è ciò che è solo
per mezzo loro; ma […] sono forze che lo animano, determinano, dominano – forze divine, assolute, cui non può opporre resistenza»5, come accade quando non si
può resistere alla forza dell’amore, dei suoni, alla stringenza logica del pensiero
o all’energia della volontà che si impone quando, grazie ad essa, si consegue una
vittoria su se stessi.
Un soggetto si riferisce sempre a un oggetto, ma l’oggetto in questione è la
manifestazione dell’essenza di quel soggetto resa oggettiva. Feuerbach fa l’esempio del rapporto dei pianeti con il sole: quest’ultimo è differente rispetto ad ogni
pianeta, e non per un effetto di apparenza prospettica, ma perché l’intensità, la
forza, la luminosità con cui esso scalda e illumina un pianeta, esprime il rapporto
4
5
Ivi, p. 37.
Ivi, pp. 27-28.
66
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
di quel pianeta con la sua propria essenza6. Perciò il pianeta uomo, come ogni
altro soggetto, è nulla senza oggetto – come testimonia la vita dei grandi uomini,
i quali furono dominati dall’unica passione di realizzare il fine che costituiva
l’oggetto della propria esistenza – e l’oggetto è la manifestazione della sua stessa essenza. Quindi l’oggetto, il sole a cui l’uomo si riferisce, non è altro che la
propria essenza, per cui la coscienza che l’uomo ha dell’oggetto non è altro che
la coscienza che egli ha di se stesso. Nell’uomo inteso come genere la coscienza
si identifica, perciò, con l’autocoscienza, ma l’autocoscienza qui, a mio avviso,
non è da intendersi in senso idealistico, bensì materialistico, in quanto coscienza
oggettiva, ossia coscienza di facoltà essenziali che si impongono in assoluto e che,
in quanto assolute, sono la manifestazione della sua forza essenziale. Il punto è
che il soggetto è sempre costitutivamente oggettivo, non è niente altro che le sue
oggettivazioni, le quali, proprio in quanto oggettive, sono manifestazioni delle
facoltà costitutive del soggetto, della sua essenza. Per illustrare questo punto con
l’esempio di Feuerbach, un raggio di luce scuote un animale per quel tanto che
tocca immediatamente la sua vita, e questo rapporto del soggetto con l’oggetto è
qui conforme espressione dell’essenza limitata, finita dell’animale stesso; l’oggetto è manifestazione adeguata e perfetta della sua forza essenziale. Nell’uomo anche le stelle più lontane sono oggetto del suo sguardo, perché esse non sono viste
da lui sotto l’aspetto dell’utilità o della dannosità, ma come oggetto di contemplazione, e in questo rapporto con l’oggetto egli esprime la sua natura contemplativa, dunque una sua facoltà; allo stesso modo l’oggetto amato esprime la forza
della facoltà di amare, il suono ricco di contenuto esprime la forza del sentimento
e, muovendo il sentimento, questo oggetto è sentimento (soggetto) che muove se
stesso: «Di qualsiasi oggetto […] diventiamo […] coscienti, abbiamo sempre nel
contempo coscienza anche della nostra propria essenza. Non possiamo attuare
nient’altro senza attuare noi stessi. E poiché volere, sentire, pensare, sono perfezioni, attuazioni, realtà, è impossibile sentire o percepire come facoltà limitata,
finita, cioè nulla la ragione con la ragione, il sentimento col sentimento, la volontà
con la volontà»7. Se l’essenza che si manifesta nell’oggetto, ovvero l’oggetto della
ragione, della volontà e del sentimento sono rispettivamente la stessa ragione,
volontà e sentimento, queste sono perfezioni le quali, perciò, non possono essere
Feuerbach intende qui la differenza non apparente, ma come un vero “essere altro”, in senso
fisico, non astronomico e scientifico.
7
Ivi, p. 30.
6
67
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
finite, ma infinite: «Finitezza e nullità si identificano […]. È […] impossibile che
prendiamo coscienza della volontà, del sentimento, della ragione come di forze
finite giacché ogni perfezione, ogni facoltà ed essenza originaria è immediato
avverarsi e confermarsi. Non si può amare, volere, pensare senza avvertire come
perfezioni queste attività, non si può percepire di essere un’essenza che ama, vuole, pensa senza sentirne una gioia infinita. Coscienza è, da parte di un’essenza,
esser-oggetto-a-se-stessa, non è perciò nulla di separato, di distinto, dall’essenza
cosciente di sé. Come potrebbe altrimenti esser cosciente di sé? È perciò impossibile essere coscienti di una perfezione come se fosse un’imperfezione, impossibile
avvertire il sentimento come limitato, impossibile pensare il pensiero come limitato»8. Va ribadito che qui l’infinità e la perfezione sono attributi costitutivi dell’essenza dell’uomo, quindi dell’uomo come genere, non come individuo singolo, il
quale certamente è e deve riconoscersi come finito e limitato. Ma proprio questo
riconoscersi come finito e limitato comporta contemporaneamente la coscienza
di sé come genere, ossia la coscienza della perfezione e infinità dell’uomo. Infatti, senza tale coscienza l’individuo non potrebbe sentirsi e riconoscersi come
limitato, quindi imperfetto e perciò tale da dovere realizzare la sua destinazione
generica di uomo.
Da quanto detto fin qui sull’essenza dell’uomo, consegue che tutto quanto,
dal punto di vista della speculazione di tipo trascendente, metafisica, religiosa, è
inteso come mezzo o come organo – ad esempio, quando si dice che il sentimento
è l’organo della religione – viceversa, dal punto di vista della verità scientifica e
filosofica, è ciò che è primordiale, ciò che costituisce l’essenza e l’oggetto stesso.
Nell’esempio della religione, il sentimento stesso, facoltà dell’uomo come genere,
è, proprio in quanto tale, qualcosa di divino9, mentre, dal punto di vista della
religione ortodossa, esso è ateo, perché la fede ortodossa lega la religione a un
oggetto esteriore. L’uomo che si muove all’interno della religione, non ha affatto
consapevolezza che la coscienza di Dio è in realtà la coscienza della propria essenza umana, quindi la sua stessa autocoscienza. Questo punto non è accidentale,
anzi, «la mancanza di questa consapevolezza fonda appunto la differentia specifica
8
Ibid.
Ciò si vede particolarmente, secondo Feuerbach, quando il sentimento viene visto come essenza soggettiva della religione, facendo perdere all’oggetto religioso come tale il suo valore
oggettivo. Se questo valore si conserva, si mantiene solo grazie al sentimento, il quale diventa
sempre più importante rispetto all’oggetto, mentre se quest’ultimo cambiasse e fosse in grado di
suscitare la stessa pienezza di sentimento, «sarebbe altrettanto benvenuto» (ivi, p. 33).
9
68
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
della religione»10, è caratteristica proprio del tipo di consapevolezza dell’uomo religioso, ragion per cui bisogna dire, più correttamente, che la religione è la prima
consapevolezza che l’uomo ha di sé, in modo però indiretto; infatti nello sviluppo
dell’uomo essa precede storicamente la filosofia. «L’uomo traspone anzitutto la
sua essenza fuori di sé, prima di trovarla in sé. La propria essenza gli è dapprima
oggetto come un’altra essenza»11. Tutto il procedere storico dell’umanità verso
la coscienza di sé è caratterizzato dal fatto che ogni religione successiva vede, in
quello che la religione precedente riconosceva come oggetto dotato in sé di esistenza fuori dell’uomo, una creazione dell’uomo stesso, un qualcosa di soggettivo
di cui egli non era consapevole; ma essa non riconosce a se stessa questo limite
che imputa alle altre religioni precedenti. Perciò essa ritiene idolatre tutte le altre
religioni eccetto se stessa, il cui proprio oggetto sarebbe invece vero e autenticamente divino, ma non nel senso di facoltà generica dell’uomo, bensì, di nuovo,
come un’essenza che essa a sua volta pone fuori dell’uomo e dota di vita propria.
Così, secondo Feuerbach, da un lato ogni stadio di evoluzione della coscienza religiosa rappresenta un progresso verso la conoscenza di sé sempre più profonda da
parte dell’uomo; ma dall’altro lato anche la religione più progredita, che accusa
la precedente di idolatria, rimane pur sempre una religione, ossia sta nelle leggi
interne di quest’ultima. Pertanto, la pretesa di criticare le religioni precedenti
per avere oggettivato fuori del soggetto ciò che invece è un’oggettivazione del
soggetto stesso, nasce solo dal fatto che la religione più progredita «ha un altro
oggetto, un altro contenuto [;] giacché si è elevata al di sopra del contenuto delle
precedenti, si illude di essere al di sopra delle leggi necessarie ed eterne che costituiscono l’essenza della religione, si illude che il suo oggetto, il suo contenuto sia
oltreumano»12. Per cogliere dunque in pieno il fondamento soggettivo, umano
dell’oggettivazione religiosa come trasposizione fuori di sé dell’essenza dell’uomo,
quindi per ritrovare in se stesso l’essenza dell’uomo, occorre uscire dalle “leggi”
dell’oggettivazione religiosa. Questo è ciò che fa la filosofia.
Dal punto di vista del pensiero filosofico, «l’opposizione fra il divino e l’umano è assolutamente illusoria e […] di conseguenza anche l’oggetto e contenuto
della religione cristiana»13, vale a dire della religione più progredita, «è assoluta-
10
11
12
13
Ivi, p. 37.
Ibid.
Ivi, pp. 37-38.
Ivi, p. 38.
69
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
mente umano»14. Infatti la religione cristiana, che vede nelle religioni precedenti
l’oggettivazione, in un ente oggettivo fuori dell’uomo, di qualcosa che invece è
soggettivo, per cui mostra come illusoria l’opposizione tra divino e umano che si
crea all’interno di queste religioni, è anche essa soggetta alle leggi essenziali della
religione, vale a dire la sua critica dipende solo dal fatto che il suo oggetto si è
elevato al di sopra del contenuto degli oggetti delle religioni precedenti, ma nondimeno rimane un oggetto religioso, sia pure a uno stadio evoluto della coscienza
che l’uomo ha di sé.
La religione, almeno quella cristiana, è il rapporto dell’uomo con se stesso o, più esattamente, con la sua essenza (e questa soggettiva), ma tale rapporto con la sua essenza è
come un’essenza diversa da lui. L’essenza divina non è altro che l’essenza umana o, meglio,
l’essenza dell’uomo, purificata, liberata dai limiti dell’individuo, obiettivata, cioè intuita e adorata come un’altra essenza, da lui distinta, particolare – tutte le determinazioni
dell’essenza divina sono perciò determinazioni umane15.
Poiché un’essenza non può essere altro che un’essenza determinata – altrimenti, se priva di determinazioni è nulla –, non si può, da un lato, affermare che le determinazioni divine sono in realtà determinazioni umane trasposte
in un’essenza fuori dell’uomo e, dall’altro lato, lasciar sussistere l’essenza divina in sé, ritenendola come inconoscibile, perché ogni esistenza reale è qualitativa, determinata, finita, e avere il coraggio di esistere è avere il coraggio della
determinazione. Infatti, l’atteggiamento che ammette l’antropomorfismo delle
determinazioni divine, ma vuol salvare l’esistenza divina in sé dichiarandola inconoscibile o determinabile negativamente, è solo un modo per liberarsi dalla
religione volendone mantenere la parvenza. Non a caso, osserva Feuerbach, «l’assenza di determinazioni e, cosa che vi si identifica, l’inconoscibilità di Dio è […]
solo frutto del tempo moderno, prodotto dell’incredulità moderna»16, mentre un
uomo veramente religioso non ammetterebbe mai un Dio privo di determinazioni e inconoscibile, perché così non sarebbe un’essenza reale. Analogamente,
non ha senso mantenere le determinazioni divine sulla base della distinzione
tra ciò che Dio è “in sé” e ciò che egli è “per me”, dichiarando, così, il valore in
14
15
16
Ibid.
Ibid.
Ivi, pp. 38-39.
70
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
sé di quelle denominazioni, ma ammettendone la necessità per le esigenze della
rappresentazione umana. Infatti, la differenza tra ciò che un oggetto è in sé e ciò
che esso è per me, avrebbe un senso solo se l’oggetto potesse apparirmi effettivamente in modo diverso. Ma, nel caso di questa distinzione, la misura del “per
me”, vale a dire il criterio di obbiettività delle determinazioni divine, è l’uomo
come genere, al quale la rappresentazione religiosa corrisponde; e poiché il genere
è per l’uomo l’assoluto, vale a dire ciò di cui non si può immaginare un’essenza
più alta, allora anche le determinazioni divine in quanto determinazioni “per
me” (nel senso di “per me come genere”, non come soggettivamente individuo)
sono determinazioni di un ente perfettissimo quale esso è veramente, dunque
sono determinazioni dell’essenza divina. Infatti, la religione è convinta che le rappresentazioni di Dio sono determinazioni conformi non all’apparenza, ma alla
realtà di Dio. Le determinazioni di Dio proprie delle altre religioni sono, per la
religione in questione, idolatrie o antropomorfismi inadeguati a ciò che Dio veramente è, ma le determinazioni che essa ha di Dio sono perfettamente adeguate,
anzi sono Dio stesso: «Dio, qual essa se lo rappresenta, è il Dio autentico, vero, il
Dio qual è in sé […]. La religione non vuole una mera apparizione di Dio; vuole
Dio stesso, Dio in persona. La religione cede se stessa se cede l’essenza di Dio […].
La distinzione fra oggetto e rappresentazione, fra Dio in sé e Dio per me è una
distinzione irreligiosa, scettica»17, quindi nemica della religione. Infatti, secondo
Feuerbach, una volta che si è insinuata la distinzione tra predicati religiosi come
antropomorfismi, sia pur necessari alla relazione dell’uomo con Dio, ed esistenza
di Dio come indipendente da questi predicati, si finisce di necessità col negare la
stessa esistenza di Dio, giacché, come abbiamo visto, un’essenza non è nulla senza
predicati, attributi, determinazioni, oggettivazioni.
Questo passaggio mi sembra molto importante e originale vista la maniera
in cui Feuerbach declina un tema già precedentemente più volte affrontato da
correnti del pensiero filosofico circa l’antropomorfismo della religione. In primo
luogo – a conferma dell’affermazione per cui ogni religione è convinta che le sue
rappresentazioni di Dio siano corrispondenti alla realtà stessa di Dio, a differenza
di quelle delle altre religioni, dove si avrebbero l’inadeguatezza e l’antropomorfismo dei predicati –, si può ricordare che per Lutero “Dio in sé” è niente altro
che “Dio per me”, e Feuerbach stesso è consapevole di questa tesi del teologo
cristiano. In secondo luogo, l’affermazione secondo cui il genere è la misura degli
17
Ivi, p. 41.
71
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
attributi divini – cosicché se questi corrispondono al genere, la rappresentazione di ciò che Dio è per me è assoluta, quindi corrisponde a ciò che Dio è in sé
(in quanto è solo oggettivazione del genere) – mostra chiaramente che il punto
capitale di questa indagine genetica sulla religione è l’adozione della prova ontologica, che Feuerbach trasferisce all’uomo come genere. Infatti, argomenta Feuerbach, per l’uomo “l’essere in sé” è l’essere di cui non ci si può rappresentare nulla
di più alto, e appunto questo corrisponde all’essenza divina. Perciò è insensato
chiedergli, di un oggetto, cosa esso sia in sé, perché cosa un oggetto è “in sé”, è
anche “per me”, ossia per l’uomo come genere. Feuerbach, utilizzando a sua volta,
come gli abbiamo visto fare anche in altri casi, un antropomorfismo a proposito
di esseri diversi dall’uomo, dice che se Dio fosse l’oggetto per un uccello, la sua
essenza apparirebbe determinata soltanto come alata, e questa rappresentazione
che l’uccello ha di Dio come essenza alata sarebbe la realtà stessa di Dio, perché «per l’uccello l’essenza suprema è appunto quella dell’uccello»18, togliendo la
quale scomparirebbe la rappresentazione stessa dell’essenza suprema. Certamente
questo argomento per cui se un animale avesse una religione si rappresenterebbe Dio a sua immagine, è un classico dell’interpretazione della religione come
antropomorfismo. Tuttavia, in Feuerbach mi sembra importante l’accento posto
sull’inerenza delle determinazioni al soggetto, dell’essenza all’esistenza, della rappresentazione alla realtà, quindi, come dicevo, il peso dell’argomento ontologico
nel porre l’uomo all’origine della religione.
Se, per quanto abbiamo visto, non si possono staccare le determinazioni di
un’essenza dall’essenza stessa, quindi non si può distinguere il “Dio per me” dal
“Dio in sé”, e se l’essenza divina in sé è solo l’essenza dell’uomo come genere, oggettivata come un’altra essenza distinta e particolare, ne consegue che anche l’esistenza
di Dio, ossia del soggetto di queste determinazioni, ha un carattere antropomorfico, quindi ha un presupposto umano. La credenza nell’amore, bontà, saggezza ecc.
divine si fonda sul fatto che l’uomo stesso ama, vuole, sa, e non conosce nulla di
più alto che amore, saggezza e bontà come perfezioni del suo genere; quest’ultimo
è divino perché l’intelletto umano si estende fin dove si estende la sua essenza, il
che significa le sue determinazioni, le quali costituiscono per lui la misura assoluta:
ebbene, tutto ciò vale anche per l’esistenza divina, la quale fonda la sua certezza e
indubitabilità sull’esistenza del soggetto umano (si parla sempre del genere). Infatti,
ciò che vale per i predicati vale anche per il soggetto, perché
18
Ibid.
72
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
la necessità del soggetto sta solo nella necessità del predicato. Tu sei soggetto solo come
soggetto umano. La certezza e realtà della tua esistenza sta solo nella certezza e realtà
delle tue proprietà umane. Ciò che è il soggetto, sta solo nel predicato; il predicato è
la verità del soggetto […]. Soggetto e predicato si distinguono solo come esistenza ed
essenza. La negazione dei predicati è perciò la negazione del soggetto […]. È unicamente la
realtà del predicato a fornire la garanzia dell’esistenza19.
Infatti, l’uomo religioso non considera i predicati come rappresentazioni o
immagini che l’uomo si fa di Dio, distinte dall’esistenza stessa di Dio, nella quale
invece consisterebbero la verità e realtà della religione. Viceversa, egli considera le
determinazioni di Dio, quali amore, misericordia, bontà e anche la collera, come
realtà di Dio stesso. Proprio questo atteggiamento dell’uomo autenticamente religioso, che respinge la presunzione dell’intelletto, per il quale gli attributi divini
sarebbero degli antropomorfismi, mostra con chiarezza che le determinazioni
divine sono determinazioni del soggetto umano, la cui realtà sta nei predicati, e
sono questi ultimi la garanzia della sua esistenza come soggetto. Di conseguenza
non solo le determinazioni divine (bontà, amore, saggezza ecc.) sono determinazioni umane oggettivate in un’essenza fuori dell’uomo, ma la stessa esistenza,
dunque lo stesso soggetto divino, è null’altro che il soggetto umano stesso, oggettivato in un soggetto e intuito come altro dall’uomo; e ciò avviene proprio e
solo in quanto è avvenuto lo stesso trasferimento a livello dei predicati. Non è
infatti un caso che le determinazioni più caratterizzanti la religione, siano non
di tipo astratto ma personale (Dio è persona, legislatore morale, buono, giusto,
misericordioso ecc.), e che in queste determinazioni prevalga la dimensione affettiva in opposizione e scandalo all’intelletto che le nega nella riflessione. Ma
appunto queste determinazioni sono essenziali alla certezza dell’esistenza stessa
di Dio, la quale sarebbe nulla senza quei predicati personali, a riprova del fatto
che la vera essenza della religione, in particolare del cristianesimo, è antropologica più che antropomorfica. Infatti, le determinazioni e quindi l’esistenza divina,
sono determinazioni e quindi esistenza umana, perché per l’uomo l’esistenza sta
nell’essenza, la verità del soggetto sta nei predicati, e la religione esprime questa
caratteristica essenziale dell’uomo come genere, sia pure oggettivata in un ente
estraneo, proprio nel non conoscere l’antropomorfismo della distinzione tra predicati come rappresentazioni o immagini, da un lato, e soggetto come esistenza
19
Ivi, pp. 42-43.
73
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
reale, dall’altro. Il voler distinguere tra i predicati divini, considerandoli come
antropomorfismi, e l’esistenza divina come necessaria e assolutamente certa, dipende dal fatto che la coscienza che l’uomo ha della sua esistenza come soggetto,
si dà come una certezza immediata, quindi la necessità dell’esistenza di Dio è
soltanto l’oggettivazione che l’uomo fa di questa certezza immediata della sua
esistenza intuita come in un essere altro da lui; viceversa, i predicati di Dio sono
mediati dall’attività del pensiero, dall’autocoscienza dell’uomo, perciò egli può
più facilmente ritenerli come creazione umana. Ma questa differenza è apparente,
dato che, come abbiamo visto, il soggetto umano non è nulla senza oggetto, attributi, determinazioni, ragion per cui se gli attributi di Dio sono attributi umani,
anche l’esistenza di Dio è l’esistenza umana oggettivata in un altro essere.
2. L’uomo oggettiva il proprio essere in un altro e poi se ne rende oggetto: la
famosa immagine della sistole e della diastole come caratteristica della religione
Feuerbach ritiene assolutamente peculiare della religione un processo che,
con una sua famosa metafora tratta dalla fisiologia, si può descrivere come di
sistole e diastole, ossia, da un lato, di repulsione, caratteristico della circolazione
arteriosa, per cui il sangue viene spinto lontano dal cuore, dall’altro lato, di attrazione, caratteristico della circolazione venosa, per cui il sangue ritorna e viene
attratto dal cuore da cui è partito. «Dio è la più soggettiva essenza dell’uomo
separata e dissociata»20, ossia un’essenza «che l’uomo ha distinto e isolato da sé»21.
«Quindi l’uomo non può agire da se stesso, bensì ogni bene gli viene da Dio.
Quanto più Dio è soggettivo»22, vale a dire «quanto più è umano»23, «tanto più
l’uomo si aliena della sua soggettività»24, ossia «della sua umanità»25, «giacché per
sé Dio è il suo sé alienato che però nel contempo egli di nuovo rivendica a sé»26,
tornando a fare suo ciò che prima ha alienato in questo ente altro da sé, ma da
lui stesso creato sia nelle determinazioni attributive e predicative sia nell’esisten-
20
21
22
23
24
25
26
Ivi, p. 48
Id., L’essenza del Cristianesimo, tr. it. di C. Cometti, Milano 1971, p. 51.
Id., L’essenza del Cristianesimo, tr. it. di F. Tomasoni, cit., p. 48.
Id., L’essenza del Cristianesimo, tr. it. di C. Cometti, cit., p. 51.
Id., L’essenza del Cristianesimo, tr. it. di F. Tomasoni, cit., p. 48.
Id., L’essenza del Cristianesimo, tr. it. di C. Cometti, cit., p. 51.
Id., L’essenza del Cristianesimo, tr. it. di F. Tomasoni, cit., p. 48.
74
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
za, che si dà solo in questi attributi. Analizziamo questo movimento, data la
centralità, per il nostro discorso, di questa argomentazione.
La religione è l’autocoscienza dell’uomo oggettivata non in se stessa, bensì in
un’essenza messa fuori dell’uomo secondo l’immagine della circolazione arteriosa
per cui il sangue viene spinto all’estremità. Ora, il punto caratteristico di questa
repulsione dell’essenza umana è che quanto più gli attributi e la stessa esistenza
di Dio sono attributi umani, benché l’uomo non sia consapevole di ciò, tanto più
l’uomo viene negato in queste sue qualità, le quali vengono riposte in Dio. Ciò
è comprensibile, perché, essendo Dio niente altro che gli attributi umani, i quali
sono in sé divini ma vengono posti fuori dell’uomo in un altro essere considerato
divino, ecco che nell’intuizione dell’essenza divina ciò che è positivo è costituito
appunto dall’elemento umano, mentre, di conseguenza, nell’intuizione dell’umano resta solo il negativo. Se infatti l’uomo – sempre inteso come genere – traspone in Dio la sua essenza, ossia la sua divinità, dato che i suoi attributi sono di
natura divina, ecco che egli stesso appare al polo opposto come un nulla davanti
a Dio. Quanto più Dio è reso simile all’uomo, tanto più l’uomo diventa, per
opposizione del negativo al positivo, dissimile rispetto a Dio. Invero si tratta di
un movimento in cui nulla va perduto e tutto si conserva, perché è l’uomo stesso
che trasferisce le sue qualità supreme, la sua divinità in un essere fuori di lui, ma
da lui stesso creato. Perciò, dice Feuerbach, «questa autonegazione è solo autoaffermazione. Quello di cui l’uomo si spoglia, si priva in se stesso, lo gode appunto
in Dio in una misura incomparabilmente più alta e più abbondante […]. L’uomo
nega di sé soltanto ciò che pone in Dio»27. Nega la sensibilità attraverso la castità,
e più avviene questa negazione, più Dio appare con caratteri sensibili, tanto che
in epoche passate il culto di Maria vergine diventava addirittura più importante
di quello di Cristo e di Dio stesso; nega la sua ragione, asserendo di non sapere
nulla di Dio, quindi di avere solo pensieri mondani e terreni, e in compenso Dio
appare con pensieri e piani umani, come un maestro che si adatta agli scolari, sa
tutti i pensieri dell’uomo anche i più bassi; l’uomo si spersonalizza e Dio è tanto
più personale; l’uomo nega il suo onore, la sua vanità e in compenso Dio pensa e
opera per la sua stessa gloria e per il suo vantaggio egoistico; si coglie come radicalmente cattivo per porre tutta la bontà in Dio.
Ora però, anche se in questo movimento l’uomo si spoglia di tutto quello che
gli è essenziale e più alto, ossia caratteristico del suo genere, per porlo in Dio,
27
Ivi, p. 45.
75
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
negandolo a se stesso, è evidente che, per fare ciò, deve avere consapevolezza di
questi attributi per riconoscerli come divini in questa nuova essenza fuori di lui.
Se la cattiveria fosse nell’uomo assoluta, egli non potrebbe riconoscere la santità e
la bontà come tali, giacché nel riconoscere la bontà assoluta di Dio e la peccaminosità dell’uomo, si riconosce che la santità e il bene, negati all’uomo e posti in
Dio, sono nondimeno la destinazione dell’uomo, ossia sono quello che lui deve
diventare. Ma se egli deve diventare qualcosa, ciò vuol dire che può diventarlo,
poiché «un dovere senza potere non mi tocca, è una ridicola chimera senza affezione dell’animo»28. Perciò, se l’uomo avverte di essere cattivo e tuttavia sente il
bene riposto in Dio come sua destinazione, ciò vuol dire che il bene appartiene
alla sua essenza, quindi il male che egli fa o che si attribuisce in opposizione alla
bontà di Dio, è riconosciuto come una contraddizione con se stesso, con la sua
essenza e la sua personalità. Perché si possa parlare di corruzione totale e radicale
dell’uomo, questi dovrebbe adorare come ideale di bontà e di bellezza «l’abisso
dell’ignominia con coscienza e compiacenza»29. Per questo motivo Feuerbach
ritiene essere la mistificazione dell’agostinismo misconoscere che quello che esso
dice di Dio lo dice dell’uomo stesso, a meno che l’uomo non adori come sua
essenza suprema il diavolo, con la coscienza che sta adorando proprio il diavolo
come tale. Tuttavia, per Feuerbach questa illusione dell’agostinismo «costituisce
l’essenza vera e propria della religione e perciò in questo senso fonda una distinzione essenziale»30. Infatti, l’agostinismo è «un pelagianesimo capovolto, pone
come oggetto ciò che quello pone come soggetto»31. Il pelagianesimo privilegia
Dio creatore a Dio redentore, che invece per Feuerbach non a caso è il Dio che
connota specificamente la religione; quindi il pelagianesimo eleva l’uomo a Dio,
giacché per questa dottrina l’uomo ha la sua libertà sul fondamento della sua
volontà autosufficiente, perciò non ha bisogno di Dio. Invece l’agostinismo nega
l’uomo e però dà a Dio tutti gli attributi umani e lo abbassa fino alla morte in
croce. Il pelagianesimo «pone l’uomo al posto di Dio»32, l’agostinianesimo pone
«Dio al posto dell’uomo, ma entrambi arrivano allo stesso risultato»33, solo che
questa attribuzione del bene all’uomo il pelagianesimo la fa per via razionale, in
28
29
30
31
32
33
Ivi, p. 46.
Ivi, p. 47.
Ibid.
Id., L’essenza del Cristianesimo, tr. it. di C. Cometti, cit., p. 50.
Ibid.
Ibid.
76
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
linea retta, mentre l’agostinismo la fa indirettamente, per via mistica. Quest’ultimo modo, indiretto e capovolto, è per Feuerbach caratteristico, come dicevo,
dell’essenza della religione: «Ciò che si attribuisce al dio dell’uomo, lo si attribuisce in realtà all’uomo stesso; ciò che l’uomo asserisce di Dio, in realtà lo asserisce
di sé stesso»34. Analogamente, se si determina Dio come un’essenza moralmente
attiva, ossia che ama, opera e ricompensa il bene, e punisce il male, mentre l’uomo è incapace di fare il bene, in realtà si sta rendendo divina l’attività umana
stessa, giacché non si conosce attività superiore a quella umana, la quale è critica,
ossia vuole, ama il bene, perciò è in dissidio con se stessa nel momento in cui
pone in Dio il bene, cioè il positivo, e nella coscienza che ha di se stessa il male,
ossia il negativo. Anche in questo caso, per non volere nulla e negare la facoltà e
l’attività umane, bisognerebbe giungere coerentemente alle posizioni del nichilismo e panteismo orientali, negando in Dio l’attività morale, e sostenere quindi
che Dio è un’essenza priva di volontà, la quale non distingue fra bene e male.
Ma se Dio è attività, e precisamente attività morale, ossia che ricompensa il
bene e punisce il male, ecco allora che a Dio non è indifferente se l’uomo è buono
o cattivo. Anzi, Dio vuole che l’uomo sia buono e ha interesse a questo, perché ciò
realizza la sua azione, vale a dire il suo fine e la sua gloria. Infatti, come Feuerbach
osserva richiamando il suo libro, Pierre Bayle nach seinen für die Geschichte der
Philosophie und der Menschheit interessantesten Momenten dargestellt und gewürdigt,
del 1839, poiché Dio ama, pensa e opera solo per se stesso, egli «facendo l’uomo
cerca la sua utilità, la sua gloria»35. Perciò, «i sentimenti e le azioni umane non sono
[…] indifferenti a Dio; sono oggetti di Dio, dunque oggetti divini, oggetti del più
alto valore e interesse, giacché hanno valore e interesse per Dio»36. Così, mentre nel
movimento finora esaminato l’uomo pone tutto in Dio e si annulla, ovvero la sua
coscienza di essere uomo coincide con il negativo, secondo l’immagine repulsiva
della circolazione arteriosa, adesso abbiamo l’altro movimento, opposto e inverso,
quello ben raffigurato nell’immagine attrattiva della circolazione venosa, in cui il
sangue ritorna al cuore, di modo che l’uomo si riprende la sua essenza prima spinta
fuori di sé, benché ciò continui ad avvenire nella forma peculiare della religione,
quindi della fondamentale separazione dell’uomo rispetto a se stesso. Infatti, se
Dio è, come abbiamo detto, un’essenza attiva, che distingue tra bene e male, e che
34
35
36
Ivi, pp. 49-50.
Citato in Id., L’essenza del Cristianesimo, tr. it. di F. Tomasoni, cit., p. 45.
Ivi, p. 48.
77
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
per il suo stesso egoismo è interessato a che l’uomo sia o diventi buono, dunque i
sentimenti e le azioni umane non gli sono indifferenti, ecco che in questo secondo
movimento inverso, di diastole, l’uomo diventa oggetto e fine di Dio. Ma poiché
l’essenza divina altro non è che l’essenza umana, la quale diventa un’essenza fuori
dell’uomo, adesso è come se questi ritrattasse il primo movimento – è proprio Feuerbach a usare i termini “ritratta”, “smentisce”. Infatti, mentre nel primo movimento tutto era stato dato a Dio e l’uomo aveva coscienza di essere nulla, adesso egli
stesso diventa il fine di Dio, ovvero l’oggetto e lo scopo di Dio. L’uomo religioso,
allora, «fa dell’attività divina un mezzo della salvezza umana […]. Così l’uomo,
mentre apparentemente viene abbassato al punto più profondo, in verità è innalzato al massimo! L’uomo in Dio e attraverso Dio persegue come fine se stesso. L’uomo
si propone come fine Dio, ma Dio non mira ad altro che alla salvezza morale ed
eterna dell’uomo, quindi l’uomo si propone come fine solo se stesso»37. Ma così è
evidente e provato che l’azione divina è qui in realtà l’azione dell’uomo, il quale
mediatamente, ossia attraverso quel movimento di repulsione, per cui prima ha
tolto a se stesso le sue qualità essenziali e le ha messe in Dio, adesso se le riprende
attraverso il movimento di attrazione. Ma se le riprende come azioni non sue, bensì
di Dio, affinché egli stesso sia elevato al massimo, anzi, l’annullamento dell’uomo
in Dio era solo un mezzo per meglio esaltare tutte le qualità dell’uomo appunto in
quanto costitutivamente, essenzialmente umane, ossia aventi origine dall’uomo e
da nessuna altra essenza. Infatti, argomenta Feuerbach, l’azione divina non potrebbe avere l’uomo come suo fine e agire nell’uomo come suo oggetto, non potrebbe
avere un fine umano, ossia tendere a che l’uomo sia buono, saggio ecc., e realizzi in
questi attributi la sua più autentica destinazione, se questa azione divina non fosse
essa stessa umana. «Se l’uomo si pone come scopo il suo miglioramento morale, ha
risoluzioni divine, propositi divini; se però Dio ha come scopo la salvezza dell’uomo, allora ha fini umani e un’attività umana conforme a questi fini»38. Quindi in
Dio, ovvero nell’attività di Dio, l’uomo ha oggettivato niente altro che la sua stessa
attività. Ma avendola oggettivata in modo che essa diventa l’attività di un’altra essenza, ecco allora che egli sente l’impulso all’attività morale come proveniente non
direttamente da lui, bensì da quest’altra essenza, da questo oggetto che è stato da
lui stesso posto fuori di sé39.
37
38
39
Ibid.
Ibid.
Cfr., su questo punto, Cfr. Id., L’essenza del Cristianesimo, tr. it. di C. Cometti, cit., p. 51.
78
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
3. Origine dell’ illusione religiosa
Quale è la genesi dell’illusione religiosa, del trasferimento di quelli che sono
i predicati dell’essenza umana in un’essenza oggettivata fuori dell’uomo, la quale diventa un soggetto a se stante, di cui l’uomo è, a sua volta, oggetto? Come
abbiamo visto, Feuerbach parte dall’uomo in sé, dall’essenza umana come caratterizzata dalla doppia vita, quella esteriore e quella interiore, la prima di tipo
individuale e finito, la seconda, invece, conforme al genere. Quest’ultimo costituisce la vera essenza dell’uomo, che è infinita e perfetta in quanto i suoi attributi,
senza i quali un’essenza non sarebbe nulla, sono perfezioni, ossia esistono di per
se stessi e hanno il loro fine in se stessi e non nella soddisfazione di una necessità
meramente pratico-utilitaristica: il pensare ha come fine la gioia del contemplare,
il cuore l’amore fine a se stesso, e la volontà l’autosuperamento e la realizzazione
della libertà. Ora, l’essenza dell’uomo è per eccellenza accessibile e comprensibile
come genere alla facoltà teoretica, che è anche una facoltà estetica, giacché sia alla
teoria che alla bellezza è legata la contemplazione. Invece la religione parte da un
punto di vista pratico, non oggettivo ma soggettivo. Infatti, lo scopo della religione è la salvezza e il bene dell’uomo. Abbiamo visto altresì che Dio è solo l’oggettivazione delle facoltà e degli attributi dell’uomo, cioè della sua stessa esistenza
soggettiva, in un’entità che egli pone al di fuori di lui e come da lui distinta, ma
a cui fa assumere come scopo il bene dell’uomo stesso; perciò egli se la raffigura
come attiva e capace di giudizio morale.
Tutto questo appare in modo molto conseguente nel cristianesimo, nel quale
il punto centrale è la salvezza, più che Dio puramente e semplicemente. Questa
salvezza non consiste nella felicità terrena o in un qualunque bene terreno, che
anzi si ritiene allontanino da Dio, mentre il dolore e l’infelicità avvicinano a Dio.
Se la salvezza consistesse in un bene terreno, l’uomo si espanderebbe e troverebbe
la sua forza in quelle attività mondane che veramente realizzano la sua essenza
generica, vale a dire nella contemplazione teoretica e nell’estetica, attività che,
infatti, sono fonte di gioia e piacere. Invece nel dolore e nell’infelicità l’uomo
si concentra e ripiega su se stesso, «ogni suo pensiero è rivolto a ciò di cui abbisogna, e Dio è sentito come necessità»40. Dio è, dunque, niente altro che questo
sentimento della propria necessità di salvezza immerso in se stesso e che nega il
mondo, sentimento posto dall’uomo come un essere immaginario ma per lui pro-
40
Ivi, p. 201.
79
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
fondamente reale. Un sentimento siffatto, ossia della miseria, della sofferenza e
dell’intima necessità di salvezza, è di natura essenzialmente pratica, non teoretica
o estetica, nel qual caso, essendo conforme al genere, non sarebbe caratterizzato
dalla mancanza e dalla necessità, bensì dall’abbondanza, dalla gioia, dall’autosufficienza, dal non aver bisogno di altro e pago del mondo. Essendo il punto di
vista teoretico estraneo alla religione, espressione del bisogno pratico individuale
di salvarsi dalla sofferenza e perciò poco interessato all’essenza, verità e bellezza
della natura e dell’umanità come genere, ecco che tutto ciò che riguarda questi
oggetti della contemplazione teoretica ed estetica, si trasforma in un’essenza altra
dall’uomo, miracolosa e soprannaturale, cioè nel concetto di Dio. Questi, a sua
volta, è concepito come un’essenza individuale, intesa non nel senso particolaristico degli individui umani, ma con le qualità degli individui elevate alla misura
infinita del genere. Dunque, il fatto che nella religione l’uomo ponga la sua essenza generica fuori di sé facendola diventare un´altra essenza, per cui quella che
è l’oggettivazione delle sue determinazioni predicative diventa un soggetto individuale dotato di vita propria e con i predicati stessi dell’uomo elevati alla misura
di genere, è una necessaria conseguenza del fatto che il punto di vista pratico,
proprio della religione, data la doppia vita dell’uomo come individuo e come genere, non può accedere direttamente al punto di vista teoretico, e la coscienza di
sé è qui ridotta alla coscienza pratico-individuale. Così, tutto l’aspetto della vita
dell’uomo che riguarda il genere e che è accessibile alla contemplazione teoretica
ed estetica, è trasferito in Dio, dove l’uomo trova, dice Feuerbach, «la sua seconda
metà perduta; in Dio si integra; in Dio soltanto è uomo completo. Dio è per lui
un bisogno; gli manca qualcosa senza sapere che cosa gli manchi – Dio è questo
qualcosa che manca, Dio gli è indispensabile; Dio appartiene alla sua essenza»41. Il
mondo, ossia l’insieme della realtà, è accessibile e si rivela nella sua pienezza alla
teoria, ma per la religione il mondo è nulla, il che significa che le sono profondamente estranee le gioie del pensatore, del naturalista, l’intuizione dell’universo.
Perciò quello che perde – ossia il mondo stesso e con esso la teoria in cui questo
mondo si rivela – essa lo integra in Dio, il quale diventa così il surrogato del
mondo perduto e «la vita della teoria»42.
Ora però, l’intuizione pratica è caratterizzata dall’interesse individuale e strumentale, dunque dall’egoismo. Infatti, dal punto di vista pratico una cosa non
41
42
Id., L’essenza del Cristianesimo, tr. it. di F. Tomasoni, cit., p. 211.
Ibid.
80
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
viene guardata e goduta per se stessa, ma solo per un bisogno dell’individuo che
la guarda, per un bisogno utilitario. L’intuizione pratica, dato che l’oggetto a cui
essa si riferisce non sta sul suo stesso piano, ossia non è visto e goduto in virtù
di se stesso, non è soddisfatta di sé. Viceversa, l’intuizione teoretica è appagata,
perché l’oggetto che contempla è visto di per se stesso, con amore e ammirazione.
Dunque, l’intuizione pratica è caratterizzata da mancanza, da indigenza, perciò
è un’intuizione «inestetica»43, mentre quella teoretica, che è autosufficiente e mira
alla cosa in virtù di se stessa, «è un’intuizione estetica»44. La mancanza di intuizione estetica, di perfezione e di appagamento – caratteristica del punto di vista
pratico e inestetico in cui si trova l’uomo come vita individuale – comporta che
il mondo appaia nullo di per se stesso, che le cose siano, di conseguenza, solo un
prodotto per il bisogno pratico, e che l’adorazione del mondo sia idolatria. Così,
Dio viene a integrare questa mancanza di intuizione teoretica ed estetica, necessaria all’esistenza del genere: «Dio ha […] per la religione in specie il significato
che per la teoria ha l’oggetto in generale. L’essenza universale della teoria è per la
religione un’essenza particolare»45. L’oggetto della teoria, che, come ogni oggetto,
è l’espressione della sua essenza, è il mondo intero, il genere nella sua infinità. Invece nella religione il genere, l’universale, l’infinito, viene trasferito in un’essenza
che da un lato è individuale e dall’altro ha i caratteri umani elevati alla misura
del genere. Come si verifica questa inversione?
Ciò dipende appunto dall’essenza del punto di vista religioso, che è pratico,
dunque individualistico ed egoistico, in quanto espressione di una mancanza, di
una necessità. Questa mancanza, poiché è mancanza di teoria e del suo oggetto,
il genere, dunque è mancanza di un carattere essenziale dell’uomo, ossia la sua
vita come genere, viene oggettivata dall’uomo pratico come un ente soprannaturale. Quest’ultimo, però, nascendo dall’esigenza di colmare una lacuna, quindi
da un polo negativo, fa assumere all’essenza universale della teoria il carattere
particolare di un’essenza individuale, ma le cui determinazioni hanno la misura
del genere. Anche in questo caso l’agostinismo, pur nella mistificazione, mostra
un carattere essenziale della religione. Infatti, Feuerbach cita un passo dalle Confessioni di Agostino, a proposito della de-teoreticizzazione e de-estetizzazione del
mondo, con l’inconsapevole trasferimento di teoria ed estetica in Dio, che avvie-
43
44
45
Ibid.
Ibid.
Ivi, p. 212.
81
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
ne nella religione, riducendo così le cose a mero prodotto per il bisogno pratico,
invece di intuirle per quel che sono, vale a dire oggetto di contemplazione e di
godimento di per se stesse, e con ciò espressione della vita del genere, oggettivazione consapevole di qualità sensibili umane. Dice dunque Agostino: «Gli occhi
amano le forme belle e varie, i colori nitidi e ridenti. Ma non avvincano questi
oggetti la mia anima; l’avvinca Dio che fece sì questi oggetti buoni assai, ma è lui
solo il mio bene, non essi»46.
4. L’analogia tra la forma feticistica della merce e la religione
Oggetto principe della critica di Karl Marx è il modo di produzione della
moderna società borghese. Tale critica vuole dimostrare il carattere storicamente determinato di questa forma di società, la quale conclude una lunga fase
scandita, a sua volta, in varie fasi progressive (modo di produzione asiatico,
antico, feudale e, appunto, borghese), nelle quali gli uomini hanno prodotto
le condizioni della loro esistenza, e, di conseguenza, la loro esistenza stessa, in
modo antagonistico, quindi attraverso il dominio di uno sull’altro. Simultaneamente, la critica dimostra la necessità storica della transizione rivoluzionaria
ad una forma sociale di produzione in cui individui liberamente associati controllano insieme le proprie condizioni di vita e sviluppano le loro forze non
misurandole su un metro già dato, né avendo altro presupposto che il loro
sviluppo precedente, dunque si tratta di un regno della libertà costruito sul
regno della necessità47.
Nella moderna società borghese la ricchezza «appare come una enorme raccolta di merci e la singola merce come sua esistenza elementare»48. Da un lato la
merce si presenta come un «valore d’uso»49, cioè come qualcosa che soddisfa dei
bisogni umani, indipendentemente dal tipo di bisogno di cui si tratta, se dello
stomaco o della fantasia, e indipendentemente dal modo in cui soddisfa questo
bisogno, «se immediatamente come mezzo di sussistenza, cioè come oggetto
Citato ivi, p. 211.
Cfr. K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro terzo, tr. it. di M. L. Boggeri,
Roma 1994, p. 933.
48
Id., Per la critica dell’economia politica, tr. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Roma 1971, p. 9.
49
Ibid.
46
47
82
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
di godimento o, per via indiretta, come mezzo di produzione»50. L’utilità, la
piacevolezza, la necessità per la vita, sono dei portati delle qualità delle merci,
quindi il loro valore d’uso è inseparabile da queste qualità corporee, quale che
sia il modo in cui esso sia stato prodotto e indipendentemente da quanto lavoro
esso sia costato. Inoltre, un valore d’uso viene misurato secondo determinate
quantità, giacché «valori d’uso differenti hanno misure differenti secondo le
loro naturali peculiarità, ad esempio un moggio di grano, una libbra di carta,
un braccio di tela ecc.»51. Il valore d’uso è il contenuto necessario della merce,
in quanto è inerente alle qualità dell’oggetto che ne forma il corpo, ma non
in tutte le forme sociali della produzione umana il valore d’uso ha assunto
la forma della merce. Per essere merce, una cosa deve essere anche «valore di
scambio»52. Questo appare sotto forma del «rapporto quantitativo, la proporzione nella quale valori d’uso d’un tipo sono scambiati con valori d’uso di altro
tipo; tale rapporto cambia continuamente coi tempi e coi luoghi»53. Mentre
nel valore d’uso ciò che viene in primo piano sono le qualità differenti degli
oggetti finalizzati al godimento o alla produzione di ulteriori valori d’uso, e la
quantità in cui possono essere misurati secondo le loro peculiarità, viceversa,
nella definizione del valore di scambio, quel che è caratteristico è che si tratta
di un rapporto, in cui valori d’uso di tipo differente vengono tra loro scambiati
nonostante la loro più estrema disparità. Ma affinché un valore d’uso possa
essere scambiato con un altro in un’adeguata proporzione, è necessario che
l’equazione, in cui è rappresentato un determinato rapporto di scambio, mostri
che vi è qualcosa di comune e della stessa grandezza inerente alle merci che si
scambiano, indipendentemente dalle innumerevoli differenti proporzioni con
cui avviene lo scambio di una merce con tutte le altre. Poiché questo qualcosa di comune non può essere una qualità fisica, chimica, geometrica o altra
qualità naturale, ai corpi delle merci, che costituiscono il loro rispettivo valore
d’uso, «rimane […] soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro»54.
Ora, il lavoro che, per esempio, scava l’oro, quello che estrae dalle miniere il
ferro, quello che coltiva il grano, che tesse la seta, ecc., sono lavori tra loro asso-
50
Id., Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro primo, tr. it. di D. Cantimori, Roma 1994,
p. 68.
51
Id., Per la critica dell’economia politica, cit., p. 9.
52
Ibid.
53
Id., Il capitale, Libro primo, cit., p. 68.
54
Ivi, p. 70.
83
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
lutamente differenti e incomparabili dal punto di vista delle loro qualità. Questo
tipo di lavoro, considerato nelle sue differenze qualitative, è il lavoro che produce
valori d’uso, quindi si presenta nelle forme più diverse dell’attività. Se si fa astrazione dalle qualità sensibili dei valori d’uso che costituiscono i corpi di merci
(tavola, casa, filo ecc.), scompaiono anche le diverse forme di lavori concreti che
distinguono un valore d’uso da un altro, non solo come processi qualitativamente
differenti tra loro, ma anche, da questo punto di vista soggettivo, come risultato
di lavori differenti a seconda degli individui che li eseguono. Pertanto, il lavoro a
cui vengono ridotte tutte le merci, astraendo da qualsiasi carattere qualitativo di
esse come valori d’uso, è «lavoro umano eguale, lavoro umano in astratto»55. Dei
differenti prodotti «non è rimasto nulla […] all’infuori di una medesima spettrale oggettività, d’una semplice concrezione di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di forza lavorativa umana senza riguardo alla forma del suo dispendio»56.
I differenti prodotti sono valori in quanto sono «cristalli di questa sostanza sociale ad ess[i] comune»57, ossia del lavoro in generale, astratto dalla specificità dei
differenti processi lavorativi che producono le cose come valori d’uso e dalle varie
individualità di chi lavora («lavoro astrattamente generale»58). L’unica differenza
di cui sono suscettibili i valori di scambio in quanto equivalenti tra loro, sono
differenze quantitative, ossia nello scambio vengono equiparate grandezze differenti inerenti alla qualità del prodotto (un bushel di grano, un’oncia d’oro, una
tonnellata di ferro ecc.). Quindi, per potere misurare la grandezza di valore di
queste cose in quanto valori di scambio, occorre che esse rappresentino quantità
differenti di lavoro semplice, uniforme, astrattamente generale, cioè di quel lavoro che costituisce la sostanza del valore. Tale quantità di lavoro «si misura con
la sua durata temporale»59, quindi la proporzione in cui i differenti valori d’uso
vengono scambiati, è data dalle rispettive quantità di tempo di lavoro in essi
contenute e che vengono misurate in «parti determinate di tempo, come l’ora, il
giorno, ecc.»60.
La quantità di tempo di lavoro che determina la grandezza di valore di una
merce, è da intendersi, però, non come la quantità di tempo che un individuo
55
56
57
58
59
60
Ibid.
Ibid.
Ibid.
Id., Per la critica dell’economia politica, cit., p. 11.
Id., Il capitale, Libro primo, cit., p. 71.
Ibid.
84
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
singolarmente preso ha di fatto impiegato per produrla, in base alla sua maggiore
o minore abilità individuale. Nella società dove domina la forma di merce, il
lavoro, in quanto sostanza comune di tutti i valori e di cui il valore di scambio
costituisce la forma fenomenica, è, come abbiamo visto, «lavoro umano eguale, dispendio della medesima forza-lavoro umana»61. Perciò si considera la forza
complessiva della società, oggettivata in tutto il mondo delle merci, come un’unica e identica forza-lavoro umana; ognuna delle singole forze-lavoro individuali
viene considerata come identica alle altre, cosicché nella misura del tempo di
lavoro necessario a produrre una merce «i differenti individui che lavorano appaiono […] come semplici organi del lavoro»62: sia che uno produca in sei ore ferro
e in sei ore tela, e un altro produca parimenti durante sei ore ferro e durante sei
ore tela, sia che, viceversa, uno produca in dodici ore ferro e un altro in dodici ore
tela, si tratta di un medesimo lavoro che viene usato in modo differente. Quindi
ciascun individuo qui è considerato come una forza-lavoro sociale media che ha
bisogno solo del tempo di lavoro mediamente, ossia socialmente necessario per
produrre quella merce. La quantità di tempo di lavoro socialmente necessario
a produrre una merce varia con il variare della forza produttiva del lavoro, la
quale è determinata dal grado medio di abilità dell’operaio, dal grado di sviluppo dell’applicazione della scienza alla produzione mediante la tecnologia, dalla
combinazione delle attività lavorative nel processo di produzione, da situazioni
naturali, quali, nella produzione agricola, la stagione favorevole o meno, che può
richiedere maggiore o minor tempo di lavoro per la stessa quantità di prodotto,
oppure la ricchezza o povertà delle miniere. Quindi, con l’aumento della forza
produttiva del lavoro sociale diminuisce il tempo di lavoro necessario e, di conseguenza, il valore di scambio di una merce, e, viceversa, con la diminuzione della
forza produttiva del lavoro, aumenta il tempo di lavoro necessario e, di conseguenza, la grandezza di valore.
Orbene, da questa descrizione sembrerebbe a prima vista, dice Marx, che
nella forma di merce non ci sia nulla di incomprensibile e che, anzi, essa risulti come una cosa addirittura ovvia. Eppure, questi caratteri così trasparenti
diventano un enigma, un arcano che è appiccicato alla merce, la quale trasforma questa cosa ovvia in «una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza
61
62
Ibid.
Id., Per la critica dell’economia politica, cit., pp. 12-13.
85
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
metafisica e di capricci teologici»63. Come abbiamo visto, dietro le merci e la
loro relazione che le rende scambiabili, vi è l’eguaglianza dei lavori umani,
quindi la riduzione delle differenti qualità dei valori d’uso a prodotto di lavoro
semplice, eguale, astrattamente generale. La relazione tra i produttori di merci
è misurata in quantità di tempo di lavoro impiegato a produrle. Ebbene, questi che sono evidentemente caratteri soggettivi, ossia riferiti al lavoro sociale
che produce merci, ovvero agli individui come organi di questo lavoro sociale
astratto, diventano attributi oggettivi delle cose. L’eguaglianza dei lavori umani, astratti dalle loro determinazioni qualitative, diventa «l’eguale oggettività
di valore di prodotti del lavoro»64 e solo mediante questa oggettività quell’eguaglianza può ricevere forma reale. La misura della durata temporale del
dispendio di forza-lavoro, ossia di muscoli, cervello, energie umane, diventa
la «grandezza di valore dei prodotti del lavoro»65 e adesso è questa grandezza,
in quanto (diventata) inerente al prodotto di per sé, a stabilire la quantità
di tempo di lavoro necessario a produrre quelle determinate merci. «Infine, i
rapporti fra i produttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali dei
loro lavori, ricevono la forma d’un rapporto sociale dei prodotti del lavoro»66.
Quindi, nella forma di merce gli uomini non vedono direttamente i caratteri
sociali del loro lavoro e il rapporto tra i loro lavori e il lavoro sociale complessivo, cioè non vedono direttamente quello che fanno, ma ne hanno restituita
l’immagine come in uno specchio – Marx usa questa similitudine –, e in verità
l’immagine capovolta. Infatti, i caratteri sociali dei lavori degli uomini vengono fatti «apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come
proprietà sociali naturali di quelle cose»67, e il rapporto sociale tra i produttori
e il loro lavoro complessivo viene fatto «apparire come un rapporto sociale fra
oggetti esistente al di fuori di essi produttori»68. Si verifica un quid pro quo,
un’inversione mediante cui i prodotti del lavoro sociale diventano «cose sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali»69, ecco la sottigliezza metafisica e i
capricci teologici.
63
64
65
66
67
68
69
Id., Il capitale, Libro primo, cit., p. 103.
Ivi, p. 104.
Ibid.
Ibid.
Ibid.
Ibid.
Ibid.
86
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
In un primo momento Marx illustra questo capovolgimento della realtà del
lavoro sociale degli uomini e l’immagine che essi ne ricevono nella forma di
merce, richiamando l’effetto che si ha nel senso della vista, dove l’impressione luminosa che una cosa esercita sul nervo ottico si presenta come un carattere della
cosa stessa che sta fuori dell’occhio e non come lo stimolo soggettivo del nervo.
Anche qui, dunque, sembrerebbe esserci un capovolgimento per cui l’azione soggettiva diventa una proprietà oggettiva della cosa. Ma l’inversione che si produce
nella relazione tra impressione luminosa sul nervo e proprietà dell’oggetto esterno
o, se si vuole, tra soggetto e oggetto, deriva dalla natura fisica delle entità in questione. Invece nella forma di merce non si tratta più di un rapporto fisico siffatto:
nel presentarsi dei prodotti del lavoro umano come valori di merci, si tratta non
di proprietà fisiche delle cose, a cui appartiene naturalmente quell’effetto ottico
di capovolgimento, bensì di un fenomeno caratteristico di determinate fasi storiche, e, al suo massimo sviluppo, caratteristico della società borghese, dove «quel
che […] assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è
soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi»70. Insomma, nel fatto che l’impressione luminosa esercitata sul nervo ottico si presenta
come la forma propria dell’oggetto fuori dell’occhio, non si verifica nessun quid
pro quo, mentre invece questo è precisamente il caso di quanto avviene «[nel]la
forma di merce e [ne]l rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si
presenta»71. Invece, l’analogia più pertinente Marx la trova nel mondo della religione, non a caso da lui definito, a differenza dei fenomeni fisici sopra evocati,
una «regione nebulosa»72, proprio come quella della forma di merce prima definita piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Infatti, gli oggetti della
religione sono prodotti del cervello umano, i quali, viceversa, si presentano come
delle figure indipendenti dai soggetti che le hanno create, e sembrano stabilire
autonomamente un rapporto tra di loro e con gli uomini. Come nella religione
i prodotti del cervello umano si ergono a potenze autonome da chi le ha create,
così nel mondo delle merci i prodotti della mano umana, ossia del lavoro sociale
degli uomini, diventano entità dotate di caratteri propri e grandezza propria, le
quali intrattengono rapporti tra loro, mentre in realtà riflettono, come in uno
specchio rovesciato, il rapporto tra i produttori e il lavoro sociale complessivo.
70
71
72
Ibid.
Ibid.
Ibid.
87
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Questo quid pro quo Marx lo chiama «il feticismo che s’appiccica ai prodotti del
lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla
produzione delle merci»73.
Qui la religione è usata come un’analogia per rendere comprensibile il carattere della forma di merce. Al tempo stesso credo si veda chiaramente che Marx
descrive il fenomeno religioso, almeno per quanto gli serve per fare l’analogia,
negli stessi termini in cui l’abbiamo trovato descritto in Feuerbach. Infatti, anche per Feuerbach il segreto della religione sta nel fatto che l’uomo oggettiva la
propria essenza a se stesso, ma in modo tale che questa oggettivazione diventa un
altro essere, quindi si converte essa stessa in un soggetto di cui poi, a sua volta,
l’uomo – ossia il soggetto reale che ha oggettivato a se stesso le sue qualità, le sue
determinazioni – diventa oggetto.
Nella società in cui domina la forma di merce, gli uomini entrano tra loro
in rapporto scambiando i prodotti dei loro rispettivi lavori privati che ciascuno esegue indipendentemente dall’altro. Solo perché risultano da lavori privati,
tali prodotti diventano merci, ed é solo nello scambio di merci che questi lavori
privati appaiono nel loro carattere sociale. «I lavori privati si effettuano di fatto come articolazioni del lavoro complessivo sociale mediante le relazioni nelle
quali lo scambio pone i prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti stessi, i produttori»74. Il complesso dei lavori privati forma il lavoro sociale generale, di cui
ciascun lavoro privato è un’articolazione. Ebbene, nella società dove si afferma
come forma di relazione predominante lo scambio di merci, ossia di lavori privati
eseguiti l’uno dall’altro in modo indipendente, il carattere sociale di questi lavori,
quindi l’effettuazione di questi lavori privati come articolazioni del lavoro sociale
complessivo, non si presenta direttamente e immediatamente ai produttori che
scambiano i loro prodotti come merci. Il rapporto tra lavoro individuale e lavoro
sociale appare, invece, ai produttori come relazione tra i prodotti stessi del lavoro,
posta mediante lo scambio. Solo mediante quelle relazioni tra i loro prodotti,
considerati come cose indipendenti e dotate di proprietà sociali oggettive i produttori vengono messi in rapporto tra loro. Ecco il feticismo della merce come
mistificazione, che però non è affatto qualcosa di accidentale, bensì «sorge dal
carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci»75. Infatti, ai produttori
73
74
75
Ivi, p. 105.
Ibid.
Ibid.
88
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
«le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono come quel che sono, cioè, non
come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi,
come rapporti di cose fra persone e rapporti sociali fra cose»76.
Osserviamo che qui l’apparenza, la fantasmagoria o l’illusione, è sì illusione,
in quanto le oggettivazioni del lavoro di persone diventano soggetti a sé stanti
e i rapporti sociali tra persone che scambiano i loro lavori, dunque tra soggetti,
diventano rapporti di cose fra persone e rapporti sociali tra cose, ad analogia del
rovesciamento che avviene nella religione. Ma si tratta di un’apparenza reale, coerente con i caratteri di una determinata forma di società, quella dove dominano
lo scambio di merci e il rapporto di valore dei prodotti del lavoro in cui la merce
stessa si presenta, quindi si tratta di un’apparenza necessaria: «Il fatto che un
rapporto di produzione sociale si presenti come un oggetto presente al di fuori
degli individui, e che le determinate relazioni che questi allacciano nel processo
di produzione della loro vita sociale si presentino come qualità specifiche di una
cosa, questo rovesciamento, questa mistificazione non immaginaria, bensì prosaicamente reale, caratterizza tutte le forme sociali del lavoro creatore di valore
di scambio»77. Analogamente, in Feuerbach abbiamo visto che nella religione
l’apparenza per cui l’oggettivazione del soggetto umano a se stesso si presenta, a
sua volta, come un soggetto a sé stante, rispetto a cui l’uomo si comporta come
un oggetto, è reale e necessaria per l’uomo religioso. Quindi, nella società dove
prevale lo scambio delle merci, i rapporti sociali tra le persone, i quali sono rapporti tra produttori privati, per il fatto stesso che il lavoro sociale complessivo si
articola e si divide in lavori privati eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro,
dunque per il carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci, hanno la
peculiarità di essere apparenti, in quanto risultato di un capovolgimento tra soggetto e predicato, ma al tempo stesso di apparire per quello che sono realmente
in questa società, ossia come rapporti cosalizzati tra persone e come rapporti
sociali tra le cose, così come all’ interno della religione, cioè per l’uomo religioso,
l’oggettivazione delle qualità generiche dell’uomo appare per quello che è, ossia
un ente estraneo posto fuori dell’uomo che possiede un’essenza individuale nella
misura del genere.
Ovviamente, anche altre società conoscono lo scambio di prodotti utili, ma
solo quando lo scambio di tali prodotti si è consolidato ed esteso fino al punto
76
77
Ibid.
Id., Per la critica dell’economia politica, cit., p. 31.
89
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
che le cose utili vengono prodotte in misura assolutamente prevalente in vista
dello scambio, allora agli uomini cominciano a considerare i loro prodotti sotto
un duplice carattere, ossia di cosa utile e cosa di valore, e sotto questo secondo
aspetto fanno astrazione dalla diseguaglianza qualitativa dei lavori che hanno
prodotto quelle cose, a loro volta qualitativamente diversissime, e li riducono
al carattere comune di lavoro astrattamente umano, dispendio di forza-lavoro
umana, per poterli scambiare. Come cose utili, i loro prodotti devono provare
il loro valore d’uso all’interno di un sistema naturale spontaneo di divisione sociale del lavoro, soddisfacendo i molteplici e differenti bisogni dei consumatori;
come cose di valore, devono soddisfare i bisogni molteplici dei loro produttori, i
quali, mediante quella riduzione ed equiparazione di prodotti qualitativamente
differenti a espressioni di quantità determinate di lavoro umano astratto, determinano in quale proporzione possono ricevere in cambio i prodotti in grado di
soddisfare quei loro bisogni. Man mano che si consolida e si estende la forma di
società in cui le cose utili vengono prodotte per lo scambio, gli uomini compiono
questa equiparazione di cose utili qualitativamente differenti, quindi riferiscono
le une alle altre come valori, dapprima inconsapevolmente, perché essi calcolano
quanti prodotti utili possono ricevere in cambio del loro prodotto, non perché
le cose siano per loro effettivamente puri involucri materiali di lavoro astratto,
omogeneo. Quando le proporzioni in base a cui gli uomini scambiano i loro
prodotti si sono consolidate, ecco che esse appaiono come connaturali ai prodotti
del lavoro, «cosicché p. es. una tonnellata di ferro e due once d’oro sono di egual
valore, allo stesso modo che una libbra d’oro e una libbra di ferro sono di egual
peso nonostante le loro differenti qualità chimiche e fisiche»78. Dunque, il valore di scambio non si presenta in questa prima fase per quello che è, vale a dire
come lavoro astratto rappresentato da ciascun oggetto che ne sarebbe l’involucro
materiale, ma piuttosto «il valore trasforma ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale»79. Solo tardi, appena la produzione degli oggetti come merci si è
completamente sviluppata, ecco che gli uomini cominciano a decifrare l’arcano
di quel geroglifico, essendo la determinazione degli oggetti utili come valori un
prodotto sociale degli uomini quanto lo è il linguaggio. A quel punto si acquista
la consapevolezza «scientifica che i prodotti di lavoro in quanto son valori, sono
soltanto espressioni in forma di cose del lavoro umano speso nella loro produ-
78
79
Id., Il capitale, Libro primo, cit., p. 107.
Ivi, p. 106.
90
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
zione»80, e che il lavoro astratto esprime solo quella relazione che li equipara e li
rende scambiabili. Questa scoperta fece l’economia politica del secolo XVIII in
una società dove la forma di merce, quindi il valore di scambio dei prodotti del
lavoro, si era completamente sviluppata. Precedentemente il bullionismo poneva
ancora la ricchezza come cosa esclusivamente oggettiva, fuori di sé, nel denaro.
Rispetto a questa posizione il sistema manifatturiero e commerciale rappresentò
«un grande progresso»81, perché trasferì la sorgente della ricchezza nell’elemento
soggettivo, dunque nel lavoro, appunto, manifatturiero e commerciale, ma conservò il carattere limitato di tale sorgente soggettiva, poiché questo lavoro era
considerato come creatore di ricchezza solo in quanto produceva denaro. Invece
il sistema fisiocratico, che vi contrappose come creatrice di ricchezza l’attività
agricola, concepì sì l’oggetto di cui era costituita la ricchezza non più nella forma limitata dell’oro o del denaro, ma come lavoro, tuttavia questo rimaneva
per eccellenza lavoro agricolo, cosicché il prodotto, la ricchezza, rimaneva per
eccellenza prodotto della terra, della natura. Viceversa, «un enorme progresso»82
lo fece Adam Smith, perché, nel ritenere come sorgente della ricchezza il lavoro,
non volle però considerare quest’ultimo in un’accezione determinata, ossia come
lavoro manifatturiero, commerciale o agricolo, bensì come lavoro in generale,
lavoro senz’altro: «Con l’astratta generalità dell’attività produttrice di ricchezza,
noi abbiamo ora anche la generalità dell’oggetto definito come ricchezza, e cioè
il prodotto in generale, o, ancora una volta, lavoro in generale, ma come lavoro
passato, oggettivato»83. Così, quando la produzione di merci si sviluppa in modo
completo, gli uomini dall’esperienza stessa prendono consapevolezza che i loro
lavori privati, – che sono compiuti indipendentemente l’uno dall’altro, ma che in
realtà dipendono l’uno dall’altro «come articolazioni naturali spontanee della divisione sociale del lavoro – vengono continuamente ridotti alla loro misura socialmente proporzionale […], perché nei rapporti di scambio dei loro prodotti, casuali
e sempre oscillanti, trionfa con la forza, in quanto legge naturale regolatrice, il
tempo di lavoro necessario per la loro produzione, così come p. es. trionfa con la
forza la legge della gravità, quando la casa ci capitombola sulla testa»84. Attraver-
80
Ibid.
Id., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, tr. it. di E. Grillo, cit., vol. I,
p. 31.
82
Ibid.
83
Ibid.
84
Id., Il capitale, Libro primo, cit., p. 107.
81
91
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
so il movimento dei prezzi apparentemente casuale, viene sempre determinato,
con gli alti e bassi, la quantità di tempo di lavoro socialmente richiesta per produrre una determinata merce, cioè un prodotto duplice, utile e scambiabile. Il
fatto che questa consapevolezza gli uomini la possano prendere solo dopo che,
nella pratica, si è affermata la grandezza di valore come naturalmente inerente ai
prodotti del lavoro e le relazioni sociali tra persone si sono capovolte in rapporti
sociali tra cose, conferma che in tutte le forme umane la riflessione prende la via
opposta allo sviluppo reale, quindi la consapevolezza scientifica arriva sempre
dopo, post festum.
Tuttavia, che gli uomini siano diventati scientificamente consapevoli del fatto
che i prodotti dei loro lavori, in quanto valori, sono soltanto espressione di lavoro
astrattamente generale e che il valore non è una qualità inerente feticisticamente alle cose, non cancella per nulla questa apparenza, vale a dire non suscita
un’altrettanta consapevolezza scientifica del fatto che si tratta della peculiarità di
rapporti di produzione sociali storicamente determinati, entro cui coloro che ne
«rimangono impigliati»85 producono essi stessi il feticcio, sottomettendosi così
alle loro stesse attività e relazioni sociali, capovolte in cose e rapporti di cose. La
similitudine che qui Marx usa è quella della scomposizione scientifica dell’aria
nei suoi elementi, la quale non fa crollare la rappresentazione della forma gassosa
come un corpo. Quindi, avere scoperto che nelle oscillazioni apparentemente
casuali dei prezzi delle merci (il prezzo è la forma mutata in cui si presenta il
valore di scambio nella circolazione), alla fine trionfa sempre la legge della determinazione del tempo di lavoro socialmente necessario alla loro produzione, non
cancella affatto, in coloro che hanno fatto quella scoperta, la convinzione che la
grandezza di valore delle merci sia una proprietà naturale delle cose, quindi che si
tratti di una legge eterna. «Le forme che danno ai prodotti del lavoro l’impronta
di merci, e quindi sono il presupposto della circolazione delle merci, hanno già
la solidità di forme naturali della vita sociale, prima che gli uomini cerchino di
rendersi conto, non già del carattere storico di queste forme, che per essi anzi
sono ormai immutabili, ma del loro contenuto»86. Infatti, il merito dell’economia
politica moderna è stato di avere scoperto il contenuto di quelle determinazioni
di valore, cioè quantità di lavoro umano astrattamente generale che diventa proprietà delle cose stesse prodotte. Ma essa aveva assunto questo fatto come legge
85
86
Ivi, p. 106.
Ivi, p. 107.
92
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
naturale di sviluppo delle società umane e non come modo di produzione di una
forma storica determinata. Ritorneremo più avanti su questo aspetto.
Attraverso alcuni esempi, Marx mostra il carattere storico, dunque non eterno, delle determinazioni di valore.
Per quanto riguarda la società dove domina il valore di scambio, Marx, ironizzando sul fatto che l’economia politica, Ricardo compreso, pone all’origine
della civiltà umana quelli che sono invece i rapporti storici determinati della
moderna società borghese, si serve della figura romanzesca di Robinson Crusoè,
non a caso prodotto dell’Inghilterra del secolo XVIII, cioè della società dove
predomina lo scambio di merci. Naufragato sull’isola, Robinson deve soddisfare
bisogni di vario genere, quindi deve produrre oggetti utili altrettanto vari, corrispondenti a questi bisogni; perciò valori d’uso differenti richiedono tipi differenti di lavoro, come fabbricare strumenti, pescare, cacciare ecc. «Nonostante la
differenza fra le sue funzioni produttive egli sa che esse sono soltanto differenti
forme di operosità dello stesso Robinson, e dunque modi differenti di lavoro
umano»87. Costretto dalla necessità, Robinson deve distribuire tutto il suo tempo
tra le varie funzioni, a seconda della maggiore o minore difficoltà che ciascuna
di esse comporta per raggiungere il rispettivo scopo utile, cosa che egli apprende
in base all’esperienza. Infine, egli fa un inventario delle cose utili che possiede e
soprattutto del tempo di lavoro che mediamente richiedono le diverse quantità
dei diversi prodotti. Ma così, nella figura di Robinson si trovano, secondo Marx,
«tutte le determinazioni essenziali del valore»88: il carattere del lavoro sociale che
lo produce, ossia lavoro umano astrattamente generale di cui tutti i lavori sono
articolazioni, la sua esistenza come tempo di lavoro generale di cui i vari tempi di
lavoro, richiesti in media per ciascuna quantità di prodotto, sono parti.
Al contrario dell’indipendenza di Robinson, nella società feudale del medioevo europeo a tutti i livelli, dalla produzione materiale alle varie sfere di vita che
poggiano su di essa, appare immediatamente la dipendenza personale tra servi
della gleba e padroni, vassalli e signori feudali, laici e preti, ecc.. Di conseguenza,
i lavori dei produttori e i loro prodotti non hanno la forma fantasmagorica che
assumono nella società dove domina lo scambio delle merci, cioè essi non appaiono in maniera differente da quello che sono, vale a dire come rapporti di cose fra
persone e rapporti sociali tra cose, ma immediatamente si vede il carattere sociale
87
88
Ivi, p. 108.
Ivi, p. 109.
93
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
di queste relazioni, ad esempio, nei servizi in natura. «La forma naturale del lavoro, la sua particolarità, è qui la sua forma sociale immediata, e non la sua generalità, come avviene sulla base della produzione di merci»89, ossia lavoro umano
generale astratto, quantitativamente misurabile in tempo, di cui i singoli lavori
privati sono organi. Anche nella società feudale il lavoro si misura col tempo, ad
esempio nella corvée, però qui ognuno sa immediatamente che quello che dà alla
persona da cui dipende è una determinata quantità di forza-lavoro personale e
non una quantità di generica forza-lavoro umana astratta.
Ancora, nell’industria domestica patriarcale di una famiglia contadina si
trovano, al pari che nella società borghese, la divisione del lavoro – qui come
articolazione del lavoro della famiglia – e la misura temporale del dispendio di
forza-lavoro individuale. Però le cose prodotte, come grano, filati, tela, bestiame
allevato, vestiti ecc., non sono merci, ossia non sono cose che appaiono in rapporto reciproco l’una con l’altra, giacché, a loro volta, i differenti lavori che le producono non sono lavori privati eseguiti isolatamente, che nello scambio entrano in
rapporto attraverso una loro equiparazione come quantità determinate di lavoro
astrattamente generale, rovesciato in proprietà e relazioni sociali di cose. Qui,
viceversa, questi lavori, divisi spontaneamente e naturalmente, si presentano immediatamente come articolazioni del lavoro della famiglia, regolate, distribuite
e misurate in quantità di tempo richiesto a ciascuno secondo l’età, il sesso, e
dipendente dalle condizioni stagionali ecc. Inoltre, essendo le forze-lavoro individuali immediatamente articolazioni del lavoro della famiglia, il carattere sociale
della misura del tempo di lavoro si presenta altrettanto immediatamente, e non
mediatamente come carattere naturale delle cose e come una relazione tra cose.
Infine, in una società di liberi produttori associati, che lavorano con mezzi di
produzione comuni sotto il loro controllo e consapevolmente spendono le loro
forze-lavoro individuali immediatamente come una sola forza-lavoro sociale, «si
ripetono tutte le determinazioni del lavoro di Robinson, però socialmente invece
che individualmente»90. Quindi, se i prodotti di Robinson sono creati con un lavoro individuale articolato in differenti lavori secondo la loro conformità allo scopo, e sono da lui consumati immediatamente, in una società di liberi produttori
associati i prodotti del lavoro eseguito da ciascun individuo sono immediatamente prodotti sociali, di cui una parte serve come mezzo di produzione che rimane
89
90
Ibid.
Ivi, p. 110.
94
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
proprietà sociale e un’altra parte viene consumata dai membri dell’associazione.
La forma della distribuzione di questi prodotti sociali – dato che i bisogni degli
individui singoli sono differenti – varia «col variare del genere particolare dello
stesso organismo sociale di produzione e del corrispondente livello storico di
sviluppo dei produttori»91. Se in questa forma di società la partecipazione di ogni
produttore ai mezzi di sussistenza è determinata dal tempo di lavoro, quest’ultimo gioca un duplice ruolo: è distribuito secondo un piano che regola il rapporto
tra funzioni lavorative sociali e bisogni sociali; funge come criterio della partecipazione del produttore al prodotto comune, quindi misura la quantità esatta dei
mezzi di sussistenza che il produttore può ricevere in cambio del suo lavoro. In
tal modo, il rapporto dei produttori tra loro, con i loro lavori e i loro prodotti è
trasparente e non passa per la fantasmagoria di relazioni sociali tra cose. Questa
forma di distribuzione, misurata sul tempo di lavoro che ciascuno dà alla società,
è qui descritta «solo per mantenere il parallelo con la produzione delle merci»92,
giacché una società di liberi produttori associati che dominano e controllano le
loro condizioni di produzione, è prodotto di un lungo e tormentato processo.
Infatti, la sua prima fase di sviluppo, come osserva Marx nella Critica al programma di Gotha, non potendo realizzarsi su basi proprie, «ist noch behaftet mit den
Muttermalen der alten Gesellschaft, aus deren Schoss sie herkommt»93. Perciò in una
prima fase vi domina ancora il principio dello scambio di valori uguali: benché, a
differenza della società dove domina lo scambio di merci, ciascuno non dà niente
al di fuori del proprio lavoro e nessuno può appropriarsi privatamente di niente
altro se non dei mezzi di consumo individuali, ognuno riceve tanti mezzi di sussistenza quanto tempo di lavoro ha dato, detratti i mezzi di riproduzione della
società. Invece, in una fase dove il livello di sviluppo dei produttori è tale che il
lavoro è diventato il primo bisogno della vita e, di conseguenza, la ricchezza si è
accumulata a livelli elevatissimi, non è più necessario misurare la distribuzione
dei mezzi di consumo in base alla quantità di tempo di lavoro, come avviene
nello scambio di merci.
91
Ibid.
Ibid.
93
«È ancora affetta dalle voglie materne della vecchia società, dal cui grembo essa proviene» (K.
Marx, F. Engels, Werke, Bd. 19, Berlin 1987, p. 20).
92
95
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
5. La religione come riflesso del mondo reale e, in particolare, del feticismo della
merce
Nel discorso marxiano sul feticismo della merce abbiamo seguito finora il
rapporto tra religione e formazione economica della società nella forma di un’analogia. Ma tale rapporto non è solo analogico, bensì soprattutto di dipendenza
della rappresentazione religiosa dalla rispettiva forma di produzione determinata
che si ha nel corso dello sviluppo storico. Per mettere a fuoco quest’altro aspetto
del problema dobbiamo andare, dalle pagine del Capitale, alle pagine dell’Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, apparsa nel 1844 sugli
«Annali-franco-tedeschi».
Qui Marx parte proprio dal risultato della critica feuerbachiana, che egli
così esprime: «l’uomo fa la religione e non la religione l’uomo»94, e ritiene che «la
critica della religione è il presupposto di ogni critica»95. La religione è un errore,
in quanto in essa l’uomo prende coscienza di sé oggettivando il proprio essere
attraverso un’essenza immaginaria separata da lui e mediante la quale si illude di
ritrovare se stesso. Ma a questo punto Marx inizia un percorso che si distacca da
quello di Feuerbach. Infatti, appena l’errore viene smascherato come una «celeste
oratio pro aris et focis»96, ossia come l’apparenza fantastica di un mondo al di là
creato dall’uomo stesso per suoi interessi mondani (questo è ancora in comune
con Feuerbach), viene subito messo in questione l’errore nella sua vera esistenza,
che è profana. Infatti, l’uomo, una volta che «nella realtà fantastica del cielo, dove
cercava un superuomo, ha trovato solo il riflesso (Widerschein) di se stesso, non
sarà più disposto a trovare solo l’apparenza (Schein) di se stesso, solo il non-uomo,
là dove cerca e deve cercare la sua vera realtà»97. Se nella religione l’uomo cercava
un superuomo e invece vi ha trovato solo il riflesso della sua immagine, quindi ha
capito che l’essenza della religione è l’uomo, tuttavia nella realtà profana l’uomo
senza religione, semplicemente ateo e materialista, non significa automaticamente la vera realtà dell’uomo, perché sotto la religione, al posto del riflesso dell’uomo, del Widerschein di lui stesso, c’è ancor sempre l’apparenza dell’uomo, il suo
Schein, quindi ancora non c’è la sua vera realtà, c’è ancora un non-uomo. Perciò
K. Marx, La questione ebraica e altri scritti giovanili, tr. it. di R. Panzieri, Roma 1971, p. 91.
Ibid.
96
Ibid.
97
Ibid. Ho modificato leggermente la traduzione. Cfr. K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 1, Berlin
1970, p. 378.
94
95
96
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
la critica della religione, conseguentemente condotta, porta, dalla critica al riflesso fantastico del superuomo, alla critica dell’immagine falsa che resta dell’uomo
una volta tolto semplicemente il riflesso, dunque a una critica del non-uomo
che sta sotto il superuomo. E allora, se è vero che la religione, come ripete Marx
con Feuerbach, «è la coscienza di sé e il sentimento di sé dell’uomo che non ha
ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso»98, ecco però che «l’uomo
non è un essere astratto, posto fuori del mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo,
Stato, società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza
capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La religione […] è la
realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede
una realtà vera […]. La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale
e la protesta contro la miseria reale»99.
Dunque, anche in Marx, come in Feuerbach, la radice della religione è l’uomo e la religione nasce da uno stato di necessità, da una miseria reale che integra necessariamente questa insopportabile mancanza in un mondo illusorio
posto fuori dell’uomo. Però, il problema che Marx pone è che cosa si intende per
“uomo” e di che natura sono la miseria umana reale e la protesta contro di essa in
un mondo illusorio, di cui è espressione la religione. Ebbene, l’uomo è l’insieme
delle sue relazioni mondane, vale a dire la società e lo Stato, che sono realtà capovolte e perciò producono la religione, la quale come coscienza di questa realtà
capovolta non può che essere una coscienza capovolta. Coerentemente con il
carattere capovolto di questa coscienza che l’uomo ha di un mondo che è già di
per sé capovolto – costituito dal sistema egoistico dei bisogni della società civile
moderna e dallo Stato che la esprime in sintesi –, la religione è la protesta contro
la miseria reale attraverso un mondo liberato da questa miseria, ma immaginario.
Di conseguenza, «eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo
vuol dire esigerne la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua
condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni.
La critica della religione, dunque, è, in germe, la critica della valle di lacrime, di
cui la religione è l’aureola»100. Si può raffigurare il mondo dell’uomo, vale a dire la
miseria umana presente, come una catena rivestita di fiori immaginari. Se la critica della religione si fermasse all’aureola della valle di lacrime, essa strapperebbe
K. Marx, La questione ebraica e altri scritti giovanili, cit., p. 91.
Ivi, pp. 91-92.
100
Ivi, p. 92.
98
99
97
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
solo i fiori immaginari dalla catena che resterebbe sulle spalle dell’uomo. Perciò la
critica della religione ha senso solo in quanto contiene il germe di un’operazione
di ben diversa portata, ossia fare in modo che l’uomo strappi da se stesso la catena
reale che porta sulle spalle e «colga i fiori vivi»101. Quindi essa deve disilludere
l’uomo, che dalla religione si aspetta una felicità, una via d’uscita dalla valle di
lacrime in un illusorio al di là, affinché egli pensi e agisca muovendosi intorno
a se stesso e non facendo muovere oggetti immaginari intorno a lui. Infatti, «la
religione è soltanto il sole illusorio che si muove intorno all’uomo, fino a che
questi non si muove intorno a se stesso»102. Ricordiamo l’immagine analoga di
Feuerbach, per il quale il sole del pianeta uomo è l’essenza stessa dell’uomo resa
oggettiva, ma nella religione questa oggettività diventa illusoria, ragion per cui il
soggetto uomo diventa l’oggetto intorno a cui si muove la sua essenza oggettivata
e trasferita in un soggetto immaginario. Ma poiché la critica della religione è solo
il germe della critica alla valle di lacrime di cui essa è l’aureola, ecco che «è […]
compito della storia, una volta scomparso l’al di là della verità, quello di ristabilire la verità dell’al di qua. È innanzi tutto compito della filosofia, la quale sta al
servizio della storia, una volta smascherata la figura sacra dell’autoestraneazione
umana, quello di smascherare l’autoestraneazione nelle sue figure profane. La critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella
critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica»103.
Questa critica, completamente storica e mondana, che, quindi, è anche la
restaurazione della verità dell’al di qua, era all’ordine del giorno in Francia, e in
Inghilterra, ossia nei paesi più moderni, politicamente emancipati, dove la società
stava già per superare questo pur avanzato gradino della libertà semplicemente
politica nella quale, tuttavia, l’uomo trova ancora la sua immagine capovolta,
nonostante abbia abolito il suo riflesso consistente in un chimerico oltremondo
religioso. L’uomo si emancipa solo conquistando la libertà sociale, vale a dire
riconoscendo e organizzando «le sue “forces propres” come forze sociali»104, ossia
non separate da sé «nella figura della forza politica»105, secondo l’esatta descrizione fatta da Rousseau dell’«astrazione dell’uomo politico»106. Ma in Germania la
101
102
103
104
105
106
Ibid.
Ibid.
Ivi, pp. 92-93.
Ivi, p. 79.
Ibid.
Ivi, p. 78.
98
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
libertà politica non c’era ancora nella realtà, date le condizioni di Ancien régime,
mentre esisteva solo nel pensiero, ossia nella filosofia del diritto di Hegel, che
l’aveva teorizzata, portando così, nell’astrazione, i Tedeschi all’altezza di quella
situazione che nella realtà degli altri popoli moderni era ormai in via di superamento. Poiché la critica del diritto e della politica era da Marx in quel periodo
riferita alla realtà tedesca, egli tiene a sottolineare che solo per questa ragione
l’avrebbe condotta «inizialmente non già [su]ll’originale ma [su] una copia»107,
cioè non direttamente sulla realtà del diritto e della politica, ma sulla filosofia tedesca del diritto e dello Stato. Alle conclusioni di questo lavoro critico, di natura
filosofico-giuridica, svolto nel 1843, Marx fa riferimento sedici anni dopo, nella
Prefazione al fascicolo Per la critica dell’economia politica, apparso nel 1859108,
per giustificare come esso porti di necessità ad un lavoro di critica dell’economia
politica, che così diventa il punto d’approdo della critica della religione.
La conclusione di questa critica alla filosofia hegeliana del diritto e dello Stato
è «che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere
compresi né per sé stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito
umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza il
cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e dei
francesi del secolo XVIII, sotto il termine di “società civile”; e che l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica»109. A sua volta il risultato delle
ricerche in questa scienza, iniziate a Parigi nel 1844, proseguite a Bruxelles – dalla primavera del 1845 in collaborazione con Friedrich Engels – e intensamente
riprese a Londra dopo gli eventi rivoluzionari e controrivoluzionari europei del
1848-1851, è che «nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti
di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro
forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce
la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una
sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate
Ivi, p. 93.
Contiene i primi due capitoli della prima sezione del libro primo della sua progettata opera
critica del sistema dell’economia borghese considerato «nell’ordine seguente: capitale, proprietà
fondiaria, lavoro salariato; Stato, commercio estero, mercato mondiale» (Id., Per la critica dell’economia politica, cit., p. 3). Il lavoro critico in questione è un inedito dell’estate del 1843 dedicato,
come egli dice, a «una revisione critica della filosofia del diritto di Hegel» (ivi, p. 4).
109
Ibid.
107
108
99
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
della coscienza sociale»110. I rapporti che costituiscono la società civile e da cui
hanno origine le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche, filosofiche ecc.,
sono, dunque, rapporti di produzione creati socialmente dagli individui stessi sulla base del raggiunto grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali ossia
dei mezzi di produzione con i quali, mediante il loro lavoro, si appropriano della
natura. Poiché queste forze produttive materiali non sono date una volta per tutte
ma si sviluppano continuamente, le relazioni sociali di produzione in cui questi
individui entrano fra loro non sono statiche ed eterne, ma sono storicamente
determinate, quindi si trasformano insieme allo sviluppo di quelle forze. Sono
ovviamente gli uomini stessi che creano i loro rapporti sociali di produzione
secondo il grado storico di sviluppo delle loro forze produttive materiali; ma tali
rapporti sono indipendenti dalla loro volontà, nel senso che dipendono da quello
che essi possono effettivamente raggiungere a quel grado di sviluppo dei loro
mezzi di produzione, delle loro capacità, dei loro bisogni e così via. Il processo
politico, spirituale e sociale della vita degli uomini è condizionato, a sua volta, dal
modo con cui essi producono la loro vita materiale, dunque dipende dal grado di
sviluppo delle loro forze produttive materiali e dei rapporti sociali di produzione
storicamente corrispondenti a quel grado di sviluppo. Quando questo sviluppo
raggiunge un certo grado, le forze produttive materiali entrano in conflitto con
i rapporti sociali di produzione esistenti, giuridicamente espressi in rapporti di
proprietà, in cui prima avevano operato e che adesso sono diventati degli ostacoli, delle «catene»111, quindi si ha un’«epoca di rivoluzione sociale»112, una fase
epocale di trasformazione e di transizione a una diversa forma di produzione.
Insieme con il rivoluzionamento della base economica si sconvolge e crolla anche
tutta la sovrastruttura giuridica e politica, più lentamente o più velocemente. Le
forme giuridiche, politiche, religiose e artistiche sono le famose “ideologie” nelle
quali gli uomini si rappresentano e combattono il conflitto reale che avviene a
livello delle condizioni economiche di produzione. Questo sconvolgimento lo
si può constatare in modo preciso («treu»113), «naturwissenschaftlich»114 ossia alla
maniera della scienza naturale, appunto perché le grandi trasformazioni epocali
non si possono giudicare sulla base della coscienza che l’epoca ne ha, ma piutto-
110
111
112
113
114
Ivi, p. 5.
Ibid.
Ibid.
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 13, Berlin 1971, p. 9.
Ibid.
100
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
sto è questa coscienza che bisogna spiegare partendo dalle contraddizioni che insorgono a livello della vita materiale, ossia partendo da quel conflitto tra le forze
produttive materiali e i rapporti sociali di produzione in cui esse sono maturate.
Infatti «una formazione sociale non tramonta mai fino a che si sono sviluppate
tutte le forze produttive, le quali hanno ampiamente abbastanza di essa, e nuovi
superiori rapporti di produzione non subentrano mai prima che le loro condizioni materiali di esistenza non siano state covate nel grembo stesso della vecchia
società»115. Come sopra accennato, le grandi linee progressive della formazione
economica della società sono scandite, per Marx, dal modo di produzione asiatico, antico-schiavistico, feudale-servile, borghese-salariato. Queste formazioni
sono caratterizzate da rapporti antagonistici della produzione sociale, dove l’antagonismo non è di natura individuale, bensì proviene dalle condizioni sociali di
esistenza in cui quegli individui si trovano. Con la moderna società borghese si
creano le condizioni materiali per sopprimere, in una superiore forma di società,
questo tipo di antagonismo (ovviamente, non quello individuale in senso stretto).
In coerenza col metodo sopra presentato, Marx afferma – e torniamo così alle
pagine del Capitale – che «per una società di produttori di merci, il cui rapporto
di produzione generalmente sociale consiste nell’essere in rapporto coi propri
prodotti in quanto sono merci, e dunque valori, e nel riferire i propri lavori privati
l’uno all’altro in questa forma di cose, come eguale lavoro umano, il cristianesimo,
col suo culto dell’uomo astratto, e in ispecie nel suo svolgimento borghese, nel
protestantesimo, deismo, ecc., è la forma di religione più corrispondente»116.
Anche nelle società asiatiche e antiche troviamo la trasformazione dei prodotti
in merce e il lavoro produttore di merci, ma in una posizione subordinata, che acquista importanza nella fase del tramonto di quelle società. Tali «antichi organismi
sociali di produzione»117, dove il lavoro degli individui è immediatamente visto
come articolazione sociale della vita della comunità, sono molto più trasparenti
e semplici da guardarsi che la società borghese moderna dove il lavoro umano e
i suoi prodotti realizzano il loro carattere sociale nascondendosi dietro relazioni e
proprietà sociali di cose. Però, negli organismi sociali antichi l’uomo individuale è
immaturo perché ancora non è stato liberato dal legame naturale alla specie, oppu-
115
K. Marx, Per la critica dell’economia politica, cit., p. 5. Ho un po’ modificato la traduzione.
Cfr. K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 13, cit., p. 9.
116
Id., Il capitale, Libro primo, cit., p. 111.
117
Ibid.
101
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
re è legato a un rapporto personale di signoria e servitù. Questo accade perché vi
è un basso grado di sviluppo delle forze produttive materiali, a cui corrispondono
dei rapporti sociali di produzione ancora ristretti e legati al semplice processo di generazione della vita. A livello della sovrastruttura «tale impaccio reale si rispecchia
idealmente nelle antiche religioni naturali e popolari»118.
Invece solo in una forma di società dove gli uomini nella loro stessa vita quotidiana hanno immediatamente davanti in modo chiaro e razionale le relazioni
tra loro stessi e tra loro e la natura, quindi dove le loro relazioni sociali non siano
mediate e occultate dal processo in cui i caratteri sociali dei prodotti dei loro
lavori si presentano come proprietà oggettive delle cose e il rapporto di ciascuno
col lavoro sociale complessivo si presenta come rapporto sociale di cose, può sparire «il riflesso religioso del mondo reale»119. Infatti, questo riflesso è conseguenza
appunto di quel processo in cui i prodotti del lavoro umano e le relazioni sociali
tra i produttori si presentano come un feticcio, ossia come cose e rapporti sociali
di cose, i quali sovrastano gli individui, personalmente liberi ma sottoposti ai
loro stessi rapporti sociali di produzione. Ovviamente, rapporti razionali tra gli
uomini, non velati dal feticismo della merce, non hanno nulla a che vedere con
i rapporti esistenti negli organismi sociali di produzione asiatici e antichi. Certamente neanche lì i prodotti del lavoro e il rapporto tra i produttori e il lavoro
complessivo della comunità assumono il carattere di cose e di rapporti sociali tra
cose, dunque di feticcio; tuttavia c’è la dipendenza dei produttori dalla natura e
dal vincolo naturale della comunità, oppure la dipendenza personale, caratteristica del feudalesimo, quindi non si sono sviluppate l’indipendenza personale degli
individui e le relazioni sociali universali tra loro. Non a caso in quei modi di produzione troviamo il riflesso religioso, ai primordi come religione naturale o, nel
feudalesimo europeo, come cattolicesimo, ossia un feticismo, benché situato non
nella struttura economica ma nelle forme sovrastrutturali della coscienza sociale.
Rispetto a quegli organismi di produzione pre-borghesi, caratterizzati dalla trasparenza dei rapporti sociali, ma anche dalla dipendenza naturale o personale degli individui dalla comunità, la società fondata sul valore di scambio costituisce
un progresso in quanto rompe quei vincoli naturali e conquista l’indipendenza
118
Ibid.
Ibid. “Riflesso” traduce di nuovo il Widerschein dell’Introduzione a per la critica della filosofia
del diritto di Hegel. Cfr. Id., Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, Bd. I: Der Produktionsprozess des Kapitals, Frankfurt-Berlin-Wien 1969, p. 58.
119
102
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
personale degli individui e delle relazioni sociali universali, sebbene i primi, personalmente liberi, siano completamente dipendenti dalle seconde, estraniate in
forma di feticci, ossia di cose sensibilmente sovrasensibili, di cose sociali. Infatti,
anche in questo modo di produzione il riflesso religioso ancora non scompare,
presentandosi, come abbiamo visto, nella forma di protestantesimo, deismo ecc.
«La figura del processo vitale sociale, cioè del processo materiale di produzione, si
toglie il suo mistico velo di nebbie soltanto quando sta, come prodotto di uomini
liberamente uniti in società, sotto il loro controllo cosciente e condotto secondo
un piano»120. Quindi, il riflesso religioso può scomparire solo se si cambiano le
condizioni materiali, ossia se si cambia il modo di produzione sociale che crea la
dipendenza degli individui dalle loro condizioni di produzione. Ma la scomparsa
di quelle condizioni materiali della produzione, che a loro volta sono la condizione di esistenza del riflesso religioso, quindi la scomparsa di quest’ultimo, può
avvenire se si realizzano «una serie di condizioni materiali di esistenza che, a lor
volta, sono il prodotto naturale originario della storia di uno svolgimento lungo
e tormentoso»121, dunque non sono nulla di dato, ma il risultato di un lungo processo storico antagonistico di rivoluzione politica trasformatrice.
Come abbiamo sopra accennato, l’economia politica ha scoperto il contenuto
della forma di valore, ossia il lavoro umano, e della grandezza di valore, ossia la
quantità di tempo di lavoro come misura del valore. Tuttavia, ciò che essa non si
è domandata, è come mai questo contenuto, il lavoro, assuma la forma del valore
cioè di una proprietà inerente alle cose, delle quali si dice che “hanno valore”,
“valgono tanto e tanto” ecc.; né si è chiesta come mai la misura del lavoro diventi
la grandezza di valore del prodotto del lavoro, dunque una misura inerente alle
cose. Ma, dice Marx, «queste formule portan segnata in fronte la loro appartenenza a una formazione sociale nella quale il processo di produzione padroneggia
gli uomini e l’uomo non padroneggia ancora il processo produttivo»122. Questo
fatto è ancora facile da comprendere quando si tratta della semplice forma di
merce, che è la forma elementare e meno sviluppata della società borghese. Ma
quando questa produzione assume forme più complesse, nel denaro, allora l’economia politica mercantilistica non comprende che l’oro e l’argento sono, in
quanto denaro, il prodotto di una forma storicamente determinata di produzione
120
121
122
Id., Il capitale, Libro primo, cit., p. 111.
Ivi, p. 112.
Ivi, pp. 112-113.
103
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
sociale e li considera, invece, «cose naturali dotate di strane qualità sociali»123.
A sua volta, l’economia classica mostra superiorità e guarda dall’alto in basso il
sistema monetario e, come abbiamo visto, scopre che la ricchezza è lavoro umano
oggettivato compiendo, così, un enorme progresso. Ma appena il denaro si trasforma in capitale, ecco che essa stessa finisce col mostrare il suo feticismo, perché non considera questi fenomeni il prodotto di un sistema sociale determinato,
bensì una necessità naturale. Così, le forme pre-borghesi di produzione vengono
trattate dall’economista moderno come i Padri della chiesa trattano le religioni
precristiane, ossia, potremmo dire con Feuerbach, come idolatria e feticismo;
ma quando poi si tratta di scoprire il feticismo presente nella società moderna e
nella forma del denaro come capitale, ecco che egli considera queste forme come
naturali e non come prodotto di una determinata formazione sociale in cui gli
uomini, pur liberati dai vincoli naturali, sono ancora soggetti al processo di produzione invece di dominarlo. Perciò Marx dice, citando un passo dalla sua Miseria della filosofia. Risposta alla Filosofia della miseria del signor Proudhon, del 1847:
Gli economisti hanno uno strano modo di procedere. Per essi ci sono soltanto due
specie di istituzioni, quelle artificiali e quelle naturali. Le istituzioni feudali sono artificiali, quelle borghesi sono naturali. In questo assomigliano ai teologi, che anch’essi
pongono due specie di religione. Tutte le religioni che non sono la loro, sono invenzioni
degli uomini, mentre la propria religione emana da Dio […]. Così di storia ce n’è stata,
ma non ce n’è più124.
Di nuovo troviamo l’analogia tra critica della religione e critica dell’economia
politica, e troviamo ripresa la stessa osservazione di Feuerbach, che abbiamo sopra
visto, secondo cui una religione più evoluta accusa quella precedente di idolatria,
quindi di avere un oggetto e un contenuto umani, ma fa eccezione per se stessa,
perché in realtà essa ha mutato solo l’oggetto e il contenuto, ma rimane all’interno delle leggi necessarie ed eterne che costituiscono l’essenza della religione,
perciò continua a illudersi che il suo contenuto sia oltreumano. Analogamente,
l’economia politica moderna accusa le teorie economiche precedenti di essere
legate a una concezione feticistica della ricchezza, perché la trovano nell’oro, nel
commercio e poi nella terra, quindi la legano a una proprietà naturale delle cose,
123
124
Ivi, p. 114.
Citato ivi, p. 113. Ho integrato in un punto la citazione. Cfr. Id., Das Kapital, cit., p. 60.
104
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
mentre essa scopre che il contenuto della ricchezza è lavoro umano oggettivato;
ma poi, quando ha a che fare con la trasformazione del denaro in capitale, rimane
essa stessa impigliata nella forma feticistica, appunto perché essa è l’ideologia di
una società determinata, quella borghese.
Quanto fin qui detto ci permette, però, di comprendere anche la differenza
tra la critica della religione di Marx e quella di Feuerbach.
Il punto di dissenso – espresso da Marx insieme con Friedrich Engels nel
1845-1846 – sta nel fatto che all’origine dell’illusione religiosa Feuerbach «pone
”l’uomo” invece che l’“uomo storico reale”»125, tesi che riprende l’affermazione
del 1843-1844, secondo cui l’uomo va inteso non come un essere astratto posto
fuori del mondo ma come il mondo dell’uomo, Stato e società, senza però usare
più «la fraseologia filosofica»126 e «le espressioni filosofiche che tradizionalmente
sfuggivano, come “essenza umana”, “genere” ecc.»127, ancora presenti in quegli
scritti. Così, nonostante la differenza e il progresso che Feuerbach rappresenta
rispetto all’“autocoscienza”, come è intesa da altri filosofi tedeschi post-hegeliani,
ad esempio da Bruno Bauer, «”l’uomo”» 128, di cui egli parla, «è di fatto “il tedesco”»129, ossia pur sempre espressione dell’arretratezza della società e dello Stato
tedeschi dell’epoca, rispetto ai popoli moderni, per i quali le condizioni materiali
spingevano verso la fase pratica della rivoluzione sociale, mentre in Germania la
liberazione dell’uomo poteva essere posta in un atto ideale e non come conseguenza di una trasformazione storica.
Ciò emerge ancora più nettamente considerando che in Feuerbach la concezione del mondo sensibile consiste nell’“intuizione sensibile” del mondo e
dell’uomo da parte dell’uomo. Su questa base, quando Feuerbach urta contro ciò
che contraddice la perfezione del sentimento e della teoria, e l’armonia estetica a
cui la teoria è legata, in particolare l’armonia dell’uomo e della natura che da lui
è data come presupposto, allora, per eliminare la contraddizione, distingue tra
una visione profana di tipo pratico, che riguarda quello che si può toccare con
mano, e una visione di tipo teoretico più alto, che arriva alla vera essenza delle
cose e che è propria dello scienziato e del filosofo. Certamente, secondo Engels
e Marx, la scienza non deve fermarsi all’apparenza immediata: infatti, l’errore
125
126
127
128
129
«Marx-Engels-Jahrbuch 2003», cit., p. 7; tr. it., cit., p. 24. Ho modificato la traduzione.
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 3, cit., p. 217.
Ivi, pp. 217-218.
«Marx-Engels-Jahrbuch 2003», cit., p. 7; tr. it., cit., p. 24.
Ibid.
105
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
di Feuerbach non sta tanto nel fatto che egli subordini l’apparenza pratico-egoistica alla vera realtà sensibile; ma quest’ultima deve essere «costatata attraverso
lo studio approfondito dei fatti sensibili»130, mentre invece Feuerbach «non può
venire a capo della realtà sensibile senza esaminarla con gli “occhi”, ossia con gli
“occhiali” del filosofo»131.
Il mondo sensibile, nella sua vera realtà, non semplicemente intuito con una
sensibilità immediata, ma studiato e costatato attraverso lo studio approfondito
dei fatti sensibili, si presenta come una realtà in continuo mutamento, giacché è
il prodotto dell’industria e delle condizioni sociali. Esso non è, dunque, qualcosa
di dato dall’eternità e accessibile alla contemplazione teoretica del filosofo, ma «è
un prodotto storico, il risultato dell’attività di tutta una serie di generazioni, ciascuna delle quali si è appoggiata sulle spalle della precedente, ne ha ulteriormente
perfezionato l’industria e le relazioni e ne ha modificato l’ordinamento sociale in
base ai mutati bisogni»132. Ciò vale anche per gli oggetti più semplici della certezza
sensibile: osservano ironicamente Engels e Marx che il ciliegio e gli altri alberi da
frutta prima furono trapiantati in Europa col commercio, e grazie a questa azione
storica, che è determinata in una certa società e in un certo tempo, «esso fu offerto
alla “certezza sensibile” di Feuerbach»133. Questi cerca l’unità dell’uomo con la natura nell’intuizione teoretica del mondo sensibile, distinta da quella sporcamente
pratica individuale e ripiegata su se stessa, da cui nasce la religione per integrare la
mancanza di teoria, che, invece, renderebbe chiara l’autosufficienza dell’uomo e
della natura, quindi la loro armonia. Ma, secondo Engels e Marx, l’unità dell’uomo
con la natura è in realtà sempre esistita nell’industria in modo diverso, più o meno
sviluppato a seconda di ciascuna epoca, e la lotta dell’uomo con la natura c’è fino
a che le forze produttive umane non raggiungono una base adeguata di sviluppo.
Ciò non significa negare che la natura esterna esista prima degli uomini originari
nati dalla generazione spontanea, né che esista una natura esterna non ancora lavorata dall’industria umana, quindi in questo senso storicizzata. Ma, a parte che
questa natura esterna ha a sua volta una storia naturale, la produzione e lo scambio
condizionano la distribuzione della ricchezza e l’organizzazione delle classi sociali,
e queste, a loro volta, condizionano il modo in cui la produzione e lo scambio
130
131
132
133
Ivi, p. 8; tr. it., cit., ibid.
Ibid.
Ibid; tr. it., cit., p. 25.
Ibid.
106
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
vengono esercitati. Ora, poiché tutto questo muta storicamente a seconda delle
varie epoche, il paesaggio di Manchester mostrava, nel 1845-1846, solo macchine e
industrie laddove precedentemente vi erano solo filatoi e telai a mano; la campagna
romana mostrava, negli stessi anni, un terreno paludoso là dove all’epoca augustea
vi erano vigneti e ville di capitalisti romani. Se questa produzione e scambio nella
loro evoluzione e determinatezza storica fossero interrotti anche per breve tempo,
«Feuerbach non solo troverebbe un enorme cambiamento nel mondo naturale, ma
gli verrebbe ben presto a mancare l’intero mondo umano e la sua stessa facoltà
intuitiva, anzi la sua stessa esistenza»134.
Feuerbach ha sicuramente il merito di avere scoperto che anche l’uomo è un
«“oggetto sensibile”»135, dunque è in unità con la natura. Ma poiché egli «resta
nella teoria»136, non lo concepisce come «“attività sensibile”»137, quindi non arriva
agli uomini concreti, considerati come l’insieme delle loro relazioni sociali storicamente determinate, grazie a cui essi diventano quello che sono adesso, e che, a
loro volta, trasformano. Restando «fermo all’astrazione “l’uomo”»138, Feuerbach
intende per rapporti sociali autenticamente umani solo l’amore, l’amicizia ecc.,
visti in modo idealizzato sotto la forma del genere. Di conseguenza, tutto ciò che
è attività pratica, è relegato all’attività individuale, la quale discende da un’intuizione sporca perché macchiata dall’egoismo. Così, se, invece di uomini sani, egli
vede uomini sofferenti, malati nel corpo e affamati, non interviene per criticare
e cambiare questi che sono i veri rapporti reali sensibili, ma può atteggiarsi verso
questa realtà sofferente e misera solo teoreticamente, ossia rifugiandosi nell’intuizione sensibile dell’essenza umana, la quale compensa la deficienza individualistica nella specie. Viceversa, il materialista comunista, che, come Feuerbach, parte
dall’oggetto sensibile, ma concepisce la sensibilità come attività, proprio in questa
situazione di miseria e di bisogno pratico, prodotta delle condizioni materiali di
esistenza, «vede la necessità e insieme la condizione di una trasformazione tanto
dell’industria quanto della struttura sociale»139.
134
135
136
137
138
139
Ivi, p. 10; tr. it., cit., p. 26.
Ivi, p. 11; tr. it., cit., ibid.
Ibid. Ho un po’ modificato la traduzione.
Ibid.
Ibid.
Ibid; tr. it., cit., p. 27.
107
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
6. Conclusione: de te narratur fabula
Nella fase attuale di sviluppo della società capitalistica, nel tempo ormai
lungo che si è inaugurato dalla fine della Guerra fredda, il discorso politico dominante presenta i conflitti sociali in termini di scontro di culture o di civiltà,
indipendentemente da se si ritiene che questo conflitto debba essere condotto per
affermare la superiorità di una civiltà, ossia di una forma razziale, economica,
giuridica, politica, religiosa, su un’altra, oppure se lo si rifiuti in nome dell’eguaglianza e della convivenza delle molteplicità e diversità di queste forme. In questo quadro, comunque conflittuale, assume particolare evidenza e importanza la
questione religiosa. Come si può ricavare dall’analisi marxiana, fin qui seguita,
del rapporto tra religione e struttura sociale, la rappresentazione del conflitto
in questi termini ne nasconde le reali radici, ma questo occultamento non è
qualcosa che avviene per caso, come se fosse un errore soggettivo di questo o
di quel teorico, neoconservatore, razzista o pacifista che sia, né è una campagna
pianificata, complottata o orchestrata da poteri unitari che si scontrano a favore
o contro il conflitto di civiltà. Essa è un’apparenza certo mistificata, ma non per
questo meno reale, proprio in quanto esprime il modo in cui il conflitto sociale
si imposta ad una stratificazione più profonda della società stessa. Il modo in cui
oggi si rappresenta il rapporto socio-politico globale, ossia nell’alternativa scontro/incontro di civiltà, con la particolare evidenza assunta dal fattore religioso, è
una coscienza capovolta di rapporti reali essi stessi capovolti, perché caratterizzati dal passaggio a una completa sottomissione planetaria dell’intera società alla
forma di produzione dove domina lo scambio di merci. Se è vero che la forma di
merce è piena di sottigliezza metafisica e capricci teologici, allora è il suo dominio
su tutta la società che spiega la persistenza, come suo riflesso adeguato, delle forme religiose, malgrado il carattere apparentemente “secolarizzato” dell’economia
mondiale di mercato. A sua volta, il dominio della forma di merce trova la sua
radice in rapporti antitetici che si giocano a livelli più profondi e che riguardano
il conflitto tra capitale e lavoro salariato. Perciò, solo dopo un “lungo e tormentoso” processo storico, dove gli uomini sopprimano questi rapporti antitetici profondi e creino condizioni materiali in cui la ricchezza si presenti come prodotto
di relazioni razionali e universali tra individui che controllano le loro condizioni
di esistenza, possono scomparire anche le forme nebulose religiose, etniche, culturali ecc., in cui i rapporti sociali e le loro modalità conflittuali si presentano.
Mi pare importante sottolineare questa sequenza suggerita da Marx per due
ragioni. La prima è che tra i sintomi più evidenti del fallimento a cui nel secolo
108
2. «Illusione religiosa» e «feticismo della merce» tra Feuerbach e Marx
scorso sono andati incontro i primi tentativi di realizzazione di una forma sociale di questo tipo, c’era anche la pretesa di sopprimere la religione intervenendo
repressivamente sugli individui, invece di intervenire sulle condizioni materiali
che rendevano possibile l’illusione. La seconda è che presso le popolazioni le
quali oggi, in nome di una fede religiosa, lottano per liberarsi da sfruttamenti
neocoloniali imposti violentemente e aggressivamente in nome di “diritti umani
universali”, la religione è certo illusione inadeguata, e tuttavia è pur sempre “protesta contro la miseria reale”.
109
Sezione II
Crisi: riforme e conflitti
3.
La politica e la guerra come violenza organizzata di classe:
una ricognizione della prospettiva marxiana
1. Premessa
I conflitti del secolo XX sono stati visibilmente segnati, pur nella loro varietà,
dalla centralità del conflitto tra capitale e lavoro. Esso è stato predominate nella
società civile ed è emerso sul piano delle forme politiche all’interno degli Stati.
Infatti, tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, prescindendo dalla soluzione
comunista che risolveva – sia pure con esito fallimentare – il conflitto con la
dittatura del proletariato, la soluzione politica ford-tayloristica-keynesiana, da
un lato, e il nazionalsocialismo, dall’altro, erano due tentativi opposti e tuttavia
convergenti nel proposito di risolvere il conflitto attraverso l’incorporazione del
proletariato nello Stato. Lo Stato liberale del secolo XIX fu profondamente trasformato da questi tentativi, pur restando, a mio avviso, quella capitalistico-borghese la forma di produzione dominante. Dalla seconda guerra mondiale uscì
vincente, tra le due forme politiche di integrazione, quella keynesiana, la quale ha
dominato fino agli anni Ottanta del secolo, avendo al centro della politica degli
Stati la contrattazione collettiva tra le parti sociali, di cui sindacati e partiti del
lavoro costituivano centrali protagonisti. Nei rapporti internazionali la centralità
del conflitto tra capitale e lavoro era espressa dalla divisione del mondo nei due
blocchi, capitalistico-occidentale e comunista, divisione segnata soprattutto dalla
lotta per conquistare l’influenza della parte della Terra che veniva chiamata “Terzo mondo”. In questo contesto avvenne anche la rottura, nel blocco comunista,
tra Unione Sovietica e Repubblica popolare cinese, intorno ai modi diversi di
concepire le modalità di organizzazione del conflitto della classe operaia e della
sua organizzazione politica, dove un punto decisivo è costituito dal rapporto tra
operai e contadini nella comune lotta contro il capitalismo.
Nella svolta tra i due secoli la centralità di questo conflitto tra capitale e lavoro sembra essere venuta meno. Certamente il conflitto in questione non è affatto
scomparso, tuttavia la rappresentazione dominante lo ha cancellato in quanto
reale motore e centro di gravità degli altri conflitti. Questi ultimi si presentano
come guerre etniche, razziali, religiose o di civiltà, e le forme organizzative del
113
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
conflitto tra capitale e lavoro non sembrano essere tali da mettere in questione la
totalità dell’ordinamento sociale esistente, né accennano a muoversi più in questa direzione, mentre decisivi per gli assetti sociali e politici mondiali sembrano
essere piuttosto conflitti su basi religiose o di civiltà. Di conseguenza, anche sul
piano dell’analisi scientifica i criteri di interpretazione dei conflitti fanno centro
più su elementi culturali, simbolici, linguistici. Perciò una locuzione volutamente
ambivalente come “dire la guerra e/è farla”, ben registra una tale situazione e la
sua problematicità. Eppure, questo conflitto tra capitale e lavoro, caratteristico
della moderna società borghese, racchiude qualcosa di assolutamente radicale
ossia la questione stessa del rapporto degli uomini con la natura e tra di loro.
Senza dubbio questa stessa questione radicale è in gioco anche nelle religioni e
nelle culture in nome delle quali si fanno le guerre, altrimenti gli uomini non
metterebbero a rischio la propria vita. Nella concezione che pone al centro della
sua riflessione quel conflitto tra capitale e lavoro, il materialismo storico, vi è una
lettura di questo rapporto degli uomini con la natura e tra di loro, che poggia
sulla cognizione scientifica per cui gli esseri naturali e quindi anche gli esseri
umani – i quali, pur nella peculiarità del loro modo di esistere, tuttavia nella
natura non sono «uno Stato nello Stato»1 – trovano la loro origine in se stessi e si
sviluppano autoproducendosi, in alcune fasi della loro esistenza sociale, attraverso contraddizioni e conflitti, che, a determinate condizioni reali e non in base a
un ideale normativo, possono essere soppressi. Perciò la perdita di visibilità, nel
discorso dominante, di una lettura così radicale del conflitto, in conseguenza di
certe crisi sociali e politiche verificatesi nel Novecento, non significa affatto che
tale impostazione debba scomparire dall’analisi scientifica e dalla prassi politica,
ma, al contrario, essa deve mettersi alla prova nella teoria e nella prassi contemporanee, nelle quali rientra la sua stessa crisi come discorso e pratica dominante.
D’altronde, l’espansione su tutta la Terra del rapporto capitalistico di produzione
dopo il crollo del comunismo, porta con sé anche la distruzione della forma keynesiana di Stato e caratterizza tutta la fase economica presente di globalizzazione
del libero scambio di merci e di lavoro, di precarietà di quest’ultimo, di politiche di bassi salari e di povertà prodotta dallo sviluppo di un’enorme ricchezza.
Da questa netta fisionomia capitalistica dell’odierna globalizzazione, deriva che
le forme politiche dell’ordine mondiale presente e la legittimazione delle guerre
1
B. De Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, tr. it. di S. Giametta, Torino 1978,
p. 120.
114
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
hanno per fondamento appunto i diritti umani borghesi. Se nella concezione
materialistica della storia la sorgente viva del capitale è il lavoro a sua volta posto
dal capitale stesso, e se questa relazione si sviluppa in maniera fortemente e irrimediabilmente antagonistica, questa rimozione della centralità e radicalità del
conflitto tra capitale e lavoro non si presenta forse, nella globalizzazione, tanto
più ostentata quanto più proprio questa contraddizione è diventata assoluta? E
che il secolo Ventunesimo porti in primo piano la guerra diffusa, non è forse
l’apparenza rovesciata della radicalità del conflitto latente, «la rivolta delle forze
produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i
rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia
e del suo dominio»2?
Nel pieno del processo di globalizzazione dei mercati dei prodotti e del lavoro, alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, vi è stata una crisi finanziaria in
Asia e contemporaneamente, a partire dalle proteste di Seattle del 1999 in occasione della riunione del Wto, cominciavano a svilupparsi nuovi conflitti sociali su
tematiche inerenti la sfera più ampia della riproduzione piuttosto che della produzione vera e propria. Ma il legame tra le due sfere è strettissimo, giacché questi
soggetti in lotta, unitamente ai migranti che si spostano dall’Asia e dall’Africa
verso il Nord e l’Occidente del mondo, costituiscono il grande esercito industriale di riserva, quali che siano le nuove forme di divisione del lavoro conseguenti al
mutamento degli strumenti di produzione – l’informatica è ovviamente centrale,
insieme alla perdita di centralità della grande fabbrica ford-tayloristica. Orbene,
all’interno di questi movimenti si è sviluppata una forte opposizione alla guerra
come forma principale, perseguita soprattutto dagli Stati Uniti d’America e dalla
Gran Bretagna, di instaurazione del nuovo ordine mondiale. Contemporaneamente si è sviluppata tutta una problematica sulle forme organizzative e di lotta
antagonistiche al modo di produrre e distribuire la ricchezza fondato sul capitale
globalizzato. In questo contesto la questione della violenza è un punto nevralgico
della discussione. Il Novecento aveva visto la violenza organizzata dei sistemi socialisti sovietico e cinese fallire i suoi obiettivi e rovesciarsi nell’effetto contrario.
Il sistema sovietico portò ai gulag e alla cortina di ferro, e fu ampiamente rifiutato
già dai movimenti antagonistici che si svilupparono in Occidente negli anni Settanta del secolo scorso. Il sistema cinese, apprezzato da questi movimenti nel con-
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 4, cit., p. 467; tr. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Manifesto
del Partito Comunista, Roma-Bari 1995, pp. 91-92.
2
115
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
tributo alla lotta di liberazione di operai e contadini, guidata da Mao-Tse Tung,
fu nettamente respinto quando mise capo alla repressione dei moti studenteschi
del 1989 nella piazza Tien-an-men. Dal canto loro, anche i movimenti di lotta
antagonistici, sviluppatisi in Europa e in America negli anni Settanta, avevano
praticato forme di violenza, soprattutto in Italia, che degenerò portandoli a una
gravissima crisi.
Per tutti questi motivi esposti sommariamente, vorrei tentare una ricognizione della concezione marxista della guerra in connessione al discorso sulla violenza organizzata e quindi sul potere politico. Essa è propedeutica a un discorso
sulle forme di organizzazione politica della contemporaneità, che non posso fare
in questa sede.
2. Guerra e produzione sociale degli uomini
Gli uomini cominciarono a distinguersi dagli animali nel momento in cui i
loro mezzi di sussistenza li «cominciarono a produrre»3, e così, indirettamente,
continuano a produrre la loro stessa vita materiale. Tale produzione che gli individui fanno dei loro mezzi di sussistenza, non è soltanto una semplice riproduzione dell’esistenza fisica, ma è una determinata forma di estrinsecazione della
loro vita, sia attraverso ciò che producono sia attraverso il modo in cui lo fanno.
Produrre i mezzi di sussistenza è perciò un’azione storica, fin dalla più semplice
produzione dei mezzi per soddisfare quei bisogni, che sono a loro volta la condizione della stessa vita storica e che ogni giorno gli uomini ripetono da millenni
per mantenersi appunto in vita, ossia mangiare, bere, vestire. Contestualmente,
ogni bisogno soddisfatto, l’azione eseguita per soddisfarlo e lo strumento impiegato allo scopo generano nuovi bisogni, e proprio questa produzione di nuovi
bisogni costituisce la «prima azione storica»4. Sempre contestualmente, la riproduzione che gli individui fanno della propria vita è anche produzione di altri
uomini, e questa assume agli inizi la forma del rapporto sociale della famiglia,
rapporto successivamente subordinato ad altri rapporti sociali più allargati, perché prodotti da nuovi e aumentati bisogni, a loro volta creati dall’aumento della
«Marx-Engels-Jahrbuch 2003», hg. von der Internationalen Marx-Engels-Stiftung Amsterdam/Berlin 2004, p. 107; tr. it. di F. Codino, Opere V 1845-1846, Roma 1972, p. 17.
4
Ivi, p. 13; tr. it., cit., p. 28.
3
116
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
popolazione. Perciò, questa produzione della loro esistenza gli individui la fanno
socialmente, ossia essa presuppone le loro reciproche relazioni. Così, la produzione della vita propria mediante il lavoro, e altrui mediante la procreazione (e,
oggi, grazie alle scoperte di tecniche riproduttive, di nuovo mediante il lavoro
o una combinazione di entrambi i mezzi) è un duplice rapporto: con la natura
e sociale, ossia che avviene con la cooperazione di più individui tra loro. Ma
appunto perché si tratta di cooperazione tra individui, il modo di cooperazione
cambia storicamente e quindi condiziona a sua volta il modo di produzione della
vita da parte degli individui stessi, ragion per cui anche questo modo di produzione è storicamente mutevole. «Un modo di produzione o uno stadio industriale
determinato è sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale
determinato, e questo modo di cooperazione è anche esso una “forza produttiva”»5. Quindi, fin dalle origini gli individui stanno tra loro socialmente legati in
senso materiale, e questo legame si presenta in modo storicamente determinato.
Perciò la storia degli individui è la storia delle loro relazioni con la natura e sociali, dunque in primo luogo è la loro storia materiale, quella delle forme specifiche
della loro produzione e dello scambio, nel senso che producono e scambiano
in vari modi. È questo fatto che tiene uniti gli uomini e fa la storia, e non in
primo luogo un qualche elemento ideale come lo Stato, la religione, la filosofia,
che invece presentano questi legami materiali proprio occultandone la storicità,
quindi in forma rovesciata, e ciò avviene per determinati motivi presenti entro
quel legame materiale e non viceversa. Infatti, quando nei reali rapporti materiali
con la natura e nei rapporti sociali di produzione e di scambio tra gli individui si
raggiungono gradi storicamente determinati di sviluppo provocati dall’aumento
e dalla novità dei bisogni, della popolazione e degli strumenti di produzione,
questi entrano in conflitto con i rapporti sociali esistenti: a quel punto, le forme
politiche e quelle della coscienza rappresentano questi rapporti esistenti, storicamente prodotti in precedenza, come se fossero eterni, occultando i mutamenti
di forze produttive, bisogni, quantità di popolazione, che sono avvenuti sotto di
essi e che li rendono storicamente superati. Anche quelle forme politiche e ideali sono perciò determinate dai cambiamenti della loro base materiale, quindi,
malgrado la loro pretesa di eternità, mutano storicamente: ma la loro funzione è
quella di produrre l’apparenza, ossia ogni volta di legittimare come eterno ciò che
è invece sempre di nuovo storicamente determinato. La coscienza è, allora, solo
5
Ivi, p. 15; tr. it., cit., ibid.
117
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
un aspetto e un prodotto di queste condizioni storiche materiali di produzione e
di scambio, non per caso essa (questo è importante sottolineare per il tema “dire
la guerra”) si presenta come linguaggio, anzi «il linguaggio è la coscienza reale,
pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche
per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla
necessità di rapporti tra altri uomini»6. Questo carattere al tempo stesso linguistico e sociale della coscienza ha la sua radice nel carattere sociale del modo in
cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza, perciò essa non può esistere
come “coscienza pura”. Mente e linguaggio nascono insieme dal bisogno di avere
rapporti con altri uomini onde produrre i mezzi di sussistenza conformemente a
come l’uomo esiste e agisce. Perciò, anche la coscienza e il linguaggio sono storicamente condizionati e storicamente si sviluppano dalla necessità dei rapporti
con gli altri uomini, dal modo in cui si sviluppano i bisogni, la popolazione e i
mezzi di produzione, ossia da quelle condizioni materiali dell’esistenza che sole
meritano di essere chiamate storiche. Ne consegue che la stessa “coscienza pura”
è una rappresentazione la quale nasce a determinate condizioni storiche, ossia a
uno stadio di sviluppo più progredito nei rapporti di produzione e di scambio tra
gli individui di una determinata epoca. Infatti, la coscienza si presenta nelle prime fasi storiche come coscienza e comportamento limitati degli individui verso la
natura, avvertita come potenza estranea che li sovrasta ergendosi contro di loro;
contemporaneamente essa si presenta come coscienza della necessità di stabilire
rapporti con altri uomini e come legame limitato con una ristretta cerchia di
altri uomini. Queste due relazioni limitate, con la natura e con gli altri uomini,
si condizionano a vicenda.
Con l’accrescersi della produttività, l’aumento dei bisogni e della popolazione, cambiano i rapporti di vita sociali, quindi anche la coscienza che ne è un
momento. Questo cambiamento dei rapporti sociali si esprime nella comparsa
e nello svilupparsi della divisione del lavoro. Quest’ultima, dunque, non è «una
legge eterna, una categoria semplice e astratta […]. Il lavoro si organizza e si
divide diversamente, a seconda degli strumenti dei quali dispone»7. La divisione
del lavoro è dunque il prodotto di un processo che è sociale e quindi storico,
ossia di carattere materiale: essa nasce dalle condizioni storicamente determinate
Ivi, p. 16; tr. it., cit., p. 29.
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 4, cit., pp. 144-149; tr. it. di F. Rodano, Miseria della filosofia.
Risposta alla Filosofia della Miseria del signor Proudhon, cit., pp. 108-113.
6
7
118
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
della produzione e dello scambio, quindi non rimane sempre la stessa, ma muta
fortemente attraverso le varie epoche. Dalla più elementare divisione del lavoro
sessuale per la riproduzione, oppure dalla disposizione fisica, necessità, bisogno,
si può giungere, tra l’altro, con lo sviluppo dei bisogni, della popolazione e dei
mezzi di produzione, alla divisione tra lavoro manuale e lavoro mentale, e solo
a questo punto la coscienza può rappresentarsi come qualcosa di indipendente,
come coscienza dell’individuo singolo. Questa più evoluta divisione del lavoro
che produce la rappresentazione di una coscienza pura, autonoma, indipendente
da rapporti sociali, ma in realtà condizionata proprio da più avanzati rapporti di
produzione e di scambio, dunque sociali, funziona in modo da «concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunché di reale»8. Abbiamo così le forme
politiche presunte “pure” (ad esempio, lo Stato che sembra ergersi come un’entità autonoma contro la società civile) e le grandi forme teoriche quali l’arte, la
filosofia, la teologia. Poiché queste autonomizzazioni apparenti sono dovute alla
divisione sociale del lavoro, è possibile che la coscienza, oltre a pensarsi come
autonoma, entri anche in conflitto con quelle condizioni materiali, ossia di produzione e di rapporti sociali esistenti, da cui in realtà proviene. Ma questa contraddizione della coscienza con la prassi storicamente esistente in un determinato
periodo, è dovuta non a un movimento interno, autonomo, della coscienza stessa
o dell’autocoscienza che è la forma estrema di questa divisione del lavoro, bensì
è dovuta al fatto che entro la prassi stessa si stanno separando ed entrando in
contraddizione le forze produttive, dunque gli strumenti di produzione, da un
lato, e, dall’altro, i rapporti sociali, i quali erano stati prodotti insieme a quelle
forze produttive ed erano forze produttive essi stessi, ma adesso non soddisfano
più i nuovi e accresciuti bisogni, la nuova e accresciuta produttività che sta in
rapporto con l’aumento della popolazione. Ma, stante la divisione del lavoro, è
del tutto evidente che la produzione materiale, le relazioni sociali e la coscienza
entrino tra loro in conflitto. Infatti, appunto perché c’è la divisione del lavoro, è
possibile, anzi, inevitabile, che la produzione, il godimento, l’attività spirituale e
l’attività materiale tocchino a individui diversi, da cui appunto nasce il conflitto.
L’unico modo di eliminare questo conflitto sta nell’abolire la divisione del lavoro.
Ma ciò non significa tornare alla fase primitiva in cui questa divisione ancora non
c’era, perché subito si riproporrebbe la tendenza degli individui a produrre i loro
mezzi di sussistenza di maniera tale che il primo bisogno soddisfatto, l’azione del
8
«Marx-Engels-Jahrbuch 2003», cit., p. 17; tr. it., cit., p. 30.
119
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
soddisfarlo e lo strumento già acquisito per soddisfarlo, creano nuovi bisogni, e
che gli uomini, rifacendo ogni giorno la loro vita, si riproducono, per cui si ha
uno sviluppo nei bisogni, negli strumenti per soddisfarli, dunque nelle forze produttive, nei rapporti sociali e nella popolazione, da cui di nuovo la necessità della
divisione del lavoro e i conseguenti conflitti. Allora, la divisione del lavoro può
essere soppressa solo quando i bisogni, i mezzi per soddisfarli, le forze produttive,
la popolazione e la cooperazione sono giunti a tal punto, che essa entra in contraddizione con questi nuovi bisogni, godimenti e forze produttive, nel senso che
essi sono divenuti universali e perciò la divisione del lavoro costituisce un limite
a questa universalità, e di conseguenza essa, ovvero il lavoro stesso, deve essere
abolita a pena di distruggere tutta la ricchezza nel frattempo creatasi. Quindi,
la soppressione della divisione del lavoro non è un ritorno alle condizioni in cui
il comportamento degli uomini con la natura e tra loro stessi era unilaterale e
limitato, quindi richiedeva una minima divisione del lavoro o una sua assenza
per unilateralità, ma è un avanzamento a condizioni di universalità dei rapporti
degli uomini con la natura, nel senso che si ha il pieno dominio su di essa, e di
universalità delle relazioni sociali. Per questo la divisione del lavoro deve giungere
a un punto in cui essa stessa produce queste relazioni universali rispetto a cui
diviene inadeguata, e così ha prodotto le forze che la sopprimono. Tornando alla
coscienza, tutto ciò che nello Stato e nella rappresentazione filosofica, teologica
ecc., appare come vincolo, come concetto, come irresolutezza, è solo una rappresentazione che apparentemente mostra questi vincoli come ideali e come propri
dell’individuo isolato, ma in realtà si tratta dei vincoli riguardanti la produzione
della vita e delle relazioni sociali, vincoli relativi a un determinato stadio storico
della produzione, dei bisogni, dei godimenti, della crescita della popolazione e
della divisione del lavoro.
La divisione del lavoro, essendo strettamente connessa alle antitesi reciproche
tra forze produttive, relazioni sociali e forme della coscienza, comporta al tempo
stesso l’ineguale ripartizione quantitativa e qualitativa del lavoro, dei mezzi di
produzione e dei prodotti del lavoro stesso. Da ciò deriva la proprietà privata dei
mezzi di produzione, a cominciare dalle primitive divisioni familiari, dove, nella
famiglia, con la schiavitù della donna e dei figli sottomessi all’uomo, si configura qualcosa che è appunto la possibilità di disporre della forza-lavoro altrui.
Questo stato di fatto, ossia la separazione tra forza-lavoro e detentore dei mezzi
di produzione, esiste in forme diverse in tutte le fasi in cui si sviluppa la divisione del lavoro. Abbiamo così una piena identificazione tra divisione del lavoro e
proprietà privata: «Con la prima si esprime in riferimento all’attività esattamente
120
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
ciò che con l’altra si esprime in riferimento al prodotto dell’attività»9. L’ineguale
ripartizione del lavoro comporta dunque che ci siano degli individui che lavorano
e producono per gli altri, e altri individui che non lavorano in quanto possiedono
solo i mezzi di produzione e vivono del lavoro altrui. È questa la dinamica della
proprietà privata, che compare solo in una fase storica determinata dello sviluppo
umano, caratterizzato da un determinato grado di espansione dei bisogni, dei
godimenti e dei mezzi di produzione. Questa fase, a sua volta, presenta vari gradi
di sviluppo e dunque differenti forme, sempre storicamente determinate, di divisione del lavoro, di proprietà privata, di bisogni, di godimenti, quindi presenta
differenti gradi di disuguaglianza con conseguenti conflitti. Perciò, la divisione
del lavoro non comporta affatto eguaglianza, ma essa è sempre diseguale, perché
comporta una separazione nella proprietà dei mezzi di produzione, un comando
del possessore di tali mezzi sulla forza-lavoro e conseguentemente una ineguale
distribuzione dei prodotti del lavoro10.
L’altra conseguenza, sempre antagonistica, della divisione del lavoro, ossia
della proprietà privata (le due cose sono identiche), è «la contrapposizione tra
l’interesse del singolo individuo o della singola famiglia e l’interesse collettivo di
tutti gli individui che hanno rapporti reciproci»11. La proprietà privata non solo
contrappone gli individui tra loro nell’ineguale ripartizione del lavoro e dei loro
prodotti, e nella detenzione dei mezzi di produzione, ma contrappone altresì gli
individui ai loro reciproci rapporti, i quali divengono una potenza estranea che si
erge contro di loro e si presenta come interesse collettivo. Questo interesse collettivo, nascente dall’antagonismo con l’interesse particolare, antagonismo causato
dalla divisione del lavoro o dalla proprietà privata, prende un’autonoma configurazione, e questa è lo “Stato”. Lo Stato è una «comunità illusoria»12, poiché l’interesse collettivo è separato e antitetico all’interesse individuale; però quest’illusione si costituisce sulla base reale di interessi presenti in comunità familiari, tribali,
linguistiche o di altri interessi, e sulla base dell’accentuata divisione del lavoro che
genera le classi sociali, le quali si differenziano e sempre danno luogo a necessarie
disuguaglianze, in modo che sempre una classe domina su tutte le altre. Perciò,
Ivi, p. 19; tr. it., cit., p. 31.
Cfr. K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (Rohentwurf) 1857-1858; Anhang
1850-1859, Berlin 1974, pp. 16 ss.; tr. it. di E. Grillo, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., vol. I, pp. 19 ss.
11
«Marx-Engels-Jahrbuch 2003», cit., pp. 19-20; tr. it., cit., pp. 31-32.
12
Ivi, p. 20; tr. it., cit., p. 32.
9
10
121
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
«tutte le lotte nell’ambito dello Stato, la lotta fra democrazia, aristocrazia e monarchia, la lotta per il diritto di voto, ecc. ecc., altro non sono che le forme illusorie nelle quali vengono condotte le lotte reali fra le diverse classi»13. Quindi l’interesse collettivo contrapposto all’interesse individuale, è un’illusione in quanto
interesse collettivo, e tuttavia è un’illusione, per così dire, reale, nel senso che essa
è la forma con cui una classe domina su un’altra, in conseguenza di un’accentuata
divisione del lavoro a uno stadio storico determinato. Ne consegue che la classe
che vuole dominare, deve conquistare il potere politico rappresentando il suo
interesse come l’interesse collettivo: in realtà si tratta del suo interesse particolare,
ma è con questa finzione che può dominare. Tutti questi processi di separazione
e di costituzione dell’interesse collettivo come una potenza autonoma, lo Stato,
l’universale nell’immaginazione – un’immaginazione, però, costituita sulla base
reale delle comunità cosiddette “naturali” e della divisione del lavoro –, contrapposto alla società civile, luogo degli interessi particolari, raggiungono il massimo
sviluppo nella società borghese moderna.
«Fin tanto che gli uomini si trovano nella società naturale, fin tanto che esiste, quindi, la scissione fra interesse particolare e interesse comune, fin tanto che
l’attività, quindi, è divisa non volontariamente ma naturalmente, l’azione propria
dell’uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga,
invece di essere da lui dominata»14. Questo ergersi della stessa attività vitale e
sociale degli individui, del lavoro e del loro prodotto, a un potere che sovrasta gli
individui stessi, è stato un passaggio centrale dello sviluppo storico avutosi finora. Qui «il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione del lavoro, appare a questi individui, poiché la loro cooperazione stessa non è
volontaria ma naturale, non come il loro proprio potere unificato, ma come una
potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale essi non sanno donde viene
e donde va, che quindi non possono più dominare e che al contrario segue una
sua propria successione di fasi e di gradi di sviluppo la quale è indipendente dal
volere e dall’agire degli uomini e anzi dirige questo volere e agire»15. Invece nella
società comunista, ossia nella forma di produzione e di relazione tra gli individui
dove le condizioni della produzione e della cooperazione sono sottoposte al con-
13
14
15
Ibid.
Ibid; tr. it., cit., p. 33.
Ivi, p. 21; tr. it., cit., ibid.
122
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
trollo degli individui stessi e non si ergono come una potenza estranea contro di
loro, scompare la divisione del lavoro. Come detto sopra, ciò non significa che si
torni alle condizioni di partenza degli individui con limitati bisogni e mezzi di
godimento, quindi con un limitato ambito di rapporto con la natura e di cooperazione con gli altri individui, ma che, sulla base di uno sviluppo ricco di bisogni,
di forze produttive e di mezzi di godimento – sviluppo avutosi passando attraverso la divisione del lavoro e che ora la rende superflua – ciascun individuo non è
obbligato, per sopravvivere, a seguire un’attività determinata e ad avere una sfera
di attività esclusiva, ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo secondo la sua volontà. L’intera società regola la produzione generale in modo da offrire le basi produttive per questo poter cambiare attività non per la necessità della sopravvivenza, come avviene nel lavoro precario e flessibile della società contemporanea,
ancora caratterizzata dalla separazione antagonistica e di dominio tra lavoratore
e mezzi di produzione, quindi da una delle forme centrali della divisione del lavoro, ma a partire dal fatto «che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita,
ma anche il primo bisogno della vita»16. Qui appare chiaro che il lavoro non è
solo mezzo di sussistenza e di mera riproduzione dell’esistenza fisica, ma un
modo, fine a se stesso, di esternare la propria vita, una manifestazione del carattere multilaterale degli individui divenuti universali non perché lo siano per natura, ma in forza dello sviluppo storico. «Il lavoro di questa individualità […] non
si presenta nemmeno più come lavoro, ma come sviluppo integrale dell’attività
stessa, nella quale la necessità naturale nella sua forma immediata è scomparsa,
perché al bisogno naturale è subentrato un bisogno storicamente prodotto»17. Ma
la divisione del lavoro, quindi la proprietà privata e la conseguente forma antagonistica assunta dai rapporti sociali, caratterizzati dal fatto che l’attività sociale
degli uomini, le loro reciproche relazioni, le stesse potenze della loro vita si consolidano in un potere obbiettivo autonomo, indipendente dall’attività e dalla vita
stessa che li ha prodotti: tutto ciò può essere soppresso non in modo teorico, cioè
togliendosene dalla testa la rappresentazione o instaurando volontaristicamente
modi diversi di comportamento, ma sotto peculiari condizioni che sono di carattere pratico, ossia date dallo stesso sviluppo storico. Bisogna che la gran massa
degli uomini sia diventata priva di proprietà, cioè sia stata espropriata di tutta la
ricchezza che essa stessa ha finora prodotto. Quindi, la privazione della proprietà
16
17
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 19, cit., p. 21.
K. Marx, Grundrisse, cit., p. 231; tr. it., cit., vol. I, pp. 317-318.
123
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
subita dalla gran massa, cioè la sua estrema miseria, significa al tempo stesso che
essa sta in contrapposizione con «un mondo esistente della ricchezza e della cultura»18, cioè che questa massa presuppone «un grande incremento della forza
produttiva, un alto grado del suo sviluppo»19. Questo sviluppo della ricchezza,
presupposto dell’espropriazione di una gran massa che le si oppone, non è altro
che il pieno e universale sviluppo delle forze produttive, quale si può avere con il
mercato mondiale creato dalla grande industria. Tale sviluppo deve portare con
sé «l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che
sul piano locale»20, e solo su questo piano può svilupparsi, come risultato della
grande industria che crea il mercato mondiale, una massa di individui spogliati
dalla proprietà e contrapposti al mondo esistente della ricchezza e della cultura.
La storia universale, dunque, non è altro che il pieno sviluppo del mercato mondiale che rompe tutte le barriere locali ed è creato dalla borghesia attraverso la
concorrenza, la quale investe anche il lavoro comprato e venduto per aumentare
il capitale. Solo in questo contesto del mercato mondiale creato dal capitalismo,
può svilupparsi «la classe degli operai moderni, che vivono fintantoché trovano
lavoro, e […] trovano lavoro fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale»21. Gli
operai moderni costituiscono quella forza lavorativa privata del capitale ovvero
del possesso dei mezzi di produzione e di soddisfacimento dei bisogni, quindi essi
sono remunerati solo per l’equivalente che permette loro di aumentare il capitale
con il loro lavoro vivo. Poiché essi sono merce e quindi, come tutte le altre merci,
sono esposti alle oscillazioni del mercato e alle alterne vicende della concorrenza
– tra di loro e con le macchine, che nel capitalismo «non intervengono a sostituire forza-lavoro mancante, ma per ridurre la forza-lavoro presente in massa alla
misura necessaria»22 –, essi perdono, non temporaneamente, il loro lavoro come
fonte assicurata di esistenza. Questo mercato mondiale creato dalla grande industria, crea a sua volta relazioni universali, ricchezza e sviluppo universale delle
forze produttive, e solo mediante questa ricchezza espropria la massa degli individui riducendoli a operai e contrapponendoli alla ricchezza esistente. «Il proletariato può dunque esistere soltanto sul piano della storia universale»23, ossia del
18
19
20
21
22
23
«Marx-Engels-Jahrbuch 2003», cit., p. 22; tr. it., cit., p. 33.
Ibid.
Ibid; tr. it., cit., pp. 33-34.
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 4, cit., p. 468; tr. it., Manifesto del Partito Comunista, cit., p. 93.
K. Marx, Grundrisse, cit., p. 589; tr. it., cit., vol. II, p. 397.
«Marx-Engels-Jahrbuch 2003», cit., p. 23; tr. it., cit., p. 34.
124
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
mercato mondiale che comporta la libera concorrenza. Perciò il proletariato non
è costituito dalla «povertà sorta naturalmente, bensì [dal]la povertà prodotta artificialmente, non [dal]la massa di uomini meccanicamente oppressa dal peso della
società ma [dal]la massa di uomini che proviene dalla sua acuta dissoluzione»24.
La povertà prodotta artificialmente è quella prodotta dal movimento dell’industria moderna che distrugge il vecchio ceto medio, precipitandolo nel proletariato, e assorbe anche le forme precedenti di povertà naturale, servitù della gleba
ecc.. Perciò, «quando il proletariato annunzia la dissoluzione dell’ordinamento tradizionale del mondo, esso esprime soltanto il segreto della sua propria esistenza,
poiché esso è la dissoluzione effettiva di questo ordinamento del mondo. Quando
il proletariato esige la negazione della proprietà privata, esso eleva a principio della
società ciò che la società ha elevato a suo principio, ciò che in esso è già impersonato senza il suo apporto, in quanto risultato negativo della società»25. Quindi, la
condizione per l’abolizione della forma di società finora esistita, caratterizzata, in
alcune fasi del suo sviluppo, dalla divisione del lavoro o, il che è lo stesso, dal
rapporto di proprietà privata, è che la situazione esistente sia, per la gran massa
degli uomini, insostenibile. Infatti, la forma che la proprietà privata assume nella
fase estremamente progredita del mercato mondiale, pone quella grande massa in
un tale stato di povertà da renderle impossibile la stessa sussistenza, perché il lavoro, merce e perciò soggetto alla libera concorrenza, si perde non temporaneamente. Ma questa povertà è prodotta “artificialmente”, ossia da un grande sviluppo di ricchezza e di forze produttive, e solo questa è la condizione perché possa
essere abolita. Se non vi fosse una ricchezza pienamente sviluppata, cioè forze
produttive universali create dal mercato mondiale, e se la mancanza di proprietà
da parte di una gran massa di individui e la loro contraddizione col mondo esistente della ricchezza e della cultura non si presentassero come conseguenza di
questo sviluppo, non sarebbe possibile nessuna soppressione pratica della divisione del lavoro ovvero della proprietà privata, quindi non sarebbe possibile nessun
comunismo, perché si avrebbe non la riappropriazione della ricchezza espropriata, ma solo la miseria generalizzata e di conseguenza il ritorno a una situazione in
cui gli uomini dovrebbero provvedere allo stretto necessario per la sussistenza, e
così ritornerebbero le nuove successive divisioni del lavoro con i relativi conflitti.
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 1, cit., pp. 390-391; tr. it. di R. Panzieri, La questione ebraica.
Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, Roma 1998, p. 68.
25
Ivi, p. 391; tr. it., cit., ibid.
24
125
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Invece, affinché questi uomini posti in miseria dalle loro stesse condizioni di vita
e di riproduzione, diventate potenze estranee alla loro vita, possano sopprimere
tale miseria, devono avere sviluppato universalmente le loro forze produttive;
quindi, è necessaria la ricchezza così come è posta dal mercato mondiale, ossia in
modo storico-universale. Infatti, solo con questo trasformarsi della storia in storia
universale, creata dalla grande industria e dal mercato mondiale, «possono aversi
relazioni universali fra gli uomini, ciò che da una parte produce il fenomeno della massa “priva di proprietà” contemporaneamente in tutti i popoli (concorrenza
generale), fa dipendere ciascuno di essi dalle rivoluzioni degli altri, e infine sostituisce agli individui locali individui inseriti nella storia universale, individui empiricamente universali»26, cioè degli individui ricchi di capacità produttive e bisogni sviluppati onnilateralmente. Lo sviluppo precedente, quindi la divisione
capitalistica del lavoro, ovvero la proprietà privata borghese, crea, entro l’alienazione, degli individui sociali pienamente sviluppati che sono la base reale per
l’abolizione della miseria divenuta universale insieme all’universalizzarsi della
ricchezza. Nella società borghese ciò che è universale è la scissione delle forze
produttive con il mondo della ricchezza esistente, creato da quelle stesse forze
produttive mediante la loro privazione della ricchezza, privazione che è appunto
la condizione per cui quelle forze produttive possano creare ricchezza. Infatti,
nella produzione fondata sullo scambio di lavoro con lavoro, sotto l’apparenza di
uno scambio di equivalenti, che sembrerebbe presupporre la proprietà del prodotto del proprio lavoro, si ha la scissione e l’alienazione tra lavoro e proprietà
delle condizioni oggettive del lavoro stesso. Quindi, quella che sembrerebbe essere la condizione della proprietà dell’operaio, lo scambio di lavoro, misurato nella
relazione del valore di scambio, con lavoro, in realtà è solo un’apparenza, perché
questo scambio di lavoro con lavoro ha come condizione la mancanza di proprietà da parte dell’operaio: sotto l’apparenza dello scambio c’è, in realtà, un
non-cambio. Sennonché, questa «forma estrema di alienazione in cui, nel rapporto tra capitale e lavoro salariato, il lavoro, l’attività produttiva si presenta rispetto
alle sue stesse condizioni e al suo stesso prodotto, è un necessario punto di passaggio – e pertanto contiene già in sé, solamente in forma rovesciata, a testa in
giù, la dissoluzione di tutti i presupposti limitati della produzione, e anzi crea e
produce i presupposti incondizionati della produzione e quindi tutte le condizio-
26
«Marx-Engels-Jahrbuch 2003», cit., p. 22; tr. it., cit., p. 34.
126
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
ni materiali per lo sviluppo totale, universale delle forze dell’individuo»27. Senza
queste relazioni universali come condizione dell’espropriazione, relazioni che
producono, sia pure entro l’espropriazione, individui universalmente sviluppati
distruggendoli come individui locali, il comunismo, ossia la soppressione della
divisione del lavoro ovvero della proprietà privata, resterebbe un fenomeno locale. Di conseguenza, da un lato lo scambio non si svilupperebbe come uno scambio universale, come una potenza e una forza produttiva essa stessa universale,
ma resterebbe relegato nell’ambito dello scambio tra produzioni isolate e domestiche; dall’altro lato, quel comunismo locale sarebbe soppresso immediatamente
da ogni allargamento delle relazioni, cioè da ogni progresso verso l’universalismo
del mercato mondiale. Invece, «il comunismo è possibile empiricamente solo
come azione dei popoli dominanti tutti “in una volta” e simultaneamente, ciò
che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che esso comunismo implica»28.
Dunque, la radice di ogni conflitto è di carattere eminentemente sociale e
quindi storicamente determinato. È perciò storicamente e socialmente che va
inquadrata la questione della guerra nel senso più lato, come guerra tra Stati
e come guerra civile interna agli Stati o ad essi trasversale. Determinante per
la comprensione della guerra è lo svilupparsi della divisione del lavoro ovvero
della proprietà privata attraverso varie fasi storiche progressive. Di conseguenza, la più accentuata divisione del lavoro, in quanto si esprime come ineguale
distribuzione, per quantità e qualità, del lavoro e dei suoi prodotti, quindi
nell’antitesi tra chi possiede i mezzi di produzione e dispone della forza-lavoro
altrui, da un lato, e il produttore di quei mezzi di produzione e di consumo,
dall’altro lato, dà luogo alla formazione delle classi sociali e al carattere antagonistico che ad esse è connesso. Infatti, il motivo della formazione delle classi
è appunto la lotta che, sulla base della divisione sociale del lavoro, dunque
dell’ineguale distribuzione del lavoro e quindi dei mezzi di produzione e dei
suoi prodotti, si stabilisce tra produttori e possessori dei mezzi di produzione.
«I singoli individui formano una classe solo in quanto debbono condurre una
lotta comune contro un’altra classe; per il resto essi si ritrovano l’uno di contro
all’altro come nemici, nella concorrenza. D’altra parte, la classe acquista a sua
volta autonomia di contro agli individui, cosicché questi trovano predestinate
27
28
K. Marx, Grundrisse, cit., pp. 414-415; tr. it., cit., vol. II, pp. 149-150.
«Marx-Engels-Jahrbuch 2003», cit., pp. 22-23; tr. it., cit., p. 34.
127
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
le loro condizioni di vita, hanno assegnata dalla classe la loro posizione nella
vita e con essa il loro sviluppo personale e sono sussunti sotto di essa. Questo
fenomeno è identico alla sussunzione dei singoli individui sotto la divisione del
lavoro e può essere eliminato soltanto mediante il superamento della proprietà
privata e del lavoro stesso»29. Notiamo che il concetto stesso di classe si definisce in modo antagonistico, dunque gli individui formano una classe in quanto
devono difendere o affermare interessi comuni in opposizione a un’altra classe.
Ciò discende dalla divisione del lavoro in cui ogni individuo è già posto socialmente. Inoltre, poiché una classe riceve il suo carattere dall’opposizione ad
un’altra classe, essa unisce gli individui che ne fanno parte solo «come individui medi»30, cioè come membri di una classe e non come individui personali, i
quali, da un lato, stanno tra loro in antagonismo nella concorrenza, e dall’altro
sono essi stessi, nella loro esistenza personale, contrapposti alla classe, la quale
acquista autonomia nei confronti della loro esistenza. Quindi, nelle condizioni
della divisione del lavoro lo stesso rapporto sociale degli individui si fissa in una
potenza estranea, ed è questo fissarsi che genera la rappresentazione di sussunzioni degli individui sotto idee, immagini immutabili dell’ordinamento sociale
esistente e dell’interesse generale. Ma questa rappresentazione di un ordine
immutabile è un’illusione generata appunto dal fissarsi dei caratteri sociali del
lavoro degli individui in una potenza oggettiva che li sovrasta, mentre in realtà è prodotto del loro stesso lavoro nelle condizioni sociali della divisione del
lavoro, condizioni che generano necessariamente quella falsa rappresentazione,
la quale, perciò, non può essere eliminata con un atto della coscienza, bensì
sopprimendone le basi reali. Allora, ciò che è importante sottolineare, è che
l’antagonismo tra gli individui, nella misura in cui riguarda le loro condizioni
sociali di vita, è qualcosa che si produce storicamente a condizioni determinate,
perché la divisione del lavoro o proprietà privata, da cui quell’antagonismo
nasce, progredisce attraverso varie fasi storiche. Il carattere della divisione del
lavoro è storico perché, come abbiamo visto, per gli uomini la prima azione
autenticamente storica, che li distingue dagli animali, consiste nel fatto che il
primo bisogno soddisfatto, l’azione del soddisfarlo e lo strumento impiegato
per soddisfarlo, producono nuovi bisogni, ragion per cui il progresso storico
è dato dalla moltiplicazione di bisogni, azioni e mezzi per soddisfarli: da ciò
29
30
Ivi, p. 72; tr. it., cit., p. 63.
Ivi, p. 77; tr. it., cit., p. 66.
128
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
deriva la necessità, ad un certo punto, della divisione del lavoro e del rapporto
di proprietà privata con gli antagonismi che esso genera. Dato questo continuo
moltiplicarsi e reciproco condizionarsi dei bisogni e dei mezzi per soddisfarli,
la divisione del lavoro, la proprietà privata e i molteplici antagonismi che da
essa nascono (tra forze produttive, situazione sociale, coscienza; tra individui
singoli; tra individui e cosiddetto interesse comune; tra classi e individui di
una stessa classe) mutano storicamente a seconda delle forze produttive che si
sviluppano e che quindi richiedono sempre diversi rapporti sociali, adeguati al
nuovo livello di sviluppo di quelle forze, e sempre diverse divisioni del lavoro,
generando così sempre nuovi conflitti. «A un dato punto del loro sviluppo, le
forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto
l’espressione giuridica)»31, quindi con quella determinata forma di divisione
del lavoro, entro cui «tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da
forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora
subentra un’epoca di rivoluzione sociale»32. Su questa base di sconvolgimento
dei rapporti sociali di produzione, provocato da uno sviluppo delle nuove forze
produttive, per le quali i precedenti rapporti e le precedenti forme di divisione
del lavoro erano diventate delle catene, ossia ostacolavano quello sviluppo, si
sconvolgono anche le forme della coscienza. Infatti, queste ultime, entro le
fasi antagonistiche della produzione sociale degli individui caratterizzata dalla
proprietà privata, sono «le forme ideologiche che permettono agli uomini di
concepire questo conflitto e di combatterlo»33. Perciò, non si può comprendere
un simile passaggio da una forma all’altra di produzione e di relazioni sociali,
provocato dallo sviluppo delle forze produttive sulla cui base eventualmente
sono distrutti i modi precedenti di produzione, a partire dalla coscienza che si
ha di esso, poiché questa cerca di concepire e combattere il conflitto che si sta
sviluppando, rappresentandosi i rapporti sociali esistenti come eterni e quindi
mascherandone il carattere storico. Ciò si verifica quanto più quei rapporti
sono entrati in crisi a causa dello sviluppo delle forze produttive nel frattempo
createsi. Proprio quegli aspetti ideali della coscienza diventano, ad un certo
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 13, cit., p. 9; tr. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Per la critica
dell’economia politica, Roma 1971, p. 5.
32
Ibid.
33
Ibid.
31
129
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
punto, l’espressione dei rapporti di produzione e quindi dei rapporti giuridici
di proprietà privata, divenuti delle catene per le nuove forze produttive. «Una
formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze
produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non
subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza»34. Infine, «con il cambiamento della base
economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura»35, ossia il complesso delle forme della coscienza (politica, arte, religione,
filosofia), che coprono il carattere solo storicamente determinato di quelle date
condizioni di divisione del lavoro e di rapporti di proprietà, divenuti inadeguati rispetto allo sviluppo delle forze produttive, quindi storicamente da superare.
Ogni forma di guerra trova così la sua spiegazione nelle contraddizioni della
vita materiale, precisamente nella forma di produzione sociale degli individui in
una determinata fase storica: «Tutte le collisioni della storia hanno la loro origine
nella contraddizione tra le forze produttive e la forma di relazioni. D’altronde non
è necessario che per provocare delle collisioni in un paese questa contraddizione
sia spinta all’estremo in questo paese stesso. La concorrenza con paesi industrialmente più progrediti, provocata dall’allargamento delle relazioni internazionali, è
sufficiente per generare una contraddizione analoga anche nei paesi con industria
meno sviluppata»36. Tutti i conflitti hanno la loro radice nella contraddizione che
si genera, a un dato punto dello sviluppo storico, tra forze produttive e rapporti di
produzione divenuti nel frattempo inadeguati a quelle forze. Questa contraddizione
tra forze produttive e forma di relazioni ha origine nell’esistenza, in fasi storiche determinate, dei rapporti di proprietà privata: infatti, i rapporti di produzione con cui
le forze produttive, sviluppatesi entro quei rapporti, entrano in conflitto ad un certo
punto dello loro sviluppo storico, sono appunto i rapporti di proprietà esistenti, e
questi ultimi sono forme storiche di divisione sociale del lavoro. E poiché sulla base
della divisione del lavoro si formano le classi, ossia le formazioni conflittuali per eccellenza, ecco che tutte le guerre, interne ed esterne, sono riconducibili ai rapporti di
sfruttamento e quindi di dominio di una classe sull’altra, cioè alla forma sociale con
cui un individuo sfrutta e domina l’altro. Ne consegue che le classi e i conflitti sociali
tra di esse mutano storicamente a seconda del mutare della divisione del lavoro.
34
35
36
Ibid.
Ibid.
«Marx-Engels-Jahrbuch 2003», cit., p. 68; tr. it., cit., p. 61.
130
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
L’antagonismo di cui qui si parla e che è alla radice delle guerre, è da intendersi «non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che
sgorga dalle condizioni di vita sociali degli individui»37, dunque dal fatto che
la produzione della vita, propria e altrui, è un rapporto, da un lato, naturale
con la procreazione e, dall’altro, sociale, ossia che dipende dalla cooperazione di
più individui, cooperazione storicamente determinata. «Nella produzione sociale
della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un
determinato grado di sviluppo delle forze produttive»38. Poiché questa cooperazione di più individui è storicamente determinata, l’aumento della popolazione,
dei bisogni, dei mezzi di produzione rende necessaria, a un determinato grado
dello sviluppo, la divisione del lavoro, e quindi il rapporto di proprietà privata,
le classi e i conseguenti antagonismi tra queste, da cui anche gli antagonismi tra
etnie, nazionalità, razze, Stati ecc.
Il fatto che le radici della politica e delle guerre stiano nelle condizioni materiali
della vita degli individui, quindi nelle condizioni in cui essi riproducono socialmente la loro esistenza nelle fasi storiche in cui tali condizioni si sviluppano nella
forma di un antagonismo tra forze produttive e rapporti sociali di produzione ovvero rapporti di proprietà, non significa che la sovrastruttura giuridica e politica, e
le stesse forme della coscienza non possano esercitare in vario modo un certo effetto
retroattivo, con una loro, sia pur relativa, autonomia rispetto a quelle condizioni
materiali in cui esse hanno in ultima istanza la loro origine. «La situazione economica è la base, ma i diversi momenti della sovrastruttura – le forme politiche della
lotta di classe e i risultati di questa – costituzioni stabilite dalla classe vittoriosa
dopo una battaglia vinta, ecc. –, le forme giuridiche, anzi persino i riflessi di tutte
queste lotte reali nel cervello di coloro che vi prendono parte, le teorie politiche,
giuridiche, filosofiche, le visioni religiose ed il loro successivo sviluppo in sistemi
dogmatici, esercitano altresì la loro influenza sul decorso delle lotte storiche e in
molti casi ne determinano in modo preponderante la forma. È un’azione reciproca
di tutti questi momenti, in cui alla fine il movimento economico si impone come
fattore necessario attraverso un’enorme quantità di fatti casuali»39, tanto vaghi e
poco dimostrabili nel loro nesso interno da poter essere trascurati.
37
38
39
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 13, cit., p. 9; tr. it., Per la critica dell’economia politica, cit., p. 6.
Ivi, p. 8; tr. it., cit., p. 5.
Idd., Opere cit., XLVIII, tr. it. di A. Santucci, 1983, p. 492.
131
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
2. Il potere politico come violenza sociale organizzata di classe. La soppressione
della guerra attraverso la guerra
Se la divisione del lavoro e il rapporto di proprietà privata sono sempre qualcosa di storicamente determinato, allora essi possono essere soppressi nel momento in cui i bisogni e i mezzi di produzione, quindi il complesso delle forze
produttive, sono talmente sviluppati, che questa volta non più quella forma storicamente determinata di divisione del lavoro e di proprietà privata, ma, insieme
ad essa, la divisione del lavoro e la proprietà privata stesse, come caratteristiche
di determinate fasi storiche dell’auto-produzione umana della vita, si rivelano un
ostacolo al grado dello sviluppo nel frattempo raggiunto da quelle forze produttive. «A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese
moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della
formazione economica della società»40. Entro queste fasi progrediscono le forme
della divisione del lavoro ovvero dei rapporti di proprietà privata, quindi si scandiscono le varie forme dell’antagonismo tra forze produttive e forme sociali della
produzione, antagonismo in cui tutti gli altri conflitti hanno la loro radice. «I
rapporti di produzione borghese sono l’ultima forma antagonistica del processo
di produzione sociale […]. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della
società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di
questo antagonismo»41. Infatti, proprio nella moderna società borghese la massa
dell’umanità diventa priva di proprietà, ma questa universale espropriazione si
rivela essere un rapporto sociale del tutto inadeguato ad uno sviluppo di forze
produttive in cui gli individui espropriati sono al contempo posti sul piano della
storia universale creata dal mercato mondiale, quindi diventano degli individui
universali per bisogni e capacità produttive. Per questa loro universalità, le forze
produttive sviluppatesi nella società borghese sono incompatibili con l’intero sistema di appropriazione fondato sulla proprietà privata e di conseguenza anche
con il loro proprio sistema di appropriazione, fondato sul salario. Infatti, la condizione dell’esistenza delle classi dominanti precedenti (patrizi, cavalieri, signori
feudali, maestri delle corporazioni, borghesi) era la proprietà dei mezzi di produzione e, mediante questa, l’appropriazione e il dominio del lavoro delle classi
dominate. Su questa base esse dominavano su tutta la società, rappresentando
40
41
Idd. Werke, Bd. 13, cit., p. 9; tr. it., Per la critica dell’economia politica, cit., p. 6.
Ibid.
132
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
il proprio interesse come quello universale. Perciò, «tutte le classi che si sono
finora conquistato il potere hanno cercato di garantire la posizione di vita già
acquisita, assoggettando l’intera società alle condizioni della loro acquisizione»42.
Viceversa, il sistema di appropriazione su cui i proletari possono esistere come
classe, è soltanto un sistema di espropriazione, ed è questo che li differenzia dalle
classi precedenti che hanno conquistato il potere parimenti con rivoluzioni: «La
separazione della proprietà dal lavoro si presenta come legge necessaria [dello]
scambio tra capitale e lavoro»43. La classe proletaria esiste a condizioni di acquisizione che comportano la miseria radicale, la quale però ha come presupposto la
ricchezza. Da un lato, il lavoro è posto come non-capitale: non è materia prima,
non è strumento di lavoro, non è prodotto grezzo, quindi è esistenza soggettiva
pura, senza oggettività, ovvero «il non-oggettivo stesso in forma oggettiva […]. È
il lavoro come miseria assoluta: la miseria non come privazione, ma come completa esclusione della ricchezza oggettiva»44. Dall’altro lato, però, il lavoro non
è oggetto, ma attività, dunque soggetto, «non come valore esso stesso, ma come
sorgente viva del valore»45. Quindi, il lavoro è al tempo stesso la miseria assoluta
come oggetto e la possibilità generale della ricchezza in quanto attività, soggetto.
Esso esiste, perciò, antiteticamente, poiché da un lato è la condizione, il presupposto del capitale, dall’altro presuppone il capitale in quanto può operare solo a
condizione di non essere strumento e materia prima. Ma allora, a differenza delle
altre classi che precedentemente hanno preso il potere, «i proletari possono conquistarsi le forze produttive della società soltanto abolendo il loro proprio sistema
di appropriazione avuto sino a questo momento, e per ciò stesso l’intero sistema
di appropriazione che c’è stato finora. I proletari non hanno da salvaguardare
nulla di proprio, hanno da distruggere tutta la sicurezza privata e tutte le assicurazioni private che ci sono state fin qui»46.
Poiché il sistema di appropriazione finora avutosi è un sistema antagonistico,
in quanto fondato sull’esistenza delle classi, la sua distruzione da parte del proletariato comporta la distruzione delle classi stesse, dunque della divisione del
lavoro, ovvero del lavoro stesso diventato incompatibile con le forze produttive
e la ricchezza sviluppatasi. «La condizione dell’affrancamento della classe lavo-
42
43
44
45
46
Ivi, Bd. 4, cit., p. 472; tr. it., Manifesto del Partito Comunista, cit., pp. 101-102.
K. Marx, Grundrisse, cit., p. 203; tr. it., cit., vol. I, p. 279.
Ibid.
Ibid; tr. it., cit., vol. I, p. 280.
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 4, cit., p. 472; tr. it., Manifesto del Partito Comunista, cit., p. 102.
133
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
ratrice è l’abolizione di tutte le classi, come la condizione dell’affrancamento del
“terzo stato”, dell’ordine borghese, fu l’abolizione di tutti gli stati e di tutti gli
ordini»47, ossia delle organizzazioni sociali antagonistiche fondate sulla proprietà
fondiaria feudale, quindi sul rapporto servile e sulle corporazioni, cioè sul lavoro
libero, ma all’interno dei limiti del mestiere. Con questa divisione medievale per
stati, quella per classi, propria della società borghese moderna, fondata sul lavoro
libero salariato, conserva la continuità nel mantenere il rapporto di proprietà
privata, pur nel progresso degli strumenti di produzione e del tipo di divisione del lavoro, che semplifica l’antagonismo a due soli campi nemici, costituiti
dalla classe borghese e da quella proletaria, a differenza delle precedenti epoche
storiche antagonistiche, in cui la società si presenta ancora articolata in diversi
ordini e gradazioni non solo delle classi fra loro («in Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, membri delle
corporazioni, garzoni, servi della gleba»48), ma anche all’interno di ogni classe.
Ivi, p. 181; tr. it., cit., p. 146.
Ivi, pp. 462-463; tr. it., cit., p. 83. Va però precisato che nella società moderna, divisa in due
classi principali e non più in una pluralità di ordini, si sviluppa, sulla base dell’antagonismo
fondamentale tra i due campi nemici del capitale e del lavoro salariato, tutta una dinamica
storica. La borghesia moderna è il prodotto di un lungo processo di trasformazione e di rivoluzionamento nel modo di produzione e di scambio. Essa «ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria» (ivi, p. 464; tr. it., cit., p. 85), poiché ha distrutto le condizioni di vita
feudali con i loro vincoli personali, sostituendovi il rapporto fondato sul valore di scambio e
sullo sfruttamento aperto, ha tolto alle vecchie professioni la «loro aureola» (ivi, p. 465; tr. it.,
cit., p. 86) e le ha trasformate in forme di lavoro salariato. «La borghesia non può esistere senza
rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque
tutti i rapporti sociali» (ibid; tr. it., cit., p. 87), mentre invece le classi industriali precedenti
esistevano solo mantenendo immutato il vecchio sistema produttivo. La borghesia crea, come
abbiamo visto, il mercato mondiale e dà carattere mondiale, dunque interdipendente, alla produzione e al consumo. Di conseguenza costringe tutte le nazioni, se non vogliono andare in
rovina, a introdurre il rapporto capitalistico di produzione, «cioè a diventare borghesi» (ivi, p.
466; tr. it., cit., p. 89). Inoltre, essa assoggetta la campagna al dominio della città, l’Oriente
all’Occidente – oggi, con la globalizzazione, potremmo dire: lo costringe a occidentalizzarsi
ossia a diventare borghese -; concentra la popolazione, i mezzi di produzione, la proprietà, la
politica; accumula forze produttive in massa infinitamente maggiore e più colossale di quanto
avessero fatto le epoche precedenti. Di fronte alla borghesia stanno ancora di fronte varie classi, ma, tra tutte queste classi, «il proletariato soltanto è una classe realmente rivoluzionaria» (ivi,
p. 472; tr. it., cit., p. 99), perché esso è il «prodotto specifico» (ibid) della grande industria
moderna. Perciò la borghesia è la classe rivoluzionaria rispetto alle classi tramandate dalle fasi
storiche precedenti della produzione, e il proletariato è la classe rivoluzionaria rispetto alla
borghesia, perché la misura capitalistica della ricchezza in base al tempo di lavoro e il rapporto
47
48
134
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
Poiché è dall’antagonismo tra le classi e dall’esistenza stessa delle classi che nasce
fondato sul salario costituiscono un limite rispetto alle forze produttive che entro la stessa
forma di produzione borghese si sono nel frattempo sviluppate. Ovviamente il proletariato,
insieme alla borghesia, è rivoluzionario anche rispetto a tutte le altre classi tradizionali, le quali sono destinate a cadere appunto con lo sviluppo industriale moderno. Quindi «gli ordini
medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l’artigiano, il contadino» (ibid.; tr. it., cit.,
p. 100), sono in conflitto con la borghesia, ma non in senso progressivo, bensì conservatore,
«anzi reazionari[o]» (ibid.) perché difendono le loro posizioni tradizionali contro la minaccia di
precipitare nel proletariato ossia nel lavoro salariato come conseguenza dello sviluppo della
grande industria borghese. Quando invece lottano contro la borghesia in modo rivoluzionario,
si mettono dalla parte del proletariato in vista del loro inevitabile e imminente passaggio a
quest’altra classe, e allora essi «non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri
e abbandonano il proprio punto di vista» (ibid.; tr. it., cit., pp. 100-101). La piccola borghesia
vive in una perenne contraddizione, perché da un lato aspira a raggiungere la posizione degli
strati alti della borghesia, mentre dall’altro è continuamente a rischio di precipitare nel proletariato o tra i poveri in genere. Perciò, «il piccolo borghese […] è abbagliato dalla magnificenza
della grande borghesia e simpatizza con le miserie del popolo» (ivi, p. 556; tr. it. di F. Rodano,
Miseria della filosofia, cit., p. 162). Nelle società progredite la piccola borghesia costituisce «una
parte integrante di tutte le imminenti rivoluzioni sociali» (ibid.). Viceversa, il sottoproletariato
è la «putrefazione passiva degli strati più bassi della vecchia società» (ivi, p. 472; tr. it., cit., da
me un po’ modificata, p. 101). «In seguito a una rivoluzione proletaria» (ibid.) esso «viene scagliato qua e là nel movimento» (ibid.), e costituisce una massa di manovra per la risposta reazionaria alla rivoluzione, date le sue condizioni di vita, prodotte da quella putrefazione. La
borghesia stessa presenta al suo interno varie frazioni spesso in lotta tra loro, come si poteva
osservare, ad esempio, in Francia nelle lotte di classe del periodo compreso tra la rivoluzione di
luglio e il 1850. C’era l’aristocrazia finanziaria, ossia «i banchieri, i re della Borsa, i re delle
ferrovie, i proprietari delle miniere di carbone e di ferro e delle foreste» (Idd., Werke, Bd. 7,
Berlin 1973, p. 12; tr. it. di A. Aiello et al., Opere, cit., X, settembre 1849 – giugno 1850, 1992,
p. 44). Con questa frazione della borghesia si accordava una parte dei proprietari fondiari. Poi
c’era la borghesia industriale, che, all’interno della classe borghese, costituisce la parte più
avanzata. L’aristocrazia finanziaria, intrecciata con la rendita fondiaria e col potere statale,
domina con la corruzione, la «frode svergognata, [la] smania di arricchirsi non con la produzione, ma rubando le ricchezze altrui già esistenti» (ivi, p. 14, tr. it., cit., p. 47), e in tal modo
sta in contrasto con le stesse leggi che regolano la produzione borghese. Perciò l’aristocrazia
finanziaria è «la riproduzione del sottoproletariato alla sommità della società borghese» (ibid.).
Dunque, la trasformazione della lotta sociale in lotta di classi e la semplificazione di questa
lotta a due soli campi nemici, borghesia e proletariato, così come si ha nella società borghese
moderna, non significa affatto che noi troviamo esclusivamente queste due classi antagonistiche allo stato puro, come se l’intera società fosse un’unica grande industria, ma che sulla base
di questo conflitto fondamentale si svolge tutta un’altra serie di conflitti, i quali vanno indagati singolarmente nelle loro determinazioni di volta in volta date, connessi tra loro e messi in
relazione al conflitto fondamentale tra capitale e lavoro salariato, conflitto che dà il carattere
distintivo al modo di produzione oggi dominante. «In tutte le forme di società vi è una determinata produzione che decide del rango e dell’influenza di tutte le altre, e i cui rapporti deci-
135
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
il potere politico, «dopo la caduta dell’antica società»49 non «ci sarà una nuova
dominazione di classe, riassumentesi in un nuovo potere politico»50, ma «la classe
lavoratrice sostituirà, nel corso dello sviluppo, all’antica società civile un’associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo, e non vi sarà più potere politico
propriamente detto, poiché il potere politico è precisamente il compendio ufficiale dell’antagonismo nella società civile»51.
dono perciò del rango e dell’influenza di tutti gli altri. È una illuminazione generale in cui
tutti gli altri colori sono immersi e che li modifica nella loro particolarità. È una atmosfera
particolare che determina il peso specifico di tutto quanto essa avvolge» (K. Marx, Grundrisse,
cit. p. 27; tr. it., cit., vol. I, p. 34). Ciò significa proprio il contrario del fatto che le differenze e
le singole determinazioni vengono azzerate, poiché, anzi, è dall’atmosfera particolare data dalla forma di produzione dominante e quindi, dove si tratta di una forma di produzione antagonistica, è dal conflitto fondamentale a cui quella specifica forma di produzione dà luogo, che le
altre determinazioni del conflitto sociale acquistano il loro peso specifico. Oggi, nel contesto
della globalizzazione capitalistica, la presenza di una molteplicità di conflitti – etnici, religiosi,
specialmente di tipo fondamentalista – sembra negare la tesi secondo cui nella società borghese moderna gli antagonismi di classe si siano semplificati ai due grandi campi nemici costituiti
dal capitale e dal lavoro salariato, e, di conseguenza (le due cose sono connesse), che la categoria stessa di classe sociale e in genere il rapporto di produzione sociale siano i criteri ultimi in
base a cui spiegare i vari conflitti, ragion per cui l’antagonismo tra capitale e lavoro salariato
sarebbe solo uno dei tanti conflitti che si danno in una molteplicità di costellazioni economiche, politiche, culturali ecc. Ma, innanzitutto, anche la cosiddetta produzione post-fordista,
post-tayloristica, immateriale ecc., rimane una forma di produzione sociale e specificamente la
più avanzata forma del rapporto di produzione capitalistico, quindi il conflitto antagonistico
tra capitale e lavoro salariato rimane la caratteristica dominante: sono mutati solo i luoghi e le
modalità in cui questo conflitto fondamentale si articola. Inoltre, proprio alla luce di questi
mutamenti avvenuti, nella globalizzazione, dentro il conflitto tra capitale e lavoro salariato,
acquistano il colore o il peso specifico tutti gli altri conflitti che l’attualità ci presenta e quindi
tutte le altre classi e sottoclassi, gruppi ecc. che lottano ai vari livelli della società. Perciò essi
vanno studiati singolarmente e connessi di modo che proprio quel rapporto di produzione
fondamentale cha caratterizza la vita sociale in ultima istanza (temine che non significa in
unica istanza) rende possibile spiegarli nella loro specificità e articolarli nel contesto della prassi politica. Affermare, anche nel contesto dell’attuale globalizzazione capitalistica come ultima
fase antagonistica della produzione sociale, la centralità del rapporto materiale di produzione e
quindi la centralità del conflitto di classe, segnatamente quello tra capitale e lavoro salariato, e
negare che questo conflitto sia relativizzabile e integrabile in eterno nella società capitalistica,
la quale invece con le sue crisi ricorrenti si mostra essere sempre più una forma storicamente
determinata e superabile, non è in contrasto con le caratteristiche molteplici che questa globalizzazione presenta.
49
Ivi, p. 181; tr. it., cit., p. 146.
50
Ibid.
51
Ivi, p. 182; tr. it., cit., ibid.
136
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
Vi è dunque un nesso strettissimo tra politica e conflitti sociali delle classi, tra
politica e dominio di una classe sull’altra, quindi tra politica e violenza. «In senso
proprio, il potere politico è il potere di una classe organizzato per opprimerne
un’altra»52, quindi è sempre “dittatura”, precisamente dittatura di una classe su
un’altra. Lo Stato sorge nel momento in cui una determinata società «si è avvolta in una contraddizione insolubile con se stessa»53, cosicché «gli antagonismi
di classe non possono essere oggettivamente conciliati»54. A quel punto le classi
dovrebbero distruggere se stesse in una lotta sterile, e allora «sorge la necessità
di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell’“ordine”»55. Quindi, lo Stato non sorgerebbe se
i contrasti fra le classi fossero conciliabili. L’attenuazione del conflitto e il mantenimento dell’ordine, evitando conflitti autodistruttivi, avviene non mediando,
ma privando la classe dominata, da parte di quella dominante, degli strumenti
di lotta per rovesciare gli oppressori. Non si tratta perciò di mediazione, ma di
uno squilibrio dei rapporti di forza a vantaggio di una classe: la pace, la sicurezza
e l’ordine si hanno quando una classe è particolarmente forte da poter dominare
sull’altra e privarla degli strumenti con i quali ne rovescerebbe il dominio. Come
nella società civile la classe dominante determina l’intera forma di produzione
espropriando quella dominata degli strumenti di produzione, così nello Stato,
che è la sintesi ufficiale degli antagonismi della società civile, la classe dominante
mantiene l’ordine e l’apparenza dell’interesse generale espropriando quella dominata degli strumenti per rovesciare il potere della classe dominante e fondare
una diversa società. Infatti, «di tutti gli strumenti di produzione, la più grande
forza produttiva è la classe rivoluzionaria stessa. L’organizzazione degli elementi
rivoluzionari come classe presuppone l’esistenza di tutte le forze produttive che
potevano generarsi nel seno della società antica»56. È dunque ovvio che la classe
che opprime tolga alla classe oppressa gli strumenti di produzione, onde appropriarsi gratuitamente del suo lavoro, quindi le tolga anche gli strumenti di lotta,
le armi con cui potrebbe liberarsi da questa oppressione.
Di conseguenza, la caratteristica dello Stato nei confronti dell’antica organiz-
Ivi, p. 482; tr. it., cit., p. 121.
F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, cit., p. 200.
54
V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 61.
55
F. Engels, L’origine della famiglia, cit., p. 200.
56
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 4, cit., p. 181; tr. it., Miseria della filosofia. Risposta alla Filosofia della Miseria del signor Proudhon, cit., p.146.
52
53
137
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
zazione gentilizia che lo precede, «è l’istituzione di una forza pubblica che non
coincide più direttamente con la popolazione che organizza se stessa come potere
armato»57, oltre che l’istituzione di prigioni, sconosciute alla società gentilizia, la
rivendicazione a sé del diritto di riscuotere le imposte, con la conseguente creazione di un apparato di funzionari, i quali hanno un’autorità coercitiva garantita
dalla legge, ma non certo la stima che circondava il capo di una comunità gentilizia, e questo nonostante che si facciano leggi speciali sui funzionari. Questa è la
riprova del fatto che lo Stato è un organo della società, ma posto al di sopra della
società e separato da essa in conseguenza della formazione delle classi. Infatti,
una volta che queste si sono formate, non è più possibile mantenere un’organizzazione armata autonoma della popolazione, perché la società è divisa da antagonismi inconciliabili, e se fosse autonomamente in armi, le classi entrerebbero
immediatamente in lotta armata reciproca. Un’organizzazione armata autonoma
della popolazione sarebbe possibile se le classi non ci fossero e quindi non ci fosse
l’antagonismo tra di esse. Questa dinamica è ben visibile nel caso delle rivoluzioni: «Ogni rivoluzione, distruggendo l’apparato statale, ci dimostra con tutta
evidenza come la classe dominante si sforza di ricostruire distaccamenti speciali
di uomini armati che la servano, e come la classe oppressa si sforza di creare una
nuova organizzazione dello stesso genere, capace di servire non più gli sfruttatori,
ma gli sfruttati»58. Vi sono dei periodi in cui i rapporti di forza tra le classi in
lotta si eguagliano, e solo allora lo Stato appare come un mediatore acquistando
una certa autonomia rispetto alle classi, come avvenne nella monarchia assoluta
dei secoli XVII-XVIII, nel bonapartismo del Primo e del Secondo Impero, nella
Germania di Bismarck, o con il governo Kerenski della Russia repubblicana,
dove i Soviet erano impotenti e una borghesia non si era ancora formata. Ma
anche questi esempi confermano il radicamento esclusivo dello Stato nell’antagonismo tra le classi sociali.
Per le società esistite fino ad ora, fondate sugli antagonismi di classe, è necessario uno Stato, cioè «una forza repressiva particolare»59, nata dalla società
ma staccata e apparentemente al di sopra di essa, perché tale forza repressiva
costituisce lo strumento con cui la classe dominante, che è la classe sfruttatrice,
deve mantenere il modo vigente, storicamente determinato, di produzione della
57
58
59
F. Engels, L’origine della famiglia, cit., pp. 200-201.
V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 65.
F. Engels, Antidühring, cit., p. 305.
138
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
vita, e per raggiungere questo scopo deve tenere sottomessa con la forza la classe sfruttata, ossia la forza produttiva principale di quella forma di produzione.
Quindi, il potere politico non nasce da una qualche malvagità naturale degli
uomini che lo esercitano, bensì è l’espressione delle fasi antagonistiche della produzione sociale caratterizzate dalla divisione del lavoro, cioè quella schiavistica,
servile, salariata. In queste fasi lo Stato è certamente «il rappresentante ufficiale di
tutta la società, la sua sintesi in un corpo visibile»60, però questa rappresentanza
è data dal fatto che esso è lo Stato di quella determinata classe che nell’epoca in
questione domina. Di conseguenza, la rappresentanza dell’intera società, benché
efficace come forma repressiva della o delle classi dominate, è apparente. Infatti,
se l’intera società si rappresentasse realmente nello Stato, non vi sarebbe bisogno
di quest’ultimo, in quanto non servirebbe una forza repressiva particolare posta
al di sopra della società stessa. Ciò significherebbe che non vi sono più classi in
lotta e perciò non vi sarebbe più necessità che, per evitare che le varie parti della
società si distruggano vicendevolmente, una classe prevalga sull’altra cercando di
privare le classi oppresse degli strumenti per rovesciare quelle che le opprimono.
In assenza di classi e quindi di antagonismi politici, basterebbe, per la riproduzione della società, l’organizzazione armata autonoma della popolazione.
Da questa spiegazione della genesi sociale e storica dello Stato come strumento, ovvero violenza organizzata di una classe per opprimere un’altra, data l’impossibilità di mediare il conflitto tra le classi, consegue che questa soppressione
delle classi e del loro antagonismo, e di conseguenza del potere politico e delle
varie manifestazioni della guerra, non può verificarsi per meccanica sostituzione
dei vecchi rapporti di produzione con dei nuovi rapporti, adeguati all’attuale sviluppo delle forze produttive, ma implica ancora dei rapporti tra classi, quindi richiede necessariamente un urto violento, una guerra di una classe contro un’altra,
il che significa: uno scontro politico. «Nell’attesa, l’antagonismo tra il proletariato
e la borghesia è una lotta di classe contro classe, lotta che, portata alla sua più alta
espressione, è una rivoluzione totale. D’altronde, bisogna forse stupirsi che una
società basata sull’opposizione delle classi metta capo alla contraddizione brutale, a
un urto corpo a corpo come sua ultima conclusione? Non si dica che il movimento sociale esclude il movimento politico. Non vi è mai movimento politico che
non sia sociale nello stesso tempo. Solo in un ordine di cose in cui non vi saranno
più classi né antagonismo di classi le evoluzioni sociali cesseranno d’essere rivolu-
60
Ibid.
139
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
zioni politiche. Sino allora, alla vigilia di ciascuna trasformazione generale della
società, l’ultima parola della scienza sociale sarà sempre: “Il combattimento o la
morte; la lotta sanguinosa o il nulla. Così, inesorabilmente, è posto il problema.” George Sand»61. Dunque, la politica, oltre che le idee filosofiche, artistiche, religiose,
considerate come “autonome”, sono in realtà solo la manifestazione apparente
di rapporti che sono sociali. Perciò la politica é essa stessa qualcosa di sociale, e
precisamente l’espressione di società appartenenti a una fase storicamente determinata, caratterizzata dall’antagonismo delle classi, antagonismo che appare “ufficialmente” come interesse generale, mentre in realtà è solo l’interesse della classe
che in quel momento domina su tutta la società, perché priva la classe oppressa
degli strumenti con cui quest’ultima la rovescerebbe. Pertanto, con la fine della
società borghese e, con essa, di tutte le forme antagonistiche della produzione sociale, finisce anche ogni forma di potere politico, anzi, a rigore, ciò che scompare
non è la politica o il potere politico intesi come se fossero qualcosa di autonomo, indipendente dalla società, bensì scompaiono delle società che, essendo scisse in modo inconciliabilmente antagonistico, si auto-rappresentano capovolte,
“mascherate” come potere politico, – o non separato dalla società, rappresentata
come una gerarchia di ceti o corporazioni, nel caso delle forme di produzione
precedenti quella borghese, o in antitesi alla società civile, nel caso della forma
di produzione borghese. Tuttavia, poiché la soppressione delle condizioni sociali
antagonistiche della produzione materiale, condizioni entro cui si generano il
potere politico e le guerre, avviene attraverso un urto violento di classe contro
classe, e specificamente tra borghesia e proletariato, anche quest’ultimo, che agisce per questa soppressione dei rapporti di classe, di se stesso come classe e quindi di ogni potere sociale con carattere politico, deve, per raggiungere lo scopo,
provvisoriamente passare per la conquista e l’esercizio del potere politico. «Ogni
classe la quale aspiri al dominio, anche quando, come nel caso del proletariato, il
suo dominio implica il superamento di tutta la vecchia forma della società e del
dominio in genere, deve dapprima conquistarsi il potere politico per rappresentare a sua volta il suo interesse come l’universale, essendovi costretta in un primo
momento»62. Poiché il passaggio alla società senza classi avviene attraverso uno
scontro tra classi che si esprime pienamente in una rivoluzione totale, ecco che
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 4, cit., p. 182; tr. it., Miseria della filosofia. Risposta alla Filosofia della Miseria del signor Proudhon, cit., pp. 146-147.
62
«Marx-Engels-Jahrbuch 2003», cit., p. 20; tr. it., cit., p. 32.
61
140
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
questo passaggio rivoluzionario, volto ad abolire, insieme con le classi, il carattere
politico del pubblico potere, conserva tuttavia a sua volta un carattere politico.
Quindi, le classi in lotta organizzano la violenza contro l’avversario in vista o
della conquista o della conservazione del potere politico, ossia dello strumento
di repressione di una classe da parte di un’altra. Perciò nella rivoluzione si tratta,
per il proletariato, non di abolire il potere politico, ma di farsi esso stesso classe
dominante, dunque potere politico, contro la classe borghese. E se ogni potere
politico o forma di Stato è dittatura di classe, anche il proletariato organizzato in
classe dominante esercita la propria dittatura.
Qui però c’è una novità storica. Poiché il proletariato non può conquistare le
forze produttive della società senza distruggere il proprio sistema di appropriazione, e con esso l’intero sistema di appropriazione finora avutosi, ne consegue
che la conquista del potere politico da parte del proletariato serve a distruggere,
insieme con la borghesia, anche se stesso come proletariato ossia come lavoratore
o come salariato che dir si voglia. Infatti, il rapporto sociale di produzione che genera il salario, quindi il proletariato, è caratteristico della società borghese come
la forma ultima e più evoluta di produzione sociale fondata sulle classi e sul loro
antagonismo. «Il proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la
borghesia, facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abolendo
con la forza, come classe dominante, gli antichi rapporti di produzione, abolisce
insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza dell’antagonismo
di classe, cioè abolisce le condizioni d’esistenza delle classi in genere, e così anche
il suo proprio dominio in quanto classe»63. Ciò significa che il potere politico
proletario, ovvero la “dittatura del proletariato”, viene esercitato segnatamente
per scomparire e che la violenza organizzata è qualcosa di transitorio, volto a
sopprimere ogni violenza politica. Questo è possibile perché, mentre nelle società
precedenti lo Stato era il rappresentante ufficiale di tutta la società, ossia l’apparenza con cui si presentava la classe particolare che dominava su tutta la società, e
perciò se ne poneva come rappresentante («nell’antichità era lo Stato dei cittadini
padroni di schiavi, nel medioevo lo Stato della nobiltà feudale, nel nostro tempo
lo Stato della borghesia»)64, viceversa, quando il proletariato, impadronendosi del
potere dello Stato e trasformando i mezzi di produzione in proprietà dello Stato,
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 4, cit., p. 482; tr. it., Miseria della filosofia. Risposta alla Filosofia della Miseria del signor Proudhon, cit., p. 121.
64
F. Engels, Antidühring, cit., p. 305.
63
141
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
sopprime le differenze di classe e anche se stesso come classe, lo Stato diventa
effettivamente, e non più apparentemente, il rappresentante dell’intera società. Ma
allora, se è effettivamente il rappresentante dell’intera società, esso cessa di essere
uno Stato e diventa superfluo, perché cessa di essere ciò che uno Stato è, vale a
dire una forza repressiva particolare che nasce dalla società e le si eleva al di sopra
solo apparentemente, essendo essa divisa in antagonismi inconciliabili. Perciò, «il
primo atto con cui lo Stato si presenta realmente come rappresentante di tutta la
società, cioè la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della società, è ad un tempo l’ultimo suo atto indipendente in quanto Stato. L’intervento
di una forza statale nei rapporti sociali diventa superfluo successivamente in ogni
campo e poi viene meno da se stesso. Al posto del governo sulle persone appare
l’amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi»65. Dunque,
la perdita del carattere politico del pubblico potere significa la sostituzione della
politica come dominio sulle persone – in forma diversa a seconda della vigenza
di questa o quell’altra forma antagonistica di produzione – con l’amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi, il che esprime la scomparsa
dell’antagonismo delle classi.
Il proletariato non può organizzarsi come classe dominante semplicemente
impadronendosi della vecchia macchina statale borghese, giacché quest’ultima
è lo strumento di riproduzione del dominio di una classe la quale non ha alcun
interesse a sopprimere il modo di appropriazione avutosi finora, ossia fondato
sulla proprietà privata, quindi tende a riprodurre la classe borghese come classe
dominante e il proletariato come classe dominata. Pertanto, esso è assolutamente
inadeguato a fungere da strumento per il dominio di una classe come quella
proletaria, la quale può impadronirsi delle forze produttive della società non solo
rovesciando i rapporti di forza tra le due classi, ma, mediante questo rovesciamento, abolendo le classi in generale con i loro antagonismi e quindi anche se
stesso in quanto classe. Invece, la dittatura del proletariato è certamente una
forma di Stato, quindi una forza repressiva particolare, nata dalla società e posta
al di sopra di essa, ma ciononostante essa è del tutto diversa da quella borghese
e anche dalle altre forme di Stato fondate sulla proprietà privata, poiché la sua
funzione è quella di sopprimere le classi e il loro antagonismo, ivi compreso il
proletariato come classe, quindi anche lo Stato che è il prodotto di quella situazione antagonistica. Pertanto, «lo Stato borghese […] non “si estingue”; esso
65
Ibid.
142
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
viene “soppresso” dal proletariato nel corso della rivoluzione. Ciò che si estingue
dopo questa rivoluzione, è lo Stato proletario o semi-Stato»66.
Certamente, persistendo la forma di produzione borghese e il suo Stato, il
proletariato non considera indifferente questa o quella tra le molteplici forme
che lo Stato borghese può assumere, ma ne appoggia quella più progressiva, ossia
la forma democratico-repubblicano-popolare. Tuttavia, ciò non avvia nessuna
transizione a una forma diversa di Stato e alla sua estinzione, giacché anche la
progressista repubblica democratica rimane pur sempre una dittatura della classe
borghese e perciò ha la funzione di mantenere il proletariato come classe oppressa. «Noi siamo per la repubblica democratica, in quanto essa è, in regime
capitalista, la forma migliore di Stato per il proletariato, ma non abbiamo il diritto di dimenticare che la sorte riservata al popolo, anche nella più democratica
delle repubbliche borghesi, è la schiavitù salariata»67. Quindi, lo Stato proletario
può nascere solo dopo la soppressione dello Stato borghese perché quest’ultimo,
malgrado si presenti come repubblica democratica, non si estingue, a differenza
del secondo.
Nondimeno, lo Stato proletario rimane uno Stato, dunque una dittatura, giacché anche esso nasce dal conflitto tra le classi e dall’esigenza di assicurare il dominio
del proletariato come classe sulla borghesia. Perciò esso non è un’organizzazione armata autonoma della popolazione, ma rimane una forza repressiva particolare, che
solo a mano a mano, coincidendo sempre più con l’intera società, va ad estinguersi
per i motivi sopra esposti. Esso si presenta nella forma della democrazia più piena
e sostanziale, e in questo si differenzia dalla democrazia borghese, la quale è invece
l’apparenza che copre la dittatura di una minoranza. La democrazia proletaria,
invece, è realmente dittatura della maggioranza. Ma appunto per questo, anche
la democrazia più ampia è pur sempre una forma di dominio, dunque uno Stato.
Tuttavia, essendo adesso la maggioranza a dominare in vista della soppressione di
tutte le classi e quindi degli antagonismi che nascono dalle condizioni sociali di
vita degli individui, a poco a poco viene meno l’esigenza di una forza repressiva
particolare, ossia di uno Stato. Ma l’estinzione dello Stato significa anche l’estinzione della dittatura della maggioranza e quindi anche l’estinzione della democrazia.
«A prima vista ciò pare molto strano; ma è “incomprensibile” soltanto per chi non
ricordi che anche la democrazia è uno Stato e che anch’essa, quindi, scompare
66
67
V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, cit., pp. 73-74.
Ivi, pp. 75-76.
143
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
quando scompare lo Stato. Solo la rivoluzione può “sopprimere” lo Stato borghese.
Lo Stato in generale, cioè la democrazia più completa, non può che “estinguersi”»68.
Come abbiamo visto, tutti i conflitti della storia – si intende qui quelli derivanti
dalle condizioni sociali di vita degli individui – sono riconducibili alle contraddizioni tra sviluppo delle forze produttive e forma delle relazioni sociali entro cui
quelle forze si erano mosse e che ad un dato punto diventano per esse un ostacolo.
E poiché questi conflitti sono contraddizioni che si sviluppano sul terreno della
proprietà privata e della divisione del lavoro, ecco che la soppressione della divisione
del lavoro, resa superflua dal grado di sviluppo universale raggiunto dai mezzi di
produzione, comporta la soppressione delle classi e quindi dei loro conflitti. In conseguenza di ciò, cessa di esistere lo Stato e in tal modo crolla anche la sovrastruttura
costituita dall’alternarsi, e dalla reciproca dipendenza, di paci e di guerre tra forme
nazionali, etniche, razziali, e infine statali. Ovviamente non ha più ragione di esistere neanche il diritto – sia come diritto interno che come diritto internazionale, a
cui appartengono paci, guerre, relazioni diplomatiche ecc. «Le separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparendo sempre più già con lo sviluppo
della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e delle corrispondenti condizioni d’esistenza. Il dominio del proletariato li farà scomparire ancor di più. Una delle prime condizioni
della sua emancipazione è l’azione unita, per lo meno dei paesi civili. Lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra viene abolito nella stessa misura che viene
abolito lo sfruttamento di un individuo da parte di un altro. Con l’antagonismo
delle classi all’interno delle nazioni scompare la posizione di reciproca ostilità tra
le nazioni»69. Ovviamente, anche in una società senza classi, senza potere politico,
quindi senza necessità di guerre, rimangono possibilità di violenze individuali, ma
per reprimerle basta un’organizzazione armata autonoma della popolazione, la quale non ha più il carattere politico, bensì quello di un’amministrazione di cose. «Solo
il comunismo rende lo Stato completamente superfluo, perché non c’è da reprimere
nessuno, “nessuno” nel senso di classe, nel senso di lotta sistematica contro una parte
determinata della popolazione. Noi non siamo utopisti e non escludiamo affatto
che siano possibili e inevitabili eccessi individuali, come non escludiamo la necessità di reprimere tali eccessi. Ma anzitutto, per questo non c’è bisogno d’una macchina speciale, di uno speciale apparato di repressione; lo stesso popolo armato si
68
69
Ivi, p. 74.
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 4, cit., p. 479; tr. it., cit., p. 116.
144
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
incaricherà di questa faccenda con la stessa semplicità, con la stessa facilità con cui
una qualsiasi folla di persone civili, anche nella società attuale, separa delle persone
in rissa o non permette che venga usata la violenza contro una donna. Sappiamo
inoltre che la principale causa sociale degli eccessi che costituiscono infrazioni alle
regole della convivenza sociale è lo sfruttamento delle masse, la loro povertà, la loro
miseria. Eliminata questa causa principale, gli eccessi cominceranno infallibilmente a “estinguersi”. Non sappiamo con quale ritmo e quale gradualità, ma sappiamo
che si estingueranno. E con essi si estinguerà anche lo Stato»70.
70
V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, cit., pp. 165-166. Gli “eccessi individuali” e la loro necessaria
repressione, ancora possibili nella società comunista, sono forme di violenza che non hanno
carattere politico perché nella società comunista ogni forma di potere politico scompare con
la scomparsa della separazione tra produttori e detentori dei mezzi di produzione, divenuti
proprietà di tutti gli individui associati, e, di conseguenza, con la scomparsa delle classi e del
loro antagonismo, da cui si era generata la necessità del potere politico. Fenomeni come, ad
esempio, la criminalità organizzata, mafie di vario genere, microcriminalità metropolitane diffuse su larga scala ecc., non esistono in modo autonomo, ma hanno le loro radici nell’esistenza
e nella lotta delle classi che caratterizzano le fasi antagonistiche della produzione sociale. In
questo caso si tratta di fenomeni che compaiono nella società borghese contemporanea e al
tempo stesso si mettono in urto sia con le leggi della produzione borghese sia con l’espressione
dell’organizzazione politica e della convivenza sociale propria di questo modo di produzione,
ossia la legge giuridica, nella quale «i borghesi devono darsi un’espressione universale appunto
perché dominano come classe» («Marx-Engels-Jahrbuch 2003», cit., p. 99; tr. it., cit., p. 78).
Tuttavia, questi fenomeni possono essere spiegati a partire delle varie classi che continuano ad
esistere all’interno della società borghese e che, come abbiamo sopra visto (nota 48), acquistano
il loro colore e il loro peso specifico dal conflitto tra capitale e lavoro salariato, conflitto che
caratterizza la formazione sociale entro cui si presentano e le cui leggi sembrano contraddire.
Ciò dipende dal fatto che l’ordine borghese si eleva al di sopra della società ma non coincide con
essa in quanto esprime solo la volontà di una classe, la quale è la minoranza. Da qui proviene
la necessità della formazione di distaccamenti particolari di uomini armati, della burocrazia,
delle prigioni ecc. Viceversa, con la scomparsa dell’antagonismo delle classi e con la concentrazione della produzione nelle mani di tutti gli individui associati, finisce lo sfruttamento e, di
conseguenza, scompaiono anche le forme con cui si esprimeva e si mistificava il carattere sociale
antagonistico della produzione, quindi scompaiono il diritto, che nella sua forma più avanzata
si presentava nell’astratta universalità della legge, lo Stato e il suo apparato repressivo. «Liberati dalla schiavitù capitalistica, dagli innumerevoli orrori, barbarie, assurdità, ignominie dello
sfruttamento capitalistico, gli uomini si abituano a poco a poco a osservare le regole elementari
della convivenza sociale, da tutti conosciute da secoli, ripetute da millenni in tutti i comandamenti, a osservarle senza violenza, senza costrizione, senza sottomissione, senza quello speciale
apparato di costrizione che si chiama Stato» (V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 164). A quel
punto possono persistere eccessi individuali ma per reprimerli non c’è più bisogno di un’organizzazione separata, giacché basta una organizzazione armata autonoma della popolazione.
145
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Sintetizzando, nella prospettiva marxista la spiegazione della guerra è data dalle
condizioni sociali in cui gli uomini producono la loro esistenza e perciò dal carattere storico di questa produzione. Di conseguenza la pratica della guerra è relativa
a determinate fasi storiche, quelle caratterizzate dalla divisione del lavoro e dalla
proprietà privata. Sulla base di nuove e determinate condizioni storiche, essa sparisce
insieme a ogni forma di relazione sociale avente carattere politico. La soppressione della possibilità delle guerre non è perseguita perciò in conformità ad un ideale
utopico, a un dover essere cui l’essere deve conformarsi, ma in base all’osservazione
scientifica della tendenza storica, precisamente sulla base dell’osservazione della connessione storica tra conflitti, rapporti di proprietà privata e divisione del lavoro come
processo che nasce storicamente e assume forme storicamente determinate. Un raggiunto un grado di universalità di sviluppo delle forze produttive, che avviene solo
alle condizioni storiche specifiche date dal mercato mondiale, rende realisticamente
impossibile tenere in piedi rapporti di produzione fondati sulla divisione del lavoro e
quindi sulla proprietà privata, sulle classi e i loro conflitti. Conseguentemente, rende
impossibile tenere in piedi quella violenza organizzata di una classe per opprimerne
un’altra, che è il potere politico, a cui appartengono le guerre. Solo su questa base
reale di uno sviluppo universale delle forze produttive moderne, si combatte l’ultima
guerra della storia, la guerra civile mondiale tra le due classi in cui si divide la moderna società borghese, e si organizza l’ultima violenza di classe ossia l’ultimo potere
politico, che però è tale da estinguersi, insieme alla possibilità delle guerre.
3. Conclusione
Come abbiamo visto, la divisione del lavoro non è una categoria eterna che
precede lo sviluppo delle forze produttive e degli strumenti di produzione, ma ne
è determinata, perciò compare soltanto nelle fasi storiche in cui questo sviluppo
materiale assume le forme antagonistiche del rapporto di proprietà privata, con
cui tale divisione del lavoro si identifica. Tra le modalità più importanti in cui la
divisione del lavoro si manifesta, c’è la divisione tra forze produttive, relazioni sociali e coscienza. Fra questi momenti, quanto più la divisione del lavoro progredisce, tanto più si sviluppano dei conflitti. Poiché, con la globalizzazione, il modo
capitalistico di produzione «diventa forma generale, socialmente dominante, del
146
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
processo di produzione»71, ecco che la divisione del lavoro e i suoi conseguenti
antagonismi si sviluppano in forme corrispondenti ai mezzi di produzione e alle
relazioni sociali di questa fase. Nel mercato mondiale della società borghese le
forze produttive e le relazioni sociali si sviluppano in modo universale, ma, essendo la società borghese la forma estrema di produzione sociale antagonistica, ecco
che nel mercato mondiale della globalizzazione capitalistica anche le contraddizioni e i conflitti tra forze produttive, relazioni sociali e forme della coscienza, caratteristici della divisione del lavoro, si svolgono e si acutizzano in modo universale. Di conseguenza, le forme ideologiche – ossia politiche, artistiche, religiose,
filosofiche – in cui gli uomini divengono coscienti del conflitto e lo combattono,
assumono l’apparenza di una potenza estranea, indipendente da ogni processo
materiale di produzione storicamente determinato, e dotata di vita propria.
L’ideologia in base a cui si legittima l’ordine mondiale della globalizzazione è
costituita dai diritti umani. Con essi si intende non solo quelli classici di libertà
ed eguaglianza, instaurati delle rivoluzioni borghesi moderne, ma anche i diritti
“sociali”, riguardanti le condizioni di lavoro, imposti delle lotte operaie sviluppatesi tra il secolo XIX e il secolo XX, i diritti “di genere”, imposti soprattutto
dalle lotte delle donne, lotte sviluppatesi specialmente nella seconda metà del
secolo XX, i diritti ambientali, emersi in conseguenza della crisi ecologica e delle
lotte relative, i diritti “biopolitici” riguardanti la salute e, in genere, l’ampia sfera
della riproduzione sociale. Condizione di realizzazione di questo tipo di ordine
mondiale è però l’instaurazione della “democrazia” (si intende qui la democrazia borghese nella sua forma più avanzata, includente diritti sociali e biopolitici,
ma pur sempre una democrazia borghese) in tutti gli Stati del mondo, in modo
da rendere possibile una convivenza tra i popoli che escluda la guerra dalle relazioni internazionali. In questa direzione gli Stati cedono a tutta una serie di
apposite agenzie internazionali una parte considerevole di competenze in materia
di politica economica, sociale e di sicurezza, competenze un tempo riassunte
nel termine “sovranità”. Dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla globalizzazione, sembra dunque realizzarsi la tendenza, enunciata nel passo sopra
citato dal Manifesto del Partito Comunista, secondo cui le separazioni e gli antagonismi tra le nazioni vanno sempre più scomparendo già con lo sviluppo della
K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, Bd.I: Der Produktionsprozess des Kapitals, Frankfurt-Berlin-Wien 1969, p. 461; tr. it. di D. Cantimori, Il capitale. Critica dell’economia
politica, Libro primo, cit., p. 558.
71
147
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l’uniformità
della produzione industriale e delle corrispondenti condizioni d’esistenza – e, a
mio avviso, questa uniformità esiste a maggior ragione anche nella differenziata
produzione “post-fordista”, giacché nell’economia della produzione immateriale,
della conoscenza e delle relazioni, proprio le singolarizzazioni o addirittura la valorizzazione di specificità “locali” o tramandate, perdono ogni carattere isolato,
essendo “recuperate” mediante uno sviluppo di forze produttive e di un circuito
di relazioni sociali universali che proprio in quanto tali, ossia universali, funzionano differenziando e singolarizzando. Nell’ideologia borghese, condizione per
realizzare un ordine internazionale che tenda a escludere sempre più le guerre,
è l’instaurazione della democrazia in tutti i paesi del mondo. Di conseguenza la
politica mondiale, dalla seconda metà del secolo XX al primo decennio del XXI,
consiste nell’iniziativa di vari attori che non sono più specificamente gli Stati nella loro classica rappresentazione in base al concetto di sovranità e di territorialità,
ma piuttosto i governi degli Stati e tutta una serie di agenzie governative sopranazionali e di organizzazioni non governative. Questa iniziativa è volta a imporre o
favorire la trasformazione democratica degli Stati in cui i diritti umani, nel senso
più largo sopra inteso, non sono garantiti. Nella seconda metà del secolo XX,
obiettivo di questa iniziativa politica umanitaria erano i paesi comunisti; con la
fine della guerra fredda, sono, da un lato, gli Stati in cui politica e religione non
vengono distinte, quindi in primo luogo gli Stati dell’ambito ideologico-religioso islamico, e, dall’altro lato, gli Stati post-comunisti come quelli dell’area dei
Balcani, la Russia e la Cina, oltre ai pochi restanti Stati comunisti come Cuba e
la Corea del Nord. Conformemente all’ideologia borghese, si ritiene che i diritti
umani e la democrazia non siano qualcosa di esclusivo dell’Occidente, ma siano
universali. Perciò, nel caso degli Stati dove politica e religione non sono distinti,
non si tratta di sopprimere la religione socialmente dominante, ma di considerarla, insieme con le altre religioni o con l’ateismo, una delle espressioni della società
civile, una delle particolarità del “borghese”, rispetto a cui lo Stato si pone come
l’universale che, nel “cittadino”, “toglie”, in senso hegeliano, quelle particolarità,
non sopprimendole ma confermandole nell’ambito della società civile. In coerenza con il modo capovolto con cui la società borghese rappresenta il proprio modo
di produzione, la condizione del mutamento è posta nella sovrastruttura ideologica: decisivo è il momento politico dell’instaurazione della democrazia. Circa
invece i mezzi per arrivare a questa trasformazione politica, sorgono contrasti a
tutti i livelli, tra attori governativi e non governativi e tra i governi stessi. Da un
lato si ritiene adeguato il ricorso alla guerra, dove i rapporti di forza sono favo148
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
revoli, quindi nei confronti degli Stati dell’area dei Balcani o dei paesi islamici,
ma non verso paesi come la Russia, la Cina o la Corea del Nord, per rovesciare i
governi ritenuti nemici della democrazia e che non garantiscono i diritti umani.
Dall’altro lato si ritiene che la democrazia non possa essere imposta mediante
la violenza aperta, mentre si tratta di promuovere per via pacifica processi di
sviluppo economico e culturali nella società civile. Queste due tesi si sono scontrate e si scontrano tutt’ora a proposito della politica da fare nel Medio Oriente
e nell’Asia centrale, in particolare circa l’intervento militare in Iraq iniziato nel
2003 dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti d’America e dalla Gran Bretagna,
soprattutto in presenza del fatto che contro l’occupazione si è sviluppata una
resistenza popolare, la quale ha varie componenti, ma è accomunata dal rifiuto
dell’imposizione della forma di governo dall’esterno, quale che sia la posizione
delle varie componenti intorno alla democrazia. Invece la guerra fondamentalista
globale di civiltà tra Occidente e Islam presenta una forte specularità delle due
parti in lotta, in quanto rafforza l’illusione estraniante di un’autonomia del piano
ideologico della sovrastruttura, occultando i reali rapporti materiali e rafforzando così tutto il funzionamento capovolto a cui dà luogo il modo capitalistico di
produzione al grado estremo, raggiunto nella globalizzazione, di divisione del
lavoro e quindi di conflitto tra forze produttive, forma delle relazioni e coscienza.
La contraddizione è che la società borghese, da un lato, con il libero commercio,
il mercato mondiale, l’uniformarsi della produzione e delle corrispondenti condizioni di vita, tende a fare scomparire o comunque a ridurre le separazioni e gli
antagonismi tra le nazioni; ma dall’altro lato, essendo essa una forma di produzione antagonistica e per di più nel grado più estremo raggiunto nella storia, fa
sì che gli uomini prendano coscienza del conflitto tra forze produttive e rapporti
sociali, e combattano questo conflitto, mistificandone ideologicamente i termini
reali da entrambe le parti, quindi sotto forma di guerre religiose, etniche, razziali, di civiltà. È per questa contraddizione che nella globalizzazione capitalistica
troviamo la tendenza del mercato mondiale ad avvicinare, mescolare, ibridare
individui, generi, popoli e razze in una misura mai avutasi prima, e al tempo
stesso la tendenza della guerra, in qualunque forma venga fatta, ad assumere la
forma dei genocidi con una frequenza mai avutasi prima. È per questa contraddizione che l’ordinamento mondiale attuale si occupa della salute, dell’ambiente
e della sicurezza generalizzata, “costringe a vivere”, data la tendenza del mercato
mondiale ad accrescere i bisogni, i godimenti, la qualità della vita e le forze produttive, e, nello stesso tempo, per conseguire questi obiettivi, ammette la guerra
preventiva, i bombardamenti indiscriminati sulle popolazioni civili, quindi “la149
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
scia morire” con la giustificazione della lotta al terrorismo e dell’affermazione dei
diritti umani.
In tal modo si stabilisce una dipendenza dialettica tra due antitesi, da un lato
gli atti terroristici suicidi, dall’altro il rafforzamento degli apparati esecutivi e di
polizia da parte degli Stati che tra loro si coordinano cedendo quote sempre maggiori di sovranità. La storia dello Stato borghese, nel corso delle sue rivoluzioni e
«di fronte ai movimenti autonomi delle classi oppresse»72, coincide con la sua crescente centralizzazione, con il crescente rafforzamento del potere esecutivo e quindi
con la formazione dell’apparato burocratico e militare. «La burocrazia e l’esercito
permanente sono dei “parassiti” sul corpo della società borghese, parassiti generati
dalle contraddizioni interne che dilaniano questa società, ma parassiti appunto che
ne “ostruiscono” i pori vitali»73. Questo apparato si costituì alla caduta del sistema
feudale come strumento della monarchia assoluta per rovesciarlo. Successivamente
esso «si sviluppa, si perfeziona e si rafforza attraverso le numerose rivoluzioni borghesi di cui l’Europa è stata teatro dalla caduta del feudalesimo in poi […]. Ma
gettiamo uno sguardo d’insieme sulla storia dei paesi avanzati alla fine del secolo
Decimonono e al principio del secolo Ventesimo. Vedremo come, più lentamente,
in forme più varie, su un’area molto più estesa, si sia svolto lo stesso processo: da un
lato, l’elaborazione di un “potere parlamentare” […]; dall’altro, la lotta per il potere
dei diversi partiti borghesi e piccolo-borghesi che si dividono e si ridistribuiscono
il “bottino” degli incarichi statali, mentre immutate restano le basi del regime borghese; finalmente un processo di perfezionamento e di rafforzamento del “potere
esecutivo”, del suo apparato burocratico e militare»74. Questa tendenza mi sembra
accentuarsi lungo tutto il corso del Ventesimo secolo e agli inizi del Ventunesimo,
dove la guerra in nome dei diritti umani e contro il “terrorismo”, fattispecie la cui
definizione è mobile e quindi rimandata alla decisione del più forte, porta ad un
crescente rafforzamento degli esecutivi, degli apparati di polizia e della macchina
bellica. La contraddizione è che, da un lato, questo apparato burocratico e militare
costituisce un corpo parassitario che ostruisce i pori della società globalizzata, in
quanto il libero mercato, caratterizzato dalla concorrenza che riguarda anche la
merce forza-lavoro, sostituibile continuamente al prezzo più basso, mal sopporta
l’ostacolo di un apparato permanente che si sottrae alle leggi della concorrenza e
72
73
74
V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 88.
Ivi, p. 89.
Ivi, pp. 89-92.
150
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
all’oscillazione dei prezzi; dall’altro lato, la stessa società borghese, ancora di più
quella globalizzata, deve continuamente riprodurre questo parassita per riprodurre
se stessa in quanto forma di produzione fondata sull’antagonismo di classe, quindi
sulla repressione e la guerra. Questa contraddizione è visibile nella tendenza odierna a privatizzare, attraverso l’“esternalizzazione” (outsourcing), prigioni, settori della
pubblica amministrazione e degli eserciti (si pensi ai contractors), in modo da ridurre
le spese improduttive, quindi togliere a questi settori il carattere parassitario, sottomettendoli alle leggi della concorrenza. Ma ciò incontra il limite nel fatto che proprio le alterne vicende della domanda e dell’offerta potrebbero porre la produzione
di servizi amministrativi o militari fuori mercato. In tal modo il mercato capitalistico stesso distruggerebbe gli strumenti indispensabili alla sua riproduzione, per
cui la società borghese deve, contraddicendosi, riprodurre il parassita che ostruisce i
suoi pori. Proprio l’esempio della tendenziale privatizzazione dell’amministrazione
e degli eserciti, dunque della politica, entro l’ordine mondiale della globalizzazione,
mostra la contraddizione insanabile a cui giunge la società borghese moderna: per
riprodursi come società borghese, cioè caratterizzata dall’incremento infinito della
produzione della ricchezza, essa, seguendo il suo criterio di produttività, diventa un
ostacolo proprio all’incremento della produttività e della ricchezza, nel momento in
cui necessariamente deve riprodurre un gigantesco corpo parassitario derivante dal
fatto che essa, essendo un modo antagonistico di produzione, ha il suo centro nella
“polizia” e nella guerra. Insomma, proprio nella globalizzazione il caso della guerra
e della politica in genere come violenza organizzata, mostra che la società borghese, seguendo le sue stesse leggi dell’illimitata produttività, finisce con il diventare
massimamente improduttiva.
La contraddizione sta nel modo limitato con cui la società borghese, essendo
una forma antagonistica di produzione sociale, concepisce la produttività. «Ciò
che oggi si chiama lavoro, è soltanto un pezzo minuscolo e miserabile dell’enorme e smisurata produzione»75. Infatti, vi è una grandissima quantità di relazioni
e di forze produttive umane che riguardano gli aspetti liberi, creativi, godibili,
e che sono essi stessi produzione. Ma il modo di produrre fondato sul capitale
ossia sull’appropriazione del lavoro altrui senza scambio sotto l’apparenza di uno
scambio, considera tutto il tempo reso disponibile dall’aumento della produttività come tempo di lavoro supplementare da valorizzare nel modo specifico in
75
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 3, cit., p. 197; tr. it. di F. Codino, Opere V 1845-1846, cit.,
p. 209.
151
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
cui lo fa il capitale, cioè nel produrre plusvalore. Perciò, tutto quanto riguarda
lo sviluppo artistico e scientifico degli individui, che questo tempo, reso disponibile dall’aumento della produttività, renderebbe possibile, è considerato tempo
improduttivo, inutile dal punto di vista del valore d’uso del capitale, consistente
nel valore stesso, misurato in base al tempo di lavoro di cui si appropria gratuitamente sotto forma di un libero scambio. «Le relazioni degli uomini sotto gli
aspetti piacevoli e liberi»76, non potendo essere misurate come tempo di lavoro
che accresce il capitale, sono viste «con disprezzo, benché siano anch’esse un produrre»77. Ora, attraverso il mercato mondiale dato dallo sviluppo universale delle
forze produttive, quindi con la creazione di relazioni universali e di individui
universali, queste dimensioni “piacevoli e libere” della produttività umana sono
diventate esse stesse forze produttive e oggetti di consumo, cosicché la produzione assume tendenzialmente carattere “immateriale” (il che non significa affatto
che tutti gli altri settori che producono beni “durevoli” con strumenti adeguati,
siano scomparsi). Questo mutamento degli strumenti di produzione, costituiti
da linguaggi, affetti, relazioni e loro combinazione, rende sempre più inadeguata
la divisione del lavoro, come differenza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, grazie all’uso del computer, come differenza tra città e campagna (sia perché
la produzione agricola ha basi biotecnologiche, sia perché ovunque è possibile
lavorare in internet), e come rapporto di proprietà privata, che nel capitalismo
misura la ricchezza in base al «furto del tempo di lavoro altrui»78 per utilizzarlo
come tempo di lavoro supplementare da convertire in plusvalore. Infatti, questi
strumenti di produzione immateriali sono ottenuti mediante un’attività “piacevole e libera” quale è quella “creativa”, intellettuale, affettiva, relazionale, ossia
mediante un libero sviluppo degli individui, e i mezzi immateriali di consumo,
prodotti da quegli strumenti, servono, a loro volta, per il libero sviluppo degli
individui, il che reagisce positivamente sulla produttività. Ma un’economia in
cui il libero sviluppo degli individui costituisce al tempo stesso lo strumento di
produzione e l’oggetto di consumo, è incompatibile con la misura della ricchezza
in base al valore di scambio, perché ciò presuppone la conversione del tempo reso
disponibile dall’aumento della produttività in tempo di lavoro supplementare,
cioè in un tempo che nega proprio quel libero sviluppo degli individui. Insom-
76
77
78
Ibid; tr. it., cit., vol. II, p. 210.
Ibid.
K. Marx, Grundrisse, cit., p. 593; tr. it., cit., II, p. 401.
152
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
ma, il capitalismo che sottomette al suo modo di produzione affetti, linguaggi,
relazioni, per produrre, in quanto richiesti oggi sul mercato, mezzi di consumo
destinati al libero sviluppo delle individualità, è costretto, seguendo la sua legge
immanente, a distruggere proprio queste libere individualità, ossia una massa
enorme di forze produttive e di prodotti ottenuti. «Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l’epidemia
della sovrapproduzione […]. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per
poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. Con quale mezzo la borghesia
supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento dei
vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali
e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse. A questo
momento le armi che son servite alla borghesia per atterrare il feudalesimo si
rivolgono contro la borghesia stessa»79.
Chi impugna le armi per distruggere la società borghese, i proletari, costituiscono «il movimento indipendente della immensa maggioranza nell’interesse della
immensa maggioranza»80, mentre «tutti i movimenti precedenti sono stati movimenti di minoranze, o avvenuti nell’interesse di minoranze»81. È quindi sul presupposto reale dell’azione di una sterminata moltitudine di esseri umani, e non in
base a un utopistico dover essere, che è possibile un movimento il quale abolisca
«l’intera soprastruttura degli strati che formano la società ufficiale»82, diventata incompatibile con l’esistenza della società reale. Se il soggetto di un siffatto movimento è un’immensa maggioranza di uomini che agisce nell’interesse di un’immensa
maggioranza, un urto rivoluzionario, per quanto violento, e una democrazia, per
quanto essa stessa forma di dominio e quindi dittatura, ma della maggioranza reale
e non apparente, dovrebbero produrre una violenza e una dominazione molto inferiori in confronto a quelle delle precedenti fasi di produzione antagonistica della
società. «Nel periodo di transizione dal capitalismo al comunismo, la repressione
è ancora necessaria, ma è già esercitata da una maggioranza di sfruttati contro
una minoranza di sfruttatori. Lo speciale apparato, la macchina speciale di repressione, lo “Stato”, è ancora necessario, ma è già uno Stato transitorio, non più
79
80
81
82
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 4, cit., p. 468; tr. it., Manifesto del Partito Comunista, cit., p. 93.
Ivi, p. 472; tr. it., cit., p. 102.
Ibid.
Ivi, p. 473; tr. it., cit., ibid.
153
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
lo Stato propriamente detto, perché la repressione di una minoranza di sfruttatori
da parte della maggioranza degli schiavi salariati di ieri è cosa relativamente così
facile, semplice e naturale, che costerà molto meno sangue di quello che è costata la
repressione delle rivolte di schiavi, di servi e di operai salariati, costerà molto meno
caro all’umanità. Ed essa è compatibile con una democrazia che abbraccia una
maggioranza della popolazione così grande che comincia a scomparire il bisogno di
una macchina speciale di repressione. Gli sfruttatori non sono naturalmente in grado di reprimere il popolo senza una macchina molto complicata destinata a questo
compito; il popolo, invece, può reprimere gli sfruttatori anche con una “macchina”
molto semplice, quasi senza “macchina”, senza apparato speciale, mediante la semplice organizzazione delle masse in armi»83.
Nel secolo scorso, dopo i primi grandissimi risultati delle rivoluzioni sovietica
e cinese, le costruzioni del socialismo sono andate in direzione nettissimamente
contraria a quanto sopra citato. Se la contraddizione sopra rilevata, per cui nella
società borghese la tendenza alla scomparsa degli antagonismi tra le nazioni,
grazie al mercato mondiale e all’uniformarsi delle condizioni di vita, si accompagna al rafforzamento dei poteri esecutivi e alla pratica della violenza umanitaria
organizzata, che raggiunge la massima espressione nella guerra preventiva come
strumento dell’ordine mondiale della globalizzazione, la violenza emancipatrice
proletaria organizzata, che avrebbe dovuto fare “scomparire ancor di più” quelle
separazioni e quegli antagonismi, ha mostrato “ancor di più” una contraddizione speculare a quella borghese. Certamente è difficile immaginare un passaggio
pacifico e non-politico da una forma all’altra di società, a prescindere dai tempi
e dalla molteplicità dei modi che essa può assumere, giacché non va dimenticato
che qui si discute di questioni riguardanti intere fasi storiche. Ma è altrettanto
chiara l’incongruenza tra il carattere nettamente maggioritario di un movimento
che intende sopprimere una forma di società fondata sul dominio di una minoranza, e la quantità di violenza che è stata messa in atto negli esperimenti comunisti novecenteschi. E allora, se, come abbiamo visto, una formazione sociale non
perisce se prima non si sono sviluppate al suo interno tutte le forze produttive
a cui essa può dare corso, non è forse il lungo periodo che va dalla rivoluzione
industriale alla globalizzazione solo la fase iniziale di un enorme incremento di
forze produttive, che richiede ancora lunghi passaggi storici per avere für sich “un
movimento indipendente dell’immensa maggioranza” che agisce “nell’interesse
83
V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 165.
154
3. La politica e la guerra come violenza organizzata di classe
dell’immensa maggioranza”? E tuttavia, anche se ciò fosse vero, rimane il problema: entro quali rapporti sociali deve svilupparsi questo incremento di forze
produttive? E questo non è un problema di lungo periodo, ma di prassi politica
immediata. Infatti, se i tentativi socialisti del secolo scorso hanno contraddetto in modo ferocemente inaudito tutto quanto può esprimere un movimento
dell’immensa maggioranza che agisce nell’interesse dell’immensa maggioranza,
certamente il capitalismo uscito vittorioso dalla guerra fredda sta sviluppando
una quantità di violenza e di sfruttamento altrettanto ferocemente inauditi da
parte di una minoranza. È evidente che un siffatto problema non può essere
affrontato da nessuna teoria, la quale può solo seguire, studiandoli, i conflitti e i
movimenti reali. Tuttavia, credo sia possibile almeno indicare una direzione di ricerca, incentrata sulla questione della costituzione politica radicalmente alternativa dell’immensa maggioranza reale fondata sulla ricchezza enorme e smisurata
della produzione, non riducibile alla povertà del lavoro.
155
4.
Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale
I. Considerata nel tempo lungo della guerra civile tra capitale e lavoro salariato, che ha occupato il centro della scena nella storia mondiale del Ventesimo
secolo, la Costituzione della Repubblica italiana del 1947 può essere compresa
a partire da una grande trasformazione che si era avviata già negli anni precedenti la Prima guerra mondiale e che raggiunge il culmine e la crisi negli anni
Settanta del Novecento. Essa riguarda i mezzi di produzione, la forma delle
relazioni sociali e della divisione del lavoro, ed è sia un terreno di ulteriori lotte
di classe per gli operai, sia uno strumento e una risposta di classe a queste lotte
da parte del capitale. Si tratta della diffusione del sistema di produzione detto
“ford-tayloristico”, caratterizzato dalla meccanizzazione dei processi produttivi
– si pensi alla catena di montaggio –, dalla divisione tra il momento della progettazione e organizzazione dell’attività produttiva, fatte da tecnici, ingeneri
ecc., e il momento dell’esecuzione, svolta da manodopera semi- o sempre meno
specializzata, dalla standardizzazione dei prodotti finali, dal consumo di massa. Una simile trasformazione del processo produttivo cambiò in modo radicale
la quantità e la qualità delle forze produttive sia sul versante del capitale fisso,
con l’enorme applicazione della scienza alla produzione – macchine e combinazione delle relazioni lavorative – sia il tipo di forza-lavoro che diventò sempre
più massificata e subordinata a questo automatismo della grande industria. Si
è parlato in proposito di passaggio dalla figura dell’“operaio professionale” a
quella dell’“operaio-massa”1. Per quanto riguarda la forma delle relazioni sociali, dalla parte del capitale è essenziale il compromesso con il lavoro salariato, che prevede l’accettazione dell’intensificazione e della razionalizzazione del
lavoro da parte degli operai, in cambio di un più elevato trattamento salariale
e di un’accresciuta capacità di contrattazione del sindacato. Grazie a questi
migliorati trattamenti salariali, gli operai poterono essere considerati non solo
1
Cfr. M. Hardt, A. Negri, Impero/ Il nuovo ordine della globalizzazione, tr. it. di A. Pandolfi,
Milano 2001, pp. 377-378.
157
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
come produttori, ma anche come consumatori dei prodotti finali, che perciò,
come dicevo, divengono standardizzati e prodotti su larga scala.
La forma dei rapporti politici che meglio riflette questo compromesso fordista, si costruì negli anni Trenta, con l’uscita degli Stati Uniti d’America dalla
Grande crisi, con il programma del New Deal di Franklin Delano Roosevelt e
John Maynard Keynes. Qui il capitalismo stesso riconosce che sotto la superficie della libera concorrenza e del presunto equilibrio e autoregolazione del mercato si celano conflitti e disequilibri più profondi, antagonismi e crisi su cui si
potrebbe avviare un processo rivoluzionario che lo rovescerebbe. Così lo Stato
interviene nelle crisi che il capitale provoca, mediante sussidi di disoccupazione, redistribuzione della ricchezza, creazione di infrastrutture, di sicurezza
sociale sanitaria, pensionistica ecc., per gli operai, in modo da provocare l’aumento della domanda e così far ripartire la produzione e i consumi. Il conflitto
sociale tra capitale e lavoro salariato viene assunto e riconosciuto apertamente,
quindi, per così dire, costituzionalizzato, e i sindacati operai diventano così un
soggetto politico centrale. Ciò avrebbe permesso di evitare il pericolo di uno
sbocco rivoluzionario comunista alla crisi che aveva caratterizzato la società capitalistica alla fine degli anni Venti. Il comunismo invece aveva vinto in Russia
attraverso una rivoluzione che aveva, sotto la direzione del partito bolscevico,
realizzato un’alleanza tra gli operai e i contadini contro la guerra imperialistica.
Ben presto anche la Russia si sarebbe trovata dinanzi al nodo dell’industrializzazione come base del socialismo, ma ben presto fallì il programma comunista
di un’emancipazione umana, e nell’arco di settanta anni essa avrebbe perso la
guerra civile con l’Occidente capitalistico, sul terreno dell’applicazione della
scienza alla produzione, su quello dello sviluppo delle forze produttive, del
consumo, dello spazio politico di movimento.
II. Considerata sul piano della sovrastruttura politica, la Costituzione italiana del 1947 fu l’espressione delle tre forze politiche costituenti, quella cattolica,
appoggiata dalla Chiesa del papa Pio XII e rappresentata dalla Democrazia cristiana, espressione dell’unità politica dei cattolici, anticomunista e interclassista,
prevalentemente legata ai ceti medi; quella comunista e socialista, con una larga
base tra gli operai e i contadini, ma aperta anche ai ceti medi, e in lotta contro
la proprietà terriera, ancora molto forte negli anni 40-50, e contro i monopoli;
quella laico-liberale legata ai ceti imprenditoriali e professionali, e con un’impostazione classicamente liberista.
158
4. Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale
Con la “dottrina Truman” del contenimento dell’Unione Sovietica, si ruppe l’unità antifascista internazionale della Seconda guerra mondiale e si aprì in
America una stagione di forte anticomunismo, che si esprimeva in un atteggiamento ostile ai sindacati e a tutti i movimenti sociali progressisti sospettati anche
solo potenzialmente di filocomunismo. In questo quadro fu creato il “piano Marshall” di aiuti economici imponenti all’Europa per la ricostruzione. In risposta
alla dottrina Truman e al Piano Marshall, l’Unione Sovietica di Stalin creò il
Cominform come organo di legame tra i vari partiti comunisti, e il Comecon
come area di scambio economico tra l’Urss e i paesi del blocco dell’Est. Il viaggio
di Alcide De Gasperi negli Stati Uniti nel gennaio 1947, l’accettazione del trattato di pace, l’inserimento dell’Italia nel blocco occidentale contrapposto a quello
sovietico, l’ingresso nel Fondo monetario internazionale e nella Banca mondiale,
l’ottenimento degli aiuti del Piano Marshall, la scissione dei socialisti guidata da
Giuseppe Saragat in funzione anticomunista, culminarono nell’estromissione dei
socialisti e dei comunisti dal governo e nella formazione del terzo governo De
Gasperi (giugno 1947) composto dalla Democrazia cristiana, dal partito liberale,
con Luigi Einaudi ministro delle Finanze e del Tesoro, e dall’Uomo qualunque.
I comunisti aderirono al Comecon e insieme con i socialisti criticarono la politica liberale di Einaudi, la dottrina Truman e il piano Marshall. Sotto il governo
De Gasperi, il Ministro degli interni Mario Scelba avviò l’organizzazione della
polizia in funzione anticomunista, con i reparti “celeri” che sarebbero stati lungo tutta la storia d’Italia fino ai nostri giorni, attraverso tutte le ristrutturazioni
organizzative, lo strumento di repressione delle lotte sociali, dagli operai e partiti
di sinistra negli anni Cinquanta e Sessanta, agli studenti e ai vari gruppi e movimenti extraparlamentari negli anni Settanta, ai movimenti, e più in genere ai
soggetti sociali critici della globalizzazione liberista negli anni Novanta-Duemila.
La rottura definitiva nel fronte che aveva sconfitto il fascismo, e lo schieramento delle parti nei fronti contrapposti della lotta sociale, padroni e operai, sia
pure nelle forme, rispettivamente, dell’interclassismo democristiano e dell’unità di popolo (operai, contadini, ceti medi democratici) social-comunista, non
impedì tuttavia il compromesso costituzionale che portò all’approvazione della
Costituzione nel dicembre 1947. Penso che il punto politicamente decisivo che
rese possibile il compromesso costituzionale fu il fatto che i partiti operai non
tentarono di avviare un processo rivoluzionario comunista in Italia. A prima vista il motivo di questo comportamento politico appare la rigidità della scissione
nei due blocchi nati dagli accordi di vertice a Yalta, in forza dei quali gli alleati
non avrebbero permesso in Italia una trasformazione comunista della forma di
159
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
produzione e politica, né il blocco comunista dell’Est sarebbe potuto o voluto intervenire. Tuttavia, questa situazione è solo un aspetto di processi politici molto
più complessi e di lungo periodo. Vi era a monte la strategia dei partiti comunisti
in Occidente e in particolare in Italia, dove più forte era il movimento operaio organizzato, delle “vie nazionali al socialismo”. Esse consistevano nella lotta contro
le posizioni arretrate del capitalismo e, segnatamente in Italia, contro la grande
proprietà terriera, il che comportava la difesa e la costruzione della democrazia
nella sua forma parlamentare, bandiera lasciata cadere dalla borghesia. La lotta
per la democrazia parlamentare costituiva la tappa intermedia della via nazionale (italiana) al socialismo. Questa posizione era strettamente contestualizzata in
quella del movimento comunista internazionale, guidato dall’Unione sovietica,
anzi, ne era parte integrante, giacché nella situazione di allora si riteneva che
bisognasse consolidare e difendere le acquisizioni del socialismo nei paesi dove
esso si era già realizzato, e contemporaneamente, anche come atto di questa difesa, lottare in Occidente appunto contro le posizioni arretrate del capitalismo e
per la democrazia parlamentare. Ma questa posizione aveva radici a sua volta più
lontane, cioè la strategia, imboccata dopo la rivoluzione russa, della costruzione
del socialismo in un paese solo, la lotta antinazista e antifascista dell’epoca della
Seconda guerra mondiale e, come suo prolungamento nel dopoguerra, la lotta
contro l’imperialismo americano, visto come caratteristica reazionaria del capitalismo, che avrebbe segnato la guerra fredda.
Il compromesso costituzionale, fatto sulla base di questi rapporti di forza politici, poteva esprimere coerentemente, a mio avviso, quel compromesso fordista
che era, come ho detto sopra, la forma dominante di lungo periodo con cui il
capitalismo della prima metà del Ventesimo secolo si era trasformato sia come
risposta alle lotte operaie sia come terreno di ulteriori lotte.
III. Normalmente una costituzione è divisa in due sezioni, una riguardante
i principi fondamentali, contenutistici, dello Stato, quindi i diritti e i doveri
dei cittadini, l’altra riguardante la forma organizzativa di esso. La prima parte
della Costituzione italiana contiene un preambolo di principi fondamentali e
quattro capitoli (Titoli) dedicati ai rapporti, rispettivamente, civili, etico-sociali, economici, politici. Orbene, ciò che mi pare più indicativo di questo
riferimento al contesto produttivo fordista-taylorista-keynesiano, cioè al tempo
lungo della produzione borghese della prima metà del Novecento, è il nesso tra
lavoro e cittadinanza, e l’assunzione, l’incorporazione, dei tratti fondamentali
160
4. Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale
delle lotte operaie della prima metà del Novecento. Ciò è chiaro nella fondazione della democrazia sul lavoro, affermata nell’articolo primo, e il riconoscimento, implicito nell’articolo 3, che, nonostante l’eguaglianza formale di tutti
i cittadini di fronte alla legge, «senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di
religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali», le disuguaglianze economiche e sociali sono la causa del mancato esercizio reale di questi
diritti, ragion per cui la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli economici e
sociali che limitano la possibilità di un’eguaglianza effettiva. È come se nel
contesto fordista il capitalismo avesse voluto fare proprie le osservazioni di Karl
Marx nella Questione ebraica, secondo cui l’universalismo dello Stato con i suoi
diritti umani lascia immutati, anzi sancisce, i particolarismi e le disuguaglianze della società civile, quindi è come se il capitalismo volesse superare all’interno di se stesso la «doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità
politica nella quale [l’uomo] si afferma come comunità, e la vita nella società
civile nella quale agisce come uomo privato, che considera gli altri uomini come
mezzo, degrada se stesso a mezzo e diviene trastullo di forze estranee»2.
Il riconoscimento, fatto dall’articolo 4, del diritto al lavoro e del diritto
di ogni cittadino a scegliere «una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società», mostra in che larga misura il nesso tra lavoro e democrazia sia presente nei principi fondamentali, nel “culto
pubblico”, di questa costituzione, e come i principi del compromesso fordista
agiscano in profondità. Questo punto è specificato nel Titolo terzo, dedicato ai
rapporti economici, dove viene di fatto contrastata, nell’articolo 36, la legge del
salario minimo fondato sulla libera concorrenza e viene riconosciuto a ciascuno «il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo
lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza
libera e dignitosa», per poi dire che «la durata massima della giornata lavorativa
è stabilita dalla legge». Così viene tacitamente riconosciuto l’esito di quel passaggio centrale nella storia della guerra civile tra capitale e lavoro salariato, in
cui, come diceva Marx nel Primo libro del Capitale, l’operaio si presentava sul
mercato come proprietario di merce forza-lavoro di fronte ad altri proprietari
di merci, ma, concluso il “libero” contratto con il capitalista, scopriva che la
durata del tempo per il quale poteva vendere la sua forza-lavoro in realtà gli era
imposta. Perciò, coalizzandosi con gli altri operai e formando così una classe,
2
K. Marx, La questione ebraica e altri scritti giovanili, tr. it. di R. Panzieri, Roma 1998, p. 58.
161
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
ottenne con viva forza una legge dello Stato che stabiliva «finalmente quando
finisce il tempo venduto dall’operaio e quando comincia il tempo che appartiene all’operaio stesso»3. A proposito di questo operaio che entra come “libero”
venditore di merce forza-lavoro, scopre che non è affatto libero, ed esce con la
coscienza di classe grazie a cui conquista la libertà di godere di una parte del
proprio tempo di vita, che «il suo vampiro»4 gli voleva prendere totalmente,
Marx dice: «Quantum mutatus ab illo!»5. Ora invece questo detto, che Marx
riferiva all’operaio, il Novecento lo ha riferito al capitalismo che assunse questo
mutamento dell’operaio per mutare esso stesso.
Il diritto al riposo settimanale e alle ferie retribuite è riconosciuto sempre
dall’articolo 36. I diritti delle donne lavoratrici, l’età minima per il lavoro salariato e la tutela del lavoro dei minori, sono riconosciuti dall’articolo 37. L’articolo 38
riconosce il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale per gli inabili al lavoro, all’assicurazione delle esigenze dei lavoratori «in caso di infortunio, malattia,
invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria», l’educazione e l’avviamento
professionale per i disabili, fatto salvo il riconoscimento della libertà di assistenza
privata. L’articolo 32 riconosce «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» il diritto alla salute, le cure agli indigenti, e negli articoli
33 e 34 si parla del diritto all’istruzione, da cui consegue la centralità della scuola
pubblica in ogni ordine e grado, accanto al riconoscimento di quella privata, ma
«senza oneri per lo Stato», oltre che l’istruzione inferiore obbligatoria e i sussidi
per i capaci e i meritevoli. In tal modo lo Stato, in coerenza col compromesso
fordista, interviene nella sfera della riproduzione, diventata più complessa con
la trasformazione del lavoro e del rapporto di proprietà nel sistema, pur sempre
capitalistico, della grande industria.
Come si vede, in questo impianto c’è la più ampia tutela del lavoro e, in
funzione di esso, della vita non lavorativa. Voglio dire che l’obiettivo ultimo
di questa costituzione rimane la piena occupazione e, in pratica, l’obbligo al
lavoro. Infatti, solo la disoccupazione involontaria è assistita (articolo 38), ma,
ad esempio, un reddito di cittadinanza a tutti garantito non viene previsto
in nessun modo. Vige in ultima analisi il principio del “chi non lavora non
mangia”. Marx osservava, nella Critica al programma di Gotha, che anche una
3
4
5
Id., Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro primo, cit., p. 338.
Ivi, p. 338.
Ivi, p. 339.
162
4. Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale
forma superiore di produzione, come quella socialista, ha bisogno inizialmente di una fase storica in cui vi è necessità di assicurare un tempo generale di
lavoro – fatto salvo chi ne è impedito – per la riproduzione di tutta la società,
anche se dovrebbe crescere esponenzialmente il tempo disponibile per ciascuno, esattamente al contrario di quanto si verifica nel capitalismo e si è verificato
nelle società socialiste novecentesche. Ma, essendo il compromesso fordista un
passaggio che avviene nella forma capitalistica di produzione, il lavoro senza
del quale non si mangia è pur sempre lavoro che aumenta il capitale, e di conseguenza è quella divisione del lavoro che si contrappone sempre più nettamente
all’operaio, dunque significa la persistenza di rapporti fondamentalmente di
proprietà privata: io ti offro la più grande sicurezza sul lavoro, ti riconosco tutti
i diritti nella sfera della riproduzione sociale, ma tu accresci il capitale.
Invero l’assetto proprietario riconosciuto dalla Costituzione è misto. L’articolo 42 riconosce che «la proprietà è pubblica o privata»; l’articolo 43 dice che
la legge si riserva di «trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo
Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese
o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di
energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse
generale»; l’articolo 44 pone vincoli e obblighi alla proprietà terriera privata per
ragione di «equi rapporti sociali», promuove e impone la bonifica delle terre e la
trasformazione del latifondo, aiuta la piccola e media proprietà. L’articolo 45 «riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini
di speculazione privata», e l’articolo 46 riconosce, «ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro», il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle
aziende. Infine, l’articolo 47 tutela il risparmio, disciplina e controlla l’esercizio
del credito, favorisce l’accesso al risparmio popolare, alla proprietà dell’abitazione
e alla più ampia partecipazione azionaria nei grandi complessi produttivi del paese, insomma, favorisce il “comunismo del capitale”. Per affermare la dissoluzione
del latifondo furono fatte dure lotte sociali negli anni Cinquanta soprattutto
nel Sud. La proprietà pubblica e il sistema delle partecipazioni statali provocò
un forte intreccio tra il partito della Democrazia cristiana, la proprietà statale e
il sistema di consenso e di dominio politico. In ogni caso, persistendo la forma
capitalistica di produzione, ed avendo il “potere pubblico” il carattere di “potere
statale”, cioè la forma di un dominio di classe, queste forme miste di proprietà
hanno rivelato le loro contraddizioni nel momento in cui il compromesso keynesiano-fordista è andato in crisi, e la globalizzazione ha cominciato a mostrare
che, al di là di tutti gli intrecci tra “privato” e “pubblico” (nel senso di “statale”),
163
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
il rapporto di proprietà privata rimane pur sempre l’«illuminazione generale in
cui tutti gli altri colori sono immersi e che li modifica nella loro particolarità»6.
IV. L’intensificazione dei ritmi di lavoro nella fabbrica, l’alienazione degli
operai, l’aumento dei bisogni e, in proporzione, la scarsità, in Italia, dei servizi
sociali, alloggi, infrastrutture e scuole, e soprattutto la trasformazione della composizione della classe operaia, ossia l’operaio-massa non qualificato o semiqualificato, quindi sottomesso a un lavoro sempre più astratto, portarono alle lotte
nelle fabbriche e nella società negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta. Ciò
provocò all’interno della sinistra una messa in discussione, da parte di alcune
correnti, della linea, scelta dal movimento operaio socialista e comunista, di concentrare la lotta esclusivamente contro la rendita fondiaria, il capitalismo arretrato e per la democrazia parlamentare come uno stadio della transizione al socialismo. Scriveva nei primissimi anni Sessanta Raniero Panzieri: «Se è vero che tutti
i processi oggi di alienazione si riconducono in modo sempre più rigorosamente
stretto e determinato alla sfera della produzione, è in questa sfera soltanto che
può partire un vero rovesciamento di questi processi di alienazione, invece dei
tentativi di incanalare la protesta, la ribellione, l’insofferenza che naturalmente
è generale contro questi processi di alienazione del neocapitalismo, invece cioè
di incanalarli all’esterno stesso dell’unità produttiva, dei punti in sviluppo ecc.»7.
Qui dunque veniva individuato il centro dell’alienazione e del dispotismo non
principalmente nel capitalismo arretrato e neanche nella sfera più generale della
riproduzione sociale, ma nel cuore stesso del capitalismo cosiddetto avanzato, precisamente nella sfera della produzione costituita dalla grande fabbrica fordista, la
quale diventava il fulcro delle lotte nella direzione del socialismo. Naturalmente
ciò non significa che non bisognasse combattere anche le posizioni arretrate del
capitalismo, né che non bisognasse aggregare gli altri strati che nella società lottano contro il capitalismo, ma significa che bisognava riconoscere il centro dello
sfruttamento proprio in quel neocapitalismo che si presentava con la veste della
modernizzazione, della razionalizzazione e della neutralità tecnocratica, ma che
proprio in questa apparente neutralità tecnico-scientifica nascondeva il più forte
dispotismo. Perciò «le politiche di attesa o le politiche gradualistiche o le politi-
6
7
Id., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., vol. I, p. 34.
R. Panzieri, La ripresa del marxismo-leninismo in Italia, Milano-Roma 1975, p. 224.
164
4. Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale
che esterne, le politiche che tendono ad aggredire o accerchiare il neocapitalismo
dall’esterno possono avere come unico effetto solo quello di accelerare i processi
di consolidamento del neocapitalismo»8. Come si vede, qui è messa in discussione proprio la teoria per cui un ammodernamento del capitalismo e la lotta per la
democrazia parlamentare potessero poi favorire in seno al capitalismo l’attesa di
una crisi o del suo crollo come condizioni di una transizione al socialismo. Certamente «bisogna cogliere il capitalismo in tutta la complessità dei suoi processi
di sviluppo, ma colpirlo in quello che è il solo limite che esso non può superare,
e questo limite è l’istanza di rovesciamento della caricatura della regolazione sociale del lavoro, cioè è l’istanza socialista vera e propria»9. In stretta connessione
alla strategia gradualistica e progressista, era criticata la strategia, affermatasi nei
paesi socialisti, di un intervento esterno, guidato dal partito, giacché a quel punto «si avrà il passaggio dal parlamento borghese glorificato dalla classe operaia a
una forma necessariamente di gestione dall’alto del socialismo, necessariamente
si passerà a una forma più o meno staliniana del socialismo non da parte della
classe ma da parte del partito con tutte le conseguenze che abbiamo visto nelle
democrazie popolari»10. Invece la lotta di classe va vista essa stessa come una
«prefigurazione della società socialista»11. Ho riportato questa posizione, che è
all’inizio di quella corrente teorico-politica degli anni Sessanta e Settanta che
si chiama “operaismo”, non perché fosse l’unica delle posizioni in gioco nella
grande estensione delle lotte sociali di quegli anni, ma perché è emblematica
della trasformazione e della rottura che si stava avendo del compromesso fordista,
ossia della lunga fase che era iniziata negli anni Trenta, e, conseguentemente, dei
rapporti sociali e politici in seno alla sinistra stessa.
Il potere contrattuale degli operai aumentò e i sindacati ottennero nel 1970 lo
Statuto dei lavoratori con legge dello Stato (n. 300, 20 maggio 1970). Nel 1972 si
formò la federazione unitaria tra i tre maggiori sindacati (Cgl, Cisl, Uil) che acquistarono enorme peso politico non solo nella sfera della produzione ma in tutta
la società. Tuttavia, questa vittoria del compromesso fordista era al tempo stesso
il segno della sua crisi. Ciò avvenne innanzitutto perché, essendo la composizione della classe operaia profondamente mutata, le forme di lotta nella fabbrica
Ivi, p. 226.
Ibid.
10
Ivi, p. 227.
11
Ibid.
8
9
165
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
erano autonome e spontanee, auto-organizzate, improvvise e non preannunciate,
quindi mettevano in crisi proprio il carattere centralizzato della fabbrica fordista
con cali di produttività, diminuzione dei profitti, aumento del costo del lavoro.
Contemporaneamente, con percorsi ora autonomi ora collegati agli operai, anche
il resto della società fu attraversato da estese lotte. La produzione e il consumo
di massa, caratteristici del piano fordista tendente alla piena occupazione e alla
coincidenza tra produttori e consumatori dei prodotti finali, provocarono un
arricchimento e una complessificazione dei bisogni, dei desideri, ecc., e di conseguenza un cambiamento dei comportamenti. Perciò, accanto alla produzione
alienata della fabbrica fordista, si attaccava, nel resto della società, l’autoritarismo
nella famiglia, nella scuola e nell’università, il tradizionalismo, l’etica sessuale
piccolo-borghese incentrata sulla famiglia stessa. Successivamente, dalla seconda
metà degli anni Settanta e, in forme più attenuate, negli anni Ottanta, si svilupparono i movimenti che ponevano al centro la questione delle differenze di
genere, in primo luogo si sviluppò il movimento delle donne, che non era volto
più solo alla parità di diritti formali, che peraltro nella costituzione fordista erano
ampiamente riconosciuti e almeno potenzialmente tutelati, benché non applicati. Si metteva in questione la stessa tradizionale percezione della sessualità, del
proprio corpo inserito in una rete di relazioni di potere e resistenze. Accanto ai
movimenti di genere si formavano i movimenti ecologisti.
Questi movimenti portavano con sé una tendenza crescente alla “soggettivazione”. Questa non coincide con l’astratto individualismo della società borghese,
definito a partire dal rapporto sociale caratterizzato dallo scambio di oggetti misurati astrattamente come quantità di tempo di lavoro in essi contenuto (merci), ma
consiste in affermazioni di differenze soggettive le quali si producono in un vivere
e agire comuni, in cui tempo di lavoro e tempo di vita coincidono. Non a caso
in questo mutato quadro la categoria centrale diventa il “corpo” concepito come
centro di singolarizzazione, perciò non come organismo ma come evento, “corpo
senza organi”. Si tratta, come si vede, di un modello diametralmente opposto alla
standardizzazione fordista con la sua catena di montaggio, l’alienazione del lavoro,
l’uniformità dei consumi e dei bisogni. Di conseguenza, le lotte sociali che si svilupparono a partire dagli anni Settanta erano caratterizzate dal rifiuto del lavoro
e davano inizio al passaggio, tipico della società postfordista, a forme di vita e di
agire politico dove produzione e vita, comune e singolarità si intrecciano. Pertanto,
la nozione di “soggetto” non è equivalente a quella di “individuo” puro e semplice.
Sviluppando la nozione di “preindividuale” di Gilbert Simondon e avvicinandola a quella marxiana di “individuo sociale”, osserva Paolo Virno: «Il soggetto non
166
4. Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale
coincide con l’individuo individuato, ma comprende in sé, sempre, una certa quota
ineliminabile di realtà preindividuale […]. Nell’aggettivo “sociale” occorre ravvisare le fattezze di quella realtà preindividuale, che, secondo Simondon, pertiene a
ogni soggetto. Così come nel sostantivo “individuo” va riconosciuta l’avvenuta singolarizzazione di ciascun componente dell’odierna moltitudine. Quando parla di
“individuo sociale”, Marx si riferisce all’intreccio tra “esistenza generica” ed esperienza irripetibile, che della soggettività è il sigillo»12. “Moltitudine” è il termine
per indicare quella soggettività sociale il cui modo di essere comune è il contrario
di ogni ripetibilità, omogeneità, astratta eguaglianza. Perciò essa reclama, quanto
alle modalità di agire politico, espressioni opposte a quelle che sono state le forme
di aggregazione politica moderna, quali il popolo, lo Stato, il partito, la classe. In
tali forme, infatti, le singolarità venivano livellate e sussunte sotto una misura ad
esse “trascendente”, e l’azione politica si svolgeva sempre per delega e rappresentanza. Così avveniva anche nelle forme politiche in cui si esprimeva il movimento
operaio: la classe e il partito. Ma la crisi del modello fordista mette in questione
proprio queste forme di lotta e di organizzazione dove, nonostante l’aspirazione
all’emancipazione umana, restava sempre un elemento di direzione dal di fuori.
«Poiché il collettivo è teatro di un’accentuata singolarizzazione dell’esperienza, ovvero costituisce il luogo in cui può finalmente esplicarsi ciò che in ogni vita umana
è incommensurabile e irripetibile, nulla di esso si presta ad essere estrapolato o,
peggio che mai, “delegato”»13.
Lo scontro con il capitale e con lo Stato dentro e fuori la fabbrica fu, negli
anni Settanta, di estrema durezza e violenza. Alle lotte sociali lo Stato rispose
con la “strategia della tensione” usando le stragi e i tentativi di colpi di Stato in
un intreccio tra gruppi fascisti e apparati dello Stato stesso. Contemporaneamente, soprattutto nella misura in cui manifestavano una forte autonomia anche
rispetto ai sindacati e ai partiti, le lotte sociali provocavano dure repressioni e
interventi polizieschi molto violenti, ai quali si rispondeva in modo altrettanto
violento. Tuttavia, risultò alla fine fallimentare ipotizzare uno sbocco nel senso rivoluzionario, e questa volta per motivi molto diversi da quelli per cui non
fu possibile lo sbocco rivoluzionario nell’immediato dopoguerra, perché questa
volta non si faceva più riferimento a un movimento comunista internazionale
guidato dall’Unione sovietica o alle vie nazionali al socialismo, modelli con cui,
12
13
P. Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Torino 2003, pp. 191-193.
Ivi, p. 197.
167
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
come abbiamo visto, quasi tutte le tendenze anticapitalistiche più radicali avevano ormai chiuso, e che stavano iniziando la loro lunga agonia. Il punto è invece
che non si comprese che il capitalismo, messo in crisi dalle lotte sociali degli anni
Sessanta e Settanta nel suo modello fordista, stava uscendo da quella crisi con
un forte cambiamento della sua base produttiva, degli strumenti di produzione
e dei rapporti sociali, e grazie a questo cambiamento avrebbe vinto su tutta la
linea. Così, tra la fine degli anni Settanta e tutti gli anni Ottanta si formarono
le basi di una soggettività sociale potenzialmente alternativa che sarebbe emersa
in pieno negli anni Novanta, compiuta la rivoluzione capitalistica postfordista,
e che però voleva forme di aggregazione politica del tutto diverse da quelle che
negli anni Settanta esprimevano la crisi del fordismo. Per questo motivo la politica dei gruppi extraparlamentari nella seconda metà degli anni Settanta entrò in
crisi e si divise in una molteplicità difficilmente unificabile di letture, prospettive
e pratiche politiche. La scelta che fecero alcune parti del movimento di passare
alla lotta armata e alla clandestinità, finì nell’atto terroristico e scatenò solo una
repressione statale di assoluta intensità, la quale unificò sotto l’unico disegno
dell’insurrezione armata contro i poteri dello Stato e in una serie di teoremi
giudiziari quello che invece nella soggettività delle componenti dei movimenti,
anche tra quelli che ammettevano la violenza, era ben lontano dal configurare
un’unica tendenza, dato il venir meno delle basi sociali che avrebbero permesso
“l’assalto al cielo”.
Il Partito comunista italiano nella prima metà degli anni Settanta aveva raccolto le spinte sociali progressive nel senso più lato e ciò si era espresso nei fortissimi avanzamenti elettorali del 1975 e del 1976. Di fronte alla strategia della tensione e al colpo di Stato in Cile del 1973, scelse il “compromesso storico” con la
Democrazia cristiana onde evitarne lo slittamento a destra. Nelle linee di fondo
questa strategia era molto coerente con la tradizione della lotta alle arretratezze
del capitalismo e alle sue involuzioni di destra, e per la difesa della democrazia
parlamentare. In tal modo si acutizzò l’ostilità tra il Partito e i movimenti di contestazione “autonomi” del 1977, da un lato, e dall’altro, o contemporaneamente
che dir si voglia, la lotta al terrorismo trasformò il parlamentarismo in politica
dell’unità nazionale caratterizzata della legislazione di emergenza. Ma all’ombra
di questo stato di emergenza il capitale, che si stava trasformando, chiuse lo scontro sociale, e questa chiusura fu emblematicamente espressa dalla sconfitta operaia alla Fiat nel 1980, dopo di che lo stesso sindacato uscì fortemente indebolito
e iniziò la crisi del Pci. Questa crisi va vista, a mio avviso, in stretta connessione
con quella mortale del comunismo dell’Est, che si andava consumando non a
168
4. Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale
caso contemporaneamente negli anni Ottanta, perché, nonostante che, a partire
dall’invasione della Cecoslovacchia nel 1968, il Pci avesse sempre più preso le
distanze dall’Unione sovietica, le radici di questa connessione sono più profonde:
esse sono quelle espresse nei passi di Panzieri sopra citati, i quali mettono bene
in luce la comune strategia che nel movimento comunista internazionale univa
la politica del dispotismo burocratico del partito nelle democrazie popolari con
quella della lotta per il parlamentarismo borghese e per la sola modernizzazione
del capitalismo in Occidente, in attesa che si sviluppassero al suo interno gradualmente le contraddizioni. Così, il Novecento ha smentito due volte l’illusione
di un crollo automatico del capitalismo, con la trasformazione fordista prima e
con quella postfordista dopo, perciò fu del tutto conseguente che il blocco comunista dell’Est e l’eurocomunismo si dissolvessero insieme.
Gli anni Ottanta furono quelli della trasformazione del capitalismo, che a
poco a poco abbandona il modello fordista e il sistema delle relazioni sociali
basato sulla contrattazione collettiva, sugli alti salari, sulle garanzie di welfare.
Si dice che il capitalismo torna così al “libero mercato”. In effetti la dialettica tra
concorrenza e monopoli è caratteristica del processo di sviluppo del capitalismo,
perciò vi è stata almeno da che c’è la grande industria. Con il “ritorno al libero
mercato” si intende in realtà la liberalizzazione del rapporto tra capitale e lavoro
salariato, senza le garanzie del compromesso fordista, e la circolazione sempre più
libera dei capitali. Lo sfruttamento diventa dunque di nuovo aperto grazie ai più
favorevoli rapporti di forza riconquistati. In questi rapporti favorevoli comincia a
trasformarsi modo di produrre. Muta il mezzo di produzione che diventa innanzitutto l’informatica; ma non si tratta solo dell’uso diffuso del computer, bensì in
generale della comunicazione, del linguaggio, degli affetti, di quella sfera di attività che si usa chiamare “immateriale”. Michael Hardt e Antonio Negri hanno
insistito sul fatto che questo nuovo modo di produrre, data la natura linguistica
e comunicativa del mezzo di produzione, tende a superare la scissione tra momento della singolarità e momento comune. «La differenza specifica del lavoro
immateriale […] consiste nel fatto che i suoi prodotti, per molti aspetti, sono già
in se stessi immediatamente sociali e comuni […]. Questo non significa […] che
le condizioni di lavoro e della produzione siano diventate le stesse in ogni parte
del mondo e in tutti i settori economici. La nostra tesi vuole invece enfatizzare
il fatto che le molteplici istanze singolari dei processi di lavoro, delle condizioni produttive, delle situazioni locali e delle esperienze vissute coesistono con il
“divenir comune”, a diversi livelli di astrazione, delle forme del lavoro e della
generalità dei rapporti di produzione e di scambio – e che dunque non c’è alcu169
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
na contraddizione tra la singolarità e la comunanza»14. Intorno a questa analisi,
che indubbiamente coglie una tendenza effettiva di trasformazione del modo di
produrre, si è discusso e si discute a lungo, giacché resta da chiarire se questa unificazione della singolarità e della comunanza, provocata dall’immaterializzazione
del lavoro, contenga già spontaneamente degli elementi di comunismo, quindi di
liberazione comune degli individui, oppure se si tratta soltanto di forme nuove
con cui il potere di comando del capitale sul lavoro altrui diventa ancora più
forte, nel qual caso la moltitudine come tale non dà affatto luogo immediatamente a un potere costituente democratico. A parte il carattere problematico del
termine “lavoro immateriale”15, in alcun modo, come d’altronde si dice anche
nel testo sopra citato, la forza produttiva umana è oggi diventata tutta di questa
natura, benché è innegabile che quella componente cosiddetta immateriale ne
condizioni in modo crescente l’utilizzazione. Sicuramente, al cambiamento di
strumento di produzione si accompagna una nuova divisione del lavoro e quindi
una nuova forma di comando del capitale sulla forza-lavoro. Questo comando si
ricostituisce, dopo la crisi degli anni Settanta, non più con la catena di montaggio che concentra gli operai e in generale il processo di produzione, ma, come
osserva Laura Fiocco, attraverso «la realizzazione di un processo di cellularizzazione della forza-lavoro globale. Questo processo può essere analizzato a due
livelli. Quello della divisione sociale e assiale del lavoro, attraverso cui è coglibile
la dispersione della forza-lavoro globale in cellule più o meno piccole e apparentemente autonome (costellazioni di impianti, filiere di fornitura, attività connettive
di trasporto e comunicazione, servizi alle imprese, centri di ricerca, e così via).
L’altro, quello dell’organizzazione del lavoro, cellularizza l’operaio collettivo di
ciascuna unità produttiva in team di lavoro “armoniosamente integrati”»16. La
quantità e il tipo di prodotti dipende dalle scelte del consumatore, sempre più
singolarizzato, quindi nella fabbrica ogni cellula controlla la qualità del prodotto
a seconda della richiesta, a valle, della cellula più vicina allo sbocco ed esamina
M. Hardt, A. Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, tr. it. di A.
Pandolfi, Milano 2004, pp. 139-140.
15
Il rilievo, insieme a quello secondo cui la comunicazione non è immediatamente comunismo,
è stato fatto e articolatamente svolto da M. Porcaro, Lo scudo di Perseo. Rischi e risorse dei movimenti, in S. Calzolari, M. Porcaro (a cura di), L’ invenzione della politica. Movimenti e potere,
Milano 2005, pp. 305 ss.
16
L. Fiocco, La cellularizzazione della forza lavoro e le forme di resistenza alla Fiat di Melfi,
www.intermarx.com
14
170
4. Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale
la qualità del prodotto della cellula posta a monte. Non si possono accumulare
scorte di magazzino, come avveniva invece nella produzione fordista standardizzata. Apparentemente i lavoratori in tal modo controllerebbero orizzontalmente la produzione, quindi non vi sarebbe più un momento della progettazione e
uno dell’esecuzione, tra loro separati, dato che la comunicazione e l’interazione
divengono la principale forza produttiva. Ma sotto questa sinergia si nasconde
un’intensificazione del potere capitalistico di comando sul lavoro: «L’efficacia di
questi dispositivi è data […] dall’occultamento del comando della direzione […]
sotto la forma oggettivata di un imperativo del flusso, iscritto nell’organizzazione
just in time della produzione»17. Quindi, la centralità della comunicazione, della
mente, del mezzo informatico come forze produttive predominanti rispetto al lavoro di braccia o di quello ripetitivo alla catena di montaggio, non toglie affatto,
anzi rende la subordinazione del lavoro al capitale «più sofisticata e più potente di
quella fordista»18. Infatti, sono rese impossibili forme di lotta come quelle dell’operaio-massa concentrato sulle catene di montaggio, giacché attraverso il sistema
dell’esternalizzazione la forza-lavoro è organizzata a rete, quindi è connessa e
cellularizzata (in un certo senso singolarizzata) al tempo stesso. Perciò le lotte
si esprimono in pratiche di resistenza individuali, mentre le forme collettive, la
costituzione di una soggettività antagonistica o di una coscienza di classe richiedono tempo e maturazione.
Su questa base produttiva si avvia il processo di globalizzazione dei mercati
finanziari, dei capitali, delle merci e delle persone. La connessione di reticolarità
e globalità, che caratterizza la produzione e gli scambi, pone in crisi la centralità
dello Stato territoriale a vantaggio da un lato della dimensione sopranazionale,
giacché diventano importanti le grandi reti strategiche, ossia i grandi corridoi
di comunicazione stradali e ferroviari, e i corridoi delle materie prime, come
gasdotti, oleodotti ecc., e dall’altro della dimensione regionale e locale, giacché la
produzione esternalizzata è diffusa reticolarmente sul territorio. Di conseguenza
a livello politico la dimensione regionale e locale si esprime in forme di federalismo, di devoluzione, di decentramento, e sul piano globale nell’importanza quasi
da governo mondiale che assumono quelle istituzioni già esistenti, come il Fondo
monetario e la Banca mondiale, e quelle createsi con la globalizzazione, come
l’Organizzazione mondiale del commercio. In questo tipo di economia è centrale
17
18
Ibid.
Ibid.
171
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
il nesso tra sapere e produzione, ed essendo quest’ultima su base fortemente territoriale, quindi interessante non la grande fabbrica ma l’intero distretto produttivo, diventa centrale la connessione sul territorio tra il sistema dell’istruzione e
tutte le reti produttive.
Infine, sempre su questa nuova base della produzione postfordista e della
mondializzazione degli scambi, negli anni Ottanta si concluse la dissoluzione
del comunismo dell’Est, che già nella grande trasformazione fordista si rivelò
incapace di reggere il confronto col capitalismo. Già molto tempo prima si era
aperta all’interno del socialismo sovietico la contraddizione mortale fra la tendenza socialista alla trasformazione della proprietà privata in proprietà sociale,
e la riproduzione di un centralismo burocratico, che, così, della vecchia forma
di produzione capitalistica ereditò solo gli svantaggi. Esso fu quindi incapace di
avviare quella stretta connessione tra il massimo incremento delle forze produttive e l’estinzione delle classi e conseguentemente del potere politico. Invece, pur
nella sempre maggiore intensificazione del comando sul lavoro, il capitalismo si è
rivelato più capace di innovare le forze della produzione. Al centro della politica
mondiale degli anni Novanta e dei primi anni del Ventunesimo secolo sta la politica dei diritti umani, portata avanti dagli Usa e dall’Unione europea. Essa significa l’instaurazione del capitalismo e della sua forma politica democratica nelle
varie aree del mondo che nel Ventesimo secolo uscirono dalla colonizzazione e
che durante la Guerra fredda costituirono il Terzo mondo. È oggetto di divisione
tra Europa e America, e anche trasversalmente ai due schieramenti, se questo
intervento umanitario debba essere costituito da aiuti economici, istituzioni di
banche ad hoc, formazione, superamento del digital divide, o se esso debba includere l’intervento armato per abbattere regimi autoritari o per lottare contro il
terrorismo islamico. Finora è stata vincente la linea della guerra, scandita dalla
guerra del Golfo del 1991, dalla guerra dei Balcani nel 1999, dagli attentati del
2001 a New York, del 2004 a Madrid e del 2005 a Londra, dalla guerra in Iraq
ancora in corso, e in Afghanistan nel 2001.
V. In questo processo di trasformazione che abbraccia la seconda metà del
Ventesimo secolo e gli anni presenti, la costituzione italiana del 1947, pur rimanendo intatta nella formulazione scritta della sua prima parte, ha subito delle
profonde trasformazioni di fatto.
Innanzitutto vi è una trasformazione della proprietà, poiché essa, che, come
abbiamo visto, è costituzionalizzata come pubblica o privata, oggi diviene di
172
4. Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale
fatto sempre più solo privatizzata. Se l’articolo 43 dice che la legge può trasferire
allo Stato, a enti pubblici, a comunità di lavoratori o di utenti servizi o fonti di
energia di essenziale importanza pubblica, oggi la tendenza è a privatizzare tutto,
persino le più elementari risorse vitali come l’acqua, e spesso in regime di monopolio. Non va nutrita nessuna nostalgia per il vecchio sistema delle partecipazioni
statali con la loro gestione burocratica, l’intreccio clientelare con i partiti, in
primo luogo con la Democrazia cristiana, però va detto che con le privatizzazioni
la possibilità di un controllo pubblico dal basso, già ridotta quando c’è la statalizzazione dei servizi pubblici, qui lo è in misura ancora maggiore, dato che alla
burocratizzazione tecnocratica si unisce anche l’interesse del capitalista privato.
La facoltà data dall’articolo 33 all’istruzione universitaria di darsi ordinamenti
autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato, è intesa in un senso sempre
più analogo a un processo di privatizzazione e accresce la dipendenza delle Università da finanziamenti privati sulla base del fatto che l’odierna produzione si
fonda sulla conoscenza. Gli scandali finanziari italiani di questi giorni mostrano
come la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini
di speculazione privata, garantita dall’articolo 45, sia entrata in crisi con la finanziarizzazione dell’economia e quindi con la necessità delle cooperative di andare
sul mercato finanziario, a quel punto senza avere neanche i “vantaggi” di una società per azioni che può essere controllata dai soci, e lasciando invece ai manager
un potere burocratizzato e maggiormente esposto alla corruzione. La medesima
finanziarizzazione dell’economia, le fusioni bancarie, i monopoli, mettono sempre più in crisi la tutela del risparmio popolare, di cui parla l’articolo 47, poiché,
come già Lenin osservava nell’analizzare le basi economiche dell’imperialismo
del suo tempo, il passaggio dalla libera concorrenza ai monopoli, che si ha mediante fusioni tra industrie e banche, fusioni di banche tra loro ecc., da un lato
evolve verso più avanzati rapporti di proprietà sociale, ma, dall’altro lato, poiché
questo sviluppo si ha all’interno della forma di produzione capitalistica, la cui
base è la merce, il valore di scambio e la concorrenza, si generano contraddizioni
insanabili, delle quali i fenomeni di corruzione e gli intrecci tra poteri economici
e poteri politici sono un aspetto essenziale e non un deviazione. La stessa istituzione di sempre nuove autorità di controllo, organismi antitrust ecc., mostra che
lo Stato capitalistico non è più capace di dominare questo processo in cui è ora la
società civile ad essere egemone sullo Stato.
Il rimando, fatto dall’articolo 40, alle leggi che regolano il diritto di sciopero,
nel cambiamento dei rapporti di forza avutisi negli ultimi venti anni, è sempre
più a vantaggio del padronato, accanto alla reintroduzione della contrattazione
173
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
individuale e delle riforme dello Statuto dei lavoratori. La tutela della salute nel
significato individuale e collettivo, affermata nell’articolo 32, viene sempre più
contraddetta dalla riduzione delle spese sanitarie pubbliche. Nella globalizzazione postfordista e liberista la giornata lavorativa è aumentata a dismisura grazie
alla rimercificazione totale del rapporto tra capitale e lavoro. Il fatto che la forza
produttiva sia oggi costituita in gran parte dalla conoscenza e dagli affetti e quindi non sia misurabile mediante la quantità di tempo di lavoro immediato, lungi
dal significare più tempo disponibile per lo sviluppo onnilaterale degli individui, significa aumento del tempo che ciascuno dà gratuitamente al capitale sotto
l’apparenza della cooperazione orizzontale. L’assistenza a chi è inabile al lavoro e
sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, affermata dall’articolo 38, è demandata
sempre più al “capitalismo compassionevole”, e la disoccupazione involontaria è
sempre minore, perché la coincidenza capitalistica tra precarietà e flessibilità del
processo produttivo mette sempre dinanzi alla possibilità di perdere il lavoro. Ma
l’assicurazione dei mezzi di vita è in questo caso inversamente proporzionale alla
crescita della disoccupazione involontaria.
Dalla fine degli anni Settanta con la legislazione di emergenza a livello nazionale, e a partire dai recenti attentati di New York, Madrid e Londra, a livello
globale, si sviluppa tutta una legislazione eccezionale e una prassi poliziesca che
contraddice gli stessi principi fondamentali borghesi. Così, se l’articolo 13 prevede che «in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla
legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che
devono essere comunicati entro quarantotto ore alla autorità giudiziaria e, se
questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e
restano privi di ogni effetto», nella pratica i casi eccezionali sono divenuti normalità. I colloqui investigativi senza difensore della recente legislazione antiterroristica consolidano questa prassi che fa dell’eccezione la regola e che è ulteriormente rafforzata dal controllo sempre più frequentemente fuori legge delle telefonate
e dalla possibilità che la rete offre di entrare nella posta elettronica privata. Infine
la lentezza dei processi penali e la carcerazione preventiva che diventa di fatto una
forma di espiazione della pena, sono anche esse delle costanti. Rispetto a questo
complesso di problematiche l’Italia appare a posti piuttosto bassi nelle graduatorie internazionali di rispetto dei diritti umani.
L’articolo 11 della Costituzione dice che « l’Italia ripudia la guerra come
strumento di offesa alla liberta degli altri popoli e come mezzo di risoluzione
delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri
Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri
174
4. Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale
la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo». Avevano osservato Friedrich Engels e Karl
Marx nel Manifesto del Partito Comunista del 1848, che già nel capitalismo le
separazioni e gli antagonismi dei popoli vanno scomparendo con la libertà di
commercio, il mercato mondiale, l’uniformità delle condizioni di vita create
dall’uniformità della produzione industriale; il dominio del proletariato avrebbe fatto scomparire sempre di più questi antagonismi perché essi hanno la
loro radice nell’antagonismo delle classi all’interno delle nazioni, così come il
predominio di una nazione sull’altra è la conseguenza dello sfruttamento di un
individuo da parte di un altro, per cui solo la scomparsa dell’antagonismo delle
classi all’interno di una nazione, portato dal comunismo, può fare scomparire
la posizione di reciproca ostilità tra le nazioni19. Lenin, osservando la realtà
dell’imperialismo nel pieno della Prima guerra mondiale, diceva che la sua sostanza non è la pace o la guerra ma il rapporto economico-sociale, e la pace e la
guerra sono solo la forma alterna in cui questo rapporto si manifesta: le alleanze tra Stati capitalistici monopolistici preparano nuove guerre, che nascono da
queste alleanze, e viceversa il conflitto di oggi sposta e prepara la possibilità di
nuove alleanze tra i nemici di ieri. Perciò, guerra e pace si determinano reciprocamente sullo stesso e identico terreno dei rapporti imperialistici, si tratta solo
dell’«alternarsi della forma pacifica e non pacifica della lotta»20. Alla fine della
Seconda guerra mondiale le potenze vincitrici crearono un apparato di istituzioni internazionali per evitare di ricadere negli errori che avevano provocato
la guerra stessa. L’articolo 11 recepì questa struttura dell’ordine mondiale del
dopoguerra con le conseguenti limitazioni della sovranità che essa comporta al
fine di contribuire alla costruzione di un ordine mondiale pacifico. Ma con la
Guerra fredda e l’inserimento dell’Italia nella Nato nel 1949, la limitazione di
sovranità acquistò un altro senso e precisamente quello dell’accettazione della
pregiudiziale esclusione dei comunisti dal governo, cosa che per la verità era
avvenuta già prima, con il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti nel 1947. Lo
stesso processo di limitazione della sovranità si ebbe nelle democrazie popolari
aderenti al Patto di Varsavia che si stipulò nel 1955.
Cfr. K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, a cura di E. Cantimori Mezzomonti, cit., p. 116.
20
V. I. Lenin, L’ imperialismo fase suprema del capitalismo, tr. it. di F. Platone, Roma 1970, p.
161.
19
175
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Con il crollo del comunismo sovietico e il nuovo ordine mondiale della globalizzazione, la politica dei diritti umani e la motivazione della “lotta al terrorismo” hanno reso la cosiddetta “guerra preventiva” una forma normale di esportazione della democrazia e di controllo occidentale delle fonti di materie prime, in
primo luogo delle risorse petrolifere. In questo modo la guerra diventa un mezzo
permanente della politica internazionale volta a imporre l’ordinamento democratico borghese, che è la forma politica più adeguata al mercato mondiale della
globalizzazione. Ciò avviene senza tener conto della specificità storica dei luoghi
dove questa democrazia si esporta, posto, come in effetti oggi è, che la transizione
debba essere per forza al capitalismo e alla democrazia borghese.
Ma sia che l’ordine mondiale “umanitario” della globalizzazione si costruisca
in modo pacifico, sia che lo si costruisca ricorrendo alla guerra preventiva, comunque gli Stati nazionali hanno ceduto, cedono e cederanno quote di sovranità
sempre più rilevanti agli organismi mondiali che di fatto decidono le strategie
economiche e politiche. Questo processo di cessione della sovranità coinvolge gli
Stati europei anche per quanto riguarda la costruzione dell’Unione. Il progetto
di costituzione europea e l’orientamento degli attuali trattati dell’Unione sono
oggi fondati sul più spinto liberismo economico e al tempo stesso sulla più spinta
centralizzazione burocratica, ragion per cui questa limitazione della sovranità
non è rivolta nei fatti ad una costruzione della pace, ma, favorendo lo sfruttamento del capitale sul lavoro, favorisce l’ostilità nei rapporti internazionali, a
dispetto dell’intenzione pacifica di partenza. Tuttavia, a mio avviso, al processo
di unificazione europeo, allargato anche alla Russia, non bisogna opporsi ma
bisogna favorirlo dandovi un opposto significato, ossia quello dell’apertura ai
migranti, del reddito garantito per tutti, dell’accesso il più possibile gratuito alle
conoscenze, e della tutela dei diritti di welfare.
Infine, il Titolo secondo della prima parte della Costituzione, dedicato ai
rapporti etico-sociali, pone al centro la famiglia. L’articolo 29 la definisce «società
naturale fondata sul matrimonio» (l’articolo 30 riconosce stessi diritti anche ai
figli nati fuori del matrimonio). L’articolo 31 dice che «la Repubblica agevola con
misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose.
Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a
tale scopo». Nel Titolo terzo, dedicato ai rapporti economici, l’articolo 37 riconosce gli stessi diritti degli uomini alla donna lavoratrice e aggiunge: « Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione
familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione».
176
4. Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale
Questa centralità della famiglia, assunta nella configurazione dei rapporti
etico-sociali, riflette la fase storica in cui nacque la Costituzione, cioè una società
più arretrata rispetto alle altre società capitalistiche occidentali, in gran parte
caratterizzata dalla grande proprietà terriera, dalla mentalità contadina e piccolo-borghese, e dall’ideologia della chiesa reazionaria di Pio XII che imponeva
l’unità politica dei cattolici. La Democrazia cristiana era l’espressione di questa
unità e dell’interclassismo, quindi dei ceti medi, della piccola e media borghesia.
Essa incarnava l’ideologia del bene comune fondato sul diritto naturale: poiché
la grazia non contraddice la natura ma la perfeziona, l’armonia tra l’autonomia
dell’impegno politico del cattolico e le direttive della Chiesa sta appunto nel
riferimento a questo diritto naturale. Ma in fondo anche il Partito comunista,
con la sua base sociale operaia in un paese dove l’industria era prevalentemente
piccolo-media, e contadina in un paese dove c’era ancora il latifondo, con l’apertura ai ceti medi in maggioranza cattolici, e in definitiva con la sua ideologia del
“blocco storico” gramsciano, non poteva non riflettere questo stato di cose. In
generale, la critica al capitalismo poteva facilmente incrociare in modo equivoco
la riproposizione di motivi precapitalistici.
Dalla seconda metà del Ventesimo secolo a oggi queste condizioni sono radicalmente cambiate. Già Engels e Marx avevano osservato, un secolo e mezzo
fa che il capitalismo e lo sviluppo della società borghese tendono a distruggere
la famiglia insieme ad ogni illusione di comunità naturale. E in effetti in Italia
una delle più vistose conseguenze “sovrastrutturali” delle trasformazioni più profonde provocate prima dal neocapitalismo fordista e poi dalla globalizzazione
postfordista, è l’avere scosso radicalmente ogni rappresentazione “naturale” della
famiglia e, ancora di più, quella di una presunta “normalità” del rapporto stabile di coppia eterosessuale. Gli affetti assumono sempre più un’accentuazione
“individualizzante”, sia pure, stanti i rapporti sociali capitalistici, nella forma
dell’egoismo possessivo, riflesso di un società fondata sui valori di scambio. Ma i
movimenti sociali che nel corso dell’ultimo mezzo secolo hanno posto al centro
il corpo, le differenze di genere, la percezione del sé, dimostrano a mio avviso che
partendo dalla dissoluzione degli antichi rapporti naturali, comunitari, familiari
ecc., si può praticare un “essere singolare” alternativo al mero individualismo
possessivo della società borghese, perché non contraddice una più ricca forma di
relazioni comuni, anzi diventa singolare proprio in comune.
Gli ultimi due papi, la Conferenza italiana dei vescovi e i movimenti cattolici più fondamentalisti, come “Comunione e liberazione”, contrari al divorzio,
all’aborto, all’eguale stato giuridico di tutte le differenze di genere, alle tecniche
177
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
riproduttive ecc., vogliono imporre come naturali e universali, e perciò tradurre
in leggi dello Stato, quelli che sono solo dei loro legittimi punti di vista particolari21. Ma il settarismo con cui queste posizioni sono espresse, dimostra che
esse hanno perduto la rappresentanza della generalità della società, ossia non fa
che confermare la caduta dell’illusione del diritto naturale e del bene comune,
che era caratteristica dell’interclassismo cattolico e dell’epoca dell’unità politica
dei cattolici. Esse sono soltanto l’espressione di una parte della società civile in
opposizione all’altra. Insomma, se non altro, esse sono un segno del fatto che si è
passati a una fase di piena affermazione della società borghese, dove l’astrattezza
dei diritti dell’uomo e del cittadino, a livello dello Stato, non sopprime ma conferma i molteplici particolarismi della società civile. Perciò molte formulazioni
del Titolo secondo della Costituzione sono state di fatto “riformate” dallo stesso
sviluppo del capitalismo.
Ma allora, se la chiesa cattolica è una parte come le altre nella società borghese, non ha senso la posizione di privilegio riconosciutale dai Patti Lateranensi
(stipulati nel 1929 e rivisti nel 1984) assunti nell’articolo 7 della Costituzione.
Restando in un’ottica semplicemente borghese, che non sopprime la società civile
e quindi anche la religione, ma anzi la riconferma, non si comprende perché una
parte della società civile che in quanto tale ha tutto il diritto di esprimersi come
vuole e fare le battaglie legislative che vuole al pari di tutti gli altri, debba però
godere di un trattamento speciale rispetto alle altre posizioni economiche, partitiche, religiose ecc. L’articolo 7 va dunque soppresso e deve valere solo l’articolo
8, che dice: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla
legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi
secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico
italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese
con le relative rappresentanze». Va ovviamente tolta la formulazione «diverse da
quella cattolica», perché quest’ultima è una confessione religiosa come le altre e
perciò ha gli stessi diritti e obblighi delle altre.
Non tutte le tendenze cattoliche hanno questo metodo integralista di lotta politica, giacché
le trasformazioni della società hanno fatto crollare anche l’ideologia di un’unità politica dei
cattolici, entrata in crisi nella stessa Chiesa già con il Concilio Vaticano II.
21
178
4. Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale
VI. La seconda parte della Costituzione, in base alla recente riforma costituzionale, è dedicata all’ordinamento della Repubblica e si compone di 6 Titoli,
rispettivamente dedicati al Parlamento, al Presidente della Repubblica, al Governo, alla Magistratura, a Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato,
e alle Garanzie costituzionali. L’articolo 114 dice che «la Repubblica è costituita
dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo
Stato, che esercitano le loro funzioni secondo i principi di leale collaborazione e
di sussidiarietà». L’articolo 117 attribuisce la potestà legislativa allo Stato e alle
Regioni «nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario», e stabilisce le competenze di legislazione esclusiva dello Stato, di legislazione concorrente tra Stato e Regioni e di legislazione esclusiva delle
Regioni. Secondo l’articolo 119, «i Comuni, le Province, le Città metropolitane
e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa», hanno le risorse
derivanti dai tributi di loro competenza e dal gettito di tributi erariali riferibile
al loro territorio, hanno un proprio patrimonio, nel quadro dei principi generali
determinati con legge dello Stato, il quale non dà garanzie sui prestiti contratti.
Dunque la Repubblica, la forma repubblicana, è il minimo comune denominatore che abbraccia lo Stato, le Regioni, le Città metropolitane, le Province e i
Comuni. Come si vede, lo Stato qui non è più la massima espressione dell’universale, l’apparenza universale con cui una classe domina su un’altra o con cui le classi
in lotta in determinati momenti si equilibrano, ma riduce il suo potere verso l’alto
in quanto è subordinato ai vincoli della Comunità europea e alle istituzioni mondiali (Fondo monetario, Banca mondiale, Wto, Onu), e verso il basso in quanto le
Regioni hanno competenza legislativa esclusiva in alcune materie importantissime
proprio nello snodo del passaggio dal compromesso fordista al postfordismo, come
la sanità e l’istruzione, e ampia materia di legislazione concorrente.
L’articolo 55 dice che «il Parlamento si compone della Camera dei deputati
e del Senato federale della Repubblica». L’articolo 57 istituisce il Senato federale
della Repubblica «eletto a suffragio universale e diretto su base regionale», distribuito fra i suoi membri in proporzione alla popolazione della Regione e con
la partecipazione, senza diritto di voto, dei rappresentanti delle Regioni e delle
autonomie locali. Per quanto riguarda la formazione delle leggi, l’articolo 70
dice che la Camera dei deputati esamina i disegni di legge delle materie regolate dall’articolo 117, fatto salvo quanto previsto dal terzo comma dell’articolo
70 stesso, e, dopo l’approvazione da parte della Camera, a tali disegni di legge
il Senato federale può proporre entro trenta giorni modifiche, rispetto a cui la
Camera si esprime poi in via definitiva. L’articolo 87 dice che «il Presidente della
179
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Repubblica è il Capo dello Stato, rappresenta la Nazione ed è garante della Costituzione e dell’unità federale della Repubblica».
In più punti questa seconda parte della Costituzione insite sul “principio di
sussidiarietà”, in base al quale i Comuni, le Province, le Città metropolitane, le
Regioni e lo Stato devono esercitare le loro funzioni. Il principio di sussidiarietà
è assunto dal trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 come criterio ispiratore
dell’azione dell’Unione europea. Esso trasferisce l’iniziativa dell’azione riproduttiva della società dallo Stato ai singoli individui e alle singole comunità, come
famiglie, gruppi, associazioni volontarie ecc., promuovendone l’autonoma responsabilità. La funzione dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane,
delle Regioni e dello Stato è quella di intervenire sussidiariamente solo quando
cittadini e gruppi volontari non sono in grado di farcela da soli, e l’intervento
dura solo il tempo necessario a tornare ad agire indipendentemente, vale a dire
senza ricorrere a sussidi. L’intervento sussidiario parte dal basso verso l’alto, ossia
dall’istituto cosiddetto più vicino a quello più lontano dal cittadino: si comincia
col Comune, e se questo non fosse in grado di risolvere il problema del cittadino
o del gruppo, si passa all’organismo superiore, fino all’Unione europea. È evidente che questo principio di sussidiarietà non è altro che quello liberista del “meno
Stato più mercato”. Descrivendo il mercato mondiale come punto di arrivo della
società borghese, Marx annota: «Egemonia della società borghese sullo Stato. Le
crisi. Dissoluzione del modo di produzione e della forma di società fondati sul
valore di scambio. Reale porsi del lavoro individuale come lavoro sociale e vice
versa»22. Quindi col mercato mondiale, dove la società borghese è egemone sullo
Stato, è come se il capitale giungesse al suo punto limite, dove si capovolge in una
nuova e opposta forma di società caratterizzata dall’iniziativa autonoma degli
individui associati, cioè a un punto che lo contraddice e in cui si rovescia. Ma,
stante ancora la forma di produzione basata sullo scambio di merci, tale iniziativa
autonoma degli individui non significa ancora il loro libero sviluppo onnilaterale,
ma l’egoismo creato dalla libera concorrenza, e l’egemonia della società borghese
sullo Stato, fenomeno che osserviamo chiaramente nella globalizzazione, significa che l’azione fatta dallo Stato e da tutti gli altri soggetti politici locali e mondiali che ormai convivono con esso in condizione di parità, consiste nel mettere
gli individui in condizione di competere egoisticamente sul mercato capitalistico,
prepararli a questo e svolgere azione sussidiaria in vista di questo obiettivo.
22
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., vol. I, p. 241.
180
4. Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale
La costituzione dell’Unione europea è fortemente segnata da questa “egemonia della società borghese sullo Stato”, vale a dire dalla svolta liberista della globalizzazione. La seconda parte della costituzione italiana assume in pieno
l’impostazione liberista del nuovo ordine mondale e della Comunità europea in
particolare, perciò entra decisamente in urto con la prima parte, che era figlia del
compromesso fordista-keynesiano, la cui espressione era lo Stato sociale.
Poiché nel libero mercato della società borghese, sotto l’apparenza delle pari
opportunità che il principio di sussidiarietà vuol favorire, aumentano lo sfruttamento e la miseria, è chiaro che l’egemonia della società borghese sullo Stato”
ovverosia il “meno Stato, più mercato”, e il conseguente moltiplicarsi della forme
sovrastatali, regionali e locali di governo “debole”, non comportano affatto una
riduzione del potere politico come «potere di una classe organizzato per opprimerne un’altra»23, ma solo una sua diversa organizzazione. Questo non significa
avere nostalgia del vecchio Stato-nazione e del compromesso fordista che lo reggeva, il cui sfruttamento tecnocratico emerse molto nettamente nelle lotte degli
anni Sessanta e Settanta. Perciò è inutile difendere ad oltranza la prima parte
della Costituzione, ma occorre avanzare proposte di riforma costituzionale sul
terreno della globalizzazione, affermando il nesso molto stretto tra un universalismo e una singolarizzazione di segno fortemente opposto a quelli espressi dal
capitalismo liberista, che tiene insieme l’universalismo astratto dei diritti umani
e l’egoismo competitivo del mercato (Stato e società civile).
In Stato e rivoluzione Lenin, commentando la Critica di Engels al programma di Erfurt, notava che Engels e Marx avevano sempre difeso dal punto di
vista di una rivoluzione proletaria la repubblica una e indivisibile, rifiutando la
soluzione della repubblica federale. La soluzione federale costituisce un ostacolo
allo sviluppo, come nel caso della Germania del tempo di Engels, il quale, infatti,
criticava la pretesa dei socialdemocratici della Seconda internazionale di utilizzare la confederazione dei piccoli Stati tedeschi per trasformare i mezzi di lavoro in
proprietà comune, poiché quella confederazione perpetuava le caratteristiche reazionarie del prussianesimo. Nel migliore dei casi essa avrebbe potuto costituire,
date certe condizioni particolari, come la questione nazionale, una forma di transizione dalla monarchia alla repubblica centralizzata – ad esempio in Inghilterra,
dove, nonostante la secolare unità di lingua e le condizioni geografiche, che sembravano averla risolta, persistevano le suddivisioni, ragion per cui il federalismo
23
K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, cit., p. 121.
181
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
sarebbe da salutare come un passo in avanti. Ma il punto importante a favore
della repubblica una e indivisibile è che il centralismo, se è davvero democratico
e non è dispotismo burocratico (noi oggi pensiamo al comunismo sovietico nel
Novecento), non esclude affatto la più larga autonomia amministrativa locale,
anzi, proprio il sistema che tiene insieme la centralizzazione repubblicana e, al
tempo stesso, le autonomie provinciali e comunali, sopprime la burocrazia e il
comando dall’alto.
Engels fa l’esempio della Grande rivoluzione francese tra il 1792 e il 1798, dove,
nell’impianto repubblicano unitario, al tempo stesso ogni dipartimento e ogni comune godevano di un’amministrazione autonoma; e l’esempio dell’America, dove,
data la grandezza del territorio, la repubblica federale era una necessità, ma già
nell’Est era un impedimento, e comunque contemplava la più ampia autonomia
amministrativa. Viceversa a proposito della Svizzera, Engels osserva che ogni cantone è indipendente rispetto alla Federazione, ha una propria legislazione civile e
penale e una propria amministrazione giudiziaria, e nel parlamento degli Stati, che
esiste accanto a quello del popolo, ciascun cantone, grande o piccolo che sia, vota
come tale. Ma il cantone svizzero ha governatori distrettuali e prefetti, vale a dire
reintroduce all’interno il centralismo burocratico, cosa di cui, insieme ai prefetti
ecc., Lenin ed Engels dicono di volere «”garbatamente fare a meno”»24.
Sulla base di queste analisi Engels, riguardo all’autonomia amministrativa,
propone: «”Amministrazione completamente autonoma nella provincia” (governatorato o regione) “nei distretti e nei comuni, da parte di impiegati eletti con
suffragio universale. Abolizione di ogni autorità locale e provinciale nominata
dallo Stato”»25. Lenin commenta: «La maggiore libertà locale, regionale, ecc., che
la storia abbia conosciuta è stata data dalla repubblica centralizzata e non dalla
repubblica federale»26.
Come accennavo, la centralizzazione sovietica del secolo scorso, invece di
sopprimere o ridurre la burocrazia, l’ha aumentata a dismisura. Tuttavia la tesi
secondo cui l’amministrazione basata sulle autonomie provinciali e comunali è
molto più libera del federalismo, mi sembra ancora attuale. Infatti proprio in
questi mesi le poteste e le lotte degli abitanti della Val di Susa contro la costruzione della galleria transalpina del “Treno ad alta velocità”, hanno mostrato come il
24
25
26
Cito la frase di Engels, da V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 144.
Ibid. Le parole tra parentesi sono di Lenin.
Ivi, p. 145.
182
4. Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale
federalismo tanto conclamato si risolva nell’imposizione dall’alto di un progetto
strategico senza che le popolazioni locali possano intervenire nella questione. È
significativo che nella vicenda il maggior partito di opposizione – che partecipa
al governo della regione Piemonte –, abbia criticato il governo solo perché gli
abitanti della Val di Susa sono stati male informati, ossia non sono stati illustrati
sufficientemente il progetto e le condizioni di sicurezza. Prescindendo qui dal
merito della questione (su cui non è detto che si debba condividere tutto quello
che sostengono gli abitanti della Val di Susa e delle altre località teatro di conflitti
ambientali), si parla solo di “informazione”, ma non si mette in conto la possibilità costituzionalmente più importante, vale a dire che dalla discussione con gli
abitanti dei Comuni o della provincia interessata, possa concludersi che l’opera
strategica in questione non si faccia o che si debbano trovare soluzioni alternative. Così il federalismo si unisce al centralismo burocratico le cui politiche si
presentano come dettate da valutazioni tecniche neutrali. Tutto ciò corrisponde
alla tendenza dell’odierna democrazia borghese, che di fatto sta in uno stadio
burocratico al di là del parlamentarismo. Il capitale giustifica il suo dominio con
necessità tecnica di una determinata decisione e la base democratica delle decisioni stesse sono i sondaggi, su cui si appoggiano sia i partiti di maggioranza che
quelli di opposizione.
Questa omologazione basata sull’apparente neutralità delle scelte tecniche e
sui sondaggi condotti al modo dell’indagine di mercato tra i consumatori di
merci, ci porta ad un altro punto rilevante della riforma della seconda parte della
Costituzione, quella relativa ai poteri del Primo ministro.
L’articolo 92 dice: «Il Governo della Repubblica è composto dal Primo ministro e dai ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri. La
candidatura alla carica di Primo ministro avviene mediante collegamento con
i candidati ovvero con una o più liste di candidati all’elezione della Camera dei
deputati, secondo modalità stabilite dalla legge. La legge disciplina l’elezione dei
deputati in modo da favorire la formazione di una maggioranza, collegata al candidato alla carica di Primo ministro. Il Presidente della Repubblica, sulla base dei
risultati delle elezioni della Camera dei deputati, nomina il Primo ministro». Mi
sembra importante sottolineare che lo scioglimento della Camera dei deputati,
secondo l’articolo 88, avviene per decreto del Presidente della Repubblica «su
richiesta del Primo ministro che ne assume l’esclusiva responsabilità»; in caso
di morte o impedimento permanente del Primo ministro; in caso di dimissioni
del Primo ministro; se la Camera obbliga il Primo ministro alle dimissioni con
l’approvazione di una mozione di sfiducia; qualora la mozione di sfiducia sia stata
183
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
respinta con il voto determinante di deputati non appartenenti alla maggioranza
espressa dalle elezioni. Continua l’articolo 88: «Il Presidente della Repubblica
non emana il decreto di scioglimento […], qualora, alla Camera dei deputati,
entro i venti giorni successivi, venga presentata e approvata per appello nominale dai deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero
non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera, una mozione nella
quale si dichiari di voler continuare nell’attuazione del programma e si designi
un nuovo Primo ministro. In tal caso, il Presidente della Repubblica nomina il
nuovo Primo ministro designato».
Dalla lettura di questi due articoli, si vede che il potere del Primo ministro
diventa enorme, giacché è intorno alla sua figura che gravitano lo scioglimento della Camera dei deputati e l’indizione di nuove elezioni. Il bilanciamento
dei poteri del governo è dunque fatto dalle istanze federali. Ciò che mi sembra
da sottolineare, è che il Primo ministro è vincolato alla maggioranza elettorale,
quindi a questo punto diventano davvero importanti i sondaggi, con i quali si
possono prevedere le probabilità di vittoria elettorale e su questo decidere dello
scioglimento della Camera dei deputati.
Ha osservato Mario Tronti che nel Novecento solo il movimento operaio aveva saputo fare una grande politica così come era stata concepita nel pensiero dei
classici moderni, e in questo modo aveva contrastato il capitale, la cui caratteristica è la “storia” oggettiva dei processi economici. Con la sconfitta del movimento
operaio nella seconda metà del secolo, «l’alienazione del lavoro è passata dello
specifico lavoratore industriale all’uomo neutro in generale. Raggiunto e travolto
il confine dell’operaio-massa si è trasferita nella figura universale del cittadino.
Dalla fabbrica taylorizzata alla società civile borghese. Il lavoro alienato, asservendo se stesso, ha asservito tutta l’umanità […]. Il citoyen non è più il bourgeois
nel cielo della politica […]. Il borghese non ha più bisogno della polis, come il
capitale non ha più bisogno dello Stato»27. Mentre la politica del movimento
operaio nelle tragedie del Novecento aveva quantomeno civilizzato la guerra, il
capitalismo odierno imbarbarisce la civilizzazione. Con la fine del movimento
operaio novecentesco, portatore della grande politica, ha vinto il borghese impolitico. «E qui dentro la parte dell’uomo che sopravvive alla selezione della specie
è quella natura ferina di massa, antico-borghese come homo oeconomicus, e mo-
27
M. Tronti, La politica al tramonto, Torino 1998, p. 32.
184
4. Costituzione, lotte sociali, riforma costituzionale
derno-subalterna come homo democraticus»28. Questa suggestiva interpretazione
di quella fase, che, come abbiamo visto, Marx chiamava egemonia della società
borghese sullo Stato, è però pessimista circa il crollo del capitalismo e la possibilità, almeno nel tempo breve, che realmente il lavoro individuale si ponga come
lavoro sociale e viceversa.
Circa la lontananza di quest’ultima prospettiva, si può anche essere d’accordo.
Tuttavia io non credo che questo trionfo della società borghese come egemone
sullo Stato sia il tramonto della politica, e che l’homo democraticus dell’audience e
dei sondaggi rappresenti la fine della politica. A parte che non va del tutto demonizzato il sondaggio di per sé, ma il suo uso, credo che, poiché nelle profondità
della società borghese continua a funzionare la legge dello sfruttamento di un
individuo su un altro e di una classe su un’altra, e poiché la politica è solo la violenza organizzata di una classe per opprimerne un’altra, questa spoliticizzazione
e questo trionfo dell’homo democraticus siano solo il modo e l’apparenza con cui
continua a esercitarsi la politica borghese.
Perciò, l’atteggiamento non deve essere quello di arroccarsi nella difesa di un
costituzione che inevitabilmente è usurata e che il capitalismo stesso ha riformato
in radice più di quanto possano farlo tre colpi di penna del legislatore parlamentare. Occorre con forza porre all’ordine del giorno di un progetto costituente
anzitutto il rigetto della privatizzazione, in qualsiasi forma, di beni essenziali
quali l’acqua e il sapere, inteso sia come sapere “materiale” (scuole e università)
sia come sapere immateriale (le reti informatiche). È diritto fondamentale avere
accesso gratuito e controllo delle essenziali risorse vitali (acqua in primo luogo),
dell’istruzione divenuta un mezzo primario di produzione e riproduzione della
propria esistenza, intendendo con questo non la semplice sopravvivenza ma il
libero sviluppo di se stessi in comune. In secondo luogo è essenziale un reddito
di cittadinanza per tutti, legato o meno a qualche attività di valore sociale, ma
che, indipendentemente dalla quantità di prestazione svolta, dia diritto a godere
di una parte del proprio tempo di vita indipendentemente dalla perdita e dalla
necessità di trovare un posto di lavoro. Infine, occorre assicurare la più ampia
circolazione delle persone da tutti i continenti senza vincoli di documenti legati
a un lavoro o ad uno status familiare. La richiesta di soddisfazione di questi elementari bisogni posti dallo sviluppo della globalizzazione, può però essere efficace se diventa un progetto politico e anima un’esperienza politica, la si chiami pure,
28
Ivi, p. 74.
185
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
con Tronti, “aristocratica”. D’altronde, da altra impostazione, anche Hardt e Negri hanno altrettanto giustamente osservato che «la moltitudine non si trasforma
spontaneamente in una soggettività politica, e […] la carne della moltitudine
consiste in una serie di condizioni ambivalenti: possono portare alla liberazione,
ma possono anche farsi catturare in un nuovo regime di sfruttamento e controllo.
Per poter passare dalla sfera della possibilità a quella dell’esistenza, la moltitudine
ha bisogno di un progetto politico»29.
29
M. Hardt, A. Negri, Moltitudine, cit., p. 247.
186
5.
Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale
della globalizzazione capitalista
1. La forza-lavoro migrante nella globalizzazione capitalistica
Nella situazione contemporanea che da ormai trent’anni si chiama “globalizzazione”, il ruolo dei migranti è centrale. Ma per comprendere adeguatamente
la loro condizione, bisogna partire dal fatto che la globalizzazione altro non è se
non il totale imporsi su tutto il pianeta del dominio del modo di produzione e
del rapporto sociale fondati sul capitale. Dal crollo, vent’anni fa, del comunismo
sovietico, questo processo sembra avanzare irresistibilmente.
Quindi, la globalizzazione è una fase ulteriore e avanzatissima della «tendenza a creare il mercato mondiale [che] è data immediatamente nel concetto
stesso di capitale»1. Quest’ultimo è una forma di produzione dal carattere antagonistico, «è esso stesso la contraddizione in processo»2. Ciò vuol dire in primo
luogo che nella globalizzazione capitalistica una parte della società (oggi sempre
minore) possiede il monopolio dei mezzi di produzione, mentre il lavoratore deve
aggiungere al tempo di lavoro necessario per la riproduzione della sua esistenza,
anche un tempo di lavoro supplementare non solo per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione, ma anche, e in misura sempre più prevalente, per l’ulteriore accumulazione di una ricchezza che egli stesso
produce ma che non gli appartiene, ossia per l’accumulazione del capitale. In
secondo luogo, lo sviluppo dell’accumulazione capitalistica, attraverso il sempre
più intenso ed esteso sfruttamento del lavoro e della vita altrui, trova un ostacolo
K. Marx, F. Engels, Gesamtausgabe (MEGA). Zweite Abteilung. “Das Kapital” und Vorarbeiten, Band 1 (Text), Teil 2, Berlin 1981, p. 320 (D’ora in poi così citato: MEGA 2, seguita
dall’indicazione della sezione in numero romano e del volume in numero arabo, separati da una
/, eventuale parte in numero arabo separata da un punto dal numero indicante il volume, città
e data di edizione – la prima volta – e pagina); tr. it. di E. Grillo, Lineamenti fondamentali della
critica dell’economia politica, cit., vol. II, p. 9 (talvolta, nelle citazioni delle opere di Marx, ho un
po’ ritoccato le traduzioni).
2
Ivi, p. 582; tr. it., cit., voll. II, p. 402.
1
187
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
nelle sue stesse leggi di funzionamento e così, più investe tutto il pianeta, più crea
esso stesso, suo malgrado, le condizioni per essere superato. L’esito è una società
dove «la forma del processo sociale di vita, cioè del processo materiale di produzione […] sta, come prodotto di uomini liberamente socializzati (vergesellschaftete), sotto il loro cosciente controllo pianificato. Tuttavia, affinché ciò avvenga, si
richiede un fondamento materiale della società, o una serie di condizioni materiali di esistenza che, a loro volta, sono il prodotto naturale (naturwüchsig) di una
storia di sviluppo lunga e tormentosa»3. A questo contraddittorio e tormentoso
sviluppo appartengono anche i disastrosi fallimenti dei tentativi di instaurare
una società comunista, che si sono avuti nel secolo scorso.
Come dicevo, per comprendere la condizione dei migranti in modo adeguato, ritengo necessario contestualizzarla in questa lettura della globalizzazione che
ne metta in luce il carattere capitalistico, dunque intimamente contradditorio e
antagonistico, e di conseguenza focalizzi l’attenzione sulle possibilità materiali
di emancipazione e di liberazione degli uomini dallo sfruttamento, che si creano
dentro questo processo.
2. Migranti, forza-lavoro e livellamento dei saggi del profitto
La produzione capitalistica di merci non ha come obiettivo produrre questo
o quel determinato valore d’uso, bensì produrre plusvalore, cioè appropriarsi di
un valore che contenga una quantità di lavoro non pagato al lavoratore. E al
tempo stesso il lavoro salariato, ossia il lavoro sottomesso al capitale, è indifferente a questo o quell’altro carattere determinato che può assumere, perché
«esso deve trasformarsi secondo i bisogni del capitale e lasciarsi gettare da una
sfera di produzione in un’altra»4. Non c’è sfera di produzione che sia migliore
dell’altra, perché ognuna deve produrre lo stesso profitto e a questo scopo deve
produrre delle merci che soddisfino un qualsiasi bisogno sociale, indipendentemente da quale sia questo bisogno. L’importante è che la merce prodotta realizzi
il suo valore nella forma mutata del prezzo attraverso la vendita, quindi realizzi
3
MEGA 2, II/10 (Text), Berlin 1991, p. 78; tr. it., Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro
primo, cit., pp. 111-112.
4
MEGA 2, II/15 (Text), Berlin 2004, p. 195; tr. it. di M. L. Boggeri, Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro terzo, cit., p. 239.
188
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
il plusvalore, ovvero il profitto, quali che siano le sue caratteristiche qualitative
destinate all’uso. Il plusvalore è il risultato dell’impiego del capitale variabile
ossia del valore dei mezzi di sussistenza dell’operaio, i quali rendono possibile a
quest’ultimo di lavorare per un tempo superiore a quello che basta a riprodurne
l’equivalente. In tal modo egli produce un maggior valore di cui il capitalista si
appropria gratis, dato che lo scambio di equivalenti con l’operaio riguarda precisamente il valore della sua forza-lavoro, da lui ceduta per un tempo determinato
al capitalista, il quale la acquista proprio per questa sua proprietà di produrre al
di sopra del suo valore. Viceversa, il profitto è il plusvalore stesso considerato (in
modo mistificato, ossia non corrispondente alla sua vera origine) come risultato
non solo del capitale variabile, bensì dell’intero capitale anticipato, dunque del
capitale variabile più quello costante, consistente nel valore degli strumenti di
lavoro e delle materie prime che mettono in funzione la forza-lavoro dell’operaio. Questo modo di considerare il plusvalore come profitto è una mistificazione
che ne occulta la vera origine, ma tale mistificazione procede dalla forma stessa
della produzione capitalistica. Se le merci sono vendute al loro valore, cioè alla
quantità di tempo di lavoro impiegato a produrle, i saggi del profitto che ne derivano sono molto differenti a seconda della differente composizione organica del
capitale. Il saggio del profitto è il rapporto percentuale tra il plusvalore e l’intero
valore del capitale anticipato. La composizione organica del capitale è il rapporto
tra le due parti del capitale stesso, rispettivamente costante e variabile. Ma questo
rapporto è da considerare sotto due aspetti che si condizionano a vicenda. Uno
è il rapporto tra le due parti del capitale considerato sotto l’aspetto tecnico-materiale, e riguarda il rapporto tra la massa di mezzi di produzione (strumenti e
materiale di lavoro) impiegati in un determinato tempo di lavoro e la massa di
operai, ossia di forza-lavoro richiesta e impiegata per mettere in moto quei mezzi
di produzione in quel determinato tempo. L’altro è il rapporto tra le due parti del
capitale considerato sotto l’aspetto del loro valore, ossia il rapporto tra valore di
una massa determinata di mezzi di produzione e valore della forza-lavoro impiegata per mettere in moto quei mezzi di produzione, sempre entro un tempo dato.
Tra la composizione tecnica del capitale e quella corrispondente di valore vi è una
differenza, perché capitali diversi possono richiedere una uguale composizione
tecnica, cioè un uguale rapporto tra massa di mezzi di produzione e massa di
operai, ad esempio, rispettivamente, nel caso di lavori in rame e di lavori in ferro,
ma il rapporto di valore tra le due parti di questi due capitali è diverso perché,
restando nell’esempio, il rame è più costoso del ferro. Marx intende per composizione organica del capitale, la composizione di valore del capitale stesso in quanto
189
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
condizionata dalla sua composizione tecnica e in quanto la riflette.
Se le merci sono vendute al loro valore, si creano necessariamente, tra i vari
capitali, differenti saggi del profitto a seconda della loro differente composizione organica. Di conseguenza i capitali si spostano continuamente dalla sfera di
produzione in cui il saggio del profitto è più basso a quella dove esso è più alto:
«Con questa costante emigrazione e immigrazione, in una parola, con la sua ripartizione fra le diverse sfere a seconda di dove il saggio del profitto sale o scende,
il capitale crea un rapporto tale fra l’offerta e la domanda, che il profitto medio
diventa lo stesso nelle diverse sfere di produzione e per conseguenza i valori si
trasformano in prezzi di produzione»5. Dunque, attraverso la concorrenza nei
diversi rami di produzione i saggi del profitto tendono a livellarsi in un saggio
medio del profitto; in tal modo si forma un prezzo di produzione della merce, il
quale non rispecchia il valore della singola merce prodotta dal singolo capitale,
ma il suo prezzo di costo (cioè il valore della parte di capitale costante e della
parte variabile, insomma di capitale anticipato, che si trasferisce nella merce)
più il saggio medio del profitto. Perciò le merci non sono vendute al loro valore
individuale, rispecchiante la quantità di tempo di lavoro che richiede la loro produzione, ma al loro prezzo di mercato che si forma dal prezzo di produzione e
che presuppone la misura del valore della merce in base al tempo di lavoro sociale
medio e non più individuale. In questo fenomeno si vede come la produzione
capitalistica abbia in radice un carattere sociale, malgrado si presenti come opera
di individui isolati i quali entrano in rapporto sociale solo attraverso lo scambio
dei loro prodotti, cosicché sembra che siano questi ultimi ad avere dei caratteri
sociali comportandosi come soggetti autonomi che entrano in rapporto tra loro
e così occultando il fatto che essi sono lavoro umano oggettivato i cui caratteri
soggettivi si capovolgono in caratteri oggettivi delle cose. Questo livellamento
dei saggi del profitto può realizzarsi in grado maggiore o minore a seconda che
la produzione capitalistica in un paese è più o meno progredita, il che significa
a seconda che in un paese ci siano o meno le condizioni per uno sviluppo capitalistico maggiore o minore. Sviluppandosi, il modo di produzione capitalistico
sviluppa anche le sue condizioni e quindi sotttomette alle sue leggi i presupposti
sociali entro cui si svolge il processo di produzione.
Le condizioni perché si possa sviluppare maggiormente e più rapidamente
il livellamento dei diversi saggi del profitto in un saggio medio del profitto,
5
Ibid.; tr. it., cit., p. 240.
190
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
quindi i valori delle merci si possano trasformare in prezzi di produzione, sono
due: innanzitutto, la sempre maggiore mobilità del capitale, ossia la sua sempre
più facile trasferibilità «da una sfera di produzione a un’altra e da un luogo a
un altro»6; in secondo luogo, la sempre maggiore mobilità e flessibilità della
forza-lavoro, giacché il livellamento dei saggi del profitto si realizza tanto più
rapidamente, «quanto più rapidamente la forza-lavoro può essere gettata da
una sfera di produzione in un’altra, da una località produttiva in un’altra»7.
La prima condizione, ossia la mobilità dei capitali nel trasferirsi da una sfera a
un’altra della produzione, in qualunque località essa si svolga, vuole in primo
luogo «completa libertà del commercio all’interno della società e soppressione
di tutti i monopoli, eccezione fatta per quelli naturali, ossia per quelli che
scaturiscono dallo stesso modo capitalistico di produzione»8; presuppone un
sistema creditizio molto sviluppato «che concentra di fronte ai singoli capitalisti la massa inorganica del capitale sociale disponibile»9; infine presuppone la
sottomissione ai capitalisti delle varie sfere di produzione, condizione questa
già implicita nella premessa secondo cui i vari saggi del profitto si livellano in
un saggio medio del profitto e i valori si trasformano in prezzi di produzione.
Ma precisamente questo livellamento è ostacolato dall’intrecciarsi e dal concatenarsi della produzione capitalistica con sfere non capitalistiche. Marx, in
base al tempo in cui viveva, esemplificava questi ostacoli nella proprietà diretta
o nella gestione della terra da parte dei piccoli contadini che si intercalava con
la gestione capitalistica concatenandovisi, quindi non si tratta di un rapporto
estrinseco di mera somma. La seconda condizione del livellamento dei saggi
del profitto e della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, vale a dire
la mobilità della forza-lavoro, «presuppone la soppressione di tutte le leggi che
impediscono agli operai di trasferirsi da una sfera di produzione in un’altra
o da una località produttiva in un’altra qualsiasi; l’indifferenza dell’operaio
verso il contenuto del suo lavoro; la riduzione del lavoro, in tutte le sfere di
produzione, il più possibile a lavoro semplice; la caduta, negli operai, di tutti
i pregiudizi professionali; infine e soprattutto, la sottomissione dell’operaio al
modo capitalistico di produzione»10.
Ivi, p. 196; tr. it., cit., ibid.
Ibid.
8
Ibid.
9
Ibid.
10
Ibid; tr. it., cit., pp. 240-241.
6
7
191
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Questo passo di Marx che ho esposto e commentato, mi sembra offrire il
contesto adeguato per collocare la problematica dell’immigrazione nella fase attuale della globalizzazione capitalistica. Da un lato la globalizzazione ha aperto
alla libera circolazione dei capitali. Ogni giorno osserviamo il loro trasferimento
da una sfera di produzione a un’altra e da un luogo a un altro; e ogni giorno, nei
movimenti della borsa, osserviamo come la concorrenza faccia migrare continuamente i capitali da una sfera di produzione dove il saggio del profitto è più basso a
quella dove è più alto, cosicché i saggi tendono a livellarsi e a formare, sommandosi
ai prezzi di costo, i prezzi di produzione delle merci. Il grado di sviluppo raggiunto dal sistema creditizio è sotto gli occhi di tutti ed è, almeno alla superficie, uno
dei nodi centrali dell’attuale crisi finanziaria. In generale la sottomissione tecnica
e di valore alla produzione capitalistica avanza in misura maggiore che in passato.
Possiamo perciò dire che la globalizzazione si presenta come una continua creazione delle condizioni per sottomettere il complesso dei presupposti sociali entro
cui si svolge il processo di produzione, ai presupposti e alle leggi immanenti della
produzione capitalistica; insomma, come una sottomissione di tutto il pianeta al
modo capitalistico di produzione, la cui conseguenza è la creazione e l’ulteriore
espansione del mercato mondiale. Dall’altro lato, il migrante della globalizzazione sembra incarnare quella necessità suddetta di un rapido movimento della forza-lavoro, gettabile da una sfera di produzione all’altra affinché più rapidamente
si livellino le differenti composizioni organiche dei capitali nel saggio medio del
profitto. Infatti, in particolare la forza-lavoro migrante è indifferente, ovvero è
ridotta e costretta all’indifferenza, verso il contenuto del suo lavoro, poiché vende
la sua merce forza-lavoro là dove trova possessori di mezzi di produzione disposti
ad acquistarla solo per valorizzare il loro capitale attraverso la quantità di lavoro
non pagato che gli operai devono fornire in “cambio” dell’equivalente dei loro
mezzi di sussistenza. E i capitali stessi, spostandosi da una sfera di produzione
all’altra a seconda di dove i saggi del profitto sono più alti, ovvero nell’incessante
movimento di livellamento dei saggi del profitto, sono sempre più indifferenti
a questa o quella composizione materiale o valore d’uso della merce prodotta.
Così il migrante deve fornire per la più gran parte lavoro semplice e perciò deve
ripudiare tutti i pregiudizi professionali anche se ha un titolo di studio universitario, cioè atto a un lavoro complesso. Ma se il migrante raffigura in pieno
tutte queste condizioni richieste dal dominio planetario del modo di produzione
capitalistico, ciò non significa che tutti questi caratteri del suo lavoro riguardino
un suo presunto status di migrante, giacché man mano che le continue differenze
dei saggi del profitto vanno livellandosi e quindi la forza-lavoro deve sempre più
192
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
rapidamente essere gettata da un ramo di produzione a un altro e da un luogo a
un altro, questi caratteri vanno a toccare tutti i lavoratori indistintamente. Come
il migrante, così il disoccupato o il precario dei paesi capitalistici più sviluppati, è
costretto a spostarsi da un ramo di produzione all’altro e da un luogo a un altro,
e a passare da un’attività all’altra indifferentemente da quale essa sia, dunque ad
abbandonare tutti i suoi pregiudizi professionali – basta vedere l’inutilizzabilità
della laurea universitaria in modo corrispondente al suo contenuto. Ma lo stesso
lavoro intellettuale è ridotto e livellato per tutti a lavoro semplice: l’esempio più
tipico è il lavoro del call center, sbocco frequente di coloro che hanno un titolo di
studio in senso lato superiore. Nel sistema didattico universitario basato sul rapporto tra credito e debito formativo, dove è simulato che tra università e studente
vi sia un rapporto di scambio semplice di una società produttrice di merci, si
misura il credito in quantità astratte di tempo in esso contenute (x ore di lezione
frontale, y di studio individuale ecc.); e i criteri di valutazione dei “prodotti della
ricerca” scompongono quelli che si chiamavano “titoli scientifici” in quantità di
ore-uomo complessive prodotte da una determinata struttura accademica (dipartimento, gruppo nazionale di ricerca) e monetizzabili in fondi di ricerca.
3. La legislazione sull’ immigrazione nel quadro dell’universalismo borghese
La condizione dei migranti sotto il dominio del capitale nell’epoca della globalizzazione, con le sue leggi che regolano il movimento della forza-lavoro, si
riflette anche nella sovrastruttura giuridica entro cui i conflitti della fase del capitalismo globalizzato vengono concepiti e combattuti.
Facendo riferimento all’’Italia, il decreto legislativo n. 286/1998, Testo unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dell’ immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, emesso sulla base della delega prevista dall’articolo 47 della
legge n. 40 del 6 marzo 1998 (Turco-Napolitano), successivamente integrato con
la legge n. 189 del 30 luglio 2002, Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo (Bossi-Fini) e con parti della legge n. 94 del 15 luglio 2009 sulle
Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, insieme con altri decreti legislativi
accumulatisi nel corso di questi quattordici anni, costituisce un unico corpo che
permette di metterlo in relazione con le basi materiali e sociali dello sviluppo capitalistico della globalizzazione per quel che riguarda l’immigrazione. La legge n.
40 costituisce il primo tentativo organico di regolazione dell’immigrazione alla
luce dei mutamenti provocati dalla globalizzazione capitalistica e con l’aumento
193
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
dei poteri dell’Unione europea. Su questo impianto, che ne resta il presupposto
fondamentale, si sono inserite le successive modificazioni che, nonostante tutta
una serie di fortissimi inasprimenti repressivi, tanto da sollevare eccezioni da parte della stessa giurisdizione internazionale borghese, non alterano la continuità
tra i vari interventi legislativi.
Seguendo le premesse sopra fatte, il Testo unico rispecchia la tendenza del
capitale a sopprimere gli impedimenti alla mobilità della forza-lavoro da una
sfera di produzione all’altra e da un paese all’altro nel momento in cui esclude
e sanziona in generale per ogni immigrato «discriminazione per motivi razziali,
etnici, nazionali o religiosi» (articolo 43), intendendo per discriminazione ogni
comportamento diretto e indiretto che «comporti una distinzione, esclusione,
restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo e l’effetto
di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio,
in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo
politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica».
In particolare, tra gli atti della discriminazione, al comma 2, vanno sottolineati l’omissione di atti dovuti da parte di un pubblico ufficiale, a causa di razza,
religione, etnia o nazionalità e, per le stesse cause, l’imposizione di condizioni
più svantaggiose o il rifiuto di offrire beni e servizi, e specificamente l’accesso al
lavoro, alla casa, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociosanitari previsti,
l’impedimento a svolgere attività economiche in genere, quindi anche autonome. Riguardo ai rapporti di lavoro, il testo parla di discriminazione quando «il
datore di lavoro e i suoi preposti […] compiano qualsiasi atto o comportamento
che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i
lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico
o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza». Questa è una
forma di discriminazione diretta. Inoltre la legge considera «discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che
svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad
una determinata razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una determinata
confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali
allo svolgimento dell’attività lavorativa». All’articolo 44 il Testo unico prevede,
allorché venga adottato da un datore di lavoro «un comportamento discriminatorio di carattere collettivo», anche quando non siano individuabili direttamente i
lavoratori colpiti da questa discriminazione, la possibilità di un ricorso al giudice
da parte delle rappresentanze sindacali o locali significative, affinché, accerta194
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
ta l’esistenza della discriminazione, egli ordini al datore di lavoro «un piano di
rimozione delle discriminazioni accertate». Inoltre, nel caso che le imprese che
hanno esercitato atti discriminatori siano beneficiarie, da parte dello Stato o delle
regioni, di sussidi ecc. oppure abbiano stipulato contratti di appalto relativi a
opere pubbliche, servizi o forniture, esse vengono escluse dal beneficio concesso
o dal contratto stipulato, e in casi gravi, i responsabili delle discriminazioni non
possono accedere ad agevolazioni creditizie e appalti in genere per due anni.
Dunque, questa legge riflette la tendenza della produzione capitalistica progredita, per cui il livellamento delle differenze dei saggi del profitto e la trasformazione dei valori in prezzi di produzione possono realizzarsi tanto più rapidamente
quanto più i capitali sono mobili e trasferibili da una sfera produttiva all’altra e
quanto più sono rimossi tutti gli ostacoli alla mobilità della forza-lavoro da un
luogo all’altro e da una sfera di produzione a un’altra.
«[Nella] legge i borghesi devono darsi un’espressione universale appunto perché dominano come classe»11, quindi la legge non riflette l’interesse del singolo
capitalista o di una corporazione di capitalisti, tipo, ad esempio, una Confindustria di un determinato paese, ma è l’espressione del dominio della borghesia
come classe. Perciò anche il Testo unico procede deduttivamente dall’universale
al particolare. L’universale è l’astrazione dei diritti umani nella forma in cui l’universale si presenta nella società borghese. Infatti il Testo unico vuole attuare
l’articolo 10, secondo comma, della Costituzione italiana che prevede una regolamentazione legislativa della condizione giuridica dello straniero. L’articolo 10
prevede il diritto di asilo allo straniero nel territorio della Repubblica se nel suo
paese non è garantito l’esercizio delle libertà democratiche garantite dalla costituzione italiana e non ammette l’estradizione dello straniero per reati politici.
Ciò deriva a sua volta dai principi fondamentali della Costituzione stessa, che
all’articolo 2 «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo» e all’articolo 3
afferma che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla
legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali», quindi riconosce il carattere universale
di questi diritti e perciò non può respingere uno straniero nei cui paesi di ritorno
questi diritti vengono violati. Coerentemente con ciò, l’articolo 2 del Testo unico
legislativo sull’immigrazione, facente parte dei principi generali enunciati nel
Titolo I, dice che «allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio
11
K. Marx, F. Engels, J. Weydemeyer, Die deutsche Ideologie. cit., p. 99; tr. it., cit., p. 78.
195
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti
dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai
principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti». Dice inoltre che lo
straniero che soggiorna in Italia gode degli stessi diritti civili del cittadino italiano, quello che vi soggiorna regolarmente partecipa alla vita pubblica, ha parità
di trattamento col cittadino italiano quanto alla tutela giurisdizionale dei diritti
e degli interessi legittimi, nei rapporti con la pubblica amministrazione e nell’accesso ai pubblici servizi. Infine, agevola anche linguisticamente lo straniero prescrivendo la comunicazione degli atti riguardanti l’ingresso, il soggiorno, l’espulsione, in una lingua per lui comprensibile o un ampio arco di lingue qualora ciò
non sia possibile. Quest’ultimo punto è indicativo della tendenza del capitale
verso il mercato mondiale, dove la società civile globale ha l’egemonia sullo Stato.
La normativa sull’immigrazione prende le mosse, perciò, da tutti i soggetti,
cittadini estranei all’Unione europea o apolidi, e non fa distinzione se si tratta di
consumatori o produttori e, riguardo a questi ultimi, di capitalisti, operai o proprietari individuali dei mezzi di produzione, ovvero – detto nei termini della legge
che in parte occultano queste distinzioni economiche fondamentali della società
borghese – se si tratta di persone che si muovono per turismo o cultura, o per lavoro
e, tra questi ultimi, se di tratta di lavoratori subordinati o lavoratori autonomi o
imprenditori. La normativa sul lavoro discende, quindi, da questi presupposti della
normativa generale sull’immigrazione, chiunque sia il soggetto e qualunque sia la
sua condizione nei rapporti di produzione. In questo senso essa affronta coerentemente in un unico Titolo, il II, le «Disposizioni sull’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dal territorio dello Stato». Il Titolo II è diviso in tre Capi: un primo,
riguardante le «disposizioni su ingresso e soggiorno», un secondo, che regolamenta
tutto l’aspetto esecutivo del «controllo delle frontiere, respingimento ed espulsione»
e un terzo, contenente «disposizioni di carattere umanitario».
L’articolo 4, che apre questo Titolo II, richiede allo straniero (inteso sempre
come non dell’Unione europea), oltre che il passaporto, il visto di ingresso (salvo
casi specifici di esenzione). Inoltre secondo il comma 3 l’ingresso è consentito
previa documentazione dello scopo e delle condizioni del soggiorno, «nonché la
disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno e, fatta
eccezione per i permessi di soggiorno per motivi di lavoro, anche per il ritorno
nel Paese di provenienza». In questa discriminazione tra chi ha mezzi di sussistenza e chi non ne ha, si rivela il carattere prettamente borghese del Testo unico,
quindi il carattere solo formale della libertà e dell’uguaglianza. Ma l’ineguale
distribuzione dei mezzi di consumo, qui intesi come mezzi di sussistenza, che la
196
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
legislazione mette in luce nel momento in cui discrimina in base a essa l’accesso
nel territorio dello Stato, ha la sua radice nell’ineguale distribuzione dei mezzi di
produzione, che sta alla base della società borghese. Perciò la ragione di questa
discriminazione apparirà esplicita nel momento in cui affronteremo la disciplina
del lavoro subordinato che include (e copre) l’antagonismo di classe tra capitale e
lavoro salariato, su cui si innalza lo Stato borghese e la sua legislazione.
Secondo l’articolo 4, comma 4, il permesso di soggiorno è richiesto per una
permanenza superiore a 90 giorni, per la quale è sufficiente il visto d’ingresso, che
già indica le motivazioni per cui anche il permesso può essere rilasciato. Secondo
l’articolo 5, sempre coerentemente con la premessa universalistica borghese, il
rifiuto o la revoca del premesso non avviene nel caso che ricorrano «seri motivi,
in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali e
internazionali dello Stato italiano». Il respingimento alle frontiere per i motivi
previsti dall’articolo 4, commi 3 e 6, e dall’articolo 10, commi 1, 2, 3, non si
applicano nei casi, disciplinati da norme vigenti, di asilo politico, di status di
rifugiato e di protezione temporanea per motivi umanitari. Il Capo III di questo
titolo II, dedicato alle diposizioni di carattere umanitario, prevede che ove, nel
corso di operazioni di polizia, di indagini o di interventi assistenziali, siano accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento su uno straniero, può essere
rilasciato un particolare permesso di soggiorno per sottrarsi a queste situazioni
e a condizionamenti da parte dell’organizzazione criminale e per partecipare a
un programma di integrazione e assistenza sociale. Ma in particolare l’articolo
19 prevede che l’espulsione non può eseguirsi «in nessun caso» se lo straniero
dovesse essere espulso o respinto verso uno Stato in cui possa esser perseguitato
«per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere
rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione». La
legge n. 189 e la legge n. 94 rendono più stretta, nel Testo unico, la disciplina e
il controllo sullo straniero che richiede il permesso di soggiorno, sottoponendolo
«a rilievi fotodattiloscopici» (comma 2-bis) e obbligandolo al versamento di un
importo tra 80 e 200 euro tranne, appunto, che il permesso di soggiorno sia
«per asilo, per richiesta di asilo, per protezione sussidiaria, per motivi umanitari»
(comma 2-ter). Anche qui notiamo come l’egualitarismo astratto dei diritti nella
sfera pubblica poggi sulle disuguaglianze nella sfera privata quanto al possesso di
mezzi di sussistenza.
Dunque, il quadro generale che disciplina tutta la materia dell’immigrazione
è quello dei diritti umani borghesi, il cui universalismo riflette la tendenza del
197
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
capitale ad abbattere tutte le barriere di carattere locale, ideale, religioso, sessuale,
razziale ed etnico, in modo da assicurare la massima mobilità della forza-lavoro.
Ma già nella forma più elementare della produzione di merci che, come abbiamo
ricordato, non è ancora produzione capitalistica di merci, benché ne sia logicamente e storicamente il presupposto, appare evidente la connessione di queste
idee universalistiche con i rapporti economici che ne sono alla base e si sviluppano ulteriormente nella produzione capitalistica di merci. Infatti nella relazione
di scambio semplice, cioè quella in cui la merce e il lavoro sono determinati solo
come valore di scambio, i soggetti si presentano come individui che scambiano
senza alcuna differenza tra loro, giacché questa è formalmente la loro determinazione economica. «Ciascuno dei soggetti è un individuo che scambia; ciascuno
cioè ha con l’altro la medesima relazione sociale, che l’altro ha con lui. Come
soggetti dello scambio dunque la loro relazione è quella di uguaglianza»12. In
secondo luogo gli oggetti che essi scambiano, in quanto valori di scambio, sono
equivalenti, ossia sono oggettivazione di uguali quantità di lavoro genericamente
umano13. In terzo luogo, l’atto stesso dello scambio è «la mediazione attraverso
cui i soggetti vengono posti appunto come individui che scambiano, come uguali, e i loro oggetti come equivalenti, come uguali»14. È mediante gli equivalenti
che i soggetti dello scambio entrano in relazione tra loro e sono l’uno per l’altro,
si confermano come equivalenti e nello stesso tempo come indifferenti l’uno per
l’altro, ossia la loro relazione prescinde completamente dalle loro differenze individuali. Al di fuori dell’atto di scambio in questo suo significato formale, l’aspetto contenutistico, rappresentato dalle caratteristiche naturali delle merci che
vengono scambiate, quindi dalla loro differenza, e dalla differenza dei bisogni
MEGA 2 II/1(Text).1, Berlin 1976, p. 165; tr. it., cit., vol. I, pp. 209-210.
Marx sottolinea che interessa il lato economico formale ovvero la funzione sociale che, nello
scambio, hanno i soggetti che scambiano e i loro equivalenti scambiati. Resta fuori considerazione l’eventuale naturale scaltrezza o la capacità di persuasione, insomma la superiorità di un
individuo sull’altro nel raggirarlo. Queste sono differenze naturali tra i soggetti, il cui potere
resiste anche alla concorrenza, cosa che Marx osserva «spingendo lo sguardo verso uno sviluppo
ulteriore» (Ibid., tr. it., cit., vol. I, p. 210), per sottolineare il carattere storicamente determinato
dei rapporti fondati sul valore di scambio. Ma tutto ciò non altera la forma sociale del rapporto,
così come non altera tale forma il contenuto del rapporto stesso, il quale «propriamente esula
ancora completamente dall’economia, o è posto come contenuto naturale distinto da quello
economico, del quale contenuto naturale si può dire che è ancora del tutto separato dal rapporto
economico perché ancora coincide immediatamente con esso» (Ibid.).
14
Ibid.
12
13
198
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
degli individui che scambiano, non compromette il fatto che socialmente questi
individui compaiano come eguali e i prodotti scambiati come equivalenti, ma,
al contrario, conferma pienamente questa forma economica. Infatti è proprio la
differenza dei bisogni e delle merci possedute per scambiare, che spinge questi
individui allo scambio. Se i soggetti avessero lo stesso bisogno e producessero gli
stessi oggetti per soddisfarlo, non entrerebbero in rapporto di scambio, perché
non avrebbero bisogno l’uno dell’altro: «La diversità del loro bisogno e della loro
produzione offre soltanto il motivo allo scambio e alla loro equiparazione sociale
in esso; questa diversità naturale è perciò il presupposto della loro uguaglianza
sociale nell’atto dello scambio e in generale di questa relazione in cui essi si presentano l’uno rispetto all’altro come individui produttivi»15. Così, «finché questa
diversità naturale degli individui e delle loro merci […] costituisce il motivo per
l’integrazione di questi individui, per il loro rapporto sociale in quanto individui
che scambiano, nel quale essi sono presupposti e si confermano come uguali, alla
determinazione dell’uguaglianza si aggiunge quella della libertà»16. Infatti, anche se ciascuno dei due soggetti dello scambio ha bisogno della merce dell’altro,
tuttavia ciascuno si sente proprietario della propria merce e quindi nessuno dei
due si appropria della merce dell’altro con la violenza, ma ciascuno se la aliena
mediante un atto volontario libero. «Qui, dice Marx, entra in ballo […] anzitutto
il momento giuridico della persona, e della libertà nella misura in cui vi è contenuta»17. Ciascuno dei due soggetti serve con la propria merce il bisogno dell’altro
affinché l’altro serva con la propria merce il bisogno del primo. «Ciascuno serve
l’altro per servire se stesso»18, deve necessariamente farsi mezzo dell’altro per raggiungere il suo scopo, «si pone come essere per un altro in quanto è essere per
sé, e l’altro si pone come essere per lui in quanto è essere per sé»19, ossia scopo
a se stesso. Questo movimento di reciprocità per cui ciascuno dei due soggetti
dello scambio si fa contemporaneamente mezzo dell’altro e fine a se stesso, è un
presupposto necessario dello scambio che ciascuno di loro riconosce come fatto;
ma esso «procede per così dire solo alle spalle degli interessi particolari riflessi in
se stessi»20, perché ciascuno rimane indifferente all’altro, e ne serve il bisogno solo
15
16
17
18
19
20
Ivi, p. 166; tr. it., cit., vol. I, p. 211.
Ivi, p. 167; tr. it., cit., vol. I, pp. 212-213.
Ibid; tr. it., cit., vol. I, p. 213.
Ibid.
Ibid.
Ivi, p. 168; tr. it., cit., ibid.
199
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
perché ha interesse solo a soddisfare il proprio bisogno: «Appunto soltanto nella
bilateralità, nella multilateralità, e nel rendersi autonomi dai diversi lati, l’interesse comune è lo scambio dell’interesse egoistico. L’interesse generale è appunto
la generalità degli interessi egoistici»21. Perciò, dal punto di vista della forma economica – dove i soggetti dello scambio stanno nella stessa determinazione indipendentemente dalle loro differenze naturali, le quali fanno anzi da presupposto
al rapporto sociale che li mette sullo stesso piano; dove gli oggetti dello scambio
sono degli equivalenti; e dove l’atto di scambio media il fatto che gli individui
sono posti come soggetti che scambiano e gli oggetti scambiati sono posti come
equivalenti – gli individui stanno nella determinazione dell’uguaglianza. Dal
punto di vista della materia dello scambio, gli individui, che si fanno ciascuno
mezzo dell’altro per farsi fini a se stessi, stanno nella determinazione della libertà.
«Non solo dunque uguaglianza e libertà sono rispettate nello scambio basato sui
valori di scambio, ma lo scambio di valori di scambio è la base produttiva, reale
di ogni uguaglianza e libertà. Come idee pure esse ne sono espressioni solamente
idealizzate; in quanto si sviluppano in rapporti giuridici, politici e sociali, esse
sono soltanto questa base ad una diversa potenza»22.
Queste idee di uguaglianza e libertà sono possibili solo sulla base di una società
fondata sul lavoro generale e sul valore di scambio. Perciò esse sono diverse dalle
idee antiche di uguaglianza e di libertà, appunto perché non erano fondate sul
valore di scambio sviluppato, ma sulla prevalenza del valore d’uso (mentre erano
solo le eccedenze a essere scambiate). Perciò quelle idee crollarono appena il valore
di scambio prese estensione. La base dei rapporti di produzione antichi era il lavoro coercitivo diretto su cui non si può sviluppare un valore di scambio nella sua
massima estensione. Coerentemente, «nel diritto romano il servus è esattamente
definito come colui che non può acquistare per sé mediante lo scambio»23, e di conseguenza «in determinate sfere»24 furono elaborati i concetti di “persona giuridica”
e di “individuo dello scambio”. Questa consapevolezza sembra contraddire il fatto
che nella società antica mancava la base economica e sociale per elaborare questo
diritto, però esso si sviluppò insieme alla dissoluzione del mondo romano e anticipò i fondamenti del diritto della società industriale moderna, ai cui inizi fu fatto
21
22
23
24
Ibid; tr. it., cit., vol. I, p. 214.
Ibid.
Ivi, p. 169; tr. it., cit., vol. I, p. 215.
Ibid.
200
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
valere polemicamente contro il medioevo. Anche la società medievale non poteva
avere i concetti di uguaglianza e libertà connessi allo scambio dei valori di scambio,
perché la sua base era il lavoro come privilegio inserito in una struttura comunitaria considerata come superiore, vale a dire nella corporazione. Rimanendo lavoro
particolare, legato al mestiere, non poté svilupparsi a lavoro genericamente umano,
sulla cui base viene misurato il valore di scambio.
Quello che finora abbiamo analizzato nella legislazione sull’immigrazione
discende dalle idee giuridiche fondamentali (uguaglianza e libertà), espressioni di
una società fondata sullo scambio di valori di scambio e quindi sul lavoro inteso
come lavoro generale. La sanzione legislativa di ogni discriminazione razziale,
etnica, religiosa, riflette le condizioni materiali di una società in cui lo sviluppo
dei presupposti del valore di scambio culmina nella libertà di commercio, la
soppressione di tutti i monopoli, lo sviluppo del sistema creditizio, l’abolizione
di ogni ostacolo che impedisce all’operaio di trasferirsi da una località e da una
branca di produzione a un’altra, la riduzione del lavoro a lavoro semplice, l’abolizione dei pregiudizi professionali e la sottomissione degli operai al capitale: tutte
queste sono le condizioni perché possa svilupparsi la piena mobilità dei capitali
e della forza-lavoro, mobilità da cui discende il livellamento dei saggi medi del
profitto in tutti i rami della produzione e la trasformazione dei valori in prezzi di
produzione. Anche le restrizioni che il Testo unico prevede e che via via sono state inasprite, non alterano idealmente l’impianto di fondo che discende dall’applicazione dell’articolo 10 della costituzione, anzi in qualche modo lo confermano,
giacché le espulsioni e gli inasprimenti di pene sono diretti al contrasto dell’immigrazione clandestina, cioè di uno spostamento di individui che non avviene
secondo la legge, vale a dire secondo una forma che rispecchia il movimento
generale del lavoro che produce valori di scambio, e quindi rispecchia il dominio
della borghesia come classe, mentre in nessun modo le restrizioni all’ingresso e
l’espulsione sono – idealmente – condizionate da differenze di razza, sesso, etnia,
religione e simili.
Ma qui cominciano tutte le contraddizioni. Il valore di scambio si realizza
nel denaro e un sistema monetario sviluppato è la condizione dello sviluppo del
sistema sociale fondato sul valore di scambio: di conseguenza, «il sistema monetario può essere in effetti soltanto la realizzazione di questo sistema della libertà e
dell’uguaglianza»25. E questo avviene in tutte le determinazioni del denaro ossia
25
Ibid.
201
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
in quella di misura del valore, di mezzo di circolazione o materia generale dei
contratti e di rappresentante generale della ricchezza. Nella sua determinazione
scientifica più semplice (e in parte anche nello sviluppo storico reale) il valore di
scambio sembra non mostrare nessuna reale antitesi dietro queste determinazioni
della libertà e dell’uguaglianza in cui gli individui sono posti, anzi abbiamo visto
che le diseguaglianze naturali sono qui le condizioni dell’uguaglianza sociale e
proprio nella misura in cui questa diversità pone gli individui in un rapporto sociale in cui si integrano, insieme all’uguaglianza si pone la determinazione della
libertà. Ma nella società borghese sviluppata, con la trasformazione del denaro
in capitale, con la formazione di un compiuto sistema monetario, con il mercato
mondiale ecc., le determinazioni elementari dello scambio fondato sul valore di
scambio, riflesse nelle idee di uguaglianza e di libertà, «si presentano come il
processo superficiale al fondo del quale invece si verificano ben altri processi nei
quali questa apparente uguaglianza e libertà degli individui scompare»26. Nello
sviluppo compiuto del sistema capitalistico, questi processi più complessi si presentano sotto forma di riduzione di tutto a valore di scambio, ossia alla categoria
più semplice che corrisponde anche alla fase iniziale della semplice produzione
di merci prima che divenisse produzione capitalistica di merci. A questo stadio
sviluppato e complesso del mercato mondiale la categoria semplice del valore di
scambio si ripresenta in modo da mostrare, delle antitesi, «soltanto un lato in cui
la loro espressione è cancellata»27. Ma tali processi che cancellano l’apparenza della libertà e dell’eguaglianza sono lo sviluppo del presupposto stesso dello scambio
sulla base dei valori di scambio: infatti qui l’individuo non è immediatamente lo
scopo del prodotto, ma lo diventa nello scambio, dove egli non esiste come individuo con le sue qualità naturali, bensì nel suo prodotto oggettivo, rimanendo
indifferenti quelle qualità. Tutto il sistema della libertà e dell’uguaglianza, fondato sul valore di scambio, presuppone che l’individuo debba negare le differenze
naturali, e in questo modo egli, benché concepito come “naturalmente” libero e
uguale, in realtà è un prodotto sociale, perciò non è affatto “libero”. Infatti lo
scambio presuppone una divisione del lavoro in cui gli individui non stanno nel
rapporto di individui che scambiano, e «già nella semplice determinazione del
valore di scambio e del denaro è contenuta in forma latente l’antitesi tra lavoro
26
27
Ivi, p. 171; tr. it., cit., vol. I, p. 218.
Ibid.
202
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
salariato e capitale»28. Pertanto, il sistema dei valori di scambio è solo relativo a
una determinata fase storica rispetto alla quale ce ne può essere una più avanzata,
in cui «gli individui si presentano non più semplicemente come individui che
scambiano ovvero come compratore e venditore, bensì in determinati rapporti
reciproci, non sono più posti tutti nella medesima determinazione»29.
Esaminando ora lo sviluppo del valore di scambio nella società borghese compiuta, quale si esprime nel mercato mondiale della globalizzazione, possiamo vedere tutta una serie di antitesi che riguardano proprio la questione delle migrazioni, e
quindi come quelle determinazioni ideali universalistiche, che nel Testo unico sono
presupposte alla disciplina legislativa dei fenomeni migratori, nascondano processi
antagonistici, materiali e non ideali, di dominio a cui sono funzionali.
4. I migranti come componente della sovrappopolazione operaia creata dal capitale
L’accumulazione capitalistica presuppone, oltre alla reintegrazione degli elementi del capitale anticipato (strumenti di produzione e mezzi di sussistenza
dell’operaio, rispettivamente capitale costante e capitale variabile), che una parte
del plusvalore sia riconvertita in mezzi di produzione e mezzi di sussistenza per
l’operaio, cioè in capitale (costante e variabile) che aumenta la grandezza del
capitale anticipato. Se si reintegra soltanto il capitale anticipato, mentre tutto il
plusvalore è destinato al consumo del capitalista, ci sarebbe solo una riproduzione semplice del capitale ossia «la semplice continuità del processo di produzione
capitalistico»30. Ogni processo di produzione, in quanto volto a essere un processo continuativo, è un processo di riproduzione, quindi il carattere del processo di
riproduzione dipende dal carattere del processo di produzione. Se la produzione
ha una forma capitalistica, la deve avere anche la riproduzione, e poiché nel modo
di produzione capitalistico il processo lavorativo è solo un processo volto a creare
plusvalore mediante il pluslavoro, ossia esso «si presenta solo come un mezzo del
processo di valorizzazione»31, ne consegue che «la riproduzione si presenta solo
28
29
30
31
Ibid.
Ivi, p. 170; tr. it., cit., vol. I, p. 217.
MEGA 2, II/10, p. 509; tr. it., cit., p. 624.
Ivi, p. 507; tr. it., cit., p. 621.
203
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
come un mezzo per riprodurre il valore anticipato come capitale, cioè come valore che si valorizza»32. La riproduzione semplice ha certamente tutti i caratteri formali del processo di produzione capitalistico, ma se restasse tale contraddirebbe
la tendenza del capitale a valorizzarsi continuamente e in tal modo a conservarsi
come capitale. Perciò parte del plusprodotto espresso nel plusvalore che si presenta come reddito per il capitalista, deve essere trasformato «in mezzi addizionali di
produzione e di sussistenza»33 per l’operaio. Questa trasformazione dà luogo alla
riproduzione del capitale su scala allargata.
L’ampliamento del capitale anticipato in mezzi di produzione e mezzi di sussistenza per l’operaio, richiede un corrispondente «supplemento di lavoro»,34 e se
questo non è ottenuto con l’intensificazione e l’estensione dello sfruttamento degli
operai già occupati, deve ottenersi utilizzando forza-lavoro supplementare, quindi
assumendo nuovi operai. Di conseguenza occorre riprodurre la classe operaia, moltiplicando le forze-lavoro disponibili. Ma poiché l’operaio vive del salario, ecco che
esso abitualmente equivale non solo ai mezzi di sussistenza dell’operaio, ma anche
ai mezzi che ne favoriscono la riproduzione ossia la moltiplicazione. Così ci sono
forze-lavoro addizionali disponibili che, se vengono aggiunte ai mezzi di produzione addizionali, trasformano il plusvalore in capitale. Se l’aumento del capitale in
un determinato ramo della produzione agisce solo quantitativamente, il saggio del
profitto, ossia il rapporto tra plusvalore e capitale anticipato, cresce nella stessa proporzione in cui cresce quest’ultimo. Ma con la produzione del plusvalore relativo, si
ha un aumento della produttività e quindi una trasformazione tecnica della parte
costante del capitale (soprattutto di quella fissa, ossia macchine e combinazione
scientifica delle relazioni organizzative del lavoro). In tal modo, la concentrazione
delle forze produttive disperse, avvenuta nella prima fase di sviluppo della produzione capitalistica, si trasforma nella centralizzazione di molti capitali individuali attraverso l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi. Ciò provoca
un’ulteriore socializzazione del lavoro, dello sfruttamento della terra e dei mezzi di
produzione. Si sviluppa sempre più «la forma cooperativa del processo di lavoro su
scala sempre crescente, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro
utilizzabili solo collettivamente, l’economia di tutti i mezzi di produzione mediante
32
33
34
Ibid.
Ivi, p. 520; tr. it., cit., p. 637.
Ibid.
204
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale, combinato»35. Ma con questa trasformazione l’aumento della parte produttiva costante del capitale procede
«con rapidità incomparabilmente maggiore»36 rispetto a quella del capitale variabile,
giacché tutti quegli elementi suddetti, volti ad accrescere esponenzialmente la forza
produttiva del lavoro, riducono la necessità di lavoro immediato rendendo così
l’operaio tecnicamente sempre meno importante nel processo lavorativo, benché
esso resti ineliminabile per il processo di valorizzazione ossia di produzione del
plusvalore – il che genera la contraddizione mortale della produzione capitalistica.
«Siccome la domanda di lavoro non è determinata dal volume del capitale complessivo, ma dal volume della sua parte costitutiva variabile, essa diminuirà quindi in
proporzione progressiva con l’aumentare del capitale complessivo, invece di aumentare
in proporzione di esso […]. Essa diminuisce in rapporto alla grandezza del capitale
complessivo, e diminuisce in progressione accelerata con l’aumentare di essa»37.
Ciò appare in contraddizione con quanto prima osservato, ossia che l’aumento
del capitale addizionale richiede un aumento di forze-lavoro da incorporare per
mettere in movimento quei mezzi addizionali. Ma questa contraddizione agisce
in modo tale da rendere decrescente la proporzione con cui il capitale variabile sta
con quello costante, dunque esprime una grandezza relativa, non assoluta. Se è necessaria un’accelerazione dell’accumulazione complessiva del capitale per assorbire
forza-lavoro proporzionata all’aumento dei mezzi di produzione e alla trasformazione della stessa parte costante del capitale anticipato o proveniente da precedenti accumulazioni, questa accumulazione e centralizzazione crescenti cambiano la
composizione organica del capitale, quindi la parte variabile diminuisce proporzionalmente all’aumento di quella costante. Pertanto, quella che da una parte è una
diminuzione relativa della parte variabile del capitale, ossia più di quanto aumenti
la parte costante, «appare dall’altra parte, viceversa, come un aumento assoluto della
popolazione operaia costantemente più rapido di quello del capitale variabile ossia dei
mezzi che le danno occupazione»38. Ma, in realtà, «è […] l’accumulazione capitalistica
che costantemente produce, precisamente in proporzione della propria energia e
del proprio volume, una popolazione operaia relativa, cioè eccedente i bisogni medi
di valorizzazione del capitale, e quindi superflua o addizionale»39. E poiché, come
35
36
37
38
39
Ivi, p. 684; tr. it., cit., p. 825.
Ivi, p. 564; tr. it., cit., p. 689.
Ivi, p. 565; tr. it., cit., ibid.
Ibid; tr. it., cit., p. 690.
Ibid. «Per quanto riguarda il capitale sociale complessivo, il movimento della sua accumula-
205
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
abbiamo visto, è la stessa popolazione operaia a produrre l’accumulazione del capitale, mediante la creazione di plusvalore che si trasforma in capitale addizionale,
ecco che è essa stessa a produrre «in misura crescente […] i mezzi per render se stessa
relativamente eccedente. È questa una legge della popolazione peculiare del modo di
produzione capitalistico, come di fatto ogni modo di produzione storico particolare
ha le proprie leggi della popolazione particolari, storicamente valide. Una legge
astratta della popolazione esiste soltanto per le piante e per gli animali nella misura
in cui l’uomo non vi interviene storicamente»40. È dunque il capitale stesso che, per
accumulare, ossia per trasformare in capitale parti sempre crescenti del plusvalore,
crea questa sovrappopolazione. Se quest’ultima «è il prodotto necessario […] dello
sviluppo della ricchezza su base capitalistica»41, e non una legge generale valida in
qualsiasi epoca, ciascuna delle quali ha una sua propria legge della popolazione, ne
consegue anche l’inverso, dato che il capitale è lavoro accumulato, quindi è prodotto e riprodotto in ogni sua parte dagli operai: «Questa sovrappopolazione diventa
[…] la leva dell’accumulazione capitalistica e addirittura una condizione d’esistenza
del modo di produzione capitalistico. Essa costituisce un esercito industriale di riserva
disponibile che appartiene al capitale in maniera così completa come se quest’ultimo
zione ora provoca un cambiamento periodico, ora i suoi momenti si distribuiscono contemporaneamente nelle sfere diverse della produzione. In alcune sfere si verifica un cambiamento nella
composizione del capitale senza aumento della sua grandezza assoluta a seguito della semplice
concentrazione; in altre l’aumento assoluto del capitale è collegato a una diminuzione assoluta
della sua parte costitutiva variabile ossia della forza-lavoro da essa assorbita; in altre ora il capitale continua ad aumentare sulla propria base tecnica data e attrae forza-lavoro addizionale in
proporzione del proprio aumento, ora subentra un cambiamento organico e la sua parte costitutiva variabile si contrae; in tutte le sfere l’aumento della parte variabile del capitale e quindi del
numero degli operai occupati è sempre legato a violente fluttuazioni e a una passeggera produzione di sovrappopolazione, sia che questa assuma la forma più vistosa respingendo gli operai
già occupati, sia che assuma quella meno appariscente, ma non meno efficace, di una maggiore
difficoltà nell’assorbimento della popolazione operaia addizionale nei consueti canali di sfogo.
Insieme con la grandezza del capitale sociale già in funzione, insieme col grado del suo aumento,
con la estensione della scala di produzione e della massa degli operai messi in moto, insieme
con lo sviluppo della forza produttiva del loro lavoro, insieme col flusso più largo e più pieno
di tutte le fonti sorgive della ricchezza, si estende anche la scala in cui una maggiore attrazione
degli operai da parte del capitale è legata ad una maggiore ripulsione di questi ultimi, aumenta
la rapidità dei cambiamenti nella composizione organica del capitale e nella sua forma tecnica, e
si dilata l’ambito delle sfere di produzione, le quali ora ne sono prese contemporaneamente, ora
alternativamente» (ivi, pp. 565-566; tr. it., cit., pp. 690-691).
40
Ivi, 566-567; tr. it., cit., pp. 691-692.
41
Ivi, p. 567; tr. it., cit., p. 692.
206
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
l’avesse allevato a sue proprie spese. Essa crea per i mutevoli bisogni di valorizzazione del capitale il materiale umano sfruttabile sempre pronto, indipendentemente
dai limiti del reale aumento della popolazione»42. È difficile negare che proprio
questa legge del capitale agisce sulle migrazioni nella globalizzazione, visto che, in
conseguenza dei mutamenti provocati dalla crescente centralizzazione dei capitali,
«tutti i popoli vengono intricati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa il
carattere internazionale del regime capitalistico»43.
L’accumulazione e l’aumento della forza produttiva del lavoro vanno insieme
alla velocità di espansione del capitale, non solo «perché crescono l’elasticità del
capitale funzionante e la ricchezza assoluta, di cui il capitale costituisce soltanto
una parte elastica»44, e non solo perché il credito valorizza la disponibilità di
questa ricchezza per convertirla in capitale addizionale, ma anche perché questa
conversione è velocizzata dalle innovazioni tecniche e dallo sviluppo dei mezzi
di trasporto, e oggi in modo enormemente maggiore dalle reti informatiche,
cosicché non solo questa massa di ricchezza che diventa capitale addizionale crea
nuove branche di produzione, ma trasforma «con frenesia»45 anche le vecchie.
In questa frenetica espansione di ricchezza su basi capitalistiche, vale a dire con
l’aumento esponenziale dell’accumulazione e quindi della conversione del plusvalore in nuovo capitale, «grandi masse di uomini devono essere gettabili improvvisamente nei punti decisivi, senza pregiudizio della scala di produzione in
altre sfere; le fornisce la sovrappopolazione»46. E così ci colleghiamo a quanto
sopra visto, ossia che con il progresso della produzione capitalistica e quindi con
la crescente sottomissione della società alle sue leggi, lo spostamento incessante
dei capitali da una sfera di produzione all’altra alla ricerca di più alti saggi del
profitto comporta il livellamento di questi ultimi in un saggio medio del profitto
e la formazione dei prezzi di produzione in cui si trasformano i valori delle merci.
Ciò richiede, oltre a una sempre maggiore mobilità dei capitali, una sempre maggiore mobilità della forza-lavoro per essere gettata da una sfera produttiva all’altra
e da una località all’altra. Ebbene, di tutti questi processi che velocizzano freneticamente l’accumulazione e provocano, mediante il livellamento dei saggi del
profitto, la centralizzazione dei capitali e la loro trasformazione in capitale sociale
42
43
44
45
46
Ibid.
Ivi, p. 684; tr. it., cit., p. 825.
Ivi, p. 567; tr. it., cit., p. 692.
Ibid.
Ivi, p. 568; tr. it., cit., ibid.
207
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
complessivo, la sovrappopolazione relativa costituisce una leva: «Il ciclo vitale
caratteristico dell’industria moderna, la forma di un ciclo decennale – interrotto
da piccole oscillazioni – di periodi di vivacità media, produzione con pressione
massima, crisi e stagnazione, si basa sulla costante formazione, sul maggiore o
minore assorbimento e sulla nuova formazione dell’esercito industriale di riserva
o della sovrappopolazione. Le alterne vicende del ciclo industriale reclutano, da
parte loro, la sovrappopolazione e diventano uno degli agenti più energici della
sua riproduzione»47.
In che senso questa popolazione disoccupata è una leva dell’accumulazione
capitalistica, ossia uno dei fattori più importanti del suo processo di riproduzione? Risponde Marx: «L’esercito industriale di riserva preme durante i periodi di
stagnazione e di prosperità media sull’esercito operaio attivo e ne frena le rivendicazioni durante il periodo della sovrapproduzione e del parossismo. La sovrappopolazione relativa è quindi lo sfondo sul quale si muove la legge della domanda e
dell’offerta di lavoro. Essa costringe il campo d’azione di questa legge entro i limiti
assolutamente convenienti alla brama di sfruttamento e alla smania di dominio del
capitale»48. Perciò Marx critica l’apologia dell’economia volgare la quale, appena
del capitale viene investito in macchine ossia in capitale costante, e di conseguenza una parte di operai da attivi passano nell’esercito di riserva, ritiene che
ciò andrebbe a vantaggio degli operai in altri rami della produzione grazie alla
legge della domanda e dell’offerta. Intanto, secondo Marx, qui vengono “messi
in libertà” non solo operai già occupati soppiantati dalle macchine, ma anche,
in uguale quantità, la parte di operai di riserva e quelli che potevano regolarmente essere assorbiti senza innovazione. A questo punto, se un «capitale nuovo,
desideroso di entrare in funzione»49, e che quindi può disporre di questa riserva
accresciuta, attrae solo il numero degli operai messi in libertà, allora la domanda
di lavoro resta eguale a zero; se ne attrae un numero minore, cresce la quantità
di popolazione operaia eccedente; se ne attrae un numero maggiore, la domanda
generale di lavoro è pari solo al numero di operai occupati eccedenti quelli espulsi
dalla produzione ovvero “messi in libertà”.
Pertanto l’aumento assoluto di capitale non significa una maggiore domanda
di lavoro, come invece pretende l’economista, bensì tendenzialmente solo un au-
47
48
49
Ibid.; tr. it., cit., pp. 692-693.
Ivi, p. 574; tr. it., cit., p. 699.
Ibid.; tr. it., cit., p. 700.
208
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
mento dell’offerta di lavoro grazie alla creazione di una sovrappopolazione operaia
che eccede la grandezza del capitale variabile ossia la disponibilità dei mezzi di
sussistenza. Insomma, nell’accumulazione capitalistica la domanda e l’offerta non
si equilibrano affatto. Nel rapporto tra capitalisti e operai c’è un trucco, perché
questa sovrappopolazione è creata dal capitale stesso in base alle sue leggi di accumulazione sfruttando il lavoro altrui e appropriandosene secondo le sue esigenze.
E poiché sono gli operai stessi a creare l’accumulazione, ecco che il capitale crea
la sovrappopolazione attraverso gli operai stessi che producono i mezzi (capitale
costante addizionale) per rendersi eccedente. «Les dés sont pipés. Il capitale agisce
contemporaneamente da tutte e due le parti. Se da un lato la sua accumulazione
aumenta la domanda di lavoro, dall’altro essa aumenta l’offerta di operai mediante
la loro “messa in libertà”, mentre allo stesso tempo la pressione dei disoccupati
costringe gli operai occupati a render liquida una maggiore quantità di lavoro rendendo in tal modo l’offerta di lavoro in una certa misura indipendente dall’offerta di
operai. Il movimento della legge della domanda e dell’offerta di lavoro su questa base
porta a compimento il dispotismo del capitale»50. La “crescita decrescente” del capitale
variabile è data dal fatto che se da un lato, con l’accumulazione aumenta il numero
di forze-lavoro da utilizzare per mettere in moto nuovi mezzi di produzione addizionali, dall’altro il mutamento qualitativo che l’aumento di capitale comporta sul
piano dell’aumento della forza produttiva del lavoro, riduce la necessità di operai
e così crea una sovrappopolazione la quale preme sugli operai occupati sia moderandone le richieste verso il capitale, sia costringendola a rendere liquida una certa
quantità di lavoro comandata dal capitale. In tal modo la maggiore domanda di
lavoro che l’aumento del capitale comporta per mettere in moto i mezzi di produzione aggiuntivi, viene a significare, per il capitale, non già una maggiore domanda
di operai, bensì un’intensificazione del lavoro, grazie alla pressione esercitata dalla
sovrappopolazione operaia che offre lavoro in eccedenza. Anche nel caso che ciò
comportasse una aumento del capitale varabile, dato l’aumento di salario richiesto
dal maggior lavoro fornito dall’operaio singolo, il capitalista è più interessato a
ricavare una maggiore quantità di lavoro da un minor numero di operai, piuttosto
che a spremere una maggior quantità di lavoro da un numero maggiore di operai
a un prezzo magari più conveniente. Infatti, nel primo caso il capitalista spende
più lentamente in capitale costante, mentre nel secondo caso, ossia di un maggior
numero di operai occupati, deve spendere in mezzi di produzione addizionali per
50
Ivi, pp. 574-575; tr. it., cit., ibid.
209
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
attivarli. Inoltre lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, che significa sviluppo della forza produttiva del lavoro, può rendere liquida una maggior quantità
di lavoro individuale sfruttando l’intensità del lavoro e agendo sulla giornata lavorativa, cioè combinando produzione di plusvalore assoluto e relativo senza esborso
di maggiore capitale variabile. Oppure, con la stessa quantità di capitale variabile
si può acquistare più forza-lavoro ma meno qualificata rispetto alla precedente che
viene così sostituita. In ogni caso, la produzione di una sovrappopolazione relativa
si ha in misura più rapida della rivoluzione tecnica del processo di produzione e
della diminuzione della proporzione tra il capitale variabile e quello costante. In
tal modo l’esercito industriale di riserva diventa, con la concorrenza tra operai, un
potente mezzo di pressione per costringere la massa degli operai occupati al lavoro
fuori orario e alla sottomissione all’organizzazione del lavoro imposta dal capitale:
«La condanna di una parte della classe operaia a un ozio forzoso mediante il lavoro
fuori orario dell’altra parte e viceversa diventa mezzo d’arricchimento del capitalista singolo e accelera allo stesso tempo la produzione dell’esercito industriale di riserva
su una scala corrispondente al progresso dell’accumulazione sociale»51.
L’andamento di questo processo di accumulazione del capitale, da essi stessi
creato loro malgrado, pone gli operai di fronte a un «mistero»52: più essi lavorano
per accrescere il capitale, ossia la ricchezza altrui, e, di conseguenza, più «cresce la
forza produttiva del loro lavoro»53, più «la loro funzione come mezzo di valorizzazione del capitale diventa […] precaria per essi»54. Inoltre la maggiore o minore
intensità della concorrenza tra di loro dipende dal grado di pressione che la sovrappopolazione relativa esercita sugli operai comandati, ossia occupati dal capitale, in
condizione, però, di sempre maggiore precarietà come mezzi di arricchimento del
capitale stesso. Infatti essi possono essere espulsi dalla produzione immediata se la
quantità del loro lavoro non aumenta in funzione dei bisogni del capitale (risparmio
del capitale costante), o perché la concorrenza tra gli operai occupati e disoccupati
condiziona le oscillazioni del salario. L’arcano di questo mistero sta nelle leggi stesse
dell’accumulazione capitalistica, poiché il capitale a seconda delle sue esigenze di
valorizzazione, quindi in funzione della sua brama di arricchimento, e quindi della
sua brama di sfruttamento, crea questa popolazione operaia eccedente. Perciò sono
51
52
53
54
Ivi, p. 571; tr. it., cit., pp. 696-697.
Ivi, p. 575; tr. it., cit., p. 700.
Ibid.; tr. it., cit., p 701.
Ibid.
210
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
gli operai stessi che, producendo più ricchezza in forma di capitale complessivo,
creano le condizioni perché possano essere messi fuori dal processo di produzione
immediato e da fuori, mediante la concorrenza con gli operai occupati, costringere
questi ultimi a lavorare di più e quindi, con la creazione di ulteriore accumulazione,
a creare ulteriore sovrappopolazione.
La soluzione si ha quando gli operai capiscono come mai l’aumento della forza
produttiva del loro lavoro, necessaria all’accumulazione capitalistica, rende invece
la loro funzione sempre più precaria, e che la concorrenza tra di loro dipende dalla pressione esercitata dalla sovrappopolazione relativa. Da ciò consegue che essi
devono organizzare «una cooperazione sistematica fra gli operai occupati e quelli
disoccupati per spezzare o affievolire le rovinose conseguenze che quella legge naturale della produzione capitalistica ha per la loro classe»55. Marx notava, per il suo
tempo, che appena gli operai, scoperto il mistero, cercavano di organizzare questa
cooperazione attraverso le Trade Unions, ecco che il capitale e i suoi economisti si
ribellavano perché questa unione turbava il principio della concorrenza. Viceversa
nelle colonie, dove le circostanze facevano sì che l’offerta di forza-lavoro fosse minore o non ci fosse del tutto, perché era preferito il lavoro agricolo con proprietà
diretta dei mezzi di produzione da parte del contadino, la legge della domanda e
dell’offerta cessava di valere e con mezzi coercitivi si cercava di sottomettere gli
operai alle leggi del lavoro salariato, cioè al dominio del capitale.
Ho voluto riportare analiticamente questo discorso di Marx perché, a mio
parere, permette di spiegare bene i processi migratori nella globalizzazione capitalistica e di indicare praticamente il modo efficace di affrontarli dal punto di vista dell’emancipazione e della realizzazione dell’uomo nella sua totalità. Infatti i
movimenti migratori, che oggi osserviamo, sono il risultato della produzione, a
opera dell’accumulazione capitalistica, di quella popolazione operaia eccedente che
preme su quella occupata ovvero comandata, in modo che essa venga costretta dal
capitale stesso a rendere liquido più lavoro, aumentandone così la forza produttiva,
e in modo che, contemporaneamente, essa renda più precaria la sua funzione come
mezzo di valorizzazione del capitale, e quindi più precarie le proprie condizioni
di vita proprio grazie a questo aumento di forza produttiva del suo lavoro. Infatti,
quanto più gli operai lavorano per valorizzare il capitale, tanto più l’innalzamento
della sua composizione organica a vantaggio del capitale costante fa aumentare
il rischio che essi finiscano nella sovrappopolazione relativa, la quale cresce più
55
Ibid.
211
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
rapidamente sia del progredire dell’accumulazione sia della diminuzione della proporzione tra la parte variabile del capitale e quella costante. Così i migranti non
in quanto tali, ma in quanto parte cospicua dell’esercito industriale di riserva, diventano la leva dell’accumulazione capitalistica. E poiché quest’ultima costituisce
il motore della globalizzazione, ecco che nella prospettiva del discorso qui fatto i
migranti, in quanto sono gli agenti più numerosi dell’accumulazione del capitale,
costituiscono i propulsori del processo di globalizzazione.
Possiamo cogliere questa connessione tra i movimenti migratori e le esigenze
di accumulazione capitalistica, osservando l’accordo sindacale del giugno 2010
nello stabilimento Giambattista Vico di Pomigliano d’Arco, di proprietà del Fiat
group automobiles. Il punto 1, dedicato all’orario di lavoro, prevede l’utilizzazione
degli impianti di produzione per 24 ore giornaliere e per sei giorni alla settimana, sabato incluso, 18 turni settimanali, e la refezione a fine pasto. Il punto 2
dell’accordo prevede che «per far fronte alle esigenze produttive di avvenimenti,
recuperi o punte di mercato, l’azienda potrà fare ricorso a lavoro straordinario per
80 ore annue pro capite, senza preventivo accordo sindacale, da effettuare a turni
interi» e che può essere anche effettuato nel 18° turno. Come osserva Antonio
Di Luca, raccontando la sua esperienza di operaio alla Fiat di Pomigliano, «la
possibilità di aumentare di 80 ore (oltre le 40 già previste dal CCNL [Contratto
Collettivo Nazionale di Lavoro]) lo straordinario collettivo non negoziabile con
le RSU [Rappresentanze Sindacali Unitarie] porta il totale a ben 15 giornate
annue lavorative, rendendo così strutturale il 18° turno ed obbligando al lavoro
di domenica»56. Al punto 5, dedicato all’organizzazione del lavoro, si dice che
per riportare il sistema produttivo alle condizioni di competitività internazionali
attuali, si interviene sulle tecnologie e sul prodotto, e si migliorano i livelli delle
prestazioni lavorative con i nuovi sistemi ergonomici WCM e Ergo-UAS. L’adozione di tali sistemi ergonomici permette di fare pause, sulle linee a trazione
meccanizzata con scocche in movimento continuo, non più articolate in due da
20 minuti ciascuna, ma in tre da 10 minuti ciascuna. Così, è possibile guadagnare collettivamente 10 minuti per ogni operaio, aumentando enormemente
la massa di lavoro non pagato e quindi la massa del plusvalore. Nel rapporto
capitalistico di produzione basato sul valore di scambio, la base della produzione
della ricchezza rimane sempre la quantità di tempo di lavoro immediato. Ma
con lo sviluppo della grande industria la base della ricchezza diventa sempre più
56
A. Di Luca, Da Pomigliano a Mirafiori. Fiat: una storia italiana, Napoli 2011, p. 26.
212
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
la «potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro»57, rispetto al tempo di lavoro immediato oggettivato nei prodotti, e anche la
potenza di questi nuovi agenti non consiste nel tempo di lavoro immediato che
costa la loro produzione, ma «dipende […] dallo stato generale della scienza e
dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione»58. Inoltre, tali agenti non consistono solo nelle macchine, ma anche nella
«combinazione delle attività umane»59. E poiché macchine e organizzazione dei
processi lavorativi sono scienza applicata alla produzione, la grande base della
ricchezza che subentra al lavoro immediato «è lo sviluppo dell’individuo sociale»60, ossia la «comprensione»61 che l’uomo ha «della natura e il dominio su di essa
attraverso la sua esistenza di corpo sociale»62. Il capitale, usando le macchine per
la produzione e organizzando quest’ultima secondo criteri scientifici, si appropria
di questo sapere sociale generale gratis, giacché paga solo il tempo di lavoro immediato che costano le macchine o la forza-lavoro dei ricercatori (sociologi del
lavoro, psicologi, scienziati dell’organizzazione e della gestione delle cosiddette
risorse umane ecc.), e la utilizza per i suoi fini, ossia per valorizzarsi e quindi per
accumulare. Ora però, malgrado che per la società il lavoro immediato abbia
cessato di essere la prima fonte della ricchezza, per il capitale, invece, la ricchezza
è sempre derivante dal tempo di lavoro immediato e quindi, in quanto ricchezza
capitalistica, dal pluslavoro, lavoro altrui non pagato, ovvero «furto di tempo di
lavoro altrui»63. E allora ecco che esso utilizza questa nuova forza produttiva, che
è la scienza oggettivata nelle macchine e nell’organizzazione delle attività umane,
per rendere liquida una sempre maggiore quantità di lavoro e così valorizzarsi aumentando lo sfruttamento, tutte cose, queste, che entrano in violenta e insolubile
contraddizione proprio con quelle forze produttive che esso stesso ha nel frattempo sviluppato. I sistemi ergonomici WCM e Ergo-UAS sono scienza e tecnologia,
ossia sapere sociale generale, oggettivati nella combinazione delle attività umane
ossia nella cooperazione, base della produzione del plusvalore relativo. Quindi
il capitale si appropria gratis della scienza incorporata nel sistema ergonomico
57
58
59
60
61
62
63
MEGA 2, II/12, p. 581; tr. it., cit., vol. II, p. 400.
Ibid.
Ibid.; tr. it., cit., vol. II, p. 401.
Ibid.
Ibid.
Ibid.
Ibid.
213
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
e la usa per aumentare la domanda di lavoro verso gli operai già occupati senza
bisogno di aumentare necessariamente la quantità di forze lavorative individuali,
e così l’accumulazione procede ulteriormente. Infatti, migliorando l’ergonomia
grazie a questa applicazione della scienza all’organizzazione del lavoro, aumenta
la “saturazione”, cioè la quantità di lavoro assegnata in un turno, al netto delle
pause e della refezione. L’applicazione del sistema ergonomico, perciò, aumenta
la produttività agendo sull’intensità del lavoro. Ma questo significa aumento del
grado di sfruttamento. Infatti, nell’accordo di Pomigliano è disdetto l’accordo
del 1971 sulle saturazioni «che […] prevedeva una soglia minima di fattore di
riposo non negoziabile – perché legata al rischio da stress lavoro – suddiviso nelle
pause di 40 minuti per turno, più 30 minuti da suddividere nel singolo ciclo di
lavoro, e 30 minuti della pausa mensa»64. Quindi i presunti miglioramenti dei
sistemi ergonomici sul piano strettamente fisico65, si convertono in netti peggioramenti sul piano psicofisico dello stress da lavoro, data la riduzione delle
pause indispensabili al recupero integrale, quindi umano, delle energie e della
forza-lavoro. I 10 minuti di lavoro guadagnati con la riorganizzazione delle pause
sono «monetizzati in una voce retributiva specifica denominata ‘indennità di
prestazione collegata alla presenza’», ed esclusi dal trattamento di fine rapporto.
È qui evidente come il capitale faccia in modo che la sua domanda di lavoro
non significhi necessariamente domanda di operai. Ma questo è possibile solo
perché la pressione della sovrappopolazione operaia eccedente costringe, con la
concorrenza, la parte comandata ovvero occupata a sottomettersi ai dettami del
capitale, dimostrando così come tale sovrappopolazione creata dal capitale sia
una delle leve dell’accumulazione. Questo processo reale si riflette mistificato
nell’ideologia del lavoro contemporaneo che si rifà al “modello Toyota”, teorizzato da Taichi Ohno, invece che al modello di produzione della fabbrica fordista:
entrambi sono applicazioni della scienza e della tecnologia allo sviluppo del capitale fisso (macchine e organizzazione del lavoro), quindi modi in cui il capitale si
appropria della scienza trasformandola in una sua forza produttiva . Lo specifico
della produzione ohnista è produrre senza lasciare scorte di magazzino e senza
errori. Perciò, alla tradizionale linea di montaggio, da monte a valle, essa sosti-
Ivi, p. 28.
La metodologia dei sistemi WCM e Ergo-Uas «non è ancora certificata dalle normative previste per legge, e[d] effettua solo una prima stima, tra l’altro del tutto superficiale, dei rischi per
la salute dei lavoratori» (ibid.).
64
65
214
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
tuisce una linea snella metaforizzata dall’immagine di un tubo, in cui si simula
una domanda a valle da parte del cliente, per soddisfare la quale il team immediatamente contiguo verso monte, a cui è stata fatta la richiesta, richiede a sua
volta il semilavorato al team ancora più a monte e così di seguito. Il rifornimento
di scorte non sta in magazzino ma giunge dai fornitori just in time, «letteralmente ‘’al momento giusto’’. […] per l’ingresso nella linea di fabbricazione o di
montaggio»66 nella quale si opera sulla base della domanda che parte dal cliente.
«Adottando tale processo produttivo si riducono i costi di immagazzinamento,
e quindi si migliora la redditività aziendale»67. La forma della cooperazione in
un siffatto processo lavorativo consiste nell’auto-attivazione del lavoratore, vale
a dire, i tecnici e gli operai manuali presenti nell’Unità tecnologica elementare
(Ute), senza distinzione e separazione tra funzioni direttive intellettuali e funzioni esecutive manuali, come invece avviene nella fabbrica fordista, collaborano
in una comune impresa volta soddisfare le richieste del cliente. Come abbiamo
detto, la presenza effettiva di un cliente che richiede il prodotto è una finzione,
cosicché l’autoattivazione non è altro che l’introiezione, da parte del lavoratore,
delle richieste dall’azienda. Scrive Laura Fiocco a proposito dell’organizzazione
del lavoro alla Fiat di Melfi: «L’intera fabbrica è disseminata di display elettronici,
visibili a tutti, che mostrano in tempo reale i dati relativi alla produzione teorica
e effettiva. Ognuno sa quindi, in ogni momento, l’eventuale scarto tra l’obiettivo
da realizzare e la realtà, ma sa anche (dispositivo panoptico) che ciò significa che
deve attivarsi per “risolvere il problema”. Se l’autoattivazione non scatta autonomamente, cioè se i lavoratori resistono al comando veicolato dal sistema informativo, l’apparente oggettività dei dati rilevati dai display diventa un’arma usata
dai capi Ute per indurre, via premi di produzione e discorsivamente, l’aumento
del flusso della produzione»68. In questo emerge la differenza con il modo il cui
il capitale domina attraverso il processo lavorativo fordista: «Nella fase fordista la
reificazione degli operai era esplicita (legittimata dalla “natura” del sistema tecnologico), lo sfruttamento relativamente visibile, e la piena occupazione, combinata
con il welfare, un obiettivo di “equilibrio” del processo di accumulazione. In quel
contesto le prospettive di un mondo “a misura d’uomo” oscillavano su due fronti
http://economia.tesionline.it/economia/glossario.jsp, Definizione redatta da Giovanni Cantone.
Ibid.
68
L. Fiocco, La cellularizzazione della forza lavoro e le forme di resistenza alla Fiat di Melfi,
http://www.intermarx.com/temi/fiat.html.
66
67
215
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
(strutturalmente determinati): da un lato la liberazione del lavoro (il lavoratore
rivendicava il suo essere persona in quanto lavoratore: l’ideologia del produttore),
dall’altro la liberazione dal lavoro (il rifiuto del lavoro salariato in quanto alienante)»69. Invece nella fabbrica integrata la presunta migliore qualità ergonomica del
lavoro, la volontarietà come carattere fondamentale dell’autoattivazione volta a
soddisfare tutti insieme, tecnici e operai sullo stesso piano, le richieste del cliente,
fanno passare l’idea che nelle mura della fabbrica il lavoro coincida con la vita
stessa: «Ciò che la nuova organizzazione del lavoro sta producendo, in processo, è
una nuova forma del comando e, insieme, una nuova configurazione del soggetto
antagonistico, il che presuppone una dislocazione del discorso che ricomponga il
modo di esistenza dentro la fabbrica con lo spazio di vita: quel “fuori” che la Fiat
vorrebbe ridotto a “prato verde” […]. L’azienda è costretta a dare forma “umana”
al modello direttivo, per cui deve porre i lavoratori come persone, non più come
corpi-macchina della fabbrica fordista. Ma per realizzare i propri fini deve comunque ridurre le persone a lavoratori, cioè porli come meri portatori di ruoli»70.
Qui l’organizzazione capitalistica del lavoro e la sua ideologia celano a malapena
quanto il prato verde fuori della fabbrica sia la condizione e la leva più potente
affinché dentro le mura della fabbrica stessa il lavoratore sia posto come persona e
nello stesso tempo la persona sia ridotta a lavoratore. Infatti, il lavoratore è posto
come persona perché, a differenza che nella fabbrica fordista, deve autoattivarsi,
ossia sentire la fabbrica e il lavoro come la realizzazione “positiva” della sua stessa
vita, e al tempo stesso affinché la persona, proprio in quanto persona, sia un portatore di ruolo, il che di fatto significa: uno strumento del capitale che lo sfrutta.
Ma proprio per questo il “prato verde” è popolatissimo, anzi “sovrappopolatissimo”, da una numerosa riserva di operai in ozio forzoso, la quale preme sul lavoratore-uomo cosicché egli si pieghi alla volontà dell’azienda di ridurlo a uomo-lavoratore, cioè lo costringe a rendere liquida la quantità di lavoro atta a soddisfare
la domanda del capitale in modo che questa non coincida con la domanda di
operai che popolano il “prato verde”. In altri termini, il sovrappopolatissimo e
forzatamente ozioso “prato verde” preme affinché il lavoratore-uomo introietti
la costrizione al lavoro in più del necessario a riprodurre i mezzi di sussistenza
dell’operaio, ossia affinché introietti la costrizione al pluslavoro per arricchire il
Id., L’effetto kanban nell’organizzazione del lavoro alla Fiat di Melfi, http://www.intermarx.
com/temi/fiat/html.
70
Ibid.
69
216
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
capitale, vale a dire introietti proprio la condizione che rende precaria la sua stessa
funzione come mezzo di valorizzazione del capitale, aprendogli continuamente la
prospettiva del soggiorno, legale o clandestino, nel suddetto prato.
Infine, l’accordo di Pomigliano è considerato al punto 13 come un «insieme
integrato, sicché tutte le sue clausole sono correlate e inscindibili tra loro». Di
conseguenza, se le organizzazioni sindacali o le rappresentanze unitarie assumono «comportamenti inidonei a rendere inesigibili le condizioni concordate
per la realizzazione del Piano», l’azienda è liberata «dagli obblighi in materia di
contributi sindacali, permessi sindacali retribuiti» ecc., e la stessa cosa vale per
i comportamenti individuali o collettivi dei lavoratori. Di Luca ha mostrato alcune conseguenze derivanti da se si collega questa clausola all’impostazione del
punto 5, di cui sopra si è detto. Infatti l’assunto da cui tale punto muove è che
l’applicazione del sistema Ergo-UAS elimini i rischi per la salute dei lavoratori,
dato che le postazioni sarebbero progettate in modo ergonomico. Poiché «negli
stabilimenti FIAT sono presenti in media non meno di 1000-1500 lavoratori e
lavoratrici RCL [ridotte capacità lavorative] con gravi patologie muscolo-scheletriche [,] è reale, nel caso un lavoratore non accetti uno spostamento o cambio di
mansione, sia il rischio di sanzioni previste dall’esigibilità dell’Accordo Separato
[…], sia – ed è questo l’aspetto più grave – il licenziamento per incollocabilità»71.
La connessione, notata da Di Luca, tra i punti 13 e 5 dell’Accordo separato,
nonché la clausola del punto 2 sopra ricordata, secondo cui l’aumento di 80 ore
degli straordinari collettivi sta al di fuori delle 40 ore previste dal contratto nazionale e non è negoziabile con i sindacati ovvero con le rappresentanze sindacali
unitarie, rende chiaro che l’impianto del Piano è volto a ridurre la forza politica,
ossia di classe dell’organizzazione operaia, giungendo così, attraverso una prassi
sempre più frequente di deroghe, ad abolire la contrattazione collettiva e tornare
alla contrattazione individuale o localizzata nella singola fabbrica. Ciò si esprime
nell’ideologia dell’organizzazione del lavoro sottesa all’accordo separato, il quale
sta sempre più costituendo il modello delle relazioni capitalistiche odierne: il
carattere di classe e quindi politico del conflitto dei lavoratori con il capitale è
ridotto a, e presentato come, un problema di funzionamento tecnico del processo lavorativo strutturato sulle relazioni discorsive all’interno dell’Ute e perciò
da risolvere discorsivamente tra gli operai-persone, la direzione ecc., secondo il
principio “zero errori” che regola il just in time a tutti i livelli della produzione.
71
A. Di Luca, Da Pomigliano a Mirafiori, cit., p. 22.
217
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Proprio l’ideologia del just in time, ossia della soluzione dei problemi al momento
giusto eliminando gli errori, giustifica la deroga alla contrattazione collettiva e il
suo passaggio a quella individuale e locale, più lean, “snella”. In questa ideologia
è occultato però il fatto che il processo lavorativo è specificamente anche un
processo di valorizzazione del capitale ossia il dispotismo di quest’ultimo sulle
persone-operai. Sotto l’apparenza del discorso negoziale individuale e locale, visto come un processo di soluzione dei problemi just in time, si cela il fatto che,
nel rapporto tra operai e impresa, condizione perché gli operai possano vivere è
che forniscano un quantitativo di tempo lavorativo non pagato dietro l’apparenza
di un libero scambio tra proprietari dei mezzi di produzione e proprietari della
forza-lavoro. Affinché questo quantitativo di lavoro non pagato aumenti continuamente, provvede la pressione che la sovrappopolazione relativa degli operai
costretti a un ozio forzoso esercita sugli operai comandati nella fabbrica. Questa
concorrenza derivante dalla durezza del dominio di classe del capitale, è mistificata dalla teoria del dualismo tra lavoratore-uomo nella fabbrica e “prato verde”.
Perciò con le deroghe alla contrattazione collettiva e il suo spostamento a quella
locale e individuale, il capitale aumenta ancora di più, nella frammentazione, la
concorrenza tra operai occupati e operai disoccupati, ostacolando così la possibilità che essi penetrino il mistero di come mai la loro crescente importanza come
forza produttiva del capitale renda sempre più precaria proprio questa loro funzione, e quindi passino a cooperare sistematicamente tra loro attraverso un’organizzazione unitaria volta ad abbattere o indebolire le conseguenze della presunta
legge naturale della sovrappopolazione.
5. I migranti rivelano la contraddizione dell’universalismo borghese della globalizzazione
Tornando al Testo unico sull’immigrazione, sovrastruttura giuridica di rapporti sociali della globalizzazione capitalistica, dove il valore di scambio si è sviluppato
a mercato mondiale grazie alla centralizzazione dei capitali e alla formazione di
un saggio generale del profitto, noi vediamo, in questa ideale riconducibilità di
tutte le disposizioni ai principi di uguaglianza e di libertà della Costituzione, del
cui articolo 10 il Testo unico vuole essere applicazione, il tentativo di cancellare
le antitesi, in primo luogo quella, fondamentale nella società borghese, tra lavoro
salariato e capitale, da cui discende anche quella, che qui stiamo esaminando, tra le
due parti del proletariato, occupata ed eccedente, antitesi grazie alla quale si libera
218
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
più lavoro per aumentare l’accumulazione capitalistica. Ma ciononostante, queste
antitesi, dove scompare l’apparenza della libertà e dell’uguaglianza, vengono alla
luce e non a caso ciò avviene nella parte del Testo unico dove l’impianto complessivo della normativa sembra andare a scaricare tutti i suoi effetti maggiori, ossia
quella dedicata al lavoro e in particolare al cosiddetto lavoro subordinato, che di
questa materia costituisce la parte più cospicua. Infatti è sotto la dizione di “lavoro
subordinato” che sono inclusi i lavoratori salariati, ossia coloro che «produc[ono] e
valorizza[no] “capitale” e [vengono] gettat[i] sul lastrico non appena [sono] superflu[i] per i bisogni di valorizzazione»72 di esso. In verità la distinzione tra lavoro
subordinato e lavoro autonomo non coincide con quella tra lavoro salariato e lavoro
che non lo è. Nel primo il lavoratore è non-proprietario dei mezzi di produzione
e riceve il salario, in cui è occultato il fatto che per ottenerlo, e così riprodurre la
propria esistenza di operaio, egli è costretto a fornire al capitalista una quantità di
lavoro non pagato per valorizzarne il capitale. Dunque, l’operaio riceve il salario
fin quanto egli serve ai bisogni dell’accumulazione, cosicché è sempre esposto alla
possibilità di essere gettato nella popolazione disoccupata che eccede quei bisogni e
che tuttavia costituisce una leva dell’accumulazione medesima attraverso la concorrenza con la parte occupata. Nel lavoro non salariato il lavoratore o è proprietario
dei mezzi di produzione (poniamo un artigiano o un professionista) o, se non lo
è, comunque non produce il plusvalore e quindi il suo reddito non ha la forma del
salario, giacché ciò che è scambiato con denaro è un servizio utile, come avviene,
per esempio, nel caso di una colf, di una badante che lavora in una famiglia ecc.
La legge mette sotto la categoria di lavoro subordinato anche quest’ultimo genere
di lavori, centrali fra quelli forniti dagli immigrati, in modo da estendere loro la
regolamentazione e le tutele previste per i lavoratori salariati. Ma la parte del lavoro
subordinato (nel nostro caso, migrante) che mostra la contraddizione dei principi
di uguaglianza e libertà, ossia occulta antitesi che costituiscono la struttura stessa
della società borghese, dove proprio uguaglianza e libertà scompaiono, è il lavoro
salariato, cioè quello che crea l’accumulazione del capitale riproducendo contemporaneamente la miseria dell’operaio, grazie al fatto che la leva più potente di questo
processo è la pressione sui salariati da parte dell’esercito industriale di riserva senza
salario, che, sempre nel caso dei migranti, avviene alle frontiere.
L’Articolo 3 del Testo unico prevede che il Presidente del Consiglio dei ministri predisponga con cadenza triennale un programma relativo alla politica di
72
MEGA 2, II/ 10, p. 551; tr. it., cit., p. 673.
219
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato, e, sulla base del documento programmatico, prevede la definizione annuale delle quote massime di
stranieri da ammettere sia per lavoro subordinato e lavoro subordinato di carattere stagionale, sia per lavoro autonomo, di modo che i visti di ingresso e i
permessi di soggiorno per queste tipologie di lavoro siano rilasciati entro il limite
di tali quote. L’articolo 21, tra l’altro, prevede che i decreti annuali tengano conto
dei tassi di occupazione e di disoccupazione sia a livello regionale che nazionale,
e del numero dei cittadini stranieri non appartenenti all’Unione europea iscritti nelle liste di collocamento; prevede un’anagrafe annuale informatizzata delle
offerte di lavoro subordinato e delle richieste di esso da parte dei lavoratori stranieri, stabilisce le modalità di collegamento con l’archivio dell’Istituto nazionale
della previdenza sociale e delle questure: questa anagrafe centralizzata presso il
Ministero del lavoro e delle politiche sociali costituisce la base per predisporre il
decreto annuale articolato in relazione alle effettive richieste di lavoro divise per
regioni e bacini provinciali di utenza. Inoltre le regioni possono trasmettere alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri un rapporto sulla presenza e le condizioni degli immigrati extracomunitari nel territorio regionale con le previsioni sui
«flussi sostenibili nel triennio successivo in rapporto alla capacità di assorbimento
del tessuto sociale e produttivo».
Il fatto che si possa prevedere e controllare i flussi migratori in base all’effettiva proporzione tra domanda e offerta di lavoro, indica che la società è arrivata
a un grado molto avanzato di sviluppo capitalistico, dove l’azione reciproca dei
capitali che migrano da una sfera all’altra a seconda delle variazioni dei saggi del
profitto, provoca il loro livellamento e la trasformazione dei valori in prezzi di
produzione. Ma «il rapporto fra domanda e offerta non può spiegare assolutamente nulla, fino a che non è sviluppata la base su cui gioca questo rapporto»73.
Appena, nello scambio, i valori delle singole merci si livellano in un valore di
mercato, ossia vengono misurate non in base alla quantità di lavoro individuale
che le ha rispettivamente prodotte, ma in base al lavoro sociale medio che la
merce contiene, la domanda è regolata dal bisogno sociale. E quest’ultimo «è condizionato essenzialmente dal rapporto fra le diverse classi e dalla loro rispettiva
posizione economica, vale a dire innanzitutto dal rapporto fra il plusvalore complessivo e il salario, e in secondo luogo dal rapporto fra le diverse parti, nelle quali
73
MEGA 2, II/15 (Text), p. 181; tr. it., cit., p. 224.
220
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
si scompone il plusvalore (profitto, interesse, rendita fondiaria, imposte, ecc.)»74.
Nel caso dell’odierna globalizzazione il bisogno sociale, in quanto è determinato
innanzitutto dal rapporto tra il plusvalore complessivo e il salario compressivo,
è evidentemente determinato dalle esigenze dell’accumulazione capitalistica. E
noi abbiamo visto come una leva decisiva dell’accumulazione sia la formazione,
a opera del capitale, di una sovrappopolazione relativa che preme sulla massa di
operai comandati e così rende possibile una domanda di lavoro che non necessariamente coincide con la domanda di operai. Perciò, malgrado l’articolo 21 determini in generale i flussi di ingresso indipendentemente da se si tratti di lavoro
autonomo o subordinato, è chiaro che è quella sezione del lavoro subordinato
produttrice di un plusvalore sotto l’apparenza di uno scambio semplice, il luogo
in cui si mostrano tutte le antitesi che la forma generale della legge fondata sui
principi dell’uguaglianza e della libertà occulta.
L’articolo 22 disciplina in modo esplicito il lavoro subordinato istituendo
«presso la prefettura-ufficio territoriale del Governo uno sportello unico per
l’immigrazione, responsabile dell’intero procedimento relativo all’assunzione di
lavoratori subordinati stranieri a tempo determinato e indeterminato». Poiché il
cuore del lavoro dipendente è quello salariato, condizionato, nel produrre l’accumulazione del capitale, dalla pressione degli operai eccedenti, è chiaro che
l’istituzione dello sportello unico per l’immigrazione esprime innanzitutto un
grado di centralizzazione e quindi di socializzazione dei capitali, tale che richiede la libertà della forza-lavoro di spostarsi da un luogo all’altro e da un ramo di
produzione all’altro senza confini etnici o razziali e senza ostacoli tradizionali, in
corrispondenza degli incessanti spostamenti di capitale da un ramo di produzione all’altro, che livellano i saggi del profitto. In questo quadro la programmazione della domanda e dell’offerta di lavoro è centralizzata in un unico organismo
che fa capo direttamente al potere esecutivo in coerenza con la programmazione
triennale della politica dell’immigrazione, prevista dall’articolo 3, e con la determinazione annuale, su questa base, delle quote di immigrati da assorbire nell’anno in questione. Sempre l’articolo 3 dice che il documento programmatico deve
indicare «le azioni e gli interventi che lo Stato italiano, anche in cooperazione
con gli Stati membri dell’Unione europea, con le organizzazioni internazionali,
con le istituzioni comunitarie e con organizzazioni non governative, si propone
di svolgere in materia di immigrazione, anche mediante la conclusione di accor-
74
Ibid.
221
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
di con i Paesi di origine», così come deve prevedere «ogni possibile strumento
per un positivo reinserimento nei Paesi di origine». L’articolo 21 prevede l’assegnazione di quote preferenziali agli Stati non appartenenti all’Unione europea
con cui siano stati conclusi accordi per regolamentare i flussi di ingresso e le
procedure di riammissione, ed eventualmente accordi per i flussi di lavoro stagionale. Questi accordi, unitamente alla centralizzazione della programmazione
dei flussi migratori e delle quote di ingresso in relazione all’effettiva domanda di
lavoro, esprimendo l’esigenza di regolamentare sempre più su scala mondiale la
domanda e l’offerta di lavoro, sono l’indice della tendenziale centralizzazione dei
capitali, dei livellamenti dei saggi del profitto, ecc., insomma del carattere sempre
più manifestamente sociale della produzione capitalistica. Proprio alla luce di tali
processi di centralizzazione della gestione della domanda e dell’offerta di lavoro a
livello statale e comunitario, e attraverso accordi con Stati non comunitari, si può
vedere come la domanda e l’offerta di lavoro siano regolate e costrette dalla legge
niente affatto naturale della sovrappopolazione relativa, la quale agisce entro i limiti richiesti dalle esigenze della valorizzazione del capitale, cioè dalla sua brama
di sfruttamento e smania di dominio, come abbiamo sopra visto. In tal modo
si può comprendere l’organicità delle migrazioni planetarie al mercato mondiale
della globalizzazione capitalistica.
In questo quadro, condizionato dal funzionamento dalla legge della sovrappopolazione relativa, leva del processo di accumulazione capitalistico giunto alla
creazione del mercato mondiale della globalizzazione, vanno viste, a mio avviso,
anche le norme rigidissime sull’immigrazione clandestina contenute nel Testo
unico. Il principio resta sempre quello generale secondo cui il respingimento avviene per tutti coloro che non sono in regola con la documentazione richiesta per
l’ingresso nello Stato, e a tale scopo è previsto il potenziamento e il coordinamento dei controlli di frontiera. Dunque, la generalizzazione del principio per tutti
gli stranieri, lavoratori e non, lavoratori autonomi e subordinati, cela contraddizioni più profonde che hanno la radice nelle condizioni reali dell’accumulazione
capitalistica, vale a dire nel conflitto tra la classe dei capitalisti e la classe degli
operai, siano essi occupati o disoccupati, e nella produzione capitalistica della
sovrappopolazione relativa che mette le due parti della classe operaia l’una contro
l’altra. Le modificazioni intervenute con le legge Bossi-Fini e con il Pacchetto
sicurezza intensificano, all’articolo 10-bis, le punizioni pecuniarie per coloro che
illegalmente soggiornano nel territorio dello Stato, unificano più strettamente
il controllo delle frontiere in base all’Accordo di Schengen (articolo 11, comma
1-bis) e sottolineano ancora di più la finalità della collaborazione tra i paesi in222
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
teressati, ossia il «contrasto all’immigrazione clandestina» (articolo 11, comma
4). Le misure contro questo tipo di immigrazione riguardano, da un lato, coloro
che favoriscono il traffico clandestino di migranti per motivi di arricchimento e
i datori di lavoro che assumono immigrati non in regola con il permesso di soggiorno e, dall’altro, l’immigrato clandestino stesso. Con ciò si vede subito che il
cuore del problema sono i lavoratori subordinati e tra questi i lavoratori salariati,
ossia sottomessi al capitale, sotto la cui schiavitù producono i mezzi per rendere
se stessi eccedenti, e così mediante la concorrenza premere sui salariati, in modo
che il capitale sprema da questi ultimi più lavoro per accumularsi. Perciò la parte
più significativa del Testo unico finisce con l’essere, al solito, quella che concerne
il migrante “clandestino”, potenziale o attuale, che nella globalizzazione è parte
centrale dell’esercito industriale di riserva. In riferimento a questa leva decisiva
dell’accumulazione va colta, a mio avviso, una connessione stretta tra i forti interventi repressivi verso l’immigrazione clandestina e alcuni interventi educativi,
parimenti previsti dalla legge, riguardanti da un lato l’integrazione degli immigrati con lavoro e permesso di soggiorno nello Stato e, dall’altro, il riconoscimento del valore delle culture, religioni e razze che i migranti portano con sé.
Per quanto riguarda i datori di lavoro, al solito, il Testo unico fa discendere
la disciplina specifica da quella riguardante in generale gli obblighi di chi ospita un immigrato, non importa in quale veste. L’articolo 7 prescrive a chiunque
dia alloggio o ospitalità «a straniero o apolide, anche se parente o affine», o gli
dia in godimento immobili nel territorio dello Stato, di darne comunicazione
entro quarantotto ore all’autorità locale di pubblica sicurezza, dichiarando gli
estremi dei documenti e l’esatta ubicazione dell’immobile eventualmente ceduto, e sanziona amministrativamente chi viola questa disposizione generale. Da
questa prescrizione generale, presa dal Regio Decreto n. 773 del 18 giugno 1931,
discende la normativa contro l’immigrazione clandestina. L’articolo 12 prevede
arresto e multa per chi «in violazione del presente Testo unico, promuove, dirige,
organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato
ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio
dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha
titolo di residenza permanente». La pena è aggravata quando il fatto riguarda
l’ingresso o la permanenza illegale nello Stato di cinque o più persone, quando la
persona trasportata è esposta a pericolo di vita (è quello che accade con il traffico
clandestino in modo caratteristico nel canale di Sicilia o nel canale d’Otranto),
o è stata oggetto di trattamento inumano, quando vi è concorso di più persone nell’organizzazione del trasporto, finanziamento ecc., quando gli autori del
223
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
fatto criminoso abbiano disponibilità di armi o esplosivi, e quando i reati sono
commessi per reclutamento ai fini della prostituzione, dello sfruttamento sessuale o lavorativo, per favorire l’ingresso di minori da usare in attività illecite o
comunque a fini di sfruttamento. La reclusione è prevista anche per chi, «al fine
di trarre ingiusto profitto», dà alloggio o fitta un immobile allo straniero privo
del titolo di soggiorno. Infine l’articolo disciplina le modalità di intervento delle
navi in sevizio di polizia e della Marina Militare in base alle loro diverse competenze per quanto riguarda le acque territoriali e quelle non territoriali, nel caso
si abbia «fondato sospetto di ritenere» che una nave «sia adibita o coinvolta nel
trasporto illecito di migranti». E finalmente, venendo al lavoro subordinato, l’articolo 22 prescrive al datore di lavoro che voglia assumere un lavoratore residente
all’estero a tempo determinato o indeterminato, di presentare al locale sportello
per l’immigrazione la «documentazione relativa alle modalità di sistemazione
alloggiativa» di questo lavoratore e «la proposta di contratto di soggiorno con la
specificazione delle relative condizioni, comprensiva dell’impegno al pagamento
da parte dello stesso datore di lavoro delle spese di ritorno dello straniero nel
Paese di provenienza». Punisce infine molto duramente, con la reclusione fino
a tre anni e una multa di 5000 euro per ogni lavoratore impiegato, il datore di
lavoro che impiega lavoratori – siano essi a tempo determinato, indeterminato e
stagionali (articolo 24) – che non hanno il permesso di soggiorno o a cui questo
sia scaduto, revocato o annullato.
L’articolo 13 regola le modalità dell’espulsione per motivi di ordine pubblico
oppure assenza del premesso di soggiorno quando lo straniero si trova sottoposto
a procedimento penale, con tutta la connessa casistica (comma 3), i casi in cui
l’espulsione deve essere eseguita con l’accompagnamento alla frontiera per mezzo
della forza pubblica, i casi di partenza volontaria, ecc. Ma dove si mostra con più
evidenza come le misure repressive relative all’espulsione, malgrado la normativa
riguardi tutti gli stranieri che soggiornano nello Stato non muniti dei documenti
richiesti, vadano a ricadere in particolare sui migranti che costituiscono o debbono costituire la sovrappopolazione operaia relativa, è nell’articolo 14 comma
1: «Quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera o il respingimento, a causa di situazioni transitorie
che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l’effettuazione dell’allontanamento, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente
necessario presso il centro di identificazione ed espulsione più vicino, tra quelli
individuati o costituiti con decreto del Ministero dell’Interno ecc.». La misura restrittiva deve essere convalidata dal giudice di pace e comporta la permanenza nel
224
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
centro per trenta giorni, salvo prolungamento di ulteriori trenta nel caso in cui
l’accertamento dell’identità o della nazionalità, e l’acquisizione dei documenti di
viaggio presentino «gravi difficoltà». Le ulteriori proroghe della permanenza per
la sussistenza delle stesse difficoltà, giungono fino a un periodo massimo complessivo di trattenimento non superiore a centottanta giorni. Ma, come specifica
il comma 5, se, compiuto «ogni ragionevole sforzo», non è stato possibile eseguire
l’espulsione o perché c’è una mancata cooperazione al rimpatrio da parte del
Paese terzo interessato o c’è un ulteriore ritardo nell’ottenimento della necessaria
documentazione da parte di questi Paesi terzi, «il questore può richiedere al giudice di pace la proroga del trattenimento, di volta in volta, per periodi non superiori a sessanta giorni, fino ad un termine massimo di ulteriori dodici mesi». Lo
straniero che si allontana indebitamente dal centro di identificazione ed espulsione incorre nel ripristino forzato del trattenimento «mediante l’adozione di un
nuovo provvedimento di trattenimento», da computare secondo i termini, prima
descritti, dell’articolo 13, comma 5. Il comma 2 dell’articolo 14 prescrive che lo
straniero trattenuto nel centro di identificazione ed espulsione debba ricevere «la
necessaria assistenza» ed essere trattato «nel pieno rispetto della sua dignità» e che
ci sia libertà di corrispondenza epistolare e telefonica con l’esterno.
Orbene, poiché la maggior parte della popolazione migrante è quella che
esegue un lavoro subordinato, vale a dire riguarda il punto critico intorno a cui
ruota tutta questa legislazione; e poiché, nella nostra impostazione, il lavoro subordinato ha come punto critico il lavoro salariato e la sovrappopolazione che
funge da leva dell’accumulazione capitalistica: è chiaro che il carattere così ferocemente repressivo delle misure a cui sono soggetti i migranti clandestini, è
funzionale a mantenere netta la divisione e la contrapposizione tra migranti in
possesso di contratto di lavoro e quindi di permesso di soggiorno, e migranti
che non hanno lavoro, quindi documenti, e aspirano ad avere entrambe le cose.
In tal modo la legge crea condizioni favorevolissime perché il capitale utilizzi la
pressione che i migranti senza libretto di lavoro, insieme con tutti i disoccupati residenti nello Stato, fanno su tutti gli operai occupati, migranti e non, per
renderne le condizioni sempre più precarie quanto più essi sono essenziali alla
valorizzazione del capitale. Ovviamente la pressione è ulteriormente accresciuta
dalla concorrenza, all’interno dell’esercito industriale di riserva, tra migranti e
disoccupati residenti, i quali, sotto la pressione dei primi, aumentano la disponibilità, qualora dovessero trovare lavoro, a farsi sfruttare dal capitale a condizioni
ancora peggiori e così premono sugli operai occupati, i quali, di conseguenza,
sono disposti a rendere liquide quantità sempre maggiori di lavoro per il capitale.
225
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Perciò migranti irregolari e migranti regolari nella loro contrapposizione – creata
dal capitale e favorita dal Testo unico, espressione giuridica del dominio di classe
della borghesia su tutta la società – sono momenti del movimento complessivo
della forza-lavoro essenziale a tutto il funzionamento dell’accumulazione capitalistica, dove la domanda e l’offerta di lavoro sono regolate dalla pressione della
sovrappopolazione relativa, cioè di chi sta fuori dalla fabbrica e, nel caso dei
migranti, di chi non ha il permesso di soggiorno perché non ha lavoro. Allora, le
“gravi difficoltà” per l’identificazione, le quali portano alla permanenza nel centro di identificazione ed espulsione a tempi lunghissimi, non sono l’eccezione, ma
la regola: infatti questi migranti clandestini sono semplicemente non-proprietari
di mezzi di produzione eccetto la loro forza-lavoro, pronta a essere venduta per le
esigenze di accumulazione capitalistica, quindi per essere spremuta al massimo.
Se essi non trovano un capitalista a cui vendersi per farsi derubare di pluslavoro
ossia di tempo di lavoro oltre il necessario per vivere, non hanno alternativa che
mendicare o andare a rubare (non certo pluslavoro, ma valori d’uso altrui). Partiti
o fuggiti dai loro paesi e costretti a cadere nella schiavitù del capitale mascherata
dietro le leggi del libero scambio, essi non hanno nulla da perdere, quindi nessunissimo vantaggio a ritornare nei paesi di origine, il cui rapporto con lo Stato
europeo di destinazione consiste nella piena complementarietà e interdipendenza
tra mancata collaborazione e disponibilità a collaborare, dato che tutto dipende dal modo in cui la legge capitalistica della sovrappopolazione condiziona la
domanda e l’offerta di lavoro in ciascuno di quei paesi, dall’eventuale presenza
in essi di rapporti direttamente schiavistici, oppure di condizioni tali che, in
caso di collaborazione, i migranti rimpatriati ritornano alla miseria da cui erano
fuggiti o addirittura vengono imprigionati replicando la condizione dei centri
di identificazione ed espulsione. Di conseguenza questi migranti, venditori di
nuda forza-lavoro, non ritorneranno mai nei paesi di origine, dove è loro chiaro
il destino che li aspetta, ma fuggire dal centro di identificazione ed espulsione
e tentare la clandestinità rappresentano la scelta obbligata. In questo modo si
crea un circolo per cui più si intensificano le misure contro la clandestinità, che
hanno la funzione di accrescere la contrapposizione complessiva tra operai occupati e sovrappopolazione relativa, affinché la seconda eserciti la pressione sulla
prima, e più la clandestinità aumenta. Appare chiaro come il tentativo del Testo
unico di cancellare idealmente le antitesi materiali tra capitale e lavoro salariato,
attraverso il richiamo a gravi difficoltà che giustificano la permanenza nei centri
di identificazione ed espulsione o attraverso la richiesta di dare ai clandestini lì
trattenuti l’assistenza necessaria, di rispettare la loro dignità e assicurare la libertà
226
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
di comunicazione con l’esterno; insomma, come il richiamo del Testo unico in
ultima istanza ai diritti umani fondamentali, si vanifichi nell’atto stesso dell’applicazione della legge, data la presenza dei rapporti borghesi di produzione di cui
essa è espressione. Volendo combattere la clandestinità, essa il clandestino finisce
col crearlo, perché l’accumulazione capitalistica stessa regola la domanda e l’offerta di lavoro in base alla pressione sugli operai occupati da parte della sovrappopolazione relativa creata su misura, quindi – per quel che riguarda i migranti
– sulla base della contrapposizione tra regolari e clandestini, contrapposizione
che nel Testo unico si riflette nella divisione tra dentro e fuori dello Stato. E di
conseguenza i trafficanti di potenziali schiavi salariati clandestini, malgrado le
dure pene che li colpiscono, si riproducono incessantemente, giacché essi fanno
per il capitale il lavoro sporco di procurargli una sezione cospicua di sovrappopolazione illegale che possa fare da leva per l’accumulazione, aumentando la pressione sugli occupati legali, data la disponibilità dei clandestini a darsi in schiavitù
al capitale a qualsiasi prezzo, perché ciò è meglio che accettare le condizioni di
vita dalle quali essi sono fuggiti. E in conseguenza di questa riproduzione, o produzione continua, di clandestinità, si ha un inasprimento ulteriore delle misure
repressive rispetto a cui riparte la spirale che crea nuova clandestinità. Così, la
classe dei capitalisti che dà al suo dominio come classe un’espressione universale
nella legge, trova alimento proprio nell’illegalità di una parte della sua classe – i
mercanti di potenziali schiavi salariati – e nei fatti la promuove. Ma il reciproco
condizionarsi e generarsi di legalità e illegalità è una caratteristica della società
borghese, perché, essendo il capitale la contraddizione in processo esso stesso,
anche la manifestazione giuridica del suo dominio sulla società deve rifletterne
questo carattere contraddittorio.
È dunque evidente che questo Testo unico non ha di mira l’esclusione o la
discriminazione dello straniero per motivi di razza, sesso, cultura ecc., ma segnatamente l’immigrazione clandestina, obiettivo venuto sempre più in primo piano
nell’evoluzione dalla legge n. 40/1998, alla n. 189/2002, alla n. 94/2009. In ciò
si rivela il carattere specificamente borghese di questa legislazione. Condizione
dell’ingresso e della permanenza nello Stato, dunque, non è l’appartenenza a
una razza, a una cultura o l’avere dei caratteri sessuali determinati – anzi, come
abbiamo visto, questo tipo di discriminazione la legge idealmente combatte –,
bensì l’avere dei mezzi di sostentamento nel periodo di soggiorno nel territorio
dello Stato e dei mezzi per il rientro nei paesi di origine, o avendoli già in proprio,
oppure potendoli ottenere meditante il lavoro. Capovolgendo nell’idea l’ordine
reale, perché deve occultare l’antitesi fondamentale tra capitale e lavoro salariato
227
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
sotto una veste universale che esprima il dominio della borghesia come classe, la
legge parte dal legame inscindibile tra concessione del visto d’ingresso e dimostrazione che si è in grado di mantenersi durante il soggiorno, per arrivare alla
connessione tra l’avere un lavoro di qualunque tipo, autonomo o subordinato –
quest’ultimo a tempo determinato, indeterminato o stagionale –, e concessione
del permesso di soggiorno. L’ipotesi su cui ci siamo mossi è che i flussi migratori
nella globalizzazione si muovono sullo sfondo della legge capitalistica della popolazione, secondo cui la sovrappopolazione operaia, leva dell’accumulazione capitalistica, è un prodotto dell’accumulazione stessa, e perciò appartiene al capitale
come se esso l’avesse allevata a sue spese (mentre è la stessa popolazione operaia
che, producendo l’accumulazione, lavora per rendersi eccedente); in tal modo il
capitale ha sempre a disposizione, per i suoi bisogni di valorizzazione, il materiale
umano da sfruttare indipendentemente dai limiti dall’aumento naturale della
popolazione. Ma nel momento in cui il capitale estende il dominio della sua
forma di produzione su tutta la società, quindi i borghesi dominano come classe
dando espressione al loro dominio nella legge e organizzandosi come Stato, ecco
che si crea una contraddizione insormontabile, la quale mostra tutto il limite
storico del capitale e spinge alla sua soppressione. L’aumento della sovrappopolazione relativa, disoccupata, e la sempre maggiore precarizzazione delle condizioni
di esistenza anche degli operai occupati in modo direttamente proporzionale
alla ricchezza che essi creano, non possono fare altro che accrescere la povertà
della stragrande maggioranza (la povertà qui è intesa relativamente all’aumento
della ricchezza come capitale, quindi ricchezza per pochi). Così, mentre nelle
altre società basate sul contrasto tra classi di oppressori e classi di oppressi, gli
oppressori, proprio per poter opprimere e sfruttare la classe oppressa, le assicurano «condizioni entro le quali essa possa per lo meno stentare la sua esistenza
di schiava»75, viceversa, sotto il dominio del capitale la classe oppressa, composta
di operai occupati e disoccupati tra loro in concorrenza, si immiserisce sempre
più. Infatti il servo della gleba, proprio lavorando nella sua condizione di servo
della gleba, poté poi elevarsi a membro del comune, e il cittadino del popolo
minuto poté elevarsi a borghese all’interno del rapporto di soggezione feudale.
Invece nella società capitalistica più l’industria progredisce e meno l’operaio si
può elevare, anzi «scende sempre più in basso al disotto delle condizioni della sua
75
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 4, cit., p. 473; tr. it., Manifesto del Partito Comunista, Bari
1995, p. 103.
228
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
propria classe»76. Da ciò consegue che mentre le altre classi dominanti erano in
grado di riprodursi come tali perché dentro le condizioni di oppressione davano
all’oppresso la possibilità di progredire ed elevarsi, viceversa la classe dominante
borghese più accumula ricchezza ed estende il suo domino su tutta la società, più
non è in grado di assicurare l’elevazione dell’oppresso entro l’oppressione stessa,
e ciò è eclatante perché l’impoverimento e la degradazione dell’oppresso e, di
conseguenza, questa incapacità di mantenere la società intera si hanno quanto
più aumenta la ricchezza prodotta. Così mentre le altre classi dominanti, assicurando all’oppresso una possibilità di elevarsi entro le condizioni di oppressione,
facevano sì che l’oppresso le potesse nutrire e quindi quelle classi potessero restare
dominanti, viceversa la classe borghese, «invece di esser […] nutrita»77 dall’operaio, «è costretta a nutrirlo»78, poiché il suo dominio produce solo una povertà
alla quale non può far fronte, date le leggi di funzionamento che abbiamo visto all’opera nella produzione capitalistica della sovrappopolazione relativa come
condizione di accumulazione e quindi di esistenza del capitale. «Da tutto ciò appare manifesto che la borghesia non è in grado di rimanere ancora più a lungo la
classe dominante della società e di imporre alla società le condizioni di vita della
propria classe come legge regolatrice […]. La società non può più vivere sotto la
classe borghese, vale a dire la vita della classe borghese non è più compatibile con
la società»79, la quale può esistere e riprodursi umanamente solo abbattendo le
condizioni materiali di esistenza borghesi.
Questo passo di Engels e Marx dà, a mio avviso, la chiave per comprendere
la ragione della legislazione contro l’immigrazione clandestina sullo sfondo della
legge capitalistica della popolazione. Condizione perché la sovrappopolazione relativa, creata dal capitale stesso, possa costituire la leva dell’accumulazione, dunque
della produzione di ricchezza, è che essa sprofondi in una sempre maggiore miseria,
grazie alla quale l’operaio disoccupato può aumentare la propria disponibilità a
farsi sfruttare e quindi accrescere la pressione sugli operai occupati affinché eroghino più lavoro per il capitale senza che quest’ultimo abbia bisogno di più operai.
Ma così si crea una situazione in cui la stessa classe borghese, che ha “allevato”
una sovrappopolazione necessariamente sempre più povera come condizione per
76
77
78
79
Ibid.
Ibid.
Ibid.
Ibid.; tr. it., cit., pp. 103-104.
229
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
valorizzare il capitale, nella misura in cui vuole essere classe dominante sull’intera
società e deve mantenersi come tale, dovrebbe nutrire tale popolazione eccedente,
altrimenti quest’ultima morirebbe e così il capitale perderebbe la leva fondamentale
dell’accumulazione, giacché la sola riproduzione della specie da parte degli operai
occupati – sempre più decrescenti di numero – prevista nel salario, non basterebbe a rimpiazzare la sovrappopolazione in misura conveniente ai suoi bisogni di
sfruttamento e di dominio. Ma ciò entrerebbe a sua volta in contraddizione con
lo stesso presupposto su cui questa sovrappopolazione relativa è stata creata, ossia
quella di avere una massa di senza lavoro e quindi di senza mezzi di sussistenza,
come condizione grazie alla quale coloro che hanno lavoro e quindi mezzi di sussistenza possano essere messi sotto pressione e lavorare di più per il capitale, la qual
cosa, lungi dal garantirne, ne rende la sussistenza stessa sempre più problematica.
Insomma il capitale deve, al tempo stesso, produrre una sovrappopolazione senza
mezzi di sussistenza come leva della sua accumulazione e al tempo stesso, per poterla mantenere in vita come leva dell’accumulazione, dovrebbe nutrirla, cioè negarne
proprio quella condizione di povertà che la fa essere una tale leva; insomma, perché
la popolazione eccedente possa adempiere alla sua funzione per la brama di sfruttamento e di dominio del capitale, dovrebbe essere da esso non nutrita e nello stesso
tempo nutrita! Questa contraddizione insormontabile dimostra che il capitale, più
diventa la forma di produzione dominante, più è incapace di dominare e quindi
deve essere superato. Ritengo che questa sia la contraddizione che sta alla base di
tutto quello che si chiama welfare e che riguarda la sanità, l’istruzione, l’alloggio
ecc. Nel salario, oltre al sostentamento e quindi alla riproduzione della forza-lavoro dell’operaio, è inclusa anche la sua «moltiplicazione»80, altrimenti non sarebbe
possibile passare dalla riproduzione semplice a quella allargata ossia all’accumulazione: le «forze-lavoro addizionali, che gli vengono fornite annualmente dalla classe
operaia in differenti stadi di età, debbono ormai soltanto essere incorporate dal
capitale ai mezzi di produzione addizionali già contenuti nella produzione annua
[...]. Considerata in concreto, l’accumulazione si risolve in riproduzione del capitale
su scala progressiva»81. Viceversa, nel caso della popolazione disoccupata, il capitale è costretto a erogare gratis le condizioni di “allevamento”, se deve dominare
su tutta la società e quindi mantenere i poveri, decisivi per far funzionare la sua
legge della sovrappopolazione, leva dell’accumulazione. Ma in tal modo esso con-
80
81
MEGA 2, II/ 10, p. 520; tr. it., cit., p. 637.
Ibid.
230
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
traddice proprio quella sua legge che regola l’accumulazione medesima, ossia la
sua stessa esistenza come forma di produzione dominante, cosicché esso si mostra
incapace di dominare. Perciò, il problema degli ammortizzatori sociali costituisce
non la spina, bensì la vera e propria piaga mortale nella carne del capitale e del suo
Stato, l’essenza di tutto il suo movimento contraddittorio, perché sono una spesa
improduttiva della quale, d’altra parte, non può fare a meno. Infatti esso è costretto
comunque a nutrire la maggioranza della classe oppressa ossia la sovrappopolazione
che ha creato, o tenendola in “libertà”, oppure, dato che la fame obbliga a rubare
o fare rapine, tenendola in galera e quindi spendendo in misura anche maggiore
in apparati repressivi e di sicurezza. Dentro o fuori di galera, comunque esso deve
nutrire la classe oppressa invece di venire da essa nutrita, quindi comunque deve
fare questa spesa irrazionale dal punto di vista delle sue condizioni di produttività,
il che significa, in un modo o in un altro, andare verso il suicidio. Più che mai la
legge capitalistica della popolazione mostra che il capitale è la contraddizione in
processo esso stesso, che, quindi, spinge alla sua soppressione.
È allora evidente la ragione del legame stretto che il Testo unico stabilisce tra
documentazione relativa al contratto di lavoro e permesso di soggiorno, nel quadro più generale del nesso tra visto d’ingresso e possibilità di mantenersi economicamente – quadro, però, in cui è chiaro che il punto dove si mostrano tutte le
contraddizioni è il rapporto antagonistico tra capitale e lavoro salariato. Un’immigrazione al di fuori del legame stretto fra permesso di soggiorno e “libretto
di lavoro” o, genericamente, disponibilità di mezzi di sussistenza nel periodo di
permanenza nello Stato, non farebbe che accelerare la contraddizione interna
alla legge capitalistica della popolazione sopra esposta, in quanto aumenterebbe
l’incapacità del capitale di essere classe dominante, mettendo così ancora più
in evidenza il danno che la stessa esistenza della classe borghese costituisce per
tutta la società e la necessità di sopprimere la forma di produzione capitalistica.
L’immigrato senza lavoro accrescerebbe ulteriormente quella sovrappopolazione
relativa che la classe borghese sarebbe costretta a nutrire o in stato di “libertà” o
in prigione, perché anche per l’immigrato senza lavoro – anzi, ancor di più per
lui, dato il suo maggiore isolamento – si prospetterebbe la necessità di andare a
fare furti o rapine per vivere. È per questo motivo che l’obiettivo del Testo unico,
nel corso della sua evoluzione, si va precisare sempre più nella lotta all’immigrazione clandestina fino alla sua criminalizzazione. Si vede qui il carattere prettamente borghese di questa legislazione: non distinzioni o discriminazioni razziali,
sessuali, culturali ecc., costituiscono idealmente (solo idealmente) i motivi delle
limitazioni d’ingresso e soggiorno per gli stranieri extracomunitari, perché se
231
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
fossero questi i motivi, sarebbero presupposte o una forma sociale precapitalistica
o una non ancora pienamente sviluppata in senso capitalistico, dove gli individui
sarebbero inibiti nella loro libertà di movimento dalla persistenza di vincoli naturali o comunitari, e da vincoli protezionistici. Tutto ciò non sarebbe affatto compatibile con le condizioni di produzione presupposte al mercato mondiale della
globalizzazione, ossia la centralizzazione dei capitali, il livellamento dei saggi del
profitto ecc. La ragione di questa normativa sull’immigrazione sta invece nel carattere peculiare dell’economia capitalistica, vale a dire nella contraddizione che
caratterizza questo modo di produzione in ogni suo punto. Come abbiamo visto,
il ruolo decisivo dei migranti all’interno della sovrappopolazione relativa che,
attraverso la concorrenza, preme sulla popolazione occupata, – dunque il ruolo
decisivo dei migranti ai fini dell’accumulazione capitalistica odierna – consiste
nel fatto che i clandestini (ossia coloro che non hanno lavoro e quindi non hanno
il permesso di soggiorno) sono disposti a vendersi a qualunque prezzo, perciò
intensificano quella pressione sugli operai occupati utilizzabile dal capitale per
sfruttarli fino all’ultima goccia di sangue, di modo che lavorino sempre di più,
per poi diventare, in conseguenza di ciò, ancora più esposti al rischio di perdere
il lavoro, giacché l’aumento di produttività, che si genera con questo loro intensificato lavoro, finisce col renderli superflui. Perciò abbiamo visto che lo stesso
capitale, con il suo Stato e la sua legislazione contro l’immigrazione clandestina,
riproduce i clandestini stessi e, insieme, quegli stessi trafficanti di schiavi che
intenderebbe punire così severamente. Ma per combattere l’accresciuta clandestinità, bisogna intensificare ulteriormente le misure repressive e di conseguenza
aumenta esponenzialmente la spesa per i centri di identificazione ed espulsione,
per la sorveglianza delle frontiere terrestri e marittime, dunque per l’impiego di
navi, per il potenziamento o la costruzione di nuovi posti di polizia ecc. E poiché
i migranti preferiscono non rientrare nei paesi di origine, la loro permanenza nei
centri di identificazioni ed espulsione si prolunga, i casi di clandestinità aumentano, e la considerazione della clandestinità come reato provoca l’affollamento
delle prigioni e fa salire i costi per mantenerle o costruirne di nuove. Così, mai
come nel caso dell’immigrazione si conferma che mentre nelle altre società fondate sull’antagonismo di classe quella dominante opprime per mantenersi a spese
degli oppressi e quindi dominare, invece la società borghese precisamente questo
non è in grado di fare, cioè non è in grado proprio di mantenere il suo dominio a
spese degli oppressi, ma, volente o nolente, deve essere essa stessa a mantenere gli
oppressi, indifferentemente se con la carota o con il bastone. E poiché il capitale
ha distrutto in profondità tutte le condizioni perché quelle precedenti forme di
232
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
produzione possano ritornare, questa sua incapacità a dominare e quindi a farsi
mantenere dagli oppressi, non lascia altra possibilità che passare a una forma di
società che si riproduca senza necessità di fondarsi sulla divisione antagonistica
tra oppressori e oppressi.
6. La contraddizione dei concetti di integrazione e multiculturalità
Accanto alle misure repressive contro l’immigrazione clandestina, gradualmente aggravate man mano che sulla premessa della legge n. 40 si inserivano le successive legislazioni, compaiono disposizioni legislative volte all’integrazione sociale
dell’immigrato insieme all’educazione alla multiculturalità, a cui è dato particolare
peso. La prima legislazione del Testo unico, risalente alla legge n. 40, nel documento programmatico triennale del governo, relativo alla politica dell’immigrazione,
individua anche «gli interventi pubblici volti a favorire le relazioni familiari, l’inserimento sociale e l’integrazione culturale degli stranieri residenti in Italia» (articolo
3, comma 3). Il Titolo V, oltre a disposizioni in materia sanitaria, di istruzione,
alloggio, e partecipazione alla vita pubblica, ne prevede anche di relative all’integrazione sociale. Indica che la scuola deve accogliere le differenze linguistiche, lo
scambio e la tolleranza di e tra culture, l’organizzazione di attività interculturali
comuni (articolo 38). L’articolo 42 prevede corsi di lingua e cultura di origine per
gli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia, «la diffusione di ogni informazione
utile al positivo inserimento degli stranieri nella società italiana», «la conoscenza e
la valorizzazione delle espressioni culturali, ricreative, sociali, economiche e religiose degli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia», l’informazione sulle cause
dell’immigrazione e la prevenzione di discriminazioni razziali e della xenofobia,
«corsi di formazione, ispirati a criteri di convivenza in una società multiculturale». La coerenza ideale di queste disposizioni tende a mostrare che l’integrazione
nella società italiana, quindi l’assimilazione dei valori culturali della Costituzione,
non solo non eliminerebbe le pluralità delle culture e delle lingue di origine degli
stranieri extracomunitari soggiornanti in Italia, ma le valorizzerebbe e renderebbe
possibili una convivenza pluralistica e una reciproca integrazione.
Ma ecco il punto: tali iniziative che uniscono sia integrazione, sia multi- e interculturalità, sono rivolte al cittadino straniero extracomunitario regolarmente
soggiornante in Italia, quindi presuppongono il permesso di soggiorno o documento equipollente. La richiesta di permesso di soggiorno che, escludendo ogni
discriminazione razziale, religiosa, sessuale ecc., idealmente non contraddice l’u233
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
niversalismo borghese fondato sui diritti umani, in realtà riproduce quelle discriminazioni nel punto critico intorno a cui la legislazione sull’immigrazione ruota,
ossia la regolamentazione dei flussi migratori riguardanti il lavoro subordinato,
la cui gran parte è costituita dal lavoro salariato. Infatti, come abbiamo visto, è
qui che agisce la legge capitalistica della sovrappopolazione, e nello specifico del
lavoro migrante ciò significa che la domanda e l’offerta di lavoro sono tenute entro i limiti convenienti alla brama di sfruttamento del capitale proprio da coloro
che premono “fuori” dai confini. Nel caso della clandestinità il fuori può essere
anche un dentro, ma è un dentro creato dal capitale e dalla sua legislazione come
un fuori. E se la pressione del “fuori”, costituito dalla sovrappopolazione, agisce
col rendere la domanda di lavoro indipendente da quella di operai e quindi col
rendere liquida una maggior quantità di lavoro e di sfruttamento nel “dentro”,
costituito dai lavoratori occupati, ecco che l’integrazione di fatto finisce col servire all’acquisizione della disciplina del lavoro ossia alla sottomissione al capitale
e alle sue esigenze di accumulazione. Infatti il possesso del permesso di soggiorno
diventa una necessità per lavorare e quindi per vivere. Ma lavorare per vivere implica lavorare per produrre l’accumulazione del capitale, quindi fornirgli costrittivamente sempre più lavoro non pagato, e attraverso di questo creare le condizioni più favorevoli per perdere il lavoro stesso e con esso, nel caso dell’immigrato,
il permesso di soggiorno entrando nell’esercito industriale di riserva, che la Fiat
chiama il prato verde, e che, nel caso dell’immigrato, diventa il “fuori” della clandestinità perseguita come reato. Sotto questo ricatto che si allarga a spirale, ogni
operaio occupato, ma a maggior ragione l’immigrato che ha trovato un lavoro, è
costretto a fornire più lavoro ovvero sottoporsi a sempre maggiore sfruttamento.
Questo processo è mistificato dal discorso sull’integrazione ed è favorito dalla
pratica educativa che ne discende. Coerentemente con questo impianto che è già
potenzialmente contenuto nella legge n. 40, primo nucleo di questo Testo unico,
l’articolo 4 bis, introdotto nel testo dal pacchetto sicurezza nel 2009, vincola il
rilascio del permesso di soggiorno a un «accordo di integrazione, articolato per
crediti […] da conseguire nel periodo di validità del permesso di soggiorno» e tale
che la perdita integrale dei crediti determina la revoca del permesso stesso e l’espulsione dallo Stato. Per integrazione la legge intende «quel processo finalizzato
a promuovere la convivenza dei cittadini italiani e di quelli stranieri, nel rispetto
dei valori sanciti dalla Costituzione italiana, con il reciproco impegno a partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società» (articolo 4-bis, comma
1). Qui l’integrazione diventa un obbligo di legge e in questo modo la necessità,
per il lavoratore salariato immigrato (figura intorno a cui vanno a mostrarsi tutte
234
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
le contraddizioni che la legge cerca di cancellare sotto i suoi presupposti generali),
che si sottometta alle esigenze di valorizzazione del capitale lavorando di più, altrimenti perde il lavoro e con esso il permesso di soggiorno andando a finire nella
sezione clandestina dell’esercito industriale di riserva, è indotta costrittivamente
come un processo di disciplinamento. Lo Stato interviene non più solo esternamente (nel nostro caso, attraverso l’espulsione) e internamente in modo indiretto,
creando la paura della sanzione, e tuttavia lasciando la libera cogitatio interiore
degli individui, come teorizzava il primo pensiero borghese moderno82, espressione della fase dell’accumulazione originaria e della manifattura capitalistiche.
Nella fase della globalizzazione lo Stato interviene direttamente nell’interiorità
degli individui83, facendosi immediatamente strumento del capitale nel costringere alla disciplina del pluslavoro, cioè a sottomettersi allo sfruttamento capitalistico, mediante l’arma spirituale dell’educazione all’integrazione misurata in
crediti, che diventa poi l’arma materiale dell’espulsione in caso di loro perdita. In
tal modo l’integrazione, che dovrebbe discendere dall’educazione dell’immigrato
ai valori universalistici della Costituzione, con il loro superamento delle divisioni
di razza, sesso, religione, etnia ecc., sotto il ricatto dei crediti e del permesso di
soggiorno, funzionali all’estorsione di sempre maggior pluslavoro, si capovolge in
un dispositivo identitario atto a dividere il “dentro” dell’immigrato regolare dal
“fuori” del clandestino o del non-ancora-regolare. Ma poiché, in base al funzionamento generale della legge capitalistica della popolazione, il fuori è funzionale
al dentro, ecco che è soprattutto il clandestino, con la sua pressione sui lavoratori
occupati, la leva dell’integrazione degli immigrati con lavoro e permesso di soggiorno. E tale integrazione porterà necessariamente tutti caratteri negativi dell’esclusione da cui nasce l’identità, portatrice a sua volta delle peggiori pulsioni
securitarie e razziste, con buona pace dell’universalismo dei “valori sanciti dalla
Costituzione italiana” di cui parla il Testo unico. Anche a questo riguardo si può
Carl Schmitt ha messo in evidenza il motivo tipicamente liberale della distinzione tra costrizione esteriore e libertà interiore, nell’”assolutista” Hobbes. Cfr. C. Schmitt, Der Leviathan in
der Staatslehre des Thomas Hobbes. Sinn und Fehlschlag eines politischen Symbols, Köln 1982, pp.
84 ss.; tr. it. di C. Galli, Scritti su Thomas Hobbes, Milano 1986, pp. 104 ss.
83
Michael Hardt e Antonio Negri hanno ampiamente sviluppato questa problematica, connettendo il marxismo con le elaborazioni di Michel Foucault e Gilles Deleuze, e parlando del
passaggio dalla “società disciplinare” della modernità industriale alla “società del controllo”
caratteristica della produzione biopolitica postmoderna. Cfr. M. Hardt, A. Negri, Impero/ Il
nuovo ordine della globalizzazione, tr. it., cit., pp. 38 ss.
82
235
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
dire che la legge contro l’immigrazione clandestina è essa stessa uno strumento
che media la creazione capitalistica del clandestino.
Il primo dispositivo identitario, dunque, si produce nello stesso processo di integrazione in conseguenza della connessione tra permesso di soggiorno e contratto di
lavoro, quindi in conseguenza della pressione del “fuori” della sovrappopolazione,
clandestina e non, sul “dentro” degli integrati, nazionali e stranieri. Ne consegue a
sua volta che quella stessa educazione alla multiculturalità, componente del processo
di integrazione in un ordinamento fondato sui principi universalistici di uguaglianza e libertà, rovescia le culture “ospiti”, le quali dovrebbero essere accolte, integrate
e convivere, in una serie di repliche dell’identità “ospitante”, poiché la brama del capitale di più lavoro supplementare per accumulare, riproduce la messa l’uno contro
l’altro dei lavoratori, residenti e immigrati e, tra questi ultimi, regolari e clandestini
(noi assumiamo qui sempre che il punto dove queste contraddizioni si mostrano
stia nella regolamentazione della parte salariata del lavoro subordinato, in questo
caso multiculturale). Così, anche la divisione e la contrapposizione di diversi gruppi
etnici, culturali, razziali ecc., diventa funzionale a esercitare la pressione reciproca
affinché sia resa liquida una sempre maggiore quantità di pluslavoro da parte dei
lavoratori occupati. Il precipitare dell’integrazione in un dispositivo identitario si
riproduce all’interno del dispositivo stesso rovesciando la multiculturalità in una
molteplicità di identità e, di conseguenza, l’interculturalità in una gerarchia di subculture, ciascuna identitaria nella sua relativa subalternità all’altra. Nessuna meraviglia che su questa base, dove l’integrazione è diventata la sottomissione a un dispositivo identitario e l’interculturalità una gerarchia di sottoidentità, possa presentarsi
e riprodursi il razzismo sia verso l’esterno, come superiorità dell’abitante dello Stato
ospitante sullo straniero ed esclusione del secondo da parte del primo, sia all’interno
del dispositivo identitario dello Stato ospitante, tra gruppi etnici, culturali ecc.
Ideologie razziste, sessiste, discriminatorie ecc., sembrano essere rappresentazioni, nel cervello degli uomini, di rapporti sociali chiusi, locali, propri di ambiti
di produzione ristretti o di stadi capitalistici non ancora pienamente sviluppati. Per questo, come abbiamo visto, il Testo unico, sovrastruttura giuridica di
rapporti economici borghesi, combatte e sanziona ogni discriminazione dello
straniero in base a criteri siffatti, distinguendo, nella concessione del permesso
di soggiorno, tra chi ha un lavoro e chi no, o, in generale, condizionando la
concessione del visto di ingresso al possesso di mezzi di sussistenza sufficienti
per mantenersi fino a tutta la durata del viaggio di ritorno. Ma il razzismo qui
si manifesta proprio a uno stadio massimamente progredito della produzione
capitalistica, là dove il livellamento dei saggi del profitto e la formazione dei
236
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
prezzi di produzione tendono ad abolire tutti gli ostacoli alla libera circolazione
dei capitali e della forza-lavoro, e dove la sovrastruttura giuridica più adeguata
sembra essere l’ordinamento fondato sui diritti umani universali di uguaglianza
e di libertà. Non solo: poiché qui il razzismo nasce dalla concorrenza tra operai
occupati e disoccupati, di cui la forza-lavoro migrante è una parte cospicua, e
poiché la pressione dell’esercito industriale di riserva è una leva dell’accumulazione del capitale, esso diventa addirittura funzionale a questo obiettivo. Così,
essendo l’accumulazione presupposto e conseguenza del mercato mondiale, ecco
che il particolarismo inerente a tutti i fenomeni discriminatori, e l’universalismo
dell’uguaglianza e libertà borghesi finiscono col presupporsi a vicenda.
Anche qui si vede come il capitale sia esso stesso la contraddizione in processo, attraverso la quale crea le condizioni del suo superamento. Grazie alla sua
tendenza a creare il mercato mondiale, esso «spinge a superare sia le barriere e
i pregiudizi nazionali, sia l’idolatria della natura, la soddisfazione tradizionale,
orgogliosamente ristretta entro angusti limiti, dei bisogni esistenti, e la riproduzione del vecchio modo di vivere. Nei riguardi di tutto questo il capitale opera
distruttivamente, attua una rivoluzione permanente, abbatte tutti gli ostacoli che
frenano lo sviluppo delle forze produttive, la dilatazione dei bisogni, la varietà
della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello
spirito. Ma dal fatto che il capitale pone ciascuno di questi limiti come un ostacolo e perciò idealmente lo ha superato, non ne deriva affatto che esso lo abbia
superato realmente, e poiché ciascuno di tali ostacoli contraddice alla sua destinazione, la sua produzione si muove tra contraddizioni continuamente superate
ma altrettanto continuamente poste. E c’è di più. L’universalità verso la quale
esso spinge irresistibilmente, trova nella sua propria natura ostacoli che ad un
certo livello del suo sviluppo faranno riconoscere il capitale stesso come l’ostacolo
massimo che si oppone a questa tendenza e perciò spingono alla sua soppressione
attraverso esso stesso»84.
84
MEGA 2, II/1 (Text) 2, pp. 322-323; tr. it., cit., vol. II, pp. 11-12.
237
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
7. Cooperazione organizzata tra residenti e migranti, occupati e disoccupati
Nell’immediato, l’unico modo per combattere questa situazione che genera
l’esclusione e la degradazione dell’immigrato posto dal capitale come clandestino potenziale o reale, sempre sul confine che separa il “dentro” del lavoro e del
permesso di soggiorno dal “fuori” della disoccupazione e del reato di clandestinità, è la rottura netta e totale del nesso tra permesso di soggiorno e contratto di
lavoro, nella prospettiva della libera circolazione di tutti gli individui sul pianeta.
Ma questo obiettivo è possibile perseguire solo se si comprende che gli immigrati
non sono coloro che “tolgono lavoro” – vale a dire mezzi di sussistenza – a chi
ce l’ha, residente o immigrato, ma che il lavoro lo toglie quello stesso capitale
che “dà lavoro” agli oggi sempre meno occupati, residenti e migranti, perché
utilizza e crea la sovrappopolazione di chi il lavoro non lo ha – in primo luogo
degli immigrati – affinché prema su chi lo ha perché lavori di più e, creando più
accumulazione, si scavi la fossa del perderlo. Insomma, penetrare il mistero della
legge della sovrappopolazione operaia significa mettere in chiaro che il capitale,
mediante la creazione di una linea di confine tra il “dentro” della fabbrica e il
“fuori” del prato verde e, per gli immigrati, tra libretto di lavoro e clandestinità,
proprio questa linea di confine tra “dentro” e “fuori” finisce col negare. Ma si
tratta di una negatività riferita a se stessa, proprio come il lavoro sotto il capitale, separato dalla proprietà, quindi «miseria assoluta come oggetto»85, e, solo in
quanto tale, «possibilità generale della ricchezza come soggetto e come attività»86.
Perciò è nello stesso interesse di tutti gli operai, occupati e disoccupati, residenti
e migranti, comprendere che la loro divisione è precisamente quello che il capitale stesso produce per dominare e quindi è la chiave della loro comune rovina.
Occorre insomma capire che, come i disoccupati residenti e i migranti che premono alle frontiere sono essi stessi dei potenziali operai sempre a disposizione del
capitale, anche se non sono comandati immediatamente nel processo lavorativo,
allo stesso modo gli operai occupati, residenti e immigrati-“integrati”, sono sempre potenziali disoccupati grazie al loro stesso lavoro, perché quel capitale, che
essi hanno creato con la loro forza produttiva, li rende rimpiazzabili in qualsiasi
momento grazie alla riserva dei potenziali occupati che preme. Dunque, l’avversario degli occupati non è costituito dai disoccupati né dai migranti, ma è il
85
86
MEGA 2, II/1 (Text) 1, p. 216; tr. it., cit., vol. I, p. 280.
Ibid.
238
5. Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalista
capitale l’avversario di entrambi. E poiché il capitale è vorace di pluslavoro, ecco
che l’interesse comune di occupati e disoccupati, migranti regolari e irregolari,
consiste nel cooperare per maturare la comune indisponibilità a dare al capitale il
novantanove per cento della propria vita in tempo di lavoro non pagato.
Nella fase attuale della globalizzazione capitalistica ciò è difficile da ottenersi
giacché sotto il ricatto della crisi, ossia dell’impoverimento della gran massa della
popolazione e quindi sotto il ricatto della pressione dei poveri creati dal capitale,
gli operai occupati sono pronti a lasciarsi sfruttare quanto più è possibile, illudendosi che in tal modo conservano il loro posto di lavoro. In questo il capitale,
incapace di dominare sulla società perché non gli riesce neanche di opprimere
per farsi nutrire dall’oppresso, ma è costretto a nutrirlo, mostrando così il suo
fallimento e la necessità di superarlo, è al tempo stesso anche una negatività ferocemente pervicace, dato che l’unico suo modo di produrre ricchezza nelle forme
convenienti alla sua brama di dominio (che peraltro non riesce a esercitare) è
prendere per fame. Infatti la crisi rivela nettamente il carattere della produzione
capitalistica: «Non viene prodotta troppa ricchezza. Ma periodicamente viene
prodotta troppa ricchezza nelle sue forme capitalistiche, che hanno un carattere
antitetico»87. I poveri si impoveriscono sempre più, mentre l’enorme ricchezza
prodotta non può essere convenientemente usata per soddisfare bisogni umani
date le leggi di funzionamento della società borghese. Ma proprio per questo, la
lotta per la riduzione della giornata lavorativa, che retroagisce dal luogo del lavoro forzato al luogo del non-lavoro forzato, resta la chiave dell’emancipazione di
tutta la società dalla miseria e dallo sfruttamento.
87
MEGA 2, II/15 (Text), p. 254; tr. it., cit., p. 312.
239
6.
Dopo l’abolizione dell’articolo 18:
retrospettiva e prospettive
Il 4 dicembre 2014, giorno successivo all’approvazione del Jobs Act al Senato,
in uno degli spazi situati all’interno dell’Università di Napoli “Federico II”, si
tenne un convegno con la partecipazione di Piero Ichino, uno dei giuslavoristi
ispiratori delle legislazioni borghesi sul mercato del lavoro in Italia, e i non proprio intransigenti oppositori interni del Partito Democratico, Cesare Damiano
e Pietro Fassina. Grazie all’occupazione del rettorato, gli studenti ottennero la
sospensione del convegno e la conseguente riapertura degli spazi dell’università
circondati dalla polizia a protezione del convegno stesso dalle contestazioni. Nel
momento in cui essi ripresero accesso alla loro Università, tra i vari slogan, gridarono quello tante volte gridato nei mesi precedenti: «L’articolo 18 non si tocca, lo
difenderemo con la lotta». Ciò poteva sembrare strano, visto che la legge-delega
n. 183 era già stata approvata, benché restasse ancora aperta una possibilità di
lotta intorno ai suoi decreti attuativi. Oggi che il decreto legislativo n. 23 è stato
emanato il 4 marzo 2015, ritornare sullo slogan potrebbe sembrare addirittura
anacronistico, anche perché le promesse di “riprenderci l’articolo 18” fatte da
Maurizio Landini durante la manifestazione del 28 marzo a Roma, abbisognerebbero della contestualizzazione più precisa in un progetto strategico d’insieme
di cui, francamente, non si vedono ancora bene i contorni. Perciò, quale che
potrà essere il successo (che, certo, sarebbe benvenuto) di una rivendicazione del
genere, se ha un senso continuare a parlare oggi dell’articolo 18, ciò può voler
dire solo che nella questione ci sono alcuni significati che vanno al di là di una
particolare garanzia “sindacale”, eventualmente da riconquistare.
Provo a spiegarmi. Sempre, nella lotta di classe che oppone lavoro salariato e
capitale, gli stessi obiettivi proclamati assumono significati differenti secondo le
fasi storiche e, quindi, secondo i rapporti di forza differenti che si creano. Negli
anni Settanta del secolo Ventesimo, quando entrò in vigore l’articolo 18, inserito
nello Statuto dei lavoratori, sulla cui base si sarebbe concluso, due anni dopo,
il processo federativo fra i tre maggiori sindacati ufficiali, CGIL-CISL-UIL, i
movimenti – che nel frattempo si sviluppavano – di contestazione all’assetto capitalistico e imperialistico della società, politicamente organizzata nella forma
241
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
dello “Stato sociale” ovvero del “welfare”, vedevano questi processi in seno al movimento operaio tradizionale come finalizzati, anzi, addirittura strategicamente
organici al consolidamento del blocco dominante “capital-socialista” contro una
classe proletaria i cui connotati erano profondamente mutati in connessione alla
crisi dell’assetto organizzativo fordista del lavoro e della società intera, crisi che si
leggeva come provocata da quelle stesse lotte e quindi da quella stessa nuova configurazione soggettiva del proletariato. Viceversa, dopo il lungo periodo segnato
dalla fine del comunismo sovietico, dalla globalizzazione capitalistica e dalla sua
crisi, e compiutosi il processo di distruzione dello Stato sociale grazie alla dura
politica liberista e repressiva dell’Unione europea, di cui i governi italiani sono
stati e sono tra i primi della classe, ecco che, appunto qui da noi, “l’articolo 18”,
la sua soppressione e la sua “difesa con la lotta” si sono rovesciati nel loro opposto,
diventando un coagulo simbolico ed emblematico – ma non certo meno efficace
praticamente – del fatto che nel conflitto tra capitale e lavoro salariato, alla fine,
non ci può essere mediazione. Dal che – lo dico senza nessuna prevenzione polemica, giacché la massima unità, ma nella chiarezza degli obiettivi, è quello che
ogni comunista persegue – bisognerebbe trarre l’insegnamento che il “riprendiamoci l’articolo 18” rischia di essere addirittura velleitario detto così, in assenza di
un progetto strategico d’insieme, alla cui base ci dovrebbero stare una netta presa
di distanza dalla politica di concertazione più o meno acquiescente attuata in
questi anni dai sindacati ufficiali, e una pratica politica la quale non esclude certo
trattative e compromessi di breve periodo con l’avversario, ma deve finalizzarli a
fare un passo avanti a vantaggio della classe proletaria, dato che tra i soggetti che
trattano c’è e rimarrà fino alla fine un’inimicizia incomponibile.
E allora, nei mesi in cui i padroni hanno combattuto la battaglia per imporre
il Jobs Act mediante il loro comitato d’affari euro-italiano in cui “al meglio” si
impegna il Partito Democratico, uno degli argomenti usati era che l’articolo 18
di fatto vigeva già solo nominalmente in una realtà come quella italiana, fatta di
piccole industrie al di sotto delle 15 persone, quindi al di sotto della condizione
perché il giudice potesse decidere il reintegro in caso di licenziamento illegittimo.
In un paese dove ormai le grandi industrie sono finite e il processo di post-industrializzazione le ha smantellate o delocalizzate, quella sul mantenimento dell’articolo 18 sarebbe stata una battaglia di bandiera e solo un ostacolo verso una
legislazione più moderna.
Invece non è vero che l’articolo 18 sarebbe stato un ferro vecchio, superato
da processi lavorativi ormai da quasi tre decenni esternalizzati, diffusi e quindi scorporati in aziende tendenzialmente piccole, con lavori resi flessibili ecc.
242
6. Dopo l’abolizione dell’articolo 18: retrospettiva e prospettive
Le stesse leggi della produzione capitalistica portano, proprio mediante il movimento interno della concorrenza, alla centralizzazione dei capitali, anche e soprattutto quando ciò avviene sotto le sembianze dell’esternalizzazione. Inoltre la
delocalizzazione delle fabbriche in altri paesi non significa necessariamente il loro
sminuzzamento.
La tendenza del capitale è di centralizzare sempre più i mezzi di produzione,
quindi renderli utilizzabili soltanto socialmente, e questo oggi lo troviamo non
solo nelle fabbriche ma in tutta la società. Basta solo osservare che cosa avviene
nella scuola e nell’università con i nuovi sistemi informatizzati di valutazione e
che cosa avviene nel sistema di relazioni umane che si manifestano nei social
networks, giusto per fare degli esempi. Preso in sé, tutto ciò è (o meglio: sarebbe) un grandissimo progresso nello sviluppo dell’uomo come individuo sociale.
Tuttavia il capitale provoca questa trasformazione “progressista” dei processi lavorativi solo perché è spinto dalla sua brama di arricchimento: infatti, mediante
le innovazioni tecnologiche e sociali esso deve ridurre il più possibile la quantità
di tempo di lavoro necessario a riprodurre il salario, per allungare a dismisura il
tempo di lavoro superfluo in cui può produrre il plusvalore. In questo modo il
capitale si assoggetta tutto il tempo di vita, sia di chi al momento per caso lavora
sia di chi forzatamente non lavora e deve vedere dove e come può far schiarire il
giorno. Così la ricchezza prodotta grazie a questo progresso nel rendere comuni
i mezzi di produzione e potenziare le relazioni umane, è centralizzata nelle mani
di pochi, i quali intascano gli utili di tutto questo enorme lavoro sociale e così
ostacolano lo sviluppo di questa base produttiva verso una società dove ogni individuo possa svilupparsi in modo da favorire, con il suo sviluppo, anche quello degli altri e non schiacciarlo, come accade oggi, e come è teorizzato dai sostenitori
della meritocrazia. Questa contraddizione, che è la più caratteristica del sistema
capitalistico, è del tutto trasparente nelle varie riforme liberiste del mercato del
lavoro (per esempio, il Jobs Act italiano, appunto) e dell’istruzione (per esempio,
il Progetto europeo Delors di inizio Duemila, da noi culminato nei progetti legislativi privatizzatori quali “Buona” scuola o università che sia).
Ebbene, l’avvenuta abolizione della possibilità che il giudice, mediante un
processo, avrebbe reintegrato il lavoratore per insussistenza di giusta causa del
licenziamento, sarebbe stato, per i capitalisti, uno dei tanti ostacoli (accanto, per
esempio, alla lunghezza delle procedure amministrative in genere per mettere su
un’azienda, tassazione esagerata, processi lunghi ecc.) che impediscono la libera
circolazione dei capitali, la libera concorrenza, la mobilità degli investimenti ecc.
Infatti uno dei motivi che si adducevano a sostegno dell’abolizione dell’articolo
243
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
18 era appunto che in questo modo gli investimenti stranieri in Italia sarebbero
stati favoriti. Questo è vero, poiché effettivamente gli investitori stranieri (e l’Unione Europea che ne è sicofante insieme al Fondo Monetario Internazionale e
soci), considerano, o consideravano, tra le arretratezze e i “privilegi” scoraggianti
gli investimenti in Italia, appunto la presenza di eccessive tutele sul lavoro. Infatti, una volta eliminato l’ostacolo, e raggiunta l’agognata libertà da “tutele” per
i lavoratori, e ripreso lo stimolo agli investimenti in Italia (cosa che è tutta da
dimostrare, data la stagnazione, se non addirittura il persistere della depressione),
si sarebbe fluidificata la circolazione dei capitali, e di conseguenza i capitalisti sarebbero stati più propensi a comprare piccole industrie e a centralizzarle in unità
produttive più ampie in forza della tendenza alla centralizzazione che il capitale
sviluppa dialetticamente dalla legge interna alla libera concorrenza, dove «ogni
capitalista ne ammazza molti altri»1, come diceva Marx, cosa che continua ad
avvenire malgrado tutte le autority e i processi a Google o Apple che si possano
fare. Così, in forza della tendenza alla centralizzazione, inevitabile conseguenza proprio della libera circolazione dei capitali, le piccole imprese con meno di
quindici operai (o meno di cinque per le imprese agricole) diventano sempre più
grandi, andando a superare facilmente anche i sessanta operai che l’articolo 18
prevedeva come condizione della reintegrazione per ogni datore di lavoro, imprenditore o non. È chiaro, allora, che l’articolo 18 ancora in vigore, sarebbe stato
uno dei tanti ostacoli che avrebbe scoraggiato gli investimenti. Insomma, l’inevitabile tendenza del capitale a centralizzarsi avrebbe spinto i padroni stranieri
a cautelarsi dalle conseguenze legislative loro sfavorevoli che, restando in vigore
l’articolo 18, un possibile aumento assoluto di lavoratori in un’unità produttiva
potrebbe causare. Ma allora ecco che il mantenimento dell’articolo 18 non poteva rimanere indifferente, e neppure, quella che si chiamava “difesa dell’articolo
18 con la lotta”, poteva essere un mero “mantenere la bandiera”. Si trattava, al
contrario, di una cosa materialissima che andava a toccare interessi sensibili dei
padroni, interessi sempre necessariamente ostili a quelli dei proletari.
Il secondo argomento che i sicofanti liberisti della borghesia – politici e intellettuali – portavano per l’abolizione dell’articolo 18, era che in questo modo si
sarebbero aperte le porte del Paradiso ai precari, ai non garantiti, ai disoccupati,
insomma alla gran parte dell’umanità, perché la rivoluzione del mercato del lavoro avrebbe abolito tutta una serie di privilegi caratteristici dei lavoratori occupati
1
K. Marx, F. Engels, Opere complete vol. XXXI, tomo I, Napoli 2011, p. 838.
244
6. Dopo l’abolizione dell’articolo 18: retrospettiva e prospettive
e resi inamovibili. Questi ultimi, infatti, come si sa, sarebbero dei parassiti al cui
confronto i signori feudali assomiglierebbero agli intraprendenti, volenterosi e
generosi giovani che stanno gettando via gratis – e ringraziando pure – la loro
intera giornata di vita ai benefattori che hanno messo su la meraviglia dell’Expo
di Milano 2015, guarda un po’… per combattere la fame nel mondo. I processi di
deindustrializzazione (resterebbe da capire, in questi discorsi, che cosa si intende
per “industria” e che cosa sarebbe questa “deindustrializzazione” che la cancella)
rendono flessibile il lavoro e quindi cancellano il posto fisso per esigenze tecniche della produzione stessa, mentre il persistere di questa legislazione avrebbe
mantenuto vecchie e superate corporazioni, a discapito della maggior parte della
popolazione alla ricerca di lavoro che non trova.
Ma questo eroico furore egualitario della borghesia è una vera e propria mistificazione. Qui è confusa l’innovazione tecnologica del processo lavorativo sociale, che la produzione contemporanea cosiddetta flessibile porta con sé, con
il suo uso capitalistico, funzionale al processo di valorizzazione. Sotto il primo
aspetto, della flessibilità del lavoro, le innovazioni contemporanee del processo
lavorativo non fanno altro che sviluppare ulteriormente la tendenza insita nella grande industria stessa, intesa qui non come l’industria fordista, ma, su un
tempo più lungo, come la grande industria quale si distinse nell’ultimo terzo del
secolo Diciottesimo dalla manifattura che l’aveva preceduta e che era fondata
sulla divisione del lavoro. La «base tecnica» della grande industria, come scrive
Marx nel Libro primo de Il capitale, «è […] rivoluzionaria» perché «per mezzo
del macchinario, dei processi chimici e di altri metodi» – e qui possiamo arrivare
facilmente anche all’informatizzazione, ai processi snelli e “skillati” ecc. – «essa
sconvolge costantemente, assieme al fondamento tecnico della produzione, le
funzioni dei lavoratori e le combinazioni sociali del processo lavorativo. Così essa
rivoluziona con altrettanta costanza la divisione del lavoro entro la società e getta
incessantemente masse di capitale e masse di lavoratori da una branca all’altra
della produzione. La natura della grande industria porta con sé quindi variazione
del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità del lavoratore in tutti i sensi»2. Inteso
così, anche il lavoro post-fordista non solo contiene, ma accentua a una potenza
ancora maggiore i caratteri della grande industria. Ora, la flessibilità delle funzioni come portato dell’innovazione dei processi lavorativi, favorisce lo sviluppo
di individui non più immobilizzati nell’idiotismo del mestiere, bensì capaci di
2
Ivi, p. 531.
245
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
sviluppare le loro abilità sempre più verso i trecentosessanta gradi. Sotto questo
aspetto essa è un progresso che, in una società che abbia distrutto i rapporti
capitalistici di proprietà, sviluppa potenzialità e aumento della forza produttiva
generale molto di più di quanto ciò avvenga nel capitalismo, dove invece la sua
funzione è completamente diversa: riconquistare, dopo precedenti fasi di lotta
spesso favorevoli alla classe proletaria e a tutto il resto della società, il comando
del capitale sul lavoro. Infatti flessibilità significa rivendicazione della libertà del
capitale di mettere persone sul lastrico senza ostacoli e impacci giuridici – e a
questo scopo conquistarsi il rapporto politico di forza necessario –, in modo da
ottenere, da chi è momentaneamente occupato, più lavoro, quindi più tempo di
vita sacrificato all’accumulazione della ricchezza di pochi, grazie alla pressione
concorrenziale dei disoccupati, (immigrati o locali, non importa), che sarebbero
pronti a moderare le pretese degli occupati e rimpiazzarli se non sgobbano di
lavoro. Quindi la flessibilità del processo lavorativo industriale e postindustriale,
ossia l’innovazione tecnologica in sé virtuosa, sotto il capitale perverte la sua
virtuosità in quanto è usata come arma di una vera e propria guerra civile per
dividere la classe lavoratrice, cioè il suo nemico. Leggiamo come Marx continua, dopo avere descritto la base tecnica rivoluzionaria della grande industria:
«Dall’altra parte essa riproduce nella sua forma capitalistica l’antica divisione del
lavoro con le sue particolarità ossificate […]. Questa contraddizione assoluta to[glie] ogni tranquillità, solidità e sicurezza alle condizioni di vita del lavoratore,
e […] minacci[a] sempre di fargli saltare di mano, insieme al mezzo di lavoro,
anche il mezzo di sussistenza»3 – sta qui il punto di tutta la faccenda secondo
me. «Questa contraddizione», continua Marx, «trov[a] l’acme in un ininterrotto
banchetto sacrificale della classe dei lavoratori, nella più smisurata distruzione
delle forze-lavoro e nelle devastazioni derivanti dall’anarchia sociale»4.
Quindi, con la flessibilità richiesta dai nuovi e sempre rinnovantesi processi
lavorativi, l’articolo 18 non c’entra perfettamente niente. Ce lo fanno entrare i
borghesi nella misura in cui il nuovo processo lavorativo flessibile è messo in
movimento dal capitale unicamente per il suo scopo di estorcere più lavoro supplementare per l’accumulazione e, contraddittoriamente, per fare fronte alla diminuzione del saggio del profitto che quell’accumulazione stessa comporta data
la minore richiesta di lavoro vivo (da cui in realtà ogni plusvalore esclusivamente
3
4
Ibid.
Ibid.
246
6. Dopo l’abolizione dell’articolo 18: retrospettiva e prospettive
proviene) in una produzione in cui il ruolo preponderante, dato lo sviluppo tecnico-scientifico della società, è assunto dalla parte costante e, al suo interno, da
quella fissa del capitale stesso.
E allora, il punto non sarebbe dovuto essere quello di abolire l’articolo 18 o
ridurre le garanzie rendendole solo crescenti «in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione
del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e
crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai
licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento
disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione
del licenziamento» (art. 1 comma 7c), il che significa: premiando, dopo molti
anni di pluslavoro da massacro, i servi salariati disposti a comportarsi “economicamente”, ossia “politicamente”, da pecore – sempre qualora nel frattempo la
libera concorrenza non abbia ingoiato il virtuoso garante nelle fauci del monopolio centralizzante imperialistico. Il punto sarebbe dovuto essere, invece, quello di
estendere sempre di più le tutele a chiunque, appena entra nel processo lavorativo,
insieme ai sussidi di disoccupazione per chi non ha lavoro, dato che quanto più
il lavoratore diventa essenziale alla produzione capitalistica (perché solo il lavoro
vivo fa accumulazione), più la sua posizione diventa precaria sotto la pressione
della concorrenza niente affatto virtuosa con gli altri membri della sua stessa
classe, i quali, a loro volta, appena entrati nel lavoro, sarebbero immediatamente destinati a fare la stessa fine, e a tutele crescenti inversamente proporzionali
all’accumulazione crescente, dimostrando, così, che la concorrenza tra occupati
disoccupati, distrugge entrambi, a differenza che la concorrenza tra capitalisti,
che “almeno” ne salva pochi.
Per questa ragione occupati e disoccupati, siano essi indigeni, siano essi migranti, hanno tutto da perdere a farsi concorrenza tra loro e tutto da guadagnare a
unirsi. Infatti, come ci ricorda sempre Marx, «non appena i lavoratori […] scoprono
che il grado d’intensità della concorrenza fra loro stessi dipende in tutto dalla pressione della sovrappopolazione relativa; non appena quindi cercano attraverso Trades Unions ecc. di organizzare una cooperazione sistematica fra i lavoratori occupati
e quelli disoccupati per spezzare o affievolire le rovinose conseguenze che quella
legge di natura della produzione capitalistica ha per la loro classe, – il capitale e il suo
sicofante, l’economista, strepitano su una violazione della “eterna” e, per così dire,
“sacra” legge della domanda e dell’offerta. Ogni solidarietà fra gli operai occupati e
247
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
quelli disoccupati turba infatti l’azione “pura” di quella legge»5. È proprio per evitare quest’unione, per essa micidiale, tra le due parti della classe sua nemica, che la
borghesia e i suoi sicofanti politici (Renzi è il più versato a recitare questa parte) ed
economisti, esibisce tanto universalismo liberoscambista e tanta sollecitudine alla
lotta contro il presunto conservatorismo o reazionarismo dei lavoratori (ora ex-) articolodiciottati, residuati bellici pieni di pericolose scorie corporative ed egoistiche.
Eppure, tanta odorosa freschezza progressista è piena di peli maleodoranti, perché
è unicamente interessata, come dicevo poco fa, a mantenere la concorrenza tra operai, occupati e disoccupati, in mancanza della quale l’esistenza della classe borghese
sarebbe seriamente minacciata, mentre il relativo superamento della concorrenza
tra borghesi mediante la centralizzazione dei capitali e la formazione dei monopoli,
comunque non intacca, da sola, l’esistenza della proprietà privata e quindi la riproduzione di quella classe.
Il senso della legislazione europea sul lavoro è appunto quello di togliere tutti
gli ostacoli che impediscono al capitale di avere il pieno comando sul lavoro salariato, il che significa: libertà di licenziare e tenere alta la concorrenza tra occupati e
disoccupati, questione di vita o di morte per la riproduzione capitalistica. Questo
obiettivo il capitale lo sta perseguendo non solo nei luoghi dove esso immediatamente si riproduce, industrie e grandi complessi commerciali, ma anche nella pubblica amministrazione e nell’istruzione a tutti i livelli. Perciò la prima cosa che l’Unione europea chiede agli Stati membri, cioè a se stessa, come condizione per tenere
i conti in ordine e pagare i debiti, è di fare la legislazione sul lavoro nel senso della
privatizzazione immediata dei rapporti sociali, insomma nel senso della libertà di
licenziare, dopo di che i soldi escono. In questi giorni i governi dell’Unione stanno
premendo, in proposito, sulla Grecia, mentre l’Italia si è da tempo prontamente
allineata, anche perché il Jobs Act – non va dimenticato – chiude un percorso che
era iniziato lontano, a metà degli anni Novanta con il pacchetto Treu. Questo della
legislazione sul mercato del lavoro è il cuore della politica della classe borghese ed
è stata la prima cosa messa all’ordine del giorno dopo la fine della Guerra fredda e
della stagione di lotte sociali negli anni Settanta, rimanendo la molla ultima della
costituzione dell’ordine mondiale presente.
Per questi motivi, a prescindere dall’esito della lotta per riprendersi l’articolo
18, mi sembra che abbia comunque un senso connettere la lotta contro l’intero
Jobs Act con la comprensione dei motivi di tanto accanimento che ci sono stati
5
Ivi, p. 709.
248
6. Dopo l’abolizione dell’articolo 18: retrospettiva e prospettive
contro l’articolo 18, e con la consapevolezza della necessità di estendere le tutele
a sempre più lavoratori, invece che restringerle.
Infine, l’intenzione, che pochi mesi fa, prima della promulgazione del Jobs
Act, si esprimeva, di “difendere l’articolo 18 con la lotta” non è qualcosa di “lavorista” o “sovranista”, come lo sarebbe la Costituzione del 1947 “fondata sul
lavoro”, parola, quest’ultima, sotto cui si celano i più vari significati, dai più
infami ai più avanzati. Ora che il governo italiano, così solidale con tutti gli altri
governi egemoni che compongono l’Unione europea, sta completando, insieme e
in stretta connessione, la riforma del lavoro e quella della costituzione del 1947,
sembrerebbe che, per una tragica ironia, si stiano avverando i desideri degli antilavoristi e antisovranisti, solo che quello che ci sta dentro non è certo quanto,
ovviamente, intendono i compagni che assumono queste prospettive critiche. Sul
fronte opposto, invece, coloro che in tutti questi anni passati hanno fatto il capolavoro di confinare le questioni politiche che si intrecciano intorno all’articolo 18
nell’autoreferenzialità burocratica della prassi sindacale ufficiale, costituendosi,
così, in oggetto adeguato e argomento a ottimo mercato per chi voleva accusare
l’articolo 18 di residuo di privilegi feudali, oggi ne pagano lo scotto e si spera che
vogliano trarre qualche lezione dalla prassi.
La denuncia recente dei lavoratori della Fiat di Melfi dell’insopportabilità dei
ritmi di lavoro e l’intreccio, nelle acque mediterranee, tra politiche migratorie,
disoccupazione e guerre “umanitarie”, di questi gironi, ci indicano senza equivoci dove e in che direzione bisogna agire oggi: lavorare meno, lavorare tutti; libera
circolazione di tutte le persone sul pianeta; fine delle aggressioni imperialistiche
fatte “in nome dell’umanità”. Ricordiamoci della lezione di Lenin, secondo cui
le necessarie mosse “tattiche”, devono sempre verificare la loro quadratura, la loro
organicità dentro una strategia d’insieme, altrimenti sono opportunismi.
249
Sezione III
Globalizzazione: resistenza e lotte
7.
Intellettualità di massa, lavoro immateriale,
ordine mondiale. Una declinazione del tema
“filosofia e politica” in Michael Hardt e Antonio Negri
1. Premessa
Una classica formulazione del rapporto tra filosofia e politica la troviamo
in un testo giovanile di Karl Marx del 1844, l’Introduzione a Per la critica della
filosofia del diritto di Hegel. Qui Marx, assegnando alla critica della filosofia speculativa del diritto un compito per la cui soluzione esiste soltanto il mezzo della
prassi, si poneva il problema di che tipo di prassi potesse darsi per la Germania,
oggetto immediato della sua critica. In Germania la filosofia, con Hegel, era più
avanzata rispetto alle condizioni politiche di ancien régime, in quanto essa conteneva nel pensiero ciò che altri popoli moderni avevano già realizzato nella prassi, ossia l’emancipazione politica. Pertanto, questi popoli avevano all’ordine del
giorno il passaggio allo stadio successivo, costituito dall’emancipazione umana. Il
problema era allora se la Germania fosse stata capace di una prassi rivoluzionaria,
dice Marx, «che la innalzi non soltanto al livello ufficiale dei popoli moderni, ma
all’altezza umana che sarà il prossimo futuro di questi popoli»1. Questo passaggio
da condizioni politiche di ancien régime direttamente all’emancipazione umana
senza quella fase dell’emancipazione politica che altri popoli avevano attraversato
e che stavano per superare, non era per Marx frutto di uno slancio volontaristico,
ma si giustificava su una considerazione realistica. Infatti gli altri popoli moderni avevano avuto una classe della società civile, la borghesia, la quale, partendo
dalla propria situazione particolare, era stata capace di intraprendere l’emancipazione generale della società, e così creò le condizioni del passaggio successivo,
l’emancipazione umana. Ma in Germania nessuna classe particolare era capace
di un simile passaggio politico alla generale rappresentanza della società, perché
il modesto egoismo di ciascuna faceva sì che «ogni classe, non appena inizia[va]
la lotta contro la classe che sta[va] sopra di essa, [era] implicata nella lotta della
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 1, cit., p. 385; tr. it. di R. Panzieri, La questione ebraica. Per la
critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, Roma 1998, p. 101.
1
253
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
classe che sta[va] sotto di essa»2. Di conseguenza l’unica possibile emancipazione
della Germania, incapace di emancipazione soltanto politica, sarebbe consistita
nel mettersi all’altezza del futuro prossimo dei popoli moderni, quindi nella rivoluzione radicale, portatrice dell’emancipazione umana.
Ora, questa emancipazione umana avviene grazie al formarsi storico «di
una classe della società civile la quale non sia una classe della società civile»3,
in quanto essa soffre universalmente e perciò, in forza dell’universalità di questa sua sofferenza, possiede un carattere universale. Infatti contro di essa non
viene esercitata un’ingiustizia particolare, da cui si emancipa assumendo un
carattere universale, ma «l’ingiustizia senz’altro»4. Essendo quindi «la perdita
competa dell’uomo, [essa] può […] guadagnare nuovamente se stessa soltanto
attraverso il completo riacquisto dell’uomo»5. Questa classe universale dal titolo
semplicemente umano è il proletariato, inteso come prodotto storico dello sviluppo industriale che ha dissolto il ceto medio, quindi come «povertà prodotta
artificialmente»6. Dato il carattere universale del proletariato, esso si emancipa
non come una classe particolare capace di rappresentare l’intera società, ma
rispetto all’intera società nelle sue particolarità e anche rispetto a se stesso
come classe.
Se la critica della filosofia speculativa del diritto non può esaurirsi in se stessa,
ma in compiti da risolvere unicamente con la prassi, ecco che essa deve divenire
radicale: «Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per
l’uomo, è l’uomo stesso»7. Ora, se l’uomo è la radice, dunque è per l’uomo l’essere supremo, ne deriva che la prassi deve guadagnare l’uomo senz’altro, quindi
rovesciare la situazione di abiezione in cui si trova. Ma se, come abbiamo visto,
la situazione di abiezione universalmente umana e non particolare, è quella del
proletariato industriale artificialmente provocato dalla dissoluzione della vecchia
società, ne consegue infine che la filosofia così intesa diviene, almeno in Germania, la «testa»8 di un’emancipazione il cui «cuore»9 è il proletariato.
2
3
4
5
6
7
8
9
Ivi, p. 389; tr. it., cit., p. 107.
Ivi, p. 390; tr. it., cit., p. 108.
Ibid.
Ibid.
Ibid.
Ivi, p. 385; tr. it., cit., p. 101.
Ivi, p. 391; tr. it., cit., p. 110.
Ibid.
254
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
In queste pagine di Marx il rapporto tra filosofia e politica si risolve nell’organica integrazione tra la critica della filosofia speculativa del diritto e la prassi
dell’emancipazione umana. E poiché l’emancipazione umana passa per una classe
che non è una classe, essendo essa stessa l’abiezione umana in generale, dunque la
povertà per eccellenza, ecco che c’è un nesso tra filosofia e povertà radicale, e questa
povertà non è naturale, bensì prodotta artificialmente con lo sviluppo industriale.
Non è più quindi la filosofia come tale “povera e nuda”, poiché essa è il cervello
della povertà e nudità umane reali, dove “reale” e “umano” significano “storico”.
A più di un secolo e mezzo da questo testo di Marx, ci troviamo in una
situazione che siamo soliti definire con i termini “post-industriale”, “post-fordista”, “post-moderna”, “post-comunista” e che comunque, quale che sia l’esattezza
di queste definizioni, non è certamente più quella dell’«irrompente movimento
industriale»10 di cui si parla nel testo marxiano. In questo mutato scenario, caratterizzato da nuovi metodi di produzione e dall’emergere di nuovi movimenti
sociali e politici, due filosofi, Michael Hardt e Antonio Negri, provenienti dall’area comunista cosiddetta “antagonistica”, ripensano il marxismo in connessione
con altre correnti filosofiche degli anni 70 del secolo scorso, le quali hanno posto
l’accento su categorie come “alterità”, “differenza”, “soggettività”. Ne discende
un’originale declinazione del nesso tra filosofia e politica come nesso tra filosofia,
povertà e comunismo, o meglio “comune” (così essi preferiscono dire) e di cui,
discutere il rapporto con la declinazione marxiana mi sembra di evidente importanza teorica e pratica.
Hardt e Negri ritengono che «l’unico non localizzabile “nome comune” per
designare la differenza in senso puro è, in tutte le epoche, quello del povero»11.
Questo perché il povero è sempre escluso, sfruttato, represso e tuttavia continua
a vivere. Ciò vuol dire che il povero è il nome comune della vita stessa. Ora, nei
regimi postmoderni della produzione il lavoro riguarda sempre meno la produzione industriale di beni materiali e sempre più il linguaggio, l’interazione, la comunicazione, le relazioni affettive. Pertanto esso finisce col coincidere con la vita
stessa, la quale diviene di per sé produttiva. Allora, se la qualità del povero è la
vita stessa, egli è l’unica figura produttiva del mondo postmoderno di contro alla
ricchezza che è stata sempre parziale, perché quantitate signata, e che quindi as-
Ivi, p. 390; tr. it., cit., p. 108.
M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, tr. it. di A. Pandolfi, cit.,
p. 152.
10
11
255
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
sume una funzione puramente reattiva e parassitaria, mentre tutta la potenza sta
virtualmente dalla parte del povero: «Ovunque, oggi, alla base del concetto e del
nome comune del povero, c’è un rapporto di produzione […]. Chi è il soggetto
che produce “trasversalmente”, che dà un significato creativo al linguaggio? Chi,
se non il povero, che è soggiogato e desiderante, impoverito e potente, sempre
più potente?»12. Nell’epoca dell’accumulazione originaria marxiana il proletariato moderno è il povero in quanto “uccel di bosco”, libero dalla servitù, non più
proprietà di un padrone e libero dai mezzi di produzione. In questa condizione,
nella quale non aveva niente altro da vendere se non la sua forza lavoro, egli «fu
costretto a diventare la possibilità stessa della ricchezza»13. Il proletariato moderno profetizzava la società avvenire e al tempo stesso produceva la ricchezza. Ma
«la corrente dominante della tradizione marxista […] ha sempre detestato il povero proprio per il suo essere “uccel di bosco”, per essere immune dalla disciplina
di fabbrica e da quella necessaria alla costruzione del socialismo»14. Invece nella
costellazione postmoderna del lavoro immateriale comunicativo, linguistico e
affettivo, essendo la ricchezza e la potenza costituite dalla vita stessa, di nuovo
viene alla luce il nome comune del povero per significare la differenza smisurata
che si oppone alla quantità misurabile della ricchezza. E così, «la moltitudine
dei poveri si è mangiata e digerita la moltitudine dei proletari. Tutto ciò ha reso
produttivo il povero. Anche il corpo che si prostituisce, la persona indigente, la
fame della moltitudine – tutte le figure del povero sono diventate produttive. Nel
frattempo, il povero è diventato sempre più importante: la vita dei poveri investe
il pianeta e lo circonda con il suo desiderio di creatività e di libertà. Il povero è la
condizione di possibilità di qualsiasi forma di produzione»15.
A questa povertà, produttiva grazie alla coincidenza tra lavoro e vita, è immanente una nuova nozione di “comune” e questa nozione ha un legame singolare con
la filosofia. Poiché la produzione postmoderna, portata dalla vita stessa, è «interattiva mediata dalla comunicazione»16, Hardt e Negri riprendono quanto sostenuto
da Gilles Deleuze e Félix Guattari in Che cos’è la filosofia, dove si dice che la costruzione dei concetti non è più solo un’operazione epistemologica, ma «un progetto
di portata ontologica. La costruzione dei concetti che gli autori chiamano “nomi
12
13
14
15
16
Ivi, p. 153.
Ivi, pp. 153-154.
Ivi, p. 154.
Ibid.
Ivi, p. 283.
256
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
comuni”, si presenta, in realtà, come una pratica che associa l’intelligenza e l’azione
della moltitudine e che le fa interagire tra di loro. Costruire concetti significa far
esistere un progetto che si incarna in una comunità»17. E poiché la comunanza è
la stessa modalità di liberazione della moltitudine postmoderna dei poveri, che ha
“digerito” il proletariato, la filosofia come costruzione comune di nomi comuni è
una pratica ontologica di liberazione. Nel testo marxiano l’emancipazione del proletariato come povertà universalmente umana è appunto emancipazione umana, e
ha come cuore il proletariato stesso e come testa la filosofia. «La filosofia non può
realizzarsi senza l’eliminazione del proletariato, il proletariato non può eliminarsi
senza la realizzazione della filosofia»18. Invece in Hardt e Negri il povero postmoderno, che pratica ontologicamente la filosofia come costruzione di nomi comuni,
avendo assorbito e superato il proletariato, è anche oltre l’emancipazione umana e
configura un progetto di liberazione oltreumano.
Confrontato col testo di Marx, questo linguaggio da un lato appare profondamente nuovo e inusitato, allusivo di altre, eterogenee costellazioni di pensiero.
Dall’altro lato, vi compaiono gli stessi termini, quali povertà, sfruttamento, comunismo e un certo ruolo della filosofia. In questo saggio vorrei appunto studiare i presupposti di questa originale declinazione hardt-negriana del rapporto
tra filosofia e politica: la costituzione ontologica del soggetto della produzione e
dunque del comunismo contemporanei.
2. Il comunismo come distruzione, affermazione, trasvalutazione
Con Marx, Hardt e Negri assumono la concezione del comunismo come movimento reale che distrugge lo stato di cose presenti, e dunque i due momenti di
questo rapporto distruttivo. Innanzitutto essi analizzano lo stato di cose presenti
da distruggere, ossia la connessione tra l’organizzazione del lavoro e le forme di
comando connesse a questa organizzazione. E poiché lo stato di cose presenti è
quello di volta in volta effettivamente presente, essi si riferiscono al passaggio di
produzione “post-fordista”, “post-moderno” ecc., che parte dalla seconda metà
degli anni Settanta, espandendosi negli anni Ottanta e Novanta: si tratta di nuove forme di divisione del lavoro, quindi di espropriazione di menti e corpi, e di
17
18
Ibid.
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 1, cit., p. 391; tr. it., cit., p. 110.
257
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
nuove forme di dispotismo. Non solo il capitalismo, ma anche il socialismo crollato ne fanno parte. In secondo luogo, il movimento reale che distrugge questo
stato di cose presenti è il lavoro vivo, il quale ha un carattere distruttivo verso il
capitale e ha entro se stesso le condizioni autonome della propria liberazione. Tale
lavoro vivo è una «soggettività rivoluzionaria»19 in continua trasformazione della
propria composizione: «La critica deve dunque raggiungere il livello dell’antagonismo e della soggettività rivoluzionaria, definendo e ridefinendo le loro cangianti figure, mostrando come il loro movimento e la loro progressiva trasformazione
producano continuamente conflitto e distruggano gli adeguamenti sempre nuovi
del diritto e dello Stato»20.
Quest’attenzione al primato della “soggettività” rivoluzionaria, e alla sua mutevole composizione, come distruzione e produzione dei continui adeguamenti
dell’economia, del diritto e dello stato, sposta fortemente la teoria marxista su
un terreno ontologico, di un’ontologia dinamica, aprendola ad altre dimensioni
teoriche. Infatti il punto più importante della prospettiva comunista di Hardt e
Negri è che questo movimento reale del lavoro vivo antagonistico, che costituisce
il nerbo del comunismo come prospettiva di liberazione, ha soprattutto un connotato creativo, affermativo, così descritto: «Il comunismo deve essere concepito
come critica totale nel senso nietzscheano, non solo come distruzione dei valori
presenti, ma anche creazione di nuovi valori; non solo la negazione di ciò che
esiste, ma anche l’affermazione di ciò che si proietta in avanti»21. La stessa idea
è espressa da Hardt interpretando Deleuze. Quella di Deleuze è una «filosofia
affermativa»22, la quale «non rifiuta o ignora la potenza del negativo, ma propone
piuttosto un diverso concetto di negazione, una negazione che libera il campo
all’affermazione»23. Per questo motivo Deleuze contribuisce a un «programma
per un’ontologia materialista nella storia della filosofia»24, i cui riferimenti sono
Spinoza, Marx, Nietzsche e Lucrezio. A mio avviso, è il singolare passaggio dal
tema marxiano del comunismo a quello nietzscheano della trasvalutazione dei
19
M. Hardt, A. Negri, Il lavoro di Dioniso. Per una critica dello stato postmoderno, tr. it. di G.
Ballarino e V. Marchi, cura e revisione dei testi di G. Caccia, Roma 1995, p. 12.
20
Ivi, p. 11.
21
Ivi, p. 12.
22
M. Hardt, Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia, tr. it. di E. De Medio, Milano 2000,
p. 167.
23
Ibid.
24
Ivi, p. 7.
258
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
valori, che maggiormente pone problemi e difficoltà filosofiche e politiche, ma
anche il più interessante25.
Dunque, nel lavoro vivo si danno contemporaneamente e a-dialetticamente
la capacità di sovversione del processo capitalistico di produzione e quella di autonoma affermazione, nonostante la presenza della legge capitalistica del valore
a cui si vorrebbe sottomettere il lavoro: il progetto sovversivo ha un carattere
positivo. Infatti il lavoro vivo
non solo […] rifiuta la sua astrazione nel processo di valorizzazione capitalistica e di
produzione del plusvalore, ma mette in campo uno schema alternativo di valorizzazione: l’autovalorizzazione del lavoro. Il lavoro in questo modo è una forza attiva non
soltanto di negazione, ma anche di affermazione. Le soggettività prodotte nel processo
di autovalorizzazione del lavoro vivo sono gli agenti che creano una società alternativa,
un insieme di “prerequisiti del comunismo”, già in atto nella società contemporanea 26.
Compare qui una parola chiave nell’esplicitazione di questo nesso tra negazione e creazione, l’“autovalorizzazione”. Nel senso marxiano viene qui riconosciuto che il lavoro produce valore, quindi, nella misura in cui la società contemporanea è una società permeata dal valore, il lavoro vivo, in quanto produzione di
valore, costituisce la chiave di volta dell’analisi. Ma portando all’estremo questo
tema marxiano, anzi, andando oltre Marx, Hardt e Negri giungono a dire: «Il
mondo è lavoro. Quando Marx riconobbe il lavoro come sostanza della storia
umana, forse commise un errore, non per essere andato troppo oltre, ma piuttosto per non essere andato abbastanza lontano»27. Quest’affermazione da un lato
è il nucleo centrale della loro ontologia materialistica, della loro filosofia della
prassi, dall’altro vuole descrivere la situazione presente, nel cui discorso dominante si parla di fine del lavoro, mentre invece esso occupa il centro della scena,
avendo però subito una metamorfosi radicale: in superficie sembra scomparso,
25
Negri è partito dall’operaismo italiano e giunto a un confronto con il pensiero di Michel
Foucault, Gilles Deleuze e Félix Guattari. Ma in questo percorso, egli dice, è costante il «disegno teorico e […] l’esperienza pratica di vivere “con” e “oltre” Marx (e cioè nell’ambito del
materialismo storico) che hanno sempre guidato, nel bene e nel male, il mio discorso filosofico
e politico» (A. Negri, Kairòs, Alma Venus, Multitudo. Nove lezioni impartite a me stesso, Roma
2000, p. 11).
26
M. Hardt, A. Negri, Il lavoro di Dioniso, cit., p. 12.
27
Ivi, p. 17.
259
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
ma in realtà è sempre più la sostanza del mondo. Il problema che subito verrebbe
voglia di sollevare, è come si coordinano il piano ontologico con quello storico
dell’analisi: è stato, è e sarà sempre il mondo lavoro, e oggi se ne prende coscienza,
oppure questa è una situazione che emerge ontologicamente proprio nella presente congiuntura? Ma è evidente che qui si tratta di un concetto molto particolare
di “ontologia”, dove essere e tempo sono la stessa cosa nell’evento, kairòs, termine
caratteristico dell’ontologia materialistica di Negri28.
Senza dubbio Hardt e Negri non negano che vi sia un aspetto del valore prodotto dal lavoro vivo, che è quello inerente all’autovalorizzazione del capitale e che
si costituisce nella misura del tempo di lavoro, ossia nella divisione della giornata
lavorativa in tempo di lavoro necessario e pluslavoro, da cui viene estratto il plusvalore. Ma contro quest’autovalorizzazione capitalistica viene qui concepita, insieme
alla sua sovversione, un’autovalorizzazione completamente altra, ossia l’autovalorizzazione del lavoro vivo del tutto sottratta alla valorizzazione del lavoro nella sua
trasformazione in capitale, affermativa di nuovi valori senza che vi sia un processo
storico di transizione dal momento distruttivo a quello costruttivo di una nuova
forma di società, perché distruzione e creazione, negazione e affermazione si danno
a-dialetticamente nello stesso tempo-evento. È per questo motivo che nel processo
di autovalorizzazione concepito come indipendente da quello del capitale, si costituisce continuamente un soggetto, un potere, appunto, “costituente” che produce la sua stessa soggettività e rappresenta un prerequisito del comunismo. Dicono
Hardt e Negri: «Nella società capitalistica il lavoro mostra un’alternativa primaria e
radicale, un’alternativa che permette di analizzarlo non solo come costitutivo della
società capitalistica, ma anche come negazione del capitalismo e affermazione di
un’altra società»29. Questo duplice movimento di analisi del rapporto tra lavoro e
valore Hardt e Negri credono di poterlo riscontrare in Marx stesso, il quale da un
lato «approfondisce ulteriormente e perfeziona le analisi degli economisti del capitale a lui contemporanei»30, e dall’altro lato presenta la teoria del valore «anche in
un’altra forma, che si distacca radicalmente dalle teorie capitalistiche, perché prende in considerazione non tanto il processo capitalistico di valorizzazione, quanto
piuttosto i processi di autovalorizzazione (Selbstverwertung)»31.
28
29
30
31
Cfr. A. Negri, Kairòs, Alma Venus, Multitudo, cit., pp. 19-64.
M. Hardt, A. Negri, Il lavoro di Dioniso, cit., p. 14.
Ibid.
Ivi, p. 15.
260
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
Vorrei provare a interpretare queste affermazioni, dicendo che secondo me il
(vero o presunto) doppio significato del rapporto marxiano tra lavoro e valore,
Hardt e Negri ce lo presentano così rovesciato. Se da un lato si potrebbe porre
l’accento sul fatto che Marx assume dai classici la teoria della determinazione del
valore mediante il tempo di lavoro, ma, non avendo i classici spiegato l’origine
del plusvalore, pur avendolo riconosciuto, egli mostra che l’autovalorizzazione del
capitale avviene appropriandosi del tempo di lavoro altrui mediante il salario, in
Hardt e Negri si sottolinea il movimento inverso. Cioè a dire: è vero che Marx
riconosce l’origine del plusvalore, che i classici non avevano riconosciuto pur
avendo messo in luce l’ineguaglianza dello scambio tra lavoro oggettivato e lavoro vivo; tuttavia egli rimane nello stesso orizzonte dei classici perché, nonostante
il riconoscimento del «furto del tempo di lavoro altrui»32, comunque l’orizzonte è
la misura del valore mediante il tempo di lavoro, quindi una figura di equilibrio.
Ma appunto questa misura del valore mediante il tempo di lavoro, che è il
presupposto della stessa analisi dell’origine del plusvalore, caratteristico dell’autovalorizzazione del capitale nel momento in cui esso sussume il lavoro vivo, è rotta, squilibrata dalla potenza autovalorizzatrice del lavoro vivo stesso, che non si fa
catturare dalla misura capitalistica del valore, bensì è capace, ha la «virtualità»33,
di una propria smisurata auto-costituzione, perché tra dismisura e affermazione,
distruzione e creazione, corre un nesso di appartenenza a-dialettica che non deve
mediarsi. «La forza-lavoro è tenuta, così, per un elemento valorizzante della produzione, relativamente indipendente dal funzionamento della legge capitalistica
del valore»34. Dunque, nell’autovalorizzazione del capitale e del lavoro in quanto
capitale la base del valore è la misura del tempo di lavoro che viene diviso in
tempo di lavoro necessario e tempo di lavoro supplementare o pluslavoro, da cui
il capitale estrae il plusvalore, mentre col salario remunera solo quel tempo di
lavoro necessario alla riproduzione dell’operaio come forza-lavoro. Viceversa, dal
punto di vista di questa capacità di autovalorizzazione propria del lavoro vivo,
autovalorizzazione che Hardt e Negri vogliono leggere in Marx come una figura
di rottura dell’equilibrio proprio della misura capitalistica del valore, «l’unità di
valore è primariamente identificata in rapporto al lavoro necessario che non è
K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (Rohentwurf) 1857-1858; Anhang
1850-1859, vol. II, Berlin 1974, p. 593; tr. it. di E. Grillo, Lineamenti fondamentali della critica
dell’economia politica, vol. II, cit., p. 401.
33
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., pp. 329 ss.
34
Id., Il lavoro di Dioniso, cit., p. 15.
32
261
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
una quantità fissa, ma un elemento dinamico del sistema: il lavoro necessario
è storicamente determinato dalle lotte operaie contro il lavoro salariato, volte
trasformare il lavoro stesso»35. Delle lotte operaie, come si vede, viene messo
in luce il carattere fortemente “soggettivo”, ossia indipendente dall’oggettività
della contraddizione che il capitalismo genera nel suo movimento di autovalorizzazione. Ma se si parte dall’antagonistica capacità di autovalorizzazione che il
lavoro vivo ha rispetto al capitale, grazie al carattere soggettivo delle sue lotte che
continuamente cambiano la composizione di questa soggettività rivoluzionaria
del lavoro, ciò comporta che non vi è più un andamento unidirezionale che dal
lavoro porta al valore. Infatti, dal punto di vista dell’autovalorizzazione del capitale, certamente non negata, anzi, riconosciuta come effettiva e pervasiva di tutta
la società contemporanea – e questo paradossalmente quanto più si affermano i
processi antagonistici di autovalorizzazione del lavoro vivo – la struttura è data
dal lavoro vivo e la sovrastruttura dal valore. Viceversa, dal punto di vista di questo altro genere di autovalorizzazione, quello del lavoro vivo, il rapporto tra struttura e sovrastruttura risulta capovolto, in quanto, che cosa sia lavoro necessario e
quindi valore, viene determinato dalla soggettività delle lotte, dall’indipendente
capacità del lavoro vivo di generare valore. Quest’ultimo, però, non è la misura
capitalistica del tempo di lavoro e, come vedremo, non può essere neanche visto
come valore d’uso in contrapposizione al valore di scambio, ma ha a che fare con
«i valori esistenti in un contesto sociale e storico dato»36, da cui dipende la definizione di ciò che di volta in volta è lavoro creatore di valore: «La definizione delle
pratiche riconosciute come lavoro non è data una volta per tutte, ma è piuttosto
determinata storicamente e socialmente, sicché essa stessa costituisce un luogo
mobile di contestazione sociale»37.
Hardt e Negri portano come esempio le pratiche di lotta e di inchiesta (una
forma di conoscenza legata a queste pratiche) delle femministe, le quali hanno
analizzato forme inedite di divisione sessuale del lavoro familiare, oltre a quello
tradizionalmente riservato alle donne, come il lavoro di cura, affettivo, domestico vero e proprio. Queste lotte hanno messo di fatto in discussione la distinzione
marxiana tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, secondo il criterio per cui
sarebbe produttivo solo il lavoro che produce valore nel senso del capitale. Le
35
36
37
Ibid.
Ibid.
Ibid.
262
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
lotte delle lavoratrici sanitarie nella Francia della prima metà degli anni Novanta, oltre alle tradizionali rivendicazioni materiali, hanno posto anche i problemi
inerenti alla qualità del loro lavoro di rapporto col paziente, la malattia, la morte
e la pratica della medicina moderna. Qui la componente tecnica e quella affettiva
si combinano in uno specifico «valore d’uso del lavoro femminile»38, mettendo in
luce un terreno di produzione del valore con forme di autorganizzazione (le coordinations) corrispondente a questi processi di autovalorizzazione. Le lotte degli
ammalati di Aids negli Stati Uniti hanno sviluppato una pratica peculiare di autovalorizzazione, dove per l’appunto sono simultanei il momento antagonistico,
critico dello stato di cose presenti, e il momento di nuova affermazione di valori.
Infatti essi, oltre a criticare l’uso capitalistico dominante della scienza e porre il
problema del suo controllo, sono intervenuti direttamente nel processo di produzione della scienza e nel merito dei suoi contenuti, imparando a monitorare il
proprio corpo, a fare pressione per determinate sperimentazioni e applicazioni di
determinate medicine, e a unire le capacità tecniche sviluppate nelle lotte e nelle
loro forme di socializzazione con le capacità affettive di convivere con la malattia.
«Oggi tutte queste pratiche che creano valore possono e devono essere riconosciute come lavoro […]. Il concetto di valore è mobile: storicamente esso si definisce
attraverso la contestazione. Proprio in questo senso la teoria del valore basata sul
lavoro è anche una teoria del lavoro basata sul valore»39.
Il comunismo di cui parlano Hardt e Negri, distruttivo e affermativo senza
mediazioni dialettiche, poggia su queste figure sociali. Pertanto, questa torsione
fortemente a-dialettica della relazione tra capitale e lavoro fa sì che il discorso
marxiano vada a intersecarsi con quello di autori (Machiavelli, Spinoza, Nietzsche, Foucault, Deleuze, Guattari) che essi collocano in una “tradizione ontologica materialistica affermativa”, la quale nella storia della modernità costituirebbe
un’alternativa alla metafisica dominante, che essi denominano come pensiero
del “trascendentale” di contro al “piano di immanenza” che questa tradizione
alternativa prospetterebbe, sia pure con contraddizioni. Notiamo la mescolanza
tra questi autori in affermazioni del tipo: «La potenza del lavoro vivo contemporaneo […] procura (può procurare)»40 «gioia […] al soggetto sociale che lo
38
39
40
Ivi, p. 19.
Ivi, p. 15.
Ivi, p. 7.
263
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
detiene […]. Dioniso è il dio del lavoro vivo che crea in base al proprio tempo»41,
il quale è radicalmente diverso dal tempo di lavoro che nell’autovalorizzazione
capitalistica costituisce la misura del valore inteso come scambio di equivalenti,
in realtà disequivalenti, nel rapporto tra lavoro vivo e lavoro oggettivato. Così,
il Dioniso nietzscheano, dio della dismisura, si trova a essere anche il dio del
lavoro vivo marxiano – di un Marx oltre se stesso – in quanto il valore in Marx,
se considerato dalla parte del lavoro vivo che si autovalorizza, non è una «figura
di equilibrio»42, come nella razionalità capitalistica, dove la legge del valore «è il
tentativo di spiegare il mantenimento dell’equilibrio sociale nonostante il turbine
delle fluttuazioni accidentali»43, bensì è appunto «una figura antagonistica […],
soggetto dinamico della rottura del sistema»44.
3. Dal «general intellect» al lavoro immateriale odierno: tra dialettica e ontologia della soggettività
Abbiamo finora messo in luce questo nesso a-dialettico tra distruzione e
affermazione che caratterizza la categoria ontologica della soggettività operaia,
come potenza e capacità di autovalorizzazione indipendentemente dalla valorizzazione capitalistica. Da ciò consegue che «la storia della composizione di classe e quella della militanza del lavoro mostra la matrice di queste sempre diverse
e nondimeno determinate riconfigurazioni dell’autovalorizzazione, della cooperazione e dell’autorganizzazione politica come un efficace progetto sociale»45.
La prima fase dell’autovalorizzazione è quella dell’operaio dell’industria che
precede il pieno dispiegarsi dell’organizzazione produttiva fordista e taylorista.
La figura della soggettività politica del lavoro vivo è quella chiamata da Hardt
e Negri «operaio professionale»46. La base del suo potere di autovalorizzazione
era l’alta qualificazione professionale del lavoro produttivo e della cooperazione. L’obiettivo era la riappropriazione dei mezzi di produzione attraverso i soviet
dei produttori e la repubblica dei consigli. Strumenti di lotta erano il partito
41
42
43
44
45
46
Ibid.
Ivi, p. 15.
Ivi, p. 14.
Ivi, p. 15.
Id., Impero, cit., p. 377.
Ibid.
264
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
come avanguardia e il sindacato, i quali «finirono per sovradeterminare»47 le
lotte stesse. La seconda fase dell’autovalorizzazione è caratterizzata dalla figura
dell’«operaio massa»48, termine coniato già dalle posizioni operaistiche italiane
della fine degli anni Sessanta in contrapposizione all’operaio professionale. La
base dell’autovalorizzazione dell’operaio massa era l’estensione del suo potere
non solo nella produzione, come avveniva nel programma dell’operaio professionale, che nei soviet e nei consigli fondava tale riappropriazione della produzione sulla sua qualificazione professionale, dunque sul lavoro produttivo,
bensì nell’intera riproduzione sociale. Infatti l’operaio massa rifiutava il lavoro,
che nella fase ford-tayloristica si esprimeva nella disciplina di fabbrica e nel suo
tipo automatizzato di produzione e di socializzazione. Furono questo rifiuto
del lavoro, ossia della fabbrica, e l’estensione del potere all’intera riproduzione
sociale a sovradeterminare lo sviluppo capitalistico. La risultante dei rapporti
di forza di questa lotta fu «l’organizzazione dei sindacati dell’operaio massa, la
costruzione del Welfare State e il riformismo socialdemocratico […]. L’alternativa comunista, in questa fase, agì come un contropotere all’interno dello
stesso sviluppo capitalistico»49. Infine la fase odierna dell’autovalorizzazione
pienamente affermata è caratterizzata dalla figura dell’«operaio sociale»50, tema
a cui Negri lavora dalla seconda metà degli anni Settanta, perché è qui che
emerge con chiarezza la potenza autovalorizzatrice del lavoro vivo.
L’operaio sociale è caratteristico della fase post-fordista e post-taylorista della produzione, quella in cui essa diventa “immateriale”, attraverso lo sviluppo
dell’informatica, l’estendersi del lavoro nei servizi e del lavoro “affettivo”, ossia
del lavoro nella sanità, nell’industria dell’intrattenimento, nella cura alla persona, ecc. L’operaio massa estendeva il suo potere e la sua influenza a tutti i
dispositivi della riproduzione sociale, il che presuppone che ancora produzione
e riproduzione fossero distinte, anche se lì si creavano le premesse perché tale
distinzione fosse superata. Viceversa, la fase dell’operaio sociale è caratterizzata
dal superamento della distinzione tra sfera della produzione, rappresentata dalla
fabbrica, e sfera della riproduzione come momento della circolazione del capitale.
Nell’epoca del lavoro immateriale vita e lavoro coincidono e le relazioni vita-
47
48
49
50
Ivi, p. 378.
Ibid.
Ibid.
Ibid.
265
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
li sono direttamente produttive: ecco perché l’intera società, ossia l’intera sfera
vitale, è “fabbrica sociale”, il che implica un mutamento decisivo della struttura
del lavoro. Esso non è più quello della fabbrica tayloristica automatizzata, ma
un lavoro che utilizza come suoi strumenti principali il cervello e l’affettività,
quindi si identifica con l’intera corporeità e attiva diffuse reti cooperative su
scala globale. «Nella figura dell’operaio sociale le diverse componenti della forza
lavoro immateriale sono tessute insieme. È un potere costituente che connette
l’intellettualità di massa e l’autovalorizzazione in tutti gli ambiti in cui la cooperazione sociale flessibile e nomade è all’ordine del giorno»51. Come vedremo, ciò
che caratterizza questa figura è di essere una “moltitudine biopolitica”, ossia una
potenza lavorativa dotata di un potere di agire che si identifica con la vita stessa,
giacché, come abbiamo detto, le stesse relazioni vitali sono diventate produttive
cambiando così la qualità del lavoro, divenuto immateriale grazie all’uso del cervello e dell’affettività, per cui i soggetti di questa autovalorizzazione dell’operaio
sociale sono i corpi stessi: «La costituzione di nuovi corpi, al di fuori dello sfruttamento, è la base centrale del nuovo modo di produzione»52. Mentre l’operaio
professionale ha come obiettivo una repubblica dei consigli e l’operaio massa il
comunismo come contropotere all’interno dello stesso sviluppo capitalistico, il
“comune” dell’operaio sociale è la “costituzione”, consistente in un eguale diritto
di cittadinanza per tutti coloro che si muovono e migrano sul mercato mondiale,
nel diritto di costruire e controllare le reti comunicative, in una società che esprima i bisogni di tutti. Il carattere di questa costituzione è “biopolitico”, in quanto
essa è fondata su un’unità di produzione, riproduzione della vita e potere della
moltitudine senza alcuna mediazione, detta da Hardt e Negri “trascendentale”, la
quale si esprime nelle figure concettuali della sovranità moderna, stato, popolo,
nazione, nei concetti novecenteschi di dittatura di classe, socialismo realizzato,
democrazia diretta, e nella forma postmoderna del potere, quello adeguato all’operaio sociale o moltitudine biopolitica, che essi chiamano “Impero”.
Per comprendere questo passaggio all’operaio sociale e discuterlo dall’angolo
visuale che ho scelto in questo articolo, è necessario volgersi a Marx. Nel settimo quaderno dei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, del
1857-1858, Marx dice che nella forma di produzione basata sul valore di scambio, cioè nel rapporto sociale caratterizzato dall’opposizione tra capitale e lavoro
51
52
Ibid.
Ivi, p. 379.
266
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
salariato, la produzione della ricchezza è determinata in maniera decisiva dalla
quantità di tempo di lavoro impiegato.
Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria la creazione della ricchezza reale
viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che
dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che
a sua volta – questa loro powerfull effectiveness – non è minimamente in rapporto al
tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dallo stato
generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa
scienza alla produzione53.
In conseguenza di questa trasformazione, per Marx il lavoro stesso cessa di
essere la fonte della ricchezza in quanto incluso nel processo di produzione, perché
rispetto a questo intero processo, diventato un processo industriale attraverso le
macchine e la combinazione generale delle attività umane, l’uomo si pone sempre
più come sorvegliante e regolatore. E allora la misura del tempo di lavoro come
base della ricchezza, cosicché essa si valorizzi attraverso l’appropriazione del lavoro
altrui nel modo in cui lo fa il capitale, diventa del tutto sproporzionata, «una base
miserabile rispetto a questa nuova base che è stata creata nel frattempo e che è stata
sviluppata dalla grande industria stessa»54. La misura della ricchezza prodotta dagli
agenti che vengono messi in moto dalla grande industria, macchine e relazioni
sociali, in base al tempo di lavoro diventa dunque del tutto sproporzionata, smisurata. E allora, nel momento stesso in cui il lavoro immediato cessa di essere la
fonte della riproduzione della ricchezza non misurata e non misurabile più in base
al tempo di lavoro, «il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore
d’uso […]. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla e il processo
di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria
e dell’antagonismo»55. Infatti la fonte della ricchezza è il tempo reso disponibile
per ogni individuo e per tutta la società, o, in altri termini, per il libero sviluppo
dell’«individuo sociale»56. Nel rapporto antagonistico tra capitale e lavoro salariato,
proprio della forma di produzione capitalistica basata sul valore, questo tempo sup-
53
54
55
56
K. Marx, Grundrisse, cit., p. 592; tr. it., cit., p. 400.
Ivi, p. 593; tr. it., cit., p. 401.
Ibid.; tr. it., cit., pp. 401-402.
Ivi, pp. 593-594; tr. it., cit., p. 402.
267
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
plementare viene prodotto solo appropriandosi come un vampiro della vita altrui
ridotta alla mera riproduzione in quanto forza-lavoro. Ma proprio lo sviluppo del
capitale fisso, dunque il movimento stesso del capitale, fa sì che la produzione immediata dipenda ora non più dal tempo di lavoro immediato, bensì dal gigantesco
sviluppo delle forze produttive realizzatosi nelle macchine e nella combinazione
delle relazioni sociali, ossia dallo stretto rapporto tra sviluppo delle scienze naturali,
cooperazione e socializzazione del lavoro, e di conseguenza questo tempo liberato
resta a disposizione di ogni individuo e di tutta la società «per il libero sviluppo
delle individualità […], la formazione dello sviluppo scientifico, artistico ecc.»57.
Come si vede, questo sviluppo della grande industria mostra secondo Marx
come il capitale sia radicalmente contraddittorio nel suo movimento.
Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo […]. Da un lato esso evoca […]
tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente
dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti
che sono necessari per conservare come valore il valore già creato. Le forze produttive
e le relazioni sociali – entrambi lati diversi dello sviluppo dell’individuo sociale – figurano per il capitale solo come mezzi, e sono per esso solo mezzi per produrre sulla sua
base limitata. Ma in realtà essi sono le condizioni per far saltare in aria questa base58,
ossia l’appropriazione del tempo di lavoro reso disponibile, per produrre valore, la miseria dell’individuo ridotto a mera forza lavoro, e non la ricchezza del
libero sviluppo artistico e scientifico dell’individuo sociale.
«Lo sviluppo del capitale fisso» aggiunge Marx,
mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono
passate sotto il controllo del general intellect e rimodellate in conformità ad esso; fino a
quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere,
ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale59.
57
58
59
Ivi, p. 593; tr. it., cit., ibid.
Ivi, pp. 593-594; tr. it., cit., ibid.
Ivi, p. 594; tr. it., cit., p. 403.
268
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
Il capitale fisso, sviluppandosi, produce un sapere sociale generale che diventa
una forza produttiva immediata e quindi una condizione dello stesso processo
vitale della società. Il punto centrale mi sembra non solo che queste forze produttive sociali assumono il carattere intellettuale, ma che sono una forza produttiva
immediata, al posto del lavoro astratto o della ricchezza misurata secondo la divisione del tempo di lavoro in lavoro necessario e pluslavoro, cosicché tale divisione
perde ogni funzione produttiva. Perciò l’intelletto generale è stato certamente
prodotto dallo sviluppo storico del capitale come un mezzo di autovalorizzazione
sulla base del valore di scambio, ma, secondo la famosa immagine del Manifesto
del 1847-1848, dell’apprendista mago che non riesce a controllare le forze da lui
stesso evocate, esso diventa una condizione reale per far saltare in aria la base
limitata dell’autovalorizzazione capitalistica.
Secondo Hardt e Negri «quello che Marx vedeva nel futuro non è altro che
il nostro tempo. Le radicali trasformazioni della forza lavoro e l’incorporazione
della scienza, della comunicazione e del linguaggio nelle forze produttive hanno
ristrutturato da cima a fondo la fenomenologia del lavoro e l’intero orizzonte
della produzione»60. E tuttavia essi ritengono che la formulazione marxiana del
general intellect colga questa nuova potenza del lavoro vivo, degli agenti che vengono messi in moto nella produzione, per dirla con le parole dei Lineamenti,
solo in termini intellettuali, mentre nei nuovi regimi post-fordisti si tratta di un
coinvolgimento dell’intero corpo e ciò significa che ci troviamo in una costellazione qualitativamente diversa, rispetto a cui la descrizione marxiana «ha l’utilità
analogica di una proiezione ortogonale»61.
Nell’epoca della produzione ford-tayloristica vi era una tacita relazione tra
produzione e consumo in quanto i canali della comunicazione erano inseriti
nell’economia pianificata, le tecnologie di produzione di massa della grande fabbrica erano scarsamente flessibili e i consumi erano standardizzati. Perciò, «il
regime della produzione di massa di merci standardizzate, generalmente, poteva contare su una domanda adeguata e, quindi, non aveva alcuna necessità di
“ascoltare” il mercato»62. L’esempio tipico dei regimi fordisti di produzione era
dato dall’industria automobilistica. Ma proprio riguardo alle trasformazioni di
quest’industria negli anni Ottanta, si è parlato, sul modello giapponese, di re-
60
61
62
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 339.
A. Negri, Fine secolo. Un manifesto per l’operaio sociale, Milano 1988, p. 65.
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 271.
269
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
gime di produzione e di consumo “toyotisti”. Centrale è sempre il rapporto tra
produzione e consumo. All’opposto che nella produzione fordista, la comunicazione tra produzione e mercato si presenta nel toyotismo estremamente dinamica
e istantanea. Se nel fordismo la produzione, con le sue tecnologie scarsamente
flessibili, poteva contare su bisogni e consumi standardizzati, qui invece la produzione viene di volta in volta mutata sulle esigenze del mercato, o comunque
su una continua interattività tra produzione e mercato. Ma ciò comporta una
sempre maggiore interdipendenza tra azione strumentale e azione comunicativa,
superando la contrapposizione fatta da Habermas.
L’assunzione di un ruolo assolutamente centrale della comunicazione e
dell’informazione, che è qualche cosa di molto più ricco di una semplice trasmissione di dati di mercato, appare nettamente e tipicamente nell’altro settore
centrale di questo passaggio alla produzione postmoderna e cioè quello dei servizi, dove troviamo appunto l’esempio di una produzione di beni immateriali
tramite la comunicazione. Un lavoro «immateriale» è quello che non produce
beni materiali durevoli, ma «un servizio, un prodotto culturale, conoscenza o
comunicazione»63. La centralità del computer in questo tipo di lavoro non sta
solo nel fatto che esso è divenuto ormai lo strumento lavorativo indispensabile
e che le abilità informatiche sono una qualificazione essenziale per lavorare
nei paesi dominanti. Anche se non si maneggia un computer, le caratteristiche
essenziali di questo strumento di produzione sono comunque diventate il modello delle pratiche produttive e delle relazioni sociali, ossia hanno riconfigurato il tipo umano allo stesso modo in cui un tempo lo aveva fatto la macchina, la quale influenzava l’interpretazione dell’attività umana come un’attività
meccanica: «Le macchine interattive e cibernetiche sono come nuove protesi,
ormai integrate con le nostre menti e i nostri corpi fino al punto da ridefinirli
completamente in quanto menti e corpi. L’antropologia del cyberspazio segna
definitivamente una nuova condizione umana»64. Il computer, come strumento
e come modello di relazioni produttive e vitali, è caratterizzato dalla manipolazione dei simboli e dall’interattività. Infatti l’informatica modifica continuamente le sue operazioni man mano che si applicano e si interagisce con gli
utenti e l’ambiente. Inoltre nella prospettiva di Marx, del secolo XIX, vi era
una forte eterogeneità delle attività lavorative, come per esempio il taglio e la
63
64
Ivi, p. 272.
Ivi, p. 273.
270
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
tessitura, tanto che queste attività potevano essere unificate e rese omogenee
sotto la categoria del lavoro astratto, cioè «non più in quanto taglio e tessitura, bensì come singole forme di consumo della forza lavoro in generale»65.
Ma con l’informatizzazione della produzione il taglio e la tessitura diventano
computerizzati, cosicché il lavoratore in entrambi i settori ha a che fare con la
stessa attività ossia col computer. E allora la sua qualificazione, prima che nel
taglio e nella tessitura – su cui certamente deve anche avere competenze – sta
nella manipolazione dei simboli. Così, da un lato il lavoratore viene allontanato
dall’oggetto della produzione, dall’altro lato quell’eterogeneità del lavoro concreto tende a ridursi. Analogamente la differenza degli strumenti di produzione
che corrispondevano ad attività differenti (dalla forbice al telaio a mano nella
fase manifatturiera, e dalla macchina da cucire al telaio meccanico nella fase
dell’industria), il computer diventa il tramite universale per cui passa qualsiasi
attività. Ma in tal modo tutto il lavoro nella sua materialità diventa lavoro
astratto, dove astrazione sta per informatizzazione.
Oltre all’informatizzazione della produzione industriale, dove strumento e
comunicazione sono oggi più interdipendenti, e al settore dei servizi, dove il computer non è solo lo strumento ma anche il fattore che ha riconfigurato antropologicamente le menti e i corpi, c’è una terza componente di questa trasformazione
del lavoro, parimenti centrale. Essa è sì classificabile come lavoro immateriale,
ma non è modellata sul computer. Si tratta del lavoro affettivo, «ossia il lavoro
che è coinvolto nei contatti e nelle interazioni umane»66. Alcuni esempi li abbiamo visti sopra. Si tratta del lavoro di cura nel settore sanitario, dell’industria
dell’intrattenimento, dei cosiddetti “servizi alla persona” o “servizi a domicilio”.
Tutti questi sono lavori immateriali in quanto riguardano la manipolazione degli
affetti e danno quindi prodotti intangibili, «sentimenti di piacere, di benessere,
di soddisfazione, di eccitazione e passione»67. Essi hanno dunque come caratteristica centrale non il computer e la virtualità, ma i contatti umani, salvo che
nell’industria dell’intrattenimento, dove tali contatti sono sia reali che virtuali.
Pertanto questo tipo di lavoro è sì immateriale, ma nel senso che coinvolge la dimensione della corporeità, cioè a dire: non solo la mente attraverso lo strumento
simbolico e interattivo del computer, ma il corpo stesso produce comunicazione e
65
66
67
Ibid.
Ivi, p. 274.
Ibid.
271
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
interattività. Si tratta di comunicazione e interattività di tipo differente da quelle
dell’intelligenza artificiale, ma non per questo meno immateriali e meno ricche.
Orbene, questo lavoro immateriale nelle tre componenti sopra presentate,
industriale-informatizzato, terziario-informatizzato, affettivo, presenta un punto
comune: la dimensione sociale cooperativa è immanente al lavoro stesso e non
viene attivata, come pensavano Marx e l’economia classica, dal processo capitalistico di autovalorizzazione, per cui il lavoro sarebbe solo capitale variabile:
Ormai, è il potere inerente alla cooperazione della forza lavoro (e, in particolare, del
lavoro immateriale) che permette al lavoro di valorizzarsi […]. Al giorno d’oggi, la produttività, la ricchezza e la creazione del surplus sociale sono determinate dalla forma
dell’interattività cooperativa che corre lungo le reti dei linguaggi, delle comunicazioni
e degli affetti68.
Addirittura, o meglio, coerentemente con la loro premessa, Hardt e Negri
giungono a dire che in questa creatività del lavoro immateriale si esprime «un
comunismo spontaneo ed elementare»69, “virtuale”. Qui si mostra la radicale eterogeneità di questo discorso di Hardt e Negri rispetto a quello di altri settori della
sinistra, riformista e antagonista, che invece parlano di fine del comunismo avendo presente i modelli novecenteschi di socialismo riformista o rivoluzionario,
dell’Est o dell’Ovest, e considerano una secca sconfitta la distruzione del welfare
state e delle conquiste del movimento operaio in Occidente, avendo presente il
modello del lavoro del capitalismo e le forme politiche che hanno dominato nel
XX secolo. Viceversa, in questa prospettiva il comunismo o meglio, uno spazio a
una diversa pratica comune, si potrebbe dire, si dà proprio ora70.
Ivi, p. 275.
Ibid.
70
Negri osserva che il rifiuto del lavoro di fabbrica da parte degli operai massa, come rifiuto dei
contratti, dei compromessi sindacali dello stato fordista, ha comportato una deregolamentazione del lavoro, flessibilità ecc. Egli critica il fatto che il monopolio dell’interpretazione di questo
passaggio di produzione sia stato lasciato «ai neoliberali, agli imperialisti e persino ai fascisti»
(A. Negri, Fine secolo, cit., p. 58), mentre si trattava di un «nuovo passaggio della liberazione
della forza lavoro» (ibid.), ossia del passaggio all’operaio sociale e a nuovi, deterritorializzati
modi di produrre e di cooperare, virtualmente sottratti alla valorizzazione capitalistica. «Da un
lato il padrone, sia pure con inenarrabile sforzo, riusciva ad imporsi – riusciva cioè a rimettere
ordine nella produzione, a licenziare e a mobilizzare la forza lavoro; d’altro lato, gli operai, dopo
aver lottato e anzi portato a livelli altissimi le forme dello scontro, non si lamentavano più di
68
69
272
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
Nel passo marxiano dei Lineamenti del 1857-58, sopra commentato, trovo
anticipato il tema della Prefazione a Per la critica dell’economia politica, del 1859,
ossia la contraddizione che si produce, a un dato punto dello sviluppo delle forze
produttive materiali, tra queste ultime – qui l’intelletto generale – e i rapporti
di produzione esistenti, giuridicamente espressi nei rapporti di proprietà – qui la
misura della ricchezza in base al tempo di lavoro che produce valori –, rapporti
che «da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene»71.
Marx osserva, cioè, lo sviluppo, in seno alla vecchia società, delle condizioni
materiali di esistenza di nuovi rapporti di produzione, secondo il principio per
cui «l’umanità non si propone mai se non quei problemi che può risolvere»72,
fermo restante che, nel passaggio al libero sviluppo dell’individuo sociale, con la
vecchia misura della ricchezza in base tempo di lavoro diviso in lavoro necessario e pluslavoro, viene anche abolito in generale il carattere antagonistico della
produzione sociale a vantaggio di un carattere completamente cooperativo di
questa produzione, il che segnerebbe il passaggio dalla preistoria alla storia della
società umana. Indubbiamente, però, nella pagina dei Lineamenti il punto di
novità è rappresentato dal fatto che la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione non corre più primariamente tra capitale e lavoro salariato,
ormai sempre più messo fuori dal processo di produzione immediato nel ruolo
di sorvegliante e regolatore, ma tra l’intera società divenuta forza produttiva e la
misura del lavoro in base al tempo di lavoro, ossia in base appunto alla dialettica
di capitale e lavoro, regolata dal salario. Da questo punto di vista mi sembra che
Hardt e Negri sviluppino con piena ragione l’analisi di Marx, comprendendo che
nel passaggio di produzione contemporaneo è l’intera società a costituire la forza
produttiva immediata e quindi il lavoro produttivo non può più essere visto solo
come lavoro di fabbrica, altrimenti si resterebbe sul piano della base miserabile
della misura della ricchezza mediante il tempo di lavoro, mentre è invece l’intera
tanto del licenziamento e della mobilizzazione intervenuti (a disperarsi lasciavano le corporazioni) – anzi sulla libertà riconquistata, la forza lavoro operaia metteva in atto nuove iniziative
produttive» (ivi, p. 55). Quindi in un certo senso il corporativismo e le politiche di welfare degli
anni Sessanta, presentati come conquiste operaie che il capitalismo in trasformazione degli anni
Ottanta ha abbattuto, non vanno rimpiante, perché aprono un terreno nuovo dello scontro e
liberano quel lavoro vivo deterritorializzato che, riappropriatosi del corpo, dello strumento di
produzione cervello, è capace di innovare e autovalorizzarsi, capacità, questa, in cui, come vedremo fra poco, consiste la nozione di “virtuale”.
71
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 13, cit., p. 9; tr. it., cit., p. 5.
72
Ibid.
273
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
società, divenuta intelletto generale, a produrre. Tuttavia a me sembra altresì che
in Marx, anche in questo passaggio estremo della forma di produzione basata
sul valore, il capitale resti, sebbene al punto terminale, l’attore, il soggetto che,
sussumendo il lavoro nella base limitata del suo processo di valorizzazione, trasforma la sua parte, divenuta ormai preponderante, di capitale fisso, evocando lo
sviluppo dell’intelletto generale nell’intento di conservare come valore il valore
già creato, ma così ha evocato in realtà delle forze ostili e per lui definitivamente
mortali. Va da sé che qui lo svolgimento è rappresentato nella forma pura della
teoria, non nella linearità dello sviluppo storico empirico, tuttavia l’esposizione
prevede scientificamente un evento reale. È questa una concezione processuale
dialettica, ma non quella capovolta di Hegel, bensì quella «critica e rivoluzionaria
per essenza»73, che «nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione […] del suo necessario tramonto,
perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento»74.
Può essere del tutto plausibile che, con il constatare come l’intelletto generale, ossia tutta la società, sia divenuta forza produttiva immediata, Marx stesso abbia aperto una breccia che lo porta oltre la centralità della dialettica tra capitale e
lavoro salariato, dunque oltre la considerazione del lavoro solo in quanto sussunto
nel capitale, giacché, se l’intera società produce in quanto general intellect, si è,
per dirla con i termini di Hardt e Negri, “virtualmente” creata una potente città
terrena accanto e contro la parassitaria città celeste della valorizzazione in base
al tempo di lavoro, città che perde ogni funzione progressiva75. Pertanto diventa
plausibile ricavare da Marx stesso, accanto al processo di valorizzazione capitalistico che produce plusvalore, uno schema alternativo di autovalorizzazione, che
è quello visibile nel lavoro dell’intera società come intelletto generale. Infatti,
nella descrizione marxiana, l’intelletto generale non è capitale variabile, da cui la
produzione immediata dipende sempre di meno, dato lo sviluppo della scienza e
delle relazioni umane, ma capitale fisso. Però a me sembra che nella descrizione
dei Lineamenti lo sviluppo del sapere sociale generale, ossia la combinazione delle
attività umane, lo sviluppo delle relazioni umane e la loro oggettivazione nelle
macchine, significhi semplicemente la riduzione a un minimo del tempo di lavo-
73
Id., Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, Bd.I: Der Produktionsprozess des Kapitals,
Frankfurt-Berlin-Wien 1969, p. 12; tr. it. di D. Cantimori, Il capitale. Critica dell’economia
politica, Libro primo, cit., p. 45.
74
Ibid.
75
Cfr. M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., pp. 364 ss.
274
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
ro usato per la produzione immediata e la liberazione di tempo disponibile per
la formazione e il perfezionamento (Ausbildung) scientifico, artistico ecc, degli
individui a questo alto grado di socializzazione, dunque per lo sviluppo dell’individuo sociale. E poiché ricchezza significa appunto risparmio di tempo necessario
e liberazione di tempo disponibile per ogni individuo e per tutta la società, ecco
che, nella fase della grande industria, in cui questa ricchezza è prodotta da tutta
la società oggettivata nelle macchine e non più dal lavoro produttivo immediato
dell’uomo, espulso dal processo di produzione e spostato nel ruolo di sorvegliante e regolatore, quel tipo di valorizzazione basato sul «pluslavoro della massa»76,
quindi sulla misura del tempo di lavoro, non ha più senso. Esso è solo inadeguato
a quel sapere sociale generale, ormai non più condizionato dal «non lavoro dei
pochi»77, e che lo stesso capitale ha evocato proprio partendo dalla sua peculiare
modalità di valorizzazione, la misura della ricchezza sul tempo di lavoro supplementare estorto al lavoro vivo. Così il capitalismo cade per necessità dialettica
materiale, ossia per la stessa forza produttiva che ha messo in moto e che, nella
fase della grande industria, è data da tutta la società divenuta intelletto generale.
A questo punto subentra un’umanità che è fatta di individui sociali i quali, grazie
alle macchine, ossia all’oggettivazione della connessione tra elevato grado di socializzazione e sapere, in primo luogo scienza della natura, dispongono di tempo
per l’arte, la scienza, insomma, per tutte le oggettivazioni umane generiche.
Ma in Hardt e Negri, con l’allargamento dell’intelletto generale all’affettività e alla corporeità, la processualità dialettica cede il passo all’ontologia della
soggettività, la quale implica una concezione completamente diversa del tempo
e, ovviamente, del movimento, ossia quella a-dialettica dell’evento. E allora, a
mio avviso, essi non osservano soltanto una semplice, lineare estensione della
previsione di Marx, ma compiono un vero e proprio spostamento di paradigma.
Come è ovvio, va riconosciuta a Hardt e Negri la piena legittimità sia dell’interpretazione del presente passaggio di produzione in termini di “soggettività”,
rendendo bidirezionale il rapporto tra lavoro e valore, sia dell’autonoma appropriazione dei classici a questo fine. Da parte mia, se tento di commisurare il
risultato della loro elaborazione al discorso di Marx, è solo perché credo che i
nomi dei classici si fanno in quanto questi alludono a concatenazioni di problemi implicanti scelte di fondo, e non per inesistenti, inattuali e poco interessanti
76
77
K. Marx, Grundrisse, cit., p. 593; tr. it., cit., p. 401.
Ibid.
275
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
questioni di “ortodossia” o di “revisionismo”. Ora, a me sembra che tra Hardt e
Negri, da un lato, e Marx, dall’altro, vi sia una diversa di concezione del tempo
e del movimento, che comporta una diversa concezione dell’uomo, della natura e
del lavoro. In poche battute, mentre in Marx credo rimangano al centro l’uomo
naturalizzato e la natura umanizzata, il concetto di soggettività autovalorizzatrice in Hardt e Negri – ripeto, del tutto legittimamente – va oltre l’uomo e
configura un paradigma diverso del rapporto tra uomo e natura, del lavoro e
quindi una diversa concezione del comunismo. Infatti, constatato il limite intellettualistico della formulazione marxiana dell’intelletto generale, l’introduzione
del concetto di “corpo” nella loro fenomenologia del lavoro immateriale li porta a
connettere Marx con Foucault, qui letto sulla scorta di Deleuze. Ma anche questi autori del secondo Novecento sono solo un punto di partenza per teorizzare
autonomamente la potenza autovalorizzatrice della nuova soggettività proletaria
immateriale postfordista.
4. Il “corpo collettivo biopolitico”
Secondo Hardt e Negri, Foucault, sia pure in maniera non esplicita, permetterebbe di individuare, dalla modernità alla contemporaneità, un passaggio dalla
«società disciplinare»78 alla «società del controllo»79. Il primo tipo di società, che
Foucault esemplifica sull’ancien régime e sull’età classica della storia francese, costruirebbe il dominio «attraverso una fitta rete di dispositivi o apparati che producono e regolano gli usi, i costumi e le pratiche produttive»80. Ciò significa che il
funzionamento di questa società e l’obbedienza vengono prodotti da una serie di
istituzioni quali la scuola, la fabbrica, l’università, la prigione, l’ospedale, il manicomio, che prescrivono con una logica adeguata, interna a quell’istituzione, ciò
che è normale e ciò che è deviante. Dunque le istituzioni della società disciplinare
operano attraverso meccanismi di inclusione ed esclusione, “dentro” e “fuori”.
Hardt e Negri ritengono di estendere quest’analisi di Foucault a tutta la fase
dell’accumulazione capitalistica moderna per poterla poi distinguere e contrapporre alla fase postmoderna di produzione e di strutturazione del potere, l’Impero,
78
79
80
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 38.
Ibid.
Ibid.
276
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
connesso proprio alla perdita di centralità di una caratteristica istituzione della
fase disciplinare, lo Stato-nazione e la politica mondiale ad esso legata, l’imperialismo, caratterizzato da dispositivi coloniali di chiusura, “dentro”, e sfruttamento
del “fuori”. Questa fase del comando imperiale, l’ordine della globalizzazione, corrisponde alla società del controllo. Qui il funzionamento del potere e l’obbedienza
non vengono prodotti più, o prevalentemente, attraverso una serie di istituzioni
di inclusione ed esclusione, “dentro” e “fuori”, normalità e devianza, ma in modo
immanente al sociale, “democratico”, per così dire, dove i concetti di normalità e
devianza, di “dentro” e “fuori”, vengono introiettati dai soggetti stessi,
vengono distribuiti attraverso i cervelli e i corpi degli individui […]. Il potere si
esercita con le macchine che colonizzano direttamente i cervelli (nei sistemi della
comunicazione, nelle reti informatiche ecc.) e i corpi (nei sistemi del Welfare, nel
monitoraggio delle attività ecc.), verso uno stato sempre più grave di alienazione dal
senso della vita e dal desiderio di creatività81.
Si tratta quindi degli stessi dispositivi disciplinari di normalizzazione: solo che essi,
nella società, si intensificano, si estendono e agiscono sempre meno, o non solo, nei
dispositivi strutturati delle istituzioni moderne e sempre più nelle comuni pratiche
quotidiane.
Accanto a questa distinzione tra società disciplinare e società del controllo,
Hardt e Negri utilizzano il concetto di “biopotere” o di “carattere biopolitico del
potere”, per indicare quel potere che ha per oggetto la vita stessa, amministrandola in ogni suo aspetto, e soprattutto la cui condizione di funzionamento sta nel
fatto che esso viene compreso e riattivato volontariamente, introiettato insomma,
dagli individui: «Il biopotere agisce dunque in un contesto in cui ciò che è in
gioco per il potere è la produzione e la riproduzione della vita stessa»82.
Ebbene, Hardt e Negri ritengono che precisamente nel passaggio dalla società disciplinare alla società del controllo sia l’intera società a costituire l’ambito del biopotere e ciò permetterebbe di innestare questi due elementi del
discorso di Foucault, e della sua lettura da parte di Deleuze, sulla problematica
del comunismo nella fase dell’operaio sociale, un comunismo di corpi ossia di
intelletti sociali, linguaggi interattivi e affetti. In questo, va precisato, gli autori
81
82
Ivi, p. 39.
Ibid.
277
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
sono perfettamente consapevoli di procedere del tutto autonomamente da Foucault. Nella società disciplinare le tecnologie biopolitiche danno ancora effetti
parziali: gli individui sono mantenuti all’interno dell’istituzione dei dispositivi
chiusi, non sono socializzati, per cui alla disciplina dei corpi corrisponde la resistenza del singolo. Viceversa nella società del controllo il biopotere raggiunge
i corpi stessi degli individui, cervello e affettività, e la totalità delle relazioni
sociali. Tuttavia questa totalità delle relazioni sociali pervase dal biopotere,
non significa la società a una dimensione descritta dalla scuola di Francoforte,
oppure il passaggio, descritto da Marx, dalla “sussunzione formale” alla “sussunzione reale” del lavoro nel capitale. Nella descrizione marxiana quest’ultimo, nella fase di sussunzione formale, sottomette alle sue leggi (estrazione del
plusvalore mediante la divisione della giornata lavorativa in tempo di lavoro
necessario e tempo di lavoro supplementare) processi lavorativi appartenenti a
fasi di produzione precapitalistiche; nella fase di sussunzione reale trasforma
sostanzialmente la qualità del processo lavorativo stesso, consistente ora in una
connessione strettissima tra divisione del lavoro, combinazione delle attività
produttive, uso delle macchine e impiego delle scienze naturali: è questa, mi
sembra, la fase in cui si sviluppa il capitale fisso come sapere sociale generale.
Nonostante l’analogia che si può riscontrare tra passaggio dalla sussunzione
formale alla sussunzione reale, da un lato, e passaggio dalla società disciplinare alla società del controllo, dall’altro, l’ambito del biopotere è innanzitutto,
per l’appunto, l’intero bios, ossia non solo la stretta dimensione economica e
culturale, bensì l’intera società in quanto «vita e morte, ricchezza e povertà,
produzione e riproduzione sociale, e così via»83. Agendo sulla totalità della vita
e pervadendo l’intera società, senza essere diviso nei differenti dispositivi disciplinari di inclusione ed esclusione, il biopotere non può essere unidimensionale, ma deve agire in modo singolarizzato e quindi plurale, su “mille piani”,
secondo la direzione di ricerca di Deleuze e Guattari. Di conseguenza, in un
simile dispositivo globale risulta impossibile applicare la dialettica di stato e società civile, dove lo stato media nella società civile e ne unisce i diversi elementi.
Infatti, a differenza che nella società disciplinare, dove la resistenza a un potere
veniva esercitata da parte del singolo all’interno della relativa istituzione, nella
società del controllo
83
Ivi, p. 42.
278
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
le resistenze non sono più solo marginali, ma agiscono al centro della società che si
distende nelle reti […]. Ciò che nel discorso di Foucault rimaneva implicito (e che Deleuze e Guattari hanno esplicitato) è il paradosso di una forma di potere che, mentre
unifica e ingloba ogni elemento del sociale (perdendo, in tal modo, la capacità effettiva
di mediare forze sociali differenti), nello stesso momento svela un nuovo contesto, un
nuovo ambiente costituito dalla massima pluralità e da una incontenibile singolarizzazione – il piano dell’evento84.
Come si vede, in Hardt e Negri anche sul piano dei rapporti di potere, come su
quello dei rapporti di produzione, la concezione dialettica del tempo come processo
cede il posto alla concezione differenziale del tempo come evento. Ne consegue
che, se in Marx i due piani potevano venire distinti in quanto struttura e sovrastruttura, in Hardt e Negri, abbracciando il biopotere tutta la vita sociale su mille
piani, la distinzione dialettica marxiana non ha più ragione d’essere, coerentemente
alla bidirezionalità, da loro sottolineata, del rapporto tra lavoro e valore.
Questo paradigma biopolitico è quello che caratterizza l’Impero, o – il che è
lo stesso, data la cancellazione della distinzione tra piano dei rapporti di produzione e piano dei rapporti di potere – l’attuale fase postmoderna del capitalismo.
L’Impero agisce sulla singolarità dell’evento e al tempo stesso sulla totalità delle
relazioni sociali. A differenza che nei precedenti rapporti internazionali caratterizzati dai trattati interstatali, ma anche di quelli caratterizzati dalla centralità
delle Nazioni Unite, il diritto odierno, sintomo di una costituzione materiale
biopolitica, «è capace di rapportarsi al mondo intero come un unico insieme
sistemico»85. Pertanto esso deve operare in continuo stato di eccezione, mediante tecniche di polizia, per aderire plasticamente all’imprevedibilità dell’evento.
Questo tipo di “sistemicità” dello stato di eccezione che caratterizza il diritto
imperiale, non ha tuttavia nulla a che vedere con i concetti di dittatura e di totalitarismo, in quanto nell’Impero c’è una relazione non mediata tra potere sovrano
e molteplici soggettività, che esso deve controllare ma non eliminare, per imporsi
appunto come un sistema biopolitico che pervade l’intera società-mondo. Ecco
perché nell’Impero il diritto non è eliminato, ma continua ad avere un ruolo centrale e assume una forma completamente procedurale in modo, come dicevamo,
da aderire immediatamente alla variabilità temporale dell’evento.
84
85
Ivi, pp. 40-41.
Ivi, p. 41.
279
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Tuttavia, se il biopotere viene considerato solo dal punto di vista di questo
diritto imperiale sistemico e al tempo stesso aderente al piano dell’evento, non
se ne coglie la radice produttiva, il suo bios, contro cui il potere si esercita. Il
motore produttivo è quel piano di immanenza rappresentato dal lavoro vivo,
dalle soggettività corporee, insieme di cervello e affettività, singolari e al tempo
stesso cooperative. Ed è qui che, secondo Hardt e Negri, le ricerche di Foucault,
Deleuze e Guattari rivelano, per versi differenti, i loro limiti. È stato merito di
Foucault avere superato la classica divisione marxista che colloca la sfera del potere e della riproduzione sociale sul piano della sovrastruttura e la produzione su
quello della struttura. Tuttavia quelle dimensioni della riproduzione sociale del
potere, che nel marxismo costituivano la sovrastruttura, qui diventano una più
allargata struttura materiale, secondo un’impostazione ancora strutturalistica e
dunque solo funzionale. Ma in questo modo viene sacrificato proprio il piano
ontologico-temporale dell’evento, che caratterizza il biopotere come un potere
che ha per oggetto l’intera vita della società sui mille piani della singolarizzazione, dunque non viene raggiunto il bios nella sua produttività. La dimensione
creativa e ontologica della riproduzione sociale e i soggetti e gli oggetti che la
costituiscono, cioè gli affetti, il divenire, la creazione di valori e di relazioni sociali, sono invece messi al centro dell’indagine da Deleuze e Guattari. Pertanto
essi vanno più in direzione delle dinamiche realmente biopolitiche della società
del controllo, ossia del suo motore, le soggettività dei corpi che producono e
cooperano per generare il mondo, la vita stessa. Tuttavia Deleuze e Guattari
concepiscono la produzione sociale, nella sua creatività positiva, soltanto come
movimento continuo e flusso assoluto, «come un orizzonte caotico e indeterminato segnato dall’ineffabilità dell’evento»86, cosicché gli elementi creativi restano
impotenti. Infine alcuni marxisti italiani, Paolo Virno, Christian Marazzi ecc.,
hanno colto la relazione tra produzione sociale e biopotere, quindi la dimensione di soggettività delle forze produttive – il che supera lo strutturalismo della
descrizione foucaultiana del biopotere – e la hanno positivamente determinata
col termine marxiano di general intellect o come “intellettualità di massa”, lavoro immateriale ecc. – dando così una determinazione a quell’ontologia della
produzione sociale e delle macchine produttive, che in Deleuze e Guattari si
presentavano come flussi assoluti e indeterminati. Essi hanno dunque colto il
ruolo centrale della forza-lavoro intellettuale immateriale nella produzione del
86
Ivi, p. 43.
280
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
plusvalore, e la composizione linguistico-comunicativa della nuova soggettività,
oggetto dello sfruttamento capitalistico contemporaneo e potenziale rivoluzionario: «Dopo una nuova teoria del valore […] occorre formulare una nuova teoria
della soggettività che opera prevalentemente sul piano della conoscenza, della
comunicazione, del linguaggio»87. Ritengono però Hardt e Negri che qui, come
in fondo nella pagina di marxiana dei Lineamenti, una forza-lavoro immateriale
così descritta sia caratterizzata troppo esclusivamente in termini di intellettualità
e comunicazione, trascurando la dimensione della corporeità che costituisce il
nucleo dell’odierna produzione sociale come unione di lavoro affettivo, lavoro
comunicativo della produzione industriale e lavoro interattivo dei servizi: queste
tre dimensioni costituiscono il bios della società biopolitica del controllo. Questo
bios Hardt e Negri lo rappresentano come un «corpo collettivo biopolitico […].
Questo corpo diviene una struttura non negando l’originaria forza produttiva
che lo anima, ma restituendogliela; esso diviene linguaggio (scientifico e sociale)
in quanto moltitudine di corpi singolari e determinati in relazione tra di loro»88.
Come, nella rappresentazione dell’Impero, potere economico e potere politico sono fusi completamente89, così anche in quella del suo motore, il corpo
biopolitico, lo sono produzione e riproduzione sociale:
La vita non viene più prodotta nei cicli della riproduzione che, un tempo, erano subordinati alla giornata lavorativa; al contrario, oggi la vita pervade e domina tutte le produzioni. Il valore del lavoro e la produzione si svolgono nelle viscere della vita […]. Non
ci sarebbe alcun surplus se la produzione non fosse animata dall’intelligenza sociale,
dal general intellect e dalle configurazioni affettive che pervadono i rapporti e le articolazioni dell’essere sociale […]. La produzione delle merci è sempre più sistematicamente
dominata dal linguaggio – ove per linguaggio occorre intendere macchine intelligenti
continuamente rinnovate dagli affetti e dalle passioni90.
Ivi, p. 44.
Ivi, p. 45.
89
Con quest’affermazione Hardt e Negri non pensano tanto al potere monopolistico delle multinazionali, secondo il classico schema dell’imperialismo. Senza dubbio queste esercitano un
potere nell’articolazione di comando dell’Impero, ma qui, parlando del tentativo imperiale di
fondere il potere economico e quello politico, si vuole mettere in luce la specificità biopolitica
dell’Impero nell’assumere come oggetto del potere la vita stessa e quindi nel fondere produzione
e riproduzione.
90
Ivi, pp. 339-340.
87
88
281
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Poiché ciò che viene prodotto è la vita stessa, è ovvio che ciò che viene prodotto è anche ciò che viene riprodotto, per cui la riproduzione non è più un semplice
momento della circolazione del capitale. Tuttavia qui la vita prodotta e riprodotta
dalla vita stessa non è un flusso temporale indeterminato, ma è costituita dalle
reti di linguaggi, comunicazioni e cooperazioni, affettività, create dall’odierno
lavoro immateriale, insomma è il general intellect diventato (o, più precisamente,
inteso come) corpo biopolitico collettivo. Esso produce surplus sociale non come
lavoro sussunto nel capitale ma in modo indipendente, in forza della sua stessa
“ontologia”, cioè in quanto in esso sono immanenti l’affettività, la comunicazione
linguistica, il desiderio, conatus, di cooperazione.
Di conseguenza, è il fatto stesso che la cooperazione è ontologicamente immanente alle reti linguistiche, comunicative e affettive, insomma è la stessa ontologia di questo lavoro postmoderno, a vanificare il concetto di proprietà privata «come diritto esclusivo di usare un bene e di disporre di tutta la ricchezza
ricavabile dal suo possesso […]. Ci sono sempre meno beni che possono essere
posseduti e usati in questo modo. Il soggetto della produzione è piuttosto la comunità, la quale, mentre produce, si riproduce e ridefinisce»91. E tuttavia, quanto
più il lavoro immateriale dei regimi post-fordisti ha immanente il carattere cooperativo e segue traiettorie temporali indipendenti dalla socializzazione creata
dalla misura capitalistica del valore fondata sul furto del tempo di lavoro altrui,
tanto più «questo nuovo assetto della produzione non ha assolutamente eliminato
i regimi politici e giuridici che sostengono la proprietà privata. La crisi concettuale della proprietà privata non si è tradotta in una crisi in senso materiale – al
contrario, l’espropriazione condotta dalla proprietà privata ha trovato un campo
di applicazione pressoché universale»92. Questo è quanto avvenuto con la crisi
del welfare e con le politiche neoliberali di privatizzazione del pubblico. Ciò vuol
dire che nella società postmoderna il capitale e il potere, diventati tutt’uno senza
articolarsi in una struttura e una sovrastruttura, essendo il loro oggetto diventata
la vita stessa, vivono parassitariamente di questo antagonismo con la produzione
biopolitica caratteristica del lavoro immateriale. Perciò Hardt e Negri osservano:
Se la forma del lavoro tende verso la completa immaterialità, se il mondo della produzione è adesso descrivibile nei termini di ciò che Marx chiamò General Intellect, allora il
91
92
Ivi, p. 283.
Ibid.
282
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
lavoro vivo indica lo spazio che su questo terreno si apre per la ricomposizione politica
dell’antagonismo. Perché non riappropriarsi della natura immateriale del lavoro vivo?
Perché non chiamare la proprietà privata dei mezzi di produzione furto – mille volte
di più in quanto esercitata anche sul nostro lavoro immateriale, sulla più profonda e
indomabile natura dell’umanità93?
E tuttavia anche in questo caso il riferimento a Marx sottende un forte differenza di metodo, in quanto l’accento è spostato dal movimento storico-dialettico
della contraddizione tra capitale e lavoro, all’autonoma, imprevedibile iniziativa
della soggettività del lavoro. Discriminante mi sembra appunto la trasformazione,
operata da Hardt e Negri, del concetto marxiano di general intellect, più o meno
foucault-deleuzianamente rivisitato, in quello di “corpo collettivo biopolitico”.
5. Dalla dialettica marxiana tra “ dentro” e “ fuori”, all’“oltre misura”
Il metodo di Marx, coerentemente con la tradizione del pensiero critico moderno, è caratterizzato da un’impostazione dialettica, che Hardt e Negri chiamano tra “dentro” e “fuori”. Marx, parlando delle macchine e della grande industria, osserva:
La macchina non agisce soltanto come concorrente strapotente, sempre pronto a rendere “superfluo” l’operaio salariato. Il capitale la proclama apertamente e consapevolmente potenza ostile all’operaio e come tale la maneggia. Essa diventa l’arma più potente per
reprimere le insurrezioni periodiche degli operai, gli scioperi ecc. contro la autocrazia
del capitale […]. Si potrebbe scrivere tutta una storia delle invenzioni che dopo il 1830
sono nate soltanto come armi del capitale contro le sommosse operaie94,
ragion per cui gli operai dovranno in un lungo arco di tempo imparare a
distinguere le macchine dal loro uso capitalistico. In quest’ottica di Marx sono
dunque le lotte proletarie il motore dello sviluppo capitalistico, in quanto costringono il capitale a trasformare, attraverso l’innovazione, sia i rapporti di produzione che quelli di dominio. Le varie epoche della storia dello sviluppo capita-
93
94
Id., Il lavoro di Dioniso, cit., p. 28.
K. Marx, Das Kapital, cit., pp. 391-392; tr. it., cit., p. 480.
283
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
listico, dalla manifattura alla globalizzazione, passando per la grande industria,
il capitale finanziario, le ristrutturazioni degli anni Settanta, erano risposte al
“motore” rappresentato dalle lotte operaie. Ebbene, secondo Hardt e Negri questo processo determina «il luogo dello sfruttamento […] dialetticamente»95 e precisamente secondo una dialettica dentro-fuori che funziona nel modo seguente:
La forza-lavoro è l’elemento più interno, la sola sorgente del capitale. Nello stesso tempo, però, la forza lavoro rappresenta il di fuori del capitale, il luogo dove il proletariato
riconosce il proprio valore d’uso, la sua autonomia, e ove esso radica la sua speranza di
liberazione […]. Nel pensiero di Marx, la relazione tra il dentro e il fuori dello sviluppo
capitalistico è totalmente determinata dal duplice punto di vista proletario, dentro e
fuori dal capitale96.
Se nella fase post-fordista o post-moderna il lavoro investe la vita stessa, non
è più possibile mantenere una differenza tra vita sociale e vita economica, perché
non vi sono più luoghi determinati che permettono di distinguere i due ambiti,
come poteva essere prima tra fabbrica e società. In effetti, vorrei osservare che già
negli anni Sessanta, pur mantenendosi la distinzione tipica dell’epoca fordista fra
produzione e riproduzione, gli operai cercavano un’alleanza tra fabbrica e società,
e in tal modo si creavano le premesse per rompere la distinzione stessa ed estendere il lavoro a tutta la sfera vitale, rendendolo immateriale. Venuta a cadere la
distinzione tra fabbrica e società, quest’ultima diventa tutta intera produttiva, e
ciò che viene prodotto è intellettualità, linguaggi, interazione e affettività. La vita
produce indipendentemente dalla regolazione nei tempi della giornata lavorativa
e quindi indipendentemente dalla creazione e conservazione capitalistica della
ricchezza come valore. Pertanto, in questa condizione non ci può essere più un
“dentro” del valore di scambio e un “fuori” del valore d’uso, che connotavano la
lettura marxiana della lotta tra capitale e lavoro, lettura fatta in base alla relazione antagonistico-dialettica tra sommosse operaie e trasformazioni del capitale. E
in questa prospettiva la scienza non è più la risposta del capitale alle lotte operaie
mediante una sempre più avanzata trasformazione tecnologica del processo lavorativo e delle relazioni di dominio, ma è ora divenuta la qualità stessa del lavoro,
quindi il terreno delle lotte sociali: «La scienza è uno dei terreni dell’antagonismo,
95
96
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 200.
Ibid.
284
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
probabilmente quello centrale, perché è il terreno sul quale finisce per rivelarsi
l’effettualità della riappropriazione operaia del processo produttivo. E accanto
alla scienza, intrecciato quando non subordinato ad essa, è il sistema delle dimensioni sociali della produzione e della riproduzione, del politico e dell’etico»97.
Negri reinterpreta, così, la distinzione marxiana tra capitale costante e capitale variabile, inteso il primo come l’insieme degli strumenti tecnici accumulati e
conservati durante lo sviluppo e il secondo come il lavoro vivo che continuamente rianima ciò che è stato accumulato e ne fa la base della nuova accumulazione.
Orbene, «questa distinzione marxiana non riguarda solo il modo capitalistico
di produzione, riguarda piuttosto l’intero campo materialista, cioè il mondo. La
produzione costituisce infatti il mondo, seguendo una traccia di cui la temporalità è sostanza»98. Dunque, il senso del materialismo non riguarda la semplice produzione separata dal mondo, ma il mondo stesso che è produzione, della
quale il soggetto è il corpo. La traccia della produzione divenuta mondo o del
mondo divenuto produzione è il tempo. Di quale tempo si tratta? Certamente
non del tempo di lavoro come misura capitalistica o socialistica della ricchezza,
né del tempo della dialettica, che scandiva le innovazioni del capitale come risposte alla spinta del lavoro vivo e il lavoro vivo come il fuori del capitale, il luogo
dell’emancipazione, sì da concepire tutta la storia come un processo che, esaurita
la funzione progressiva del capitale, passa all’emancipazione umana sulla base del
“fuori” del valore d’uso non più misurato da quello di scambio. Per Negri il tempo è una traccia a-dialettica, dove il “prima” è il lavoro morto che continua ad
accumularsi, mentre il “dopo” è il lavoro vivo che crea verità (linguaggi, comunicazione, affetti, insomma immaterialità), rivivifica quello che è già stato e crea il
nuovo. Pertanto il lavoro vivo non è più misurabile dal valore e non è neanche il
“fuori” del valore d’uso che libera dal valore di scambio, ma è già ora «il kairòs dei
corpi che creano verità attraverso la prassi»99, cioè creano «avvenire»100, mentre il
capitale «ha sussunto il mondo facendone una creatura morta»101. Come si vede,
il capitale non produce innovazioni tecnologiche, dunque progresso, in risposta
alle lotte operaie, motore della storia, in quanto queste sarebbero al tempo stesso
la sorgente del capitale, ossia creatrici di valore, e il “fuori” del capitale in quanto
A. Negri, Fine secolo, cit., pp. 72-73.
Id., Kairòs, Alma Venus, Multitudo, cit., p. 58.
99
Ibid.
100
Ivi, p. 59.
101
Ibid.
97
98
285
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
riconoscentesi come valore d’uso indipendente, che dal capitale si deve emancipare. Nel momento in cui il lavoro, uscito dalla fabbrica, è diventato l’essenza
stessa del mondo lungo la freccia del tempo-evento, allargando il campo della
materia al mondo stesso, il capitale diventa creatura morta e parassitaria. Di
contro, «il lavoro vivo prende il mondo in mano, lo trasforma e lo innova, radicalmente, nel comune»102, perché, come lavoro immateriale, ha immanente nei
soggetti singolari il desiderio di cooperazione.
Con l’estendersi del lavoro vivo su tutta la società, anche lo sfruttamento non
è più limitato alla fabbrica, ma tende parimenti a pervadere la società intera. Non
solo il lavoro vivo, ma anche il capitale morto subisce questa delocalizzazione e
quindi abbandona la dialettica del “dentro” e del “fuori”: «Le nuove forze produttive non hanno luogo, poiché li occupano tutti, producono e sono sfruttate
in questo stesso non-luogo indefinito»103. Però, l’estendersi del lavoro vivo e dello
sfruttamento all’intera società e quindi la perdita di luogo del lavoro e dello sfruttamento, non implica affatto un’omologia tra i due momenti. Infatti
oggi più che mai, nella misura in cui le forze produttive vengono completamente delocalizzate e divengono completamente universali, esse non producono solo merci, ma
anche ricche e potenti relazioni sociali […]. L’universalità della creazione umana, la
sintesi tra libertà, desiderio e lavoro vivo sono ciò che ha luogo nel non-luogo dei rapporti di produzione postmoderni. L’Impero è il non-luogo della produzione mondiale
ove il lavoro è sfruttato104.
L’“avere luogo” del lavoro vivo nel “non luogo” della produzione immateriale,
non significa che esso abbia una localizzazione, tipo la fabbrica o altra istituzione
“disciplinare”. Qui “avere luogo” sta per: avere un carattere affermativo, essere
capace di auto-costituirsi nel “non luogo”, cioè farsi mondo lungo la freccia del
tempo, nell’evento, kairòs, della rivivificazione di ciò che è stato già creato e nella
continua generazione di “avenire”, e soprattutto nel rendere possibile la cooperazione immanente all’intelligenza e agli affetti. Il capitale rappresenta il “non
luogo” come negazione senza affermazione, un biopotere senza bios, ovvero che
vive parassitariamente del bios del lavoro vivo antagonistico, avendo cessato la
102
103
104
Ibid.
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 201.
Ibid.
286
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
legge del valore di avere la benché minima funzione progressiva, perché il lavoro
ha cessato di essere caratterizzato dalla dialettica tra valore di scambio come il
suo “dentro” in quanto sorgente del capitale, e valore d’uso come il “fuori” della
sua emancipazione, ed è divenuto il mondo stesso, un “non luogo”, ma un “non
luogo” pieno, creativo, affermativo e in questo senso un “luogo”.
«Nel campo materialista, l’inchiesta ontologica è [...] del tutto interna alla
dinamica produttiva»105, quindi si tratta di un materialismo caratterizzato
dalla continua innovazione creativa. Un materialismo siffatto non è dialettico, bensì è un materialismo ontologicamente connotato, un materialismo del
tempo-evento, del kairòs che continuamente innova e si potenzia. Mentre il
materialismo dialettico è caratterizzato dalla dialettica localizzata del “dentro”
e del “fuori”, quest’ontologia materialistica dell’evento è delocalizzata, perché
concerne il “non luogo” dei rapporti di produzione postmoderni dove “ha luogo” – nel senso che ne è il motore – il lavoro vivo, che produce reti e relazioni
sociali corporee (intellettuali, comunicative e affettive) non più misurabili in
base al tempo di lavoro come nell’epoca della centralità della fabbrica distinta
dalla sfera sociale della riproduzione. Pertanto il lavoro vivo diventato il mondo
stesso, avendo luogo nel “non luogo” ed eccedendo la misura capitalistica del
valore, è “oltre misura”:
Oltre misura vuol dire che il non-luogo è il nuovo luogo, il luogo definito dell’attività produttiva che si rende autonoma da qualsiasi estrinseco regime della misura […].
Dopo aver rotto le gabbie della disciplina economica, sociale e politica, e dopo aver
superato tutti i regimi coercitivi del capitalismo moderno e la sua forma stato, il lavoro
si mostra oggi come attività sociale generale, come un eccesso produttivo nei confronti
dell’ordine esistente e delle leggi della sua riproduzione106.
Viceversa, continuando il capitale a esercitare il suo sfruttamento nel “non
luogo” della produzione mondiale, caratterizzato dall’imprevedibile “oltre misura” dell’evento, il potere è «fuori misura»107 perché «è ormai nell’impossibilità di
ordinare e calcolare la produzione sul livello globale»108.
105
106
107
108
A. Negri, Kairòs, Alma Venus, Multitudo, cit., p. 59.
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., pp. 332-333.
Ivi, p. 332.
Ibid.
287
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
L’ontologia di cui qui si parla è completamente produttiva: «L’essere […] non
è un dato ma un costruito»109. Solo così essa può essere un’ontologia materialistica del lavoro vivo. D’altronde, una volta identificato tutto l’essere col lavoro
creativo immateriale, questo materialismo è “oltre misura”, perciò Hardt e Negri
parlano di “lavoro di Dioniso”. Vista in questo contesto ontologico, adeguato
ai regimi post-tayloristi di produzione, capitale costante e capitale variabile corrispondono rispettivamente all’eternità come «il già generato»110 e all’“avenire”
come «ciò che, sull’orlo del tempo, sta per esser costituito»111. In quest’ontologia
materialista del lavoro vivo, dove l’essere è costruito sulla traiettoria del tempo,
«il tempo dell’eterno si smisura, attraverso la generazione, nell’avenire»112: infatti
la produzione post-fordista è “oltre misura”, di contro al capitale e al suo dominio
imperiale che è “fuori misura”.
Quale che sia la posizione che si ha rispetto a questa concezione, mi sembra
che la connessione tra lavoro vivo e “oltre misura” sia almeno coerente con la
premessa. Infatti, se si afferma che il lavoro non coincide più con la sola attività
produttiva della fabbrica, perché pervade tutta la società, anzi è l’essenza del
mondo, ciò significa che il lavoro è la vita stessa: ma la vita, come ci hanno detto
Nietzsche e tutte le filosofe della vita del Novecento, è per eccellenza rottura,
espansione, dismisura. Diversamente formulato: se nei regimi post-tayloristici di
produzione il lavoro, diventato immateriale, pervade tutta la società e diventa la
vita stessa, e se la vita è dismisura, ecco che il lavoro stesso è “oltre misura”.
Il richiamo da me fatto alla filosofia della vita, non intende per nulla sollevare
a Hardt e a Negri l’accusa di vitalismo irrazionalistico, data la loro insistenza sul
carattere affermativo, costituente, della vita o, il che è lo stesso, del lavoro vivo, il
quale è un “non luogo” come nuovo luogo, un “oltre misura”, ma non un “fuori
misura”. A questo proposito il loro riferimento privilegiato mi sembra essere Deleuze, ma anche distanziandosene. Il tema è il rapporto tra virtualità, possibilità,
realtà, centrale per definire l’“oltre misura” della vita o della produzione, ad essa
identica, come un concetto e una pratica totalmente affermativi. Hardt e Negri
si riferiscono all’opera di Deleuze, Le bergsonisme, dove l’autore riprende da Bergson la distinzione tra passaggio dalla virtualità all’attualità e passaggio dalla
109
110
111
112
A. Negri, Kairòs, Alma Venus, Multitudo, cit., p. 105.
Ivi, p. 107.
Ibid.
Ibid.
288
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
possibilità alla realtà. Bergson dà il primato al passaggio dal virtuale all’attuale
rispetto alla coppia possibile-reale, perché vuole affermare l’essere come «continuo atto di creazione, che porta sempre in luce qualche novità imprevedibile»113,
e non come «semplice riduzione – sulla base delle rassomiglianze – di numerosi
mondi possibili a un unico mondo reale»114. Hardt e Negri ritengono invece che
sicuramente la virtualità abbia una potenza creativa, e tuttavia ciò è insufficiente,
«in quanto trascura la realtà dell’essere creato, il suo peso ontologico, e le istituzioni che – creando la necessità dalla contingenza – conferiscono al mondo una
determinata struttura»115. Come si vede, qui la smisuratezza della vita consiste
nella sua dimensione produttiva, creatrice di nuovi valori, i quali non sono dialetticamente omologabili alla valorizzazione dello sfruttamento capitalistico. Si
tratta di un “eccesso” che non è semplice flusso creativo, ma che dalla contingenza crea la necessità, dando così al mondo una struttura determinata.
“Virtualità” per Hardt e Negri è un «insieme di poteri d’agire (essere, amare,
trasformare e creare) che risiedono nella moltitudine [...]. Il lavoro vivo costruisce
i tramiti dal virtuale al reale: il lavoro è il veicolo del possibile»116. Se il lavoro vivo
è il tramite del passaggio dal virtuale al possibile giungendo «a lambire il reale»117,
la vita diventata lavoro o il lavoro diventato vita non sono un flusso indeterminato,
bensì una potenza affermativa. Alla luce della relazione tra virtualità e possibilità,
Hardt e Negri reinterpretano la categoria marxiana dell’astrazione. Essa presenta un doppio significato. Da una parte c’è l’astrazione del capitale, che «significa
separazione dal nostro potere di agire, e coincide quindi con una negazione del
virtuale»118. Dall’altro lato c’è l’astrazione, radicalmente altra e senza relazione dialettica col capitale, del lavoro vivo: qui «l’astratto coincide con l’insieme generale
dei nostri poteri d’azione, ossia con il virtuale»119. È questo, a mio avviso un altro
modo per dire che il lavoro diventato immateriale ha immanente, come una forza immaginativa, la tendenza alla cooperazione, al comune, e che quindi l’oltre
misura, l’eccedenza innovativa del lavoro vivo tende all’affermazione ontologica,
a tradurre il virtuale in possibile e il possibile in reale. Per Negri, l’“astrazione de-
113
114
115
116
117
118
119
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 434.
Ibid.
Ibid.
Ivi, pp. 332-333.
Ivi, p. 332.
Ivi, pp. 434-435.
Ivi, p. 435.
289
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
terminata” di Marx è connessa strettamente alla determinazione della “tendenza”:
«Le determinazioni dell’essere possono […] in Marx essere portate all’“astrazione”
(alla conoscenza) solo quando, attraverso la conoscenza, si apra l’essere determinato
al divenire, ovvero alla potenza della “tendenza”»120. Egli ricorda un’affermazione
di Deleuze, in La grandeur de Marx, dove il comunismo è la «possibilità di tradurre
la comunità dell’episteme in comune ontologico»121, dunque il passaggio dalla possibilità alla realtà. Abbiamo una concezione del tempo e del movimento non come
un processo continuo scandito da una fase insurrezionale, una transizione e poi la
costruzione del comunismo. Il piano dell’evento nega una transizione al comunismo perché il lavoro vivo, che crea “avenire” dalla contingenza, ha già immanente
la tendenza alla cooperazione, quindi al comune. Questo evento che virtualmente
si presenta come un’apertura sul vuoto ha però in se stesso, immanente, il suo telos,
quindi è sempre una potenza affermativa.
Sulla base di quanto detto fin qui, non mi sembra incoerente, da parte di Hardt
e Negri, stabilire la connessione tra la tematica marxiana dell’autovalorizzazione,
riferita al lavoro (resta da discutere se in quanto capitale o anche indipendentemente da esso, ma non nel senso del valore d’uso) con la trasvalutazione nietzscheana.
Il problema è se i due concetti di valore, di Marx e di Nietzsche, siano in qualche
modo avvicinabili o se non implichino scelte di fondo e conseguenze completamente alternative. Decisivo è capire se dalla concezione marxiana del valore in generale sia eliminabile o meno la processualità, lo sviluppo dialettico, e se questo sia
sostituibile con la concezione del tempo-evento. Ciò implica discutere più a monte
la legittimità o meno dell’identificazione tra lavoro e vita, general intellect e corpo
collettivo biopolitico. Come si vede, su questo punto si incontrano una questione
“metafisica” e la comprensione del presente. In ogni caso il tema Marx-Nietzsche si
rivela anche qui di primario ed “epocale” interesse.
6. La moltitudine come relazione immanente di singolarità e comune, e l’Impero
come parassita
Il lavoro vivo post-fordista è fatto di corpi singolari che cooperano, generano
il “comune” e quest’ultimo non si sovrappone alle singolarità come una “misura
120
121
A. Negri, Kairòs, Alma Venus, Multitudo, cit., p. 32.
Ibid., p. 33.
290
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
trascendentale”, ma le potenzia. La singolarità sta nel fatto che questo lavoro vivo
ha come soggetti e come strumenti il cervello, gli affetti, insomma i corpi, e ciò
non può che essere singolare, quindi nella produzione immateriale post-fordista
il produttore ha la proprietà degli strumenti di produzione. Ma queste singolarità
sono cooperative e nel movimento dal virtuale al possibile vi è un desiderio «che
costituisce la sostanza di una cosa comune. È la costituzione del comune che mette in movimento la produzione e genera la produttività generale»122. La relazione
tra singolarità e universalità è dunque reciproca: il lavoro singolare, ossia ogni
singolo potere di agire, tende a costruire opere comuni e, viceversa, il comune
che viene costruito è sempre singolarizzato:
L’uno e il molteplice si danno contemporaneamente – ma dal punto di vista ontologico l’uno è al servizio del molteplice […]. Saperi localizzati, territorializzati – senza
divenire locali o corporativi. Vale a dire che l’operaio sociale identifica nell’universalità
del proprio essere sociale, nella microfisica indefinita dei suoi poteri, la natura dell’antagonismo e lo oppone alla centralizzazione capitalistica del potere […]. Il nuovo non
è unitario ma molteplice. Il nucleo produttivo dell’antagonismo è la molteplicità123.
Vi è nella globalizzazione un localismo etnico, razziale ecc., fatto di negazione
e chiusura, insomma di opposizione tra “dentro” e “fuori”, e vi è, al contrario, un
“locale” che è positiva articolazione del “non luogo” globale, in quanto fa sì che
ogni luogo sia il proprio luogo. Perciò «la moltitudine postmoderna è un insieme
di singolarità il cui utensile di vita è il cervello e la cui forza produttiva consiste
nella cooperazione. E cioè: se le singolarità che costituiscono la moltitudine sono
plurime, il modo nel quale esse si connettono è cooperativo»124.
Negri parla di “moltitudine postmoderna”, per distinguerla e contrapporla al
concetto moderno di moltitudine, la quale è fatta di singolarità che devono essere
organizzate e mediate da uno stato, un movimento, un popolo, una qualsivoglia
volontà generale, o devono acquistare una coscienza di classe. La molteplicità delle
singolarità, che caratterizza la moltitudine nel senso postmoderno, non è costituita
dagli individui isolati dello stato di natura, il quale evoca lo “stato civile” che le
nega come moltitudine mediante una qualche forma di centralizzazione “trascen-
122
123
124
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 333.
A. Negri, Fine secolo, cit., p. 74.
Id., Kairòs, Alma Venus, Multitudo, cit., p. 125.
291
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
dentale”, come Negri la chiama, perché – e questo mi pare il punto fondamentale
– essa è definita in base al lavoro vivo, cioè in base all’utensile e alla produttività:
la sua vita è lavoro e il lavoro è vita. Questa è la discriminante tra il concetto
hardt-negriano di moltitudine postmoderna e quello moderno hobbes-hegeliano,
dove invece la moltitudine è definita sul modello dell’individualismo possessivo,
dunque della società civile, cioè in base ai regimi di proprietà privata che oggi le
reti cooperative del lavoro immateriale postmoderno hanno reso priva di senso,
nonostante la sua odierna tendenza a estendersi tanto più universalmente quanto
più il soggetto della produzione diventa la comunità. In altri termini, il concetto
moderno di moltitudine modellato sull’individualismo possessivo esprime quella
misura capitalistica moderna del valore che il lavoro immateriale delle moltitudine
odierna continuamente eccede, “smisura”. Di conseguenza, mentre nella moltitudine moderna segnata dall’individualismo possessivo e dalla misura del valore troviamo la guerra di tutti contro tutti che deve essere superata negando le singolarità in
una misura trascendentale, nel lavoro vivo, in base a cui si definisce la moltitudine
postmoderna, troviamo la tendenza alla cooperazione, dove il comune non toglie le
singolarità, al contrario, sta in una «relazione reciproca: da un lato, i singoli poteri
del lavoro costituiscono di continuo opere comuni; dall’altro, ciò che è comune
viene sistematicamente singolarizzato»125. E allora, mentre la moltitudine moderna
ha bisogno di mediarsi in una sovranità che la trascende, nel concetto postmoderno di moltitudine «il potere del lavoro [è] un potere di autovalorizzazione che
eccede se stesso, fluisce verso l’altro e, attraverso questo investimento, dà vita a una
comunanza espansiva. Le azioni comuni del lavoro, dell’intelligenza, della passione
e degli affetti configurano un potere costituente»126. Il potere costituente di cui qui si
parla è dunque immanente allo stesso concetto di autovalorizzazione e di soggettività ed è del tutto incommensurabile con il concetto moderno di sovranità che ne
è la negazione. Infatti, «le metafore trascendentali del dominio negano che, sull’orizzonte delle singolarità, la cooperazione possa essere (di per sé) elevata all’efficacia
del dominio e che l’intellettualità di massa sia capace di unità nella decisione su di
esso»127, da cui il passaggio dallo stato di natura allo stato civile, dalla volontà generale alla volontà di tutti, dalla società civile allo stato, dalla classe in sé alla classe
per sé, dalla spontaneità all’organizzazione del partito ecc.
125
126
127
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 333.
Ibid.
A. Negri, Kairòs, Alma Venus, Multitudo, cit., p. 125.
292
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
Anche per il potere, come per la produzione, che in Hardt e in Negri non sono
più articolati rispettivamente in una sovrastruttura e in una struttura, troviamo il
motivo conduttore della “misura” che nega l’“oltre misura”. La sovranità come misura misconosce che un potere efficace possa risultare direttamente e assolutamente, ossia senza alcuna mediazione, dalla cooperazione delle singolarità, cooperazione che,
reciprocamente, significa potenziamento e servizio delle singolarità e non loro negazione, negazione mediante la quale le singolarità vengono “tolte” e restituite ordinate
in una costruzione organica: «La forma-Stato moderna articola l’unità di misura in
un processo di composizione e di distribuzione “organica” di funzioni “rappresentative”. La misura subordina la pluralità delle potenze singolari ad uno schema di
mediazione organica e le distribuisce in una gerarchia di funzioni»128. Di questo tipo
di misura fa parte anche la democrazia rappresentativa moderna, «una pratica della
misura ed un’esaltazione del limite»129. Il leninismo si è posto il problema di ricomporre la moltitudine. Questo problema mi sembra si ponga anche in Hardt e Negri,
perché la moltitudine è virtuale, ossia un insieme di poteri di agire che mediante il
lavoro vivo giungono al possibile. Ma il passaggio al reale, l’auto-perfezionamento
del kairòs in rapporto al telos, avviene senza mediazione, giacché la moltitudine, in
quanto lavoro vivo, è capace di autovalorizzarsi possedendo ogni singolarità il medio,
lo strumento, ossia il cervello, gli affetti, il corpo, in cui è un desiderio di cooperazione che porta al “comune”. Il potere costituente è dunque assolutamente immanente.
Invece nel leninismo il progetto di ricomposizione della moltitudine «ha fallito il
suo compito quando ha definito la dittatura come la forma più alta della democrazia»130. In questo modo il leninismo ripropone lo schema della misura che subordina
le singolarità alla mediazione organica, quindi partecipa della sovranità moderna. E
che questo sia vero, dice Negri, lo si vede con chiarezza nel fatto che, nonostante la
genesi e il successo positivi della rivoluzione d’ottobre, la teoria leninista della rivoluzione ha come «scheletro nell’armadio»131 lo sviluppo industriale moderno assunto
come unità di misura, ossia esattamente la negazione dell’“oltre misura” su cui si
fonda il potere costituente del lavoro vivo. Nel leninismo si vede dunque come la
misura accomuni lo sviluppo industriale e la sovranità moderna. Allo stesso schema
della misura partecipano le varie forme di democrazia diretta, perché le illusioni tra-
128
129
130
131
Ivi, p. 127.
Ibid.
Ibid.
Ibid.
293
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
scendentali della comunità delle singolarità o della «volontà generale, classe generale,
grande sera anarchica, logica individualista del mercato politico»132, nonostante le
grandi diversità tra queste concezioni, fungono come dei presupposti che misurano
«la produzione temporale della moltitudine»133, quella che nel kairòs del lavoro vivo
innova continuamente l’eterno e si espone alla dismisura. Per Negri l’unica forma
di democrazia diretta esistita realmente è la democrazia corporativa, avutasi nel fascismo, attraverso la mediazione dei gruppi sociali nello stato etico, eventualmente
capace di annientare il diverso, e nel new deal keynesiano, che, attraverso la concertazione tra le élites capitalistiche, quelle operaie sindacali e i governi, assoggetta le
singolarità della moltitudine alla misura dello sviluppo imperialistico. Rientrano nel
modello misurante della sovranità moderna quelle teorie pluralistiche della democrazia ispirate proudhonianamente, le quali, nonostante presentino una misura modesta
di intervento del potere sovrano nel sociale, tuttavia non per questo fanno scomparire
o riducono la “misura”, anzi sono perfettamente nella linea della sovranità moderna,
perché esse immaginano che questa “misura” sia assorbita dal o nel sociale. Perciò si
tratta di una variante delle democrazie corporative, perché viene misconosciuta «la
dismisura dell’avenire»134. Infine, la forma post-moderna della sovranità, l’Impero
con le sue teorie “deboli”, è quella che direttamente è confrontata alla moltitudine
postmoderna del lavoro immateriale, quindi è un biopotere che agisce sullo stesso
piano immanente della moltitudine.
Constatata un’organizzazione sociale di reti di comunicazione diffuse, autonomamente
consistenti, sottoposte ad una forte tensione fra radicamento territoriale e mercato globale (di produzione, riproduzione e circolazione dei valori) […], si progetta un processo
di ricentralizzazione fondato sull’unità di una misura (monetaria, finanziaria, ecc.)
globalmente valida135.
Pertanto, da un lato l’Impero agisce su mille piani, perché deve inseguire l’imprevedibilità dell’evento, ossia deve rispondere alla moltitudine, dove le singolarità
innovano e cooperano e l’unità è a servizio del molteplice; per rispondere al bios,
che lo produce come biopotere, «distende il suo baricentro su orizzonti deterri-
132
133
134
135
Ivi, p. 128.
Ibid.
Ivi, p. 129.
Ibid.
294
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
torializzati»136. Dall’altro lato, poiché è impostato sulla “misura”, deve restaurare
la sovranità, ma senza la mediazione, in quanto si confronta direttamente con la
moltitudine e la moltitudine si confronta direttamente con l’Impero. Ecco perché
in ogni punto possono sorgere resistenze che non sono più marginali: di qui, la
polizia e il carattere procedurale del diritto, e la capacità di sussumere in sé anche
le concezioni riformiste e quelle rivoluzionarie.
Il punto essenziale mi sembra consistere nel fatto che il potere costituente
della moltitudine postmoderna, essendo lavoro vivo che innova l’eterno e si
espone alla dismisura, e avendo solo in se stesso i poteri d’agire, ossia essendo
virtualità che, grazie al lavoro intellettuale, affettivo, corporeo, diventa possibilità, non trova la sua legittimità in una qualche normatività formale, ma nella
sua stessa ontologia. «Questo movimento ontologico oltre misura è un potere
espansivo, un potere libero, una costruzione ontologica e una disseminazione
onnilaterale»137, dove i «semi»138 sono appunto quelli «di una virtualità che
vuole diventare reale»139.
Questa definizione espansiva è antidialettica poiché afferma la creatività di ciò che è
oltre misura. Nel linguaggio della filosofia moderna, il potere di agire simultaneamente
nei termini della singolarità e della comunanza è prettamente spinoziano. Tuttavia,
questa definizione può anche essere intesa nei termini propri di Nietzsche: l’espansione
onnilaterale del potere di agire rivela le basi ontologiche della trasvalutazione e, cioè, la
sua capacità non solo di distruggere i valori che discendono dal regno trascendentale
della misura, ma anche di crearne di nuovi140.
Il riferimento a Spinoza e a Nietzsche, con cui viene integrata la concezione
marxiana del lavoro vivo come base del comunismo, sta a sottolineare il carattere
ontologico e non normativo di questo comunismo, quindi il nesso tra virtuale e
reale. La differenza è che l’ontologia, in riferimento a Spinoza riguarda il rapporto tra singolarità e comunanza, in riferimento a Nietzsche il carattere eccessivo,
“oltre misura”, della realtà costituita dal lavoro vivo che innova l’eterno e, in
questo senso, è “dionisiaco”.
136
137
138
139
140
Ibid.
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 334.
Ibid.
Ibid.
Ibid.
295
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Di conseguenza, nella stessa prospettiva ontologica viene considerata la funzione dell’Impero. Come abbiamo detto, nonostante la potenza costituente della
moltitudine postmoderna, l’Impero, dunque i regimi di proprietà e la misura
capitalistica del valore, continuano a sussistere, anzi si estendono in modo quasi
universale. Per Hardt e Negri, cessata ogni funzione progressiva del capitale grazie alla capacità di autovalorizzazione immanente al lavoro vivo della moltitudine, dunque grazie alla sua virtualità, l’Impero ha solo la funzione di parassita.
Tuttavia questo parassitismo non è senza efficacia, al contrario. Infatti, poiché
la moltitudine è virtualità, ossia insieme di poteri d’agire che vogliono diventare
reali, la funzione parassitaria efficace dell’Impero sta nel mantenere la divaricazione, lo iato, tra virtualità e realtà della moltitudine: «L’azione del governo
imperiale interviene per danneggiare e frenare le potenzialità possedute dalla
moltitudine di suturare tra di loro virtualità e possibilità»141. Pertanto, la funzione dell’Impero è puramente negativa e poiché qui la negazione non costituisce
hegelianamente il medio che porta all’affermazione, nella prospettiva ontologica
la moltitudine è potenza d’essere, mentre l’Impero è mancanza d’essere. E inoltre,
poiché l’essere è qui produttività, attività, l’Impero è reattività. Infatti esso agisce
solo come retroazione dei poteri della moltitudine: «Qualsiasi azione imperiale è
un contraccolpo della resistenza della moltitudine, che pone all’Impero sempre
nuovi ostacoli da sormontare»142. Infatti, se, nonostante la sua mancanza d’essere,
l’Impero è globalmente ovunque, ciò avviene solo perché esso deve inseguire le
mille resistenze che incontra in ogni punto, dato che ovunque si produce il nesso
tra virtualità e possibilità, ossia quel bios su cui, sia pure parassitariamente, esso si
regge appunto come un biopotere. Coerentemente con queste premesse ontologiche, mentre la moltitudine, come sovrabbondanza d’essere e come attività, è un
potere costituente, l’Impero, come negazione, mancanza d’essere e reattività, agisce su un terreno solo normativo, da cui i suoi poteri di polizia e il carattere solo
procedurale del suo diritto per inseguire le resistenze, i mille eventi, che in ogni
punto si producono autonomamente, dato il carattere costitutivamente, ontologicamente eccedente dell’agire della moltitudine. Da ciò si vede come “costituente”
significhi ontologico, di contro alla normatività della sovranità, che è solo «il
residuo negativo, la ricaduta della potenza della moltitudine»143. In questa impo-
141
142
143
Ivi, p. 335.
Ibid.
Ivi, p. 336.
296
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
stazione ontologica è evidente che abbiamo il primato, appunto, ontologico, del
lavoro vivo, dell’autovalorizzazione, quindi dell’azione della moltitudine, mentre
il capitale è solo ricaduta negativa del potere costituente, dunque è depotenziamento, è «l’immagine più povera e ripetitiva delle determinazioni dell’essere»144.
Questa rappresentazione della moltitudine e dell’Impero in termini ontologici
è, come si vede, assolutamente a-dialettica, in quanto non abbiamo qui un processo di transizione posto dal capitale in forma antagonistica, in cui, a un certo
grado dello sviluppo, il valore di scambio cessa di essere misura del valore d’uso,
il quale diventa la base della distruzione dei precedenti rapporti di produzione,
e ciò come esito estremo dello stesso fatto che il capitale è la contraddizione in
processo. L’Impero è invece perennemente crisi, “onnicrisi”, dovuta alle continue
resistenze che lo tengono in vita in questa forma parassitaria. Invece della contraddizione storico-dialettica, abbiamo perciò la differenza ontologico-vitale tra
“attivo” e “reattivo”.
Se il campo ontologico dell’Impero è disseminato di una virtualità che vuole
diventare reale,
ci deve essere indubbiamente un momento in cui la riappropriazione e l’autorganizzazione raggiungono una soglia e configurano un evento reale. Questo è il momento in
cui si afferma effettivamente il politico – quando la genesi è completata e l’autovalorizzazione, la convergenza cooperativa tra i soggetti e la gestione proletaria della produzione si fanno potere costituente […]. Questo è il momento fondativo di una città terrena,
forte e separata dalla città divina145.
La soglia dell’evento reale non è però il passaggio dal “dentro” del lavoro vivo
come sorgente del capitale, al “fuori” del valore d’uso, perché il potere d’agire
è tutto nel lavoro vivo e non è più posto dal capitale. In un processo dialettico
materiale, è il capitale stesso a provocare lo sviluppo di quegli agenti che per necessità lo portano alla crisi e al crollo, per cui abbiamo un punto in cui si verifica
un’insurrezione e si avvia una fase di transizione che porta a una diversa forma
di società. In questa prospettiva, invece, il lavoro vivo capace di autovalorizzarsi
è già potere costituente, mentre l’Impero, non avendo nessuna funzione di attore
di un processo storico antagonistico, ed essendo perciò solo un residuo negativo
144
145
Ivi, p. 335.
Ivi, p. 379.
297
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
della potenza della moltitudine, è perennemente declino e crisi. L’evento reale
si ha dunque non quando all’interno della vecchia società si sono pienamente
sviluppate le forze produttive a cui i rapporti di produzione sono inadeguati,
per cui subentra la rivoluzione, ma quando la moltitudine, nel passaggio dal
virtuale al reale, eleva la cooperazione delle singolarità all’efficacia del dominio e
la decisione è presa dall’intellettualità di massa su un piano di immanenza, senza
seguire lo schema trascendentale della sovranità. Allora è la stessa moltitudine
che, nel pieno della sua affermatività, distrugge questo limite imperiale che lo
insegue e lo controlla. Così, la distruzione dello stato di cose presenti nel senso
marxiano, avviene a-dialetticamente in una con l’affermazione dei nuovi valori
nel senso nietzscheano. Di conseguenza l’esclusione della dialettica del “dentro”
e del “fuori” esclude a sua volta ogni concetto di transizione, caratterizzata da un
momento insurrezionale e da una dittatura che segna il passaggio al comunismo,
perché essa imporrebbe la misura della sovranità e distruggerebbe l’immanente
potere costituente della moltitudine.
Vorrei a questo punto porre alcuni problemi. Mi sembra che la moltitudine
con il suo lavoro vivo abbia qui una sorta di autosufficiente primato ontologico
e sia la condizione di possibilità della sua negazione, la sovranità imperiale che
reattivamente la insegue. Solo che – ecco il punto – questa negazione non è
un medio per l’oltrepassamento e l’affermazione, ma semplicemente è declino,
negazione e basta. Allora mi chiedo: visto che l’attore fondamentale non è il
capitale come un processo contraddittorio che crea nel suo stesso automovimento le condizioni della sua crisi mortale, ma la moltitudine è in grado di
autovalorizzarsi e di costituirsi da sé come soggettività, quale necessità c’è che
si producano queste retroazioni negative che sono l’Impero o, più in generale, le figure moderne della sovranità e la misura della ricchezza secondo la
legge del valore? Nel movimento dialettico inteso in senso materiale, essendo
lo sviluppo stesso del capitale a creare la base della sua distruzione, un simile
problema non si pone, appunto perché la crisi è il risultato dell’automovimento del lavoro umano alienato che dentro l’alienazione crea le condizioni della
sua abolizione. Infatti, se si chiedesse perché ci sono la proprietà privata e lo
sfruttamento, che nel regime di lavoro salariato portano a estrema visibilità la
perdita totale dell’uomo, si risponderebbe che proprio mediante questo processo generato solo dal lavoro umano – ma dal lavoro umano nella schiavitù e
contenente in potenza le condizioni della sua abolizione – si sviluppano quelle
forze produttive, dunque quella ricchezza che costituisce la base di una società
“ricca” in un senso esattamente opposto a come la ricchezza si presenta nel rap298
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
porto di proprietà privata, giunta al compimento nell’opposizione tra capitale
e lavoro. In quest’ultimo rapporto la ricchezza è il valore misurato dal tempo
di lavoro, necessario e supplementare, quindi è la massima povertà dell’uomo,
ridotto alla semplice funzione della sua riproduzione in quanto forza-lavoro, e
degli oggetti, ridotti a equivalenti astratti dalle qualità naturali e sociali. Nel
comunismo inteso come sviluppo dell’individuo sociale, la povertà è il bisogno
dell’altro uomo, quindi è la massima ricchezza, dove la ricchezza è l’onnilateralità delle qualità sostanziali umane e naturali, non l’astratta generalità delle
equivalenze, dove si perdono le differenze qualitative. Ma appunto la società
dove la ricchezza è fondata sulla base miserabile del furto del tempo di lavoro
altrui, ha prodotto le condizioni per capovolgere in senso sostanziale e qualitativo il rapporto tra povertà e ricchezza. Cioè, alla domanda sul perché nella
storia si produce la proprietà privata, si può rispondere che, essendo la struttura
della proprietà privata la divisione del lavoro e lo scambio, «la vita umana ha
avuto bisogno per realizzarsi della proprietà privata [e] ora essa ha bisogno della
soppressione della proprietà privata»146. Ciò significa veramente concepire la
storia come automovimento – umano e naturale – del lavoro umano, il quale,
attraverso la contraddizione, pone le condizioni per generare il comunismo
come soppressione reale della contraddizione stessa: in altri termini, ciò significa niente altro che il principio secondo cui l’umanità si propone solo i problemi
che può risolvere. Da ciò consegue la radicale esclusione di ogni dimensione metafisica, trascendente o immanente che sia. Invece con questo completo
spostamento sull’autovalorizzazione della moltitudine e quindi sul suo potere
costituente, intesi come prius ontologico e non come risultato del movimento
antagonistico della produzione e valorizzazione capitalistiche, mi sembra diventi difficile dare conto della genesi dell’Impero, mantenendo l’autosufficienza
dell’intero movimento temporale. Non si comprende, cioè, perché la pienezza
d’essere della moltitudine si debba depauperare senza né che questo depauperamento sia la transizione a uno stadio di sviluppo successivo, né che sia un
ostacolo, un punto di resistenza che la vita pone a se stessa per romperlo ed
espandersi. La domanda: si multitudo est, unde imperium? assumerebbe così lo
stesso sapore teologico di quella: si deus est, unde malum?, e a nulla varrebbe il
fatto che questa dinamica avviene sul piano dell’immanenza, perché, anzi, qui
l’immanenza conserverebbe la stessa struttura metafisica della trascendenza.
146
K. Marx, F. Engels, Werke, Ergänzungsband, cit., p. 562; tr. it., cit., p. 149.
299
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Inoltre, se l’Impero è solo reattività negativa e parassitaria, incapace di mettere in moto fin dall’origine qualsiasi forza produttiva, perché è il lavoro vivo che
si autovalorizza e l’Impero può solo inseguirlo per fiaccarne la resistenza; e se
l’intera storia della sovranità moderna è solo la negazione della capacità delle singolarità cooperanti e dell’intellettualità di massa di elevarsi come tali all’efficacia
del dominio: allora, non si comprende perché affermare:
L’Impero è meglio di ciò che l’ha preceduto, allo stesso modo in cui Marx insisteva
che il capitalismo era meglio delle forme di società e dei modi di produzione che aveva
soppiantato. La tesi di Marx era fondata su un sano e lucido disgusto per le gerarchie
rigide e anguste che hanno preceduto la società capitalistica e, nella stessa misura, sul
riconoscimento che, nella nuova situazione, i potenziali di liberazione erano cresciuti.
Allo stesso modo, anche oggi vediamo l’Impero spazzare via i crudeli regimi del potere
moderno e incrementare i potenziali di liberazione147.
In effetti, nel Discorso sul libero scambio del 1848 Marx smascherava la presunta filantropia dei sostenitori dell’abolizione del dazio sul grano, misura che,
secondo loro, avrebbe provocato l’abbassamento del prezzo del pane e quindi un
beneficio per gli operai. Ma in realtà, sosteneva Marx, l’abbassamento del prezzo
del grano avrebbe portato con sé un abbassamento dei salari, dato che anche il
lavoro come merce è soggetto alla circolazione, per cui dell’abolizione del dazio
non avrebbe beneficiato l’operaio ma solo la borghesia, vincendo, grazie alla liberalizzazione degli scambi, la lotta contro la rendita fondiaria. E tuttavia Marx
sosteneva che il libero commercio è comunque rivoluzionario, perché abolisce la
rendita fondiaria e così, semplificandosi lo scontro a due classi, borghesia e proletariato, «affretta la rivoluzione sociale»148. Io credo che in questa prospettiva si
possa ben dire che il capitalismo è meglio dei regimi che lo hanno preceduto, appunto perché, come attore del processo antagonistico, libera quelle forze produttive che lo sopprimeranno. Ma se l’Impero è un parassita, quindi qualsiasi valore
propulsivo è escluso, perché esso dovrebbe essere migliore dei regimi precedenti
di sovranità, parimenti negatori delle rispettive figure di autovalorizzazione della
moltitudine? Un parassita che si insedia nel corpo collettivo biopolitico – ben-
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 56.
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 4, cit., p. 458; tr. it. di F. Codino e A. Scarponi, Libero scambio e economia nazionale, Roma 1992, p. 25.
147
148
300
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
ché senza organi – dell’operaio sociale non è per questo migliore di quello che
allignava, per esempio, negli ingranaggi meccanici dell’operaio massa, perché
parassita rimane.
7. Conclusione: ancora sul lavoro (materiale e immateriale) tra dialettica e ontologia
Poiché il comunismo così inteso è immanente all’agire della moltitudine, di
fronte a cui anche la sua ricomposizione mediante la dittatura leninista come forma
più alta di democrazia è sovranità, dunque trascendenza e reattività, non è possibile
indicare una concreta elaborazione che sia un’alternativa politica all’Impero. Come
Marx ebbe bisogno della Comune di Parigi per concepire concretamente il comunismo, così solo le pratiche collettive della moltitudine possono permettere di fare
un passo avanti in questo senso. E tuttavia è possibile per ora formulare tre rivendicazioni della moltitudine sulla base comune, soggettiva e costituente, del suo lavoro
immateriale. La prima è il diritto alla cittadinanza mondiale, fondato sul fatto che,
se la produzione capitalistica dipende sempre più dalle migrazioni, allora occorre
generalizzare il «fondamentale principio costituzionale della modernità, che collega
il diritto al lavoro e che ricompensa, con la cittadinanza, il lavoro che crea il capitale»149. La seconda rivendicazione poggia sul carattere biopolitico della produzione
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 370. Coerentemente con il primato ontologico costituente della moltitudine rispetto al carattere solo negativo e reattivo dell’Impero, ma più in generale della stessa sovranità moderna, anche le migrazioni non sono esclusivamente forza-lavoro
di riserva che si muove grazie alle leggi oggettive della produzione e della circolazione, ma in
primo luogo esprimono il desiderio di mobilità trasversale mosso dall’autovalorizzazione, desiderio di libertà che quindi porta a rompere i confini e le misure della legge del valore, mentre il
potere, non solo imperiale, mette sempre in moto strategie di repressione e controllo di questo
desiderio. Certamente i migranti sono anche spinti negativamente dal desiderio di fuggire dalle
condizioni miserabili della riproduzione capitalistica e, cosa che va sottolineata, questa mobilità
comporta nuovi sradicamenti, povertà, miseria, dunque sta a un livello ancora spontaneo di
lotta. Tuttavia, la mobilità delle migrazioni esprime potenzialità immanenti di liberazione e non
è messa in moto semplicemente dalla circolazione capitalistica delle merci, quindi della merce
lavoro. Perciò, dicono Hardt e Negri, «sarebbe [...] interessante scrivere una storia generale dei
modi di produzione dal punto di vista del desiderio di mobilità dei lavoratori (dalla campagna
alla città, dalla città alla metropoli, da uno stato all’altro e da un continente all’altro) piuttosto
che ripercorrere questo sviluppo solo sulla linea della regolazione capitalistica delle condizioni
tecnologiche del lavoro. Questa storia costituirebbe una riformulazione sostanziale della conce-
149
301
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
postmoderna. Infatti, se la produzione non è più limitata alla fabbrica ma abbraccia
l’intera vita sociale, non si può più calcolare il salario sulla misura della giornata
lavorativa separata dalla sfera della riproduzione. Poiché il nuovo lavoro biopolitico
unisce produzione e riproduzione, quindi la vita stessa è lavoro, ne discende la richiesta di un salario sociale per tutti, cosiddetti occupati come disoccupati, la cui
distinzione è impossibile fare, una volta che sfera del lavoro e sfera della vita coincidono: «È l’intera moltitudine a produrre e la sua produzione è necessaria al capitale
sociale complessivo»150. Infine, se la comunicazione e la scienza sono il mezzo di
produzione determinante nella fase postmoderna, e se il produttore non è più solo
l’operaio della fabbrica, ma l’operaio sociale che lavora sempre, sia nella sfera della
produzione che della riproduzione, allora la riappropriazione dello strumento di
produzione, tema classico della tradizione comunista, significa qui accesso per tutti
alle conoscenze e alle reti informatiche.
Queste tre rivendicazioni sembrerebbero a prima vista condivisibili anche fuori
dal contesto delle argomentazioni fin qui esaminate, tanto che oggi sono largamente diffuse nella sinistra. E tuttavia qui c’è qualcosa di estremamente peculiare che le
distingue da altre rivendicazioni dello stesso tipo. Infatti tutte e tre le rivendicazioni
vengono avanzate su un unico fondamento che le accomuna e sottolineare il quale
mi sembra assolutamente decisivo, perché esso è il rivelatore di tutta l’impostazione
filosofica di Hardt e Negri, costituendo così, a mio avviso, il punto di partenza di
un’eventuale discussione sui due autori. Ebbene, il punto è che tutti e tre i diritti
vengono avanzati sul fondamento del fatto che il loro soggetto è un lavoratore, sono
zione marxiana degli stadi dell’organizzazione del lavoro» (ivi, p. 203). Per il passato moderno
Hardt e Negri ricordano la storia della schiavitù come un sistema repressivo atto a bloccare la
mobilità della forza-lavoro, come dimostra la situazione degli afro-americani nelle Americhe,
dove si trattava di reprimere il desiderio degli schiavi di fuggire, quindi il nomadismo. Questo
atteggiamento da parte del potere, volto a bloccare la mobilità, mette il sistema della schiavitù
in stretta continuità con i regimi del lavoro salariato. Nel mondo contemporaneo la caduta del
muro di Berlino e la diserzione dal blocco sovietico hanno rappresentato in modo tipico questo desiderio di esodo, nomadismo e liberazione, che ha attraversato la storia delle lotte della
moltitudine. «Nel corso della diserzione dalla “disciplina socialista”, una mobilità selvaggia e
le migrazioni di massa hanno sostanzialmente contribuito all’implosione del sistema. La diserzione dei quadri produttivi, di fatto, ha disorganizzato e colpito al cuore il sistema disciplinare
del mondo sovietico. L’esodo di massa dei lavoratori specializzati dell’Europa dell’Est ha svolto
un ruolo fondamentale nel provocare il crollo del muro» (ivi, p. 204). Naturalmente non basta
questo livello ancora spontaneo di lotta, come le migrazioni, perché occorre dare luogo a una
potente alternativa che esprima i desideri della moltitudine.
150
Ivi, pp. 372-373.
302
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
diritti di tutti nella misura in cui la vita stessa è divenuta produttiva, lavoro e vita
sono diventati la stessa cosa, quindi ognuno è produttore al di là, anzi, cancellando
la differenza tra lavoro e ozio, lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Perciò il
diritto alla cittadinanza mondiale si presenta non come semplice libertà di spostamento, bensì come estensione del rapporto tra diritto al lavoro e cittadinanza dai
confini dello stato al piano mondiale. Certamente, “documenti per tutti” in attesa
di abolire i documenti stessi, ma appunto perché lo spostarsi esprime il desiderio
di una cosa comune che diventa possibile nel lavoro ovvero nella vita identificata
col lavoro. Il salario sociale non viene richiesto sul fondamento del diritto a vivere
comunque, che io produca o meno: certamente questa distinzione non c’è più, però
è cancellata a favore del fatto che, nelle condizioni della vita odierna diventata produttiva, ognuno è costitutivamente lavoratore, in quanto il tramite della virtualità
che vuole diventare reale è il lavoro vivo. L’accesso alle informazioni è rivendicato
per tutti non in nome della semplice emancipazione culturale ecc., ma in quanto
appropriazione di un mezzo di produzione espropriato al produttore, dato che la
cultura è lavoro, anzi la produzione è la stessa riproduzione, essendo il rapporto tra
valore e lavoro concepibile anche in senso inverso.
Non è dunque l’umanità di ciascuno, l’essere enti generici, a costituire il titolo,
secondo Marx non giuridico ma semplicemente umano, della rivendicazione, bensì
è la costituzione ontologica soggettiva, definita in base alla potenza oltreumana
del lavoro vivo, a essere il fondamento dei tre diritti. La moltitudine avanza questi
tre diritti in base al suo essere e non al suo dover essere – infatti l’Impero, essendo
sprovvisto d’essere, reagisce solo normativamente – e il suo essere è lavoro vivo. E
poiché il mondo intero è lavoro, non essendovi più né lavoro produttivo né improduttivo, né produzione né riproduzione, la moltitudine stessa è il mondo, ed è la
vita stessa che, riproducendosi, produce e che produce la sua stessa riproduzione. Il
suo diritto, o meglio, il suo potere costituente sta nella sua ontologia: ovvero, essa è
costituente perché è pienezza d’essere, cioè lavoro vivo oltre la misura del valore, capace di sporgersi sull’orlo del tempo. La dimensione semplicemente umana si porrebbe sul piano solo normativo: ecco perché i diritti umani sono il campo d’azione
reattivo dell’Impero. La stessa questione marxiana dell’emancipazione umana può
partecipare di questa dimensione imperiale normativa ed esserne sussunta, per cui
ne va estratta la dimensione antagonistica ontologico-soggettiva dell’autovalorizzazione e tradotta in “liberazione”, il che rende possibile l’incontro con la tematica
nietzscheana dell’oltreumano. Ma per fare questo, Hardt e Negri, secondo me, non
forzano il concetto marxiano di lavoro, semplicemente lo “spostano”. Cioè a dire,
essi qui non considerano il lavoro sotto l’angolo visuale della merce misurabile in
303
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
base al tempo di lavoro, dunque in base alla misura capitalistica del valore. In questo
caso avremmo a che fare non col lavoro vivo, ma col lavoro vivo considerato come
forza-lavoro: infatti quest’ultima, non il lavoro vivo come tale, può essere misurata
come valore in base al tempo di lavoro, quello necessario a produrre l’equivalente
della sussistenza dell’operaio solo in quanto operaio, mentre il lavoro supplementare, comandato mediante il salario, viene appropriato e valorizzato dal capitale senza
equivalente. A questa condizione Marx parlava di disumanizzazione, di uomo ridotto alla semplice funzione animale della sua riproduzione in quanto forza-lavoro,
cioè espropriato della sua umanità come attività e godimento onnilaterali, per cui il
comunismo come soppressione del rapporto di capitale e con esso di ogni rapporto
antagonistico di proprietà, è essenzialmente emancipazione umana. Ora, da questo
punto di vista Hardt e Negri non respingono il discorso di Marx. Essi dicono solo
che quella prospettiva di emancipazione si riferisce in modo adeguato al lavoro
della fabbrica, la cui disciplina è stata rifiutata dall’operaio massa, mentre il lavoro
vivo “oltre misura” dell’operaio sociale è impossibile sottometterlo alla misura della
sua valorizzazione in quanto semplice forza-lavoro. E di conseguenza non c’è più
un “uomo” da emancipare dalla sua condizione animale di semplice riproduzione
in quanto operaio, bensì una virtualità che vuole divenire reale, e lo diventa non in
base a un titolo umano, bensì proprio grazie a questa sua capacità di andare oltre
l’umano, essendo fatta di macchine intelligenti e corpi nietzscheanamente intesi
come eccesso, espansione, “oltre misura”. Al posto dell’uomo concepito come l’ente
generico, che fa della natura il suo «corpo inorganico»151 – e ciò «non significa altro
che la natura è congiunta con se stessa, perché l’uomo è parte della natura»152 –,
dunque al posto dell’uomo naturalizzato e della natura umanizzata, subentra l’uomo senza o oltre natura:
La macchina è integrata al soggetto, non come una sua appendice, una sorta di protesi – proprio come un’altra delle sue qualità – ma è profondamente connaturato al
soggetto l’essere umano e macchina al tempo stesso […]. Il cyborg è l’unico modello
disponibile per teorizzare la soggettività. Corpi senza organi, uomini senza qualità,
cyborg: queste sono le nuove figure soggettive; le sole figure soggettive oggi capaci di
comunismo153.
151
152
153
K. Marx, F. Engels, Werke, Ergänzungsband, cit., p. 516; tr. it., cit., p. 77.
Ibid.
M. Hardt, A. Negri, Il lavoro di Dioniso, cit., p. 20.
304
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
Così, con lo spostamento dello sguardo dalla forza-lavoro, separata dalla sua
attività e dal suo oggetto nel rapporto di capitale, al lavoro vivo con la sua immanente capacità di autovalorizzazione ossia di soggettivazione, Hardt e Negri possono introdurre nel comunismo il tema del superamento dell’uomo senza neanche
forzare più di tanto l’analisi di Marx e senza neanche negare la permanenza del
regime di sfruttamento. Solo che potere costituente della moltitudine e parassitismo dell’Impero stanno non in un nesso dialettico di contraddizione, bensì in
una differenza ontologica tra attività e reattività, pienezza e mancanza d’essere.
Mi pare evidente che il centro di tutto il problema sta in questa lettura dell’antagonismo sociale in base al concetto-chiave di soggettività, intorno a cui sono
costruite una concezione e una pratica del comunismo distruttive e affermative al
tempo stesso, senza mediazioni dialettiche, quindi una concezione che unisce il
lavoro vivo marxiano e la trasvalutazione dei valori nietzscheana. Proprio questo
aspetto della soggettività Hardt e Negri vanno a isolare in Marx, nella consapevolezza che in lui non c’è solo questo e che anzi vi sono contraddizioni. Perciò essi
vanno “con e oltre Marx” enucleando nel contesto e nella tradizione del materialismo il tema della “soggettività” versus l’“oggettività”. È la nuova costellazione del lavoro immateriale, che ha pervaso tutta la società, a richiedere una nuova
definizione della soggettività, la quale per Hardt e Negri «è, nel configurarsi del
comunismo, una grande innovazione teorica»154. Marx «definisce teoricamente un
processo di costituzione di classe già storicamente dato»155, quindi una soggettività,
credo di poter dire. Tuttavia, il processo di costituzione della soggettività si presenterebbe al tempo stesso come prodotto di una necessità oggettiva, in modo da poter
escludere, nell’iniziativa proletaria, la possibilità di un riferimento utopistico. In
altri termini, si creerebbe nel pensiero marxiano «un paradosso»156: è indubbio che
il tema della soggettività è ben presente in Marx, perché al centro del suo pensiero
sta la liberazione rivoluzionaria, quindi una pratica eminentemente soggettiva; ma,
per evitare il pericolo di inserire l’utopia nell’orizzonte dell’iniziativa proletaria, la
nascita e lo sviluppo della soggettività rivoluzionaria, quindi l’avvento del comunismo, appaiono come il prodotto di un processo oggettivo, di una storia naturale
del capitale, cosicché il paradosso che si verifica è quello «di consegnare la liberazio-
154
155
156
Ivi, p. 18.
Ibid.
Ibid.
305
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
ne della soggettività rivoluzionaria a un “processo senza soggetto”»157. Ebbene, in
questo modo in cui Marx risolve il problema starebbe una contraddizione. Infatti
abbiamo da un lato l’elemento soggettivistico della lotta contro l’alienazione e lo
sfruttamento, quindi contro ciò che Hardt e Negri chiamano trascendenza, come
il cuore del pensiero marxiano. Dall’altro lato vi è una concezione oggettivistica
della storia «come ordinata da una necessità naturalistico-economica, secondo il
paradigma del positivismo scientifico»158. Ma con quest’ultima componente viene
posta di nuovo una sorta di trascendenza, ossia di misura, quale potrebbe essere appunto l’“industrializzazione”, scheletro nell’armadio della dittatura leninista
intesa come la forma più alta di democrazia. Pertanto, con questo schema naturalistico-economico viene negato quel piano di immanenza assoluta, che invece
costituisce il senso della tradizione del materialismo moderno, recuperato invece
da Marx nel tema della soggettività che libera dell’alienazione e dallo sfruttamento. Notiamo come anche la dimensione oggettivistico-scientifica del processo sia
trasformata da Hardt e Negri nella soggettività (benché ontologicamente reattiva
e parassitaria soggettività) della trascendenza, allo stesso modo in cui l’oggettività
della misura del valore è trasformata nella soggettività, anch’essa parassitaria e reattiva, della sovranità, dalla forma-stato moderna, tutta trascendente, fino all’Impero
postmoderno, immanente, ma che, data la sua negatività, finisce col riprodurre
il paradigma sovrano-trascendente. Rispetto a questo limite che Hardt e Negri
riscontrano nell’opera di Marx, e recuperandone l’elemento delle pratiche soggettive, ben presenti nel tema della lotta contro l’alienazione e lo sfruttamento, essi
ritengono che la soggettività, lungi dal presentarsi come risultato di uno sviluppo
oggettivo nel senso di una storia naturale del capitale o di un processo senza soggetto, «deve essere colta in quanto prodotto di un processo sociale»159. Su questo
punto si rifanno a Foucault, il quale avrebbe colto nella soggettività come travail de
soi sur soi il carattere di prodotto e di produttore, ossia una soggettività che produce
se stessa. Appunto questo è quanto avviene nelle reti del lavoro sociale immateriale,
dove la soggettività è costituita e costituente, dunque non v’è differenza tra potere
costituente e potere costituito, perché nel lavoro si ha sia una soggezione che una
soggettivazione: «La soggettività è definita, simultaneamente e a pari titolo, dalla
sua produttività e dalla sua producibilità, dalle sue attitudini produrre e a essere
157
158
159
Ibid.
Ibid.
Ibid.
306
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
prodotta»160, posizione, questa, che è contro sia la nozione di libero volere che di
determinismo del soggetto.
In Marx l’uomo, ridotto a operaio/forza-lavoro, perde l’«oggetto»161 del suo
lavoro, quindi la natura che vi entra come materiale del lavoro fisico e spirituale
e come mezzo di sussistenza e di riproduzione; diventa estraneo all’atto di produzione, quindi alla sua propria stessa attività lavorativa e di conseguenza alla
propria vita in quanto attività; diventa estraneo al proprio genere e quindi al
suo corpo inorganico, la natura, e a se stesso come natura, ossia oggetto di attività consapevole – infatti «l’oggetto del lavoro è […] l’oggettivazione della vita
dell’uomo come essere appartenente a una specie, in quanto egli si raddoppia, non
soltanto come nella coscienza, intellettualmente, ma anche attivamente, realmente, e si guarda quindi come in un mondo da esso creato»162; infine, si estranea dall’altro uomo e dall’oggetto, e dal prodotto del lavoro dell’altro uomo, il
quale si è impadronito del prodotto del suo lavoro, della sua attività e quindi
della sua vita generica. Il lato soggettivo del rapporto dell’uomo con se stesso e
con l’altro uomo è certamente il lavoro. Però nel lavoro si stabilisce tutta una
dialettica tra soggetto e oggetto. Vi è qui una centralità dell’oggetto (sia esso
inteso come natura, uomo e altro uomo) che l’uomo perde e di cui si riappropria «soltanto quando questo diventa per lui o un oggetto umano o un uomo
oggettivo. Il che è possibile soltanto qualora l’oggetto diventi per lui un oggetto
sociale ed egli stesso diventi per se stesso un essere sociale, allo stesso modo che
la società diventa per lui un essere in questo oggetto»163. Lato soggettivo e lato
oggettivo sono connessi, nel senso che uomo, natura e società sono a un tempo
soggettività e oggettività, le quali nel lavoro alienato restano scisse, mentre nel
comunismo la scissione è soppressa dalla stessa prassi umana, che fino a ora,
per realizzarsi, ha avuto bisogno della proprietà privata, quindi dell’alienazione
la cui radice è il lavoro, e ora ha bisogno della sua soppressione. In Hardt e
Negri questa concezione marxiana dell’alienazione come perdita dell’oggetto,
e della sua riappropriazione pratica come oggetto trasformato ed emancipato,
apparterrebbe a regimi precedenti di produzione ossia alla soggettività dell’operaio professionale e dell’operaio massa. Nella soggettività del lavoro imma-
160
161
162
163
Ivi, p. 19.
K. Marx, F. Engels, Werke, Ergänzungsband, cit., p. 512; tr. it., cit., p. 72.
Ivi, p. 517; tr. it., cit., p. 79.
Ivi, p. 541; tr. it., cit., pp. 117-118.
307
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
teriale l’oggetto e lo strumento di produzione appartengono alla soggettività
che produce se stessa; l’attività lavorativa è la stessa attività vitale, essendo cancellata, nella produzione biopolitica, la differenza tra tempo di lavoro e tempo
di vita; la configurazione del lavoro vivo è, come abbiamo visto, oltre l’uomo
e la natura, in corpi-macchine, cyborg. Di contro, la figura dello sfruttamento
e dell’oppressione (l’altro uomo che si appropria del lavoro e della vita altrui) è
semplice reattività vuota dinanzi al lavoro che è diventato potenza oltreumana e
non perdita dell’uomo e della natura. Per Marx l’alienazione umana in generale
è nell’essenza del lavoro, cioè nel rapporto del lavoratore al suo prodotto e alla
produzione, al genere e all’altro uomo, quindi tutti i rapporti di servitù sono
solo conseguenze del rapporto di servitù dentro il lavoro stesso. Per Hardt e
Negri, di nuovo, questo è vero nei regimi moderni, in quanto il nuovo regime di
produzione postmoderno ha mostrato che il lavoro è potere costituente perché
autovalorizzazione soggettiva, per cui la servitù, che pur esiste, è residuo reattivo che declina. Dunque, se Marx dice che «il lavoro stesso [...] non solo nelle
attuali condizioni, ma in quanto il suo scopo in generale è il puro e semplice
accrescimento della ricchezza, [è] dannoso e disastroso»164, questa è proprio la
fabbrica divisa dalla società: «L’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di
sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se non lavora; e se lavora
non è a casa propria»165. Invece il lavoro immateriale è nomade ed è nell’esodo,
non come estraniazione, ma come potere positivo e virtuale di dar vita a un’altra città grazie alla potenza costituente del lavoro vivo, mentre il danno è dato
dal controllo parassitario dei movimenti della moltitudine che l’Impero insegue. Di conseguenza, se, nella prospettiva della divisione tra fabbrica e società
dei precedenti regimi di produzione descritti da Marx, abolendo il rapporto
di servitù nell’attività produttiva umana si aboliscono tutti gli altri rapporti
di servitù, perché nell’emancipazione dell’operaio è implicita l’emancipazione
umana generale, essendo nella schiavitù del lavoro implicita l’intera schiavitù
umana, nell’odierno lavoro c’è già un desiderio di comunismo che non si deve
“emancipare”, ma “liberare”, nel senso che deve solo far diventare reale il virtuale tramite il lavoro che si autovalorizza. E infine, per Marx né l’aumento del
salario né l’eguaglianza dei salari, come chiedeva Proudhon, avrebbero abolito
il lavoro alienato, perché il salario è legato strettamente a quest’ultimo e dunque
164
165
Ivi, p. 476; tr. it., cit., p. 19.
Ivi, p. 514; tr. it., cit., p. 75.
308
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
alla proprietà privata di cui è l’essenza. Pertanto, l’aumento del salario sarebbe
solo una miglior paga per gli schiavi e la generalizzazione del salario trasformerebbe solo il rapporto dell’operaio al lavoro in rapporto di tutti gli uomini al
lavoro, cioè l’alienazione dell’operaio in alienazione di tutti gli uomini e l’intera
società in un capitalista astratto. «Il salario è una conseguenza immediata del
lavoro estraniato, e il lavoro estraniato è la causa immediata della proprietà privata. Con l’uno deve quindi cadere anche l’altra»166. Ebbene, in Hardt e Negri,
essendo il regime di proprietà non più essenzialmente lavoro alienato, ma solo
un parassita dell’unica potenza attiva del lavoro vivo, il salario non è più una
sottomissione di tutti gli uomini alla società come astratto capitalista, ma una
tappa del passaggio della moltitudine dal virtuale al reale, rispetto a cui l’Impero è solo costretto a reagire nelle sue modalità meramente negative.
Allora, nella concezione marxiana soggettività e oggettività si presentano
scisse solo all’interno del rapporto di proprietà privata, ossia entro il lavoro alienato che ne è l’essenza, ma
il soggettivismo e l’oggettivismo, lo spiritualismo e il materialismo, l’agire e il patire
smarrisc[o]no le loro opposizioni soltanto nello stato sociale, e quindi perd[o]no la loro
esistenza in quanto opposizioni […]. La soluzione delle opposizioni teoretiche è possibile soltanto in maniera pratica, soltanto attraverso l’energia pratica dell’uomo167.
Questa prassi, quindi il momento della soggettività, è però fondata sul processo storico per cui l’umanità finora ha avuto bisogno della proprietà privata e
ora ha bisogno di sopprimerla, dunque è il risultato di un processo che include
soggettività e oggettività, scisse e soppresse praticamente nella loro scissione. In
Hardt e Negri è evidente che questo movimento dialettico non può trovare spazio, altrimenti il lavoro apparirebbe solo come lavoro alienato che al termine
del processo si emancipa, mentre invece esso è capace di autovalorizzarsi; e il
comunismo sarebbe il “fuori” dell’emancipazione, non sarebbe immanente alla
soggettività della moltitudine come potere d’agire che vuole diventare reale. Ecco
allora che, anche riguardo al tema del soggetto, essi non rifiutano la descrizione
marxiana dell’alienazione e del comunismo, ma la dislocano, interpretando quello che in Marx costituisce il processo come dialettica soggetto-oggetto, come la
166
167
Ivi, p. 521; tr. it., cit., p. 84.
Ibid., p. 542; tr. it., cit., p. 120.
309
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
mera soggettività dell’autovalorizzazione dell’operaio professionale e dell’operaio
massa, diverse da quella dell’operaio sociale.
Anche a questo proposito vorrei porre alcuni problemi. Marx riteneva il lavoro come «l’essenza soggettiva della proprietà privata, [come] la proprietà privata
in quanto attività che è per sé, in quanto soggetto, in quanto persona»168. Ciò mi
sembra implichi coerentemente che esso ha il carattere di un processo il quale
si presenta scisso, quindi in cui l’uomo resta sofferente e ridotto all’impotenza,
perciò la scissione deve essere soppressa e l’uomo riguadagnato. Di conseguenza,
come voleva Marx, nel comunismo «tutti i sensi e tutti gli attributi umani […]
sono diventati umani, sia soggettivamente sia oggettivamente […]. Essi si riferiscono alla cosa in grazia della cosa; ma la cosa stessa implica un riferimento oggettivo umano a se stessa e all’uomo, e viceversa»169. Per questa ragione il comunismo
è guadagno di tutte le qualità sensibili umane, siano esse lavoro o non lavoro170.
Ivi, p. 530; tr. it., cit., p. 101.
Ivi, p. 540; tr. it., cit., p. 117.
170
Nei Lineamenti Marx critica la teoria di Adam Smith secondo cui il valore del lavoro rimane
identico perché, quale che sia il salario ricevuto dall’operaio, un’ora di lavoro, nel «normale stato
di salute, di forza e di attività, e secondo il grado abituale di abilità e di destrezza» (K. Marx,
Grundrisse, cit., p. 504; tr. it., cit., p. 277) costa all’operaio il sacrificio della medesima porzione
di riposo, libertà e felicità. Anche il prezzo differente delle merci che l’operaio compra con la
medesima porzione di lavoro, dipende dal loro valore, ma non da quello del lavoro, che rimane
identico, dato che vi rimane la stessa porzione di rinuncia e di sacrificio. Marx osserva che qui
«Smith considera il lavoro sotto un profilo psicologico, in relazione alla gioia o alla infelicità che
arreca all’individuo» (ivi, p. 507; tr. it., cit., p. 281). Ma questo aspetto psicologico non è affatto
determinante per la misura del valore, anzi qui con la teoria del lavoro-sacrificio, se la si volesse
prendere sul serio, avremmo una determinazione semplicemente negativa che non crea nulla.
Viceversa, la misura del lavoro, quindi la possibilità della creazione di equivalenti, sta nel tempo,
ossia è solo il comune fatto che essi sono lavoro, a prescindere sia dalle determinazioni qualitative sia dal rapporto psicologico del lavoratore con la sua attività, che li rende misurabili mediante
il tempo di lavoro: «La negazione del riposo, in quanto mera negazione, sacrificio ascetico, non
crea nulla» (ibid.). Quando Smith definisce il lavoro come sacrificio in senso negativo, ossia sacrificio di tempo libero, libertà, infelicità, egli coglie non la misura del lavoro e quindi la base del
valore, ma solo il rapporto del lavoratore con la sua attività nelle condizioni del lavoro antitetico,
cioè del lavoro coercitivo esterno, come avviene appunto nelle forme storicamente determinate
del lavoro schiavistico, servile e salariato. In questi casi certamente il lavoro si presenta come
pena in confronto con il tempo libero che è libertà e gioia – opposizione, questa, che vale in
particolar modo per il lavoro salariato, ossia il lavoro sotto il capitale, perché già per il lavoro semiartigianale medievale non è il caso. Ma non è questa l’unica determinazione del lavoro come
rinuncia al tempo libero. Proprio nelle normali condizioni di salute, abilità e destrezza l’uomo
può aver bisogno di rinunciare al riposo e lavorare. Ma in questo caso il sacrificio, quindi la mi168
169
310
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
Mi chiedo: può in generale concepirsi il lavoro escludendo la dimensione del processo dialettico tra soggetto e oggetto, e può esso risolversi completamente nella
soggettività? E inoltre, a ciò strettamente legato: si può, a proposito del lavoro e
della soggettività con cui esso indubbiamente si identifica, parlare di ontologia e a
maggior ragione di ontologia dell’evento? Si comprende come da questa domanda dipenda anche la legittimità di concepire un comunismo che sia realizzazione
del mondo come lavoro e come sola soggettivazione oltreumana, piuttosto che,
al tempo stesso e senza contraddizione, oggettivazione e soggettivazione delle
qualità umane sensibili.
Per verificare questa questione voglio scegliere un termine di riscontro, per
contrasto.
Nel secolo scorso Martin Heidegger ha fatto una profonda innovazione
dell’ontologia mettendone al centro proprio l’evento, il luogo e la delocalizzazione, ossia problemi che troviamo parimenti al centro del discorso di Hardt
e Negri, sia pure con diversa soluzione. Infatti questi ultimi ritengono che,
pur avendo Heidegger, Nietzsche e Adorno, compreso «la fine della metafisica
moderna e il legame tra modernità e crisi»171, tuttavia non hanno colto che
«ci sono due modernità in gioco e che la crisi è il risultato del loro conflitto
[…]. Le alternative che si sviluppano nella modernità si estendono oltre i limiti
della metafisica moderna»172. Questo lo credo anch’io, tuttavia mi chiedo se
l’alternativa possa essere un’ontologia del mondo-evento come lavoro, giacché
sura del lavoro, non è pena nel senso di Smith, bensì «manifestazione di libertà» (ivi, p. 505; tr.
it., cit., p. 278), in quanto superamento degli ostacoli che l’uomo stesso si pone. Da ciò si evince
che il lavoro come bisogno e come attraente non è affatto «uno spasso» (ibid.), come voleva Fourier. Orbene, a me sembra che in questa concezione, espressa nei Lineamenti, del lavoro come
bisogno, concezione che si presenta in modo diverso dal lavoro comunque nocivo e dannoso dei
Manoscritti, non sia eliminata la differenza tra lavoro e non lavoro, ma che entrambi gli aspetti
siano visti nel contesto del perfezionamento dell’individuo sociale. Ciò presuppone l’autosoppressione dell’antagonismo della ricchezza creata sul valore, dunque appunto sull’antagonismo
tra capitale e lavoro. Queste condizioni, perdute dall’epoca della pastorizia, devono essere create
soggettivamente e oggettivamente. A me sembra quindi che in Marx questa concezione del
lavoro come attraente e come autorealizzazione dell’individuo, non implichi un’ontologia del
mondo come lavoro, ma tenga ferma la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro.
Peraltro, gli stessi Hardt e Negri dicono che Marx va criticato proprio per non essere andato
troppo lontano circa l’estensione ontologica del concetto di lavoro, a conferma della prospettiva
diversa in cui si pongono su questo punto.
171
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 399.
172
Ibid.
311
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
su questo terreno dell’ontologia, Heidegger, tutt’altro che comunista, potrebbe
finire col risultare più persuasivo.
Secondo Heidegger, Marx ha raggiunto, con il suo pensiero dell’alienazione,
una dimensione essenziale della storia […]. L’essenza del materialismo non sta nell’affermazione che tutto è pura materia, ma piuttosto in una determinazione metafisica,
secondo cui tutto l’essente appare come materiale del lavoro. L’essenza moderna e metafisica del lavoro è anticipata nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel come il processo
auto-organizzantesi della produzione incondizionata, cioè come l’oggettivazione del
reale da parte dell’uomo inteso come soggettività173.
Questa estensione del lavoro a tutto l’ambito dell’essente, cancellando la differenza tra lavoro e non lavoro, sembrerebbe avvicinarsi all’affermazione di Hardt
e Negri, secondo cui l’essenza del mondo è lavoro. Tuttavia in Heidegger tutto
l’essente “appare” come materiale del lavoro, secondo lo specifico gioco di significati del termine “apparire” nell’ontologia fenomenologica, mentre Hardt e
Negri dicono che il lavoro è (o è diventato) «la sostanza comune»174 e ne fanno
solo soggettività, laddove Heidegger riconosce l’ineliminabilità, in qualsiasi fenomenologia del lavoro (hegeliana o fenomenologica in senso proprio che sia) della
dialettica soggetto-oggetto. Si può eludere una siffatta dimensione dialettica e
dichiararla superata in riferimento al lavoro immateriale, tanto più che Hardt e
Negri vogliono guardare tutta la storia della composizione di classe e della militanza del lavoro a partire dall’autovalorizzazione e dalla sola soggettività?
In una conferenza friburghese del 1957 Heidegger commenta l’affermazione
di Marx, nei Manoscritti: «Tutta la cosiddetta storia del mondo non è altro che la
generazione dell’uomo mediante il lavoro umano, null’altro che il divenire della natura per l’uomo»175. Il senso essenziale di quest’affermazione non sta tanto
nel riscontrare «che oggi la tecnica, l’industria e l’economia, in quanto lavoro
dell’autoproduzione dell’uomo, determinino in modo decisivo tutta la realtà del
reale»176. Nell’affermazione “autoproduzione dell’uomo”, il lavoro non significa
173
M. Heidegger, Wegmarken, Frankfurt am Main 1996, p. 340; tr. it. a cura di A. Bixio e G.
Vattimo, La dottrina di Platone sulla verità. Lettera sull’umanismo, Torino 1978, pp. 106-107.
174
M. Hardt, A. Negri, Il lavoro di Dioniso, cit., p. 17.
175
K. Marx, F. Engels, Werke, Ergänzungsband, cit., p. 546; tr. it., cit., p. 125.
176
M. Heidegger, Bremer und freiburger Vorträge, Frankfurt am Main 1994, pp. 94-95; tr. it. di
G. Giurisatti, Conferenze di Brema e Friburgo, Milano 2002, p. 126.
312
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
la pura operatività e attività: pur nell’estremo contrasto con Hegel, Marx pensa
la questione centrale del lavoro nel senso della Fenomenologia hegeliana: esso è
«il tratto fondamentale del processo dialettico mediante il quale il divenire del
reale sviluppa la sua realtà»177. Anche qui, come in Hardt e in Negri, è il lavoro
il tramite dal virtuale al possibile-reale. Però il lavoro è il tratto fondamentale
di un movimento dialettico che è la forma più conseguente di autoproduzione
e automovimento della realtà. Ora, Heidegger ritiene che il contrasto estremo
di Marx con Hegel, consistente nel fatto che il primo vede l’essenza della realtà
nell’uomo che produce se stesso e il secondo nello Spirito assoluto che comprende
se stesso, non toglie il comune terreno metafisico dei due, o meglio la dipendenza
fondamentale di Marx dalla metafisica di Hegel:
Infatti la vita e il dominio della realtà sono ovunque il processo lavorativo inteso come
dialettica, cioè come pensiero, in quanto l’elemento effettivamente produttivo di ogni
produzione rimane il pensiero, sia esso inteso e realizzato come metafisico-speculativo o come scientifico-tecnico oppure come miscuglio e imbarbarimento di entrambi.
Ogni pro-duzione (Pro-duktion) è già in sé ri-flessione (Re-flexion), è pensiero178.
A riprova di ciò, si potrebbe notare come nella pagina marxiana dei Lineamenti il lavoro stesso, con lo sviluppo dialettico, ossia contraddittorio, della
produzione borghese, alla fine diventi intelletto generale. Solo che questo, mentre
in Marx crea le premesse per il pieno sviluppo dell’individuo sociale, in Heidegger conferma che il lavoro come autoproduzione è in ultima istanza pensiero.
Mettendosi nella prospettiva di Hardt e Negri, si potrebbe vedere nel fatto che
Heidegger riporti Marx nell’orizzonte metafisico del suo antagonista Hegel proprio grazie alla dialettica (pur dando atto del contrasto estremo tra Spirito che
comprende se stesso e uomo che produce se stesso), la conferma di quanto la concezione dialettica del lavoro riproponga un primato del pensiero, quindi di una
“misura”. Oppure, all’inverso, proprio in questa interpretazione del lavoro come
produzione e quindi riflessione, si potrebbe vedere confermato che il lavoro, nel
momento in cui si distende su tutta la vita (nei termini di Heidegger: mediante il
lavoro il divenire del reale sviluppa la sua realtà), mostra il suo carattere di pensiero, quindi di immaterialità, come avviene nel nostro mondo presente, realizza-
177
178
Ivi, p. 95; tr. it., cit., ibid.
Ivi, p. 95; tr. it., cit., p. 127.
313
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
zione della descrizione marxiana dell’intelletto generale. E però Heidegger tiene
fermo proprio il carattere di processo dialettico del lavoro, carattere che non è
eliminato, bensì è reso ancora più evidente dalla sua estensione, sociologicamente
constatabile, a tutto l’ambito della vita e dalla sua assunzione del carattere immateriale, mostrando così la dipendenza di Marx dalla metafisica hegeliana della
produzione come pensiero. Invece per Hardt e Negri proprio questa estensione
del lavoro a tutto l’ambito della vita mostra la sua non sussumibilità nella dialettica, pensata come misura, mentre il lavoro vivo è dionisiacamente “oltre misura”.
Pertanto, proprio i nuovi regimi post-fordisti di produzione fanno sì che il lavoro
debba essere concepito non come processo dialettico ma come evento ontologico.
Ora però, Heidegger mostra che il lavoro come tratto fondamentale della dialettica del divenire del reale – e solo in questo senso “lavoro” –, ha una provenienza
essenziale in ciò che differisce ontologicamente rispetto all’essente inteso onticamente
come lavoro. Infatti quest’ultimo è il destino dell’Essere in un’epoca determinata
della sua storia, l’epoca metafisica che si compie appunto con la determinazione
dell’essente come lavoro, ma in nessun modo esaurisce la storia dell’Essere stesso.
Perciò il lavoro non può essere il nucleo di un’ontologia e infatti in Hegel e Marx
esso compare sul piano ontico e come dialettica. Allora, alla luce di quest’impostazione, mi chiedo se sia concepibile un materialismo che giustamente pone al centro
il lavoro, ma che si vuole ontologico e non dialettico; insomma, mi chiedo se sia possibile un’ontologia del lavoro e non una sua dialettica. Infatti Heidegger giustamente
disloca il terreno dell’ontologia su una dimensione più originaria che non credo possa essere a fondamento di un “comunismo”. Quest’ultimo è in Heidegger il destino
metafisico-nichilistico dell’essere, ma non è certo la dimensione originaria né il tratto di un’epoca post-metafisica, la quale si caratterizza per una nuova apertura entro
cui possono essere pensati anche il divino e il sacro, sia pure in senso post-cristiano.
A quest’epoca metafisica della storia dell’Essere, epoca che si compie come
nichilismo, appartiene, insieme con Marx, anche Nietzsche. Per quest’ultimo la
vita pone essa stessa le sue condizioni di possibilità, e la condizione ultima è il
valore, la cui essenza è “stimare”, “misurare”. In questo senso metafisico – dunque,
non nel senso antimetafisico di Hardt e Negri – Nietzsche appartiene alla stessa
epoca in cui il mondo è divenuto lavoro e materiale da lavoro. Infatti, se l’essenza
del valore è “stimare” e “misurare”, l’“oltre misura” dionisiaco, pur nel contrasto
estremo con il platonismo, il cristianesimo, la sovranità, il materialismo dialettico, la democrazia corporativa del welfare, il riformismo, l’Impero e quant’altro,
rimane, nella sua essenza, “misura”. Perciò il tentativo nietzscheano di superare
il nichilismo è fatto, secondo Heidegger, con modalità metafisiche, restando così
314
7. Intellettualità di massa, lavoro immateriale, ordine mondiale
entro un orizzonte nichilistico. Ciononostante, il tentativo di Nietzsche di sporgersi verso l’epoca post-metafisica si esprime nel grido dell’“uomo folle”, del quale
si parla ne La gaia scienza: egli «è colui che cerca Dio invocandolo ad alta voce
[…]. Il grido continuerà ad essere udito fin che non si incomincerà a pensare»179.
Anche qui si tratta di un dio post-cristiano, e tuttavia mi sembra difficile, a partire da questo “oltre misura” dell’uomo folle, pensare al lavoro vivo nel senso di
base del comunismo o della democrazia assoluta in azione.
Queste osservazioni critiche credo vogliano una risposta. E tuttavia non si può
negare che ancora più grande è la difficoltà – la quale, però, credo vada affrontata, a
pena di renderle pretestuose –, nel verificare se quel paradigma dialettico marxiano
riferito al lavoro, e se la distinzione tra lavoro e non-lavoro possano dar conto dello
scenario del regime di produzione immateriale odierno, su cui Hardt e Negri hanno con grande merito richiamato sistematicamente l’attenzione.
Id., Holzwege, Frankfurt am Main 1977, p. 267; tr. it. a cura di P. Chiodi, Sentieri interrotti,
Scandicci 1997, p. 246.
179
315
8.
Napoli tra sviluppo e arretratezza.
Rileggendo un testo del marxismo operaista
degli anni Settanta
1. Premessa di metodo
Nell’Ideologia tedesca Friedrich Engels e Karl Marx osservano che se si parte
dal processo di vita reale degli uomini, i quali non sono individui isolati ma si
muovono in condizioni storicamente determinate, entro cui svolgono l’attività di
produzione della loro esistenza materiale, attività da cui dipende l’organizzazione sociale e politica, allora «cessa la speculazione»1 e «comincia […] la scienza
reale e positiva, la rappresentazione dell’attività pratica, del processo pratico di
sviluppo degli uomini»2. Di conseguenza non è più possibile una filosofia autonoma, la quale deve cedere il posto alla rappresentazione della realtà. Al posto
della filosofia può subentrare al massimo «una sintesi dei risultati più generali
che è possibile astrarre dall’esame dello sviluppo storico degli uomini»3. Perciò
questi risultati generali non hanno nessun valore di per sé, ossia considerati separatamente dalla storia reale degli uomini, ma servono solo a facilitare il lavoro di
ordinamento del materiale storico, e questo ordinamento non significa affatto la
fissazione di uno schema in cui si possano sistemare, ritagliandole, le epoche storiche. Invece la difficoltà sta nello stabilire il metodo di studio e di ordinamento
del materiale storico, e «a esporlo realmente»4. I presupposti di questo metodo
scientifico non speculativo possono risultare solo «dallo studio del processo reale
della vita e dell’azione degli individui di ciascuna epoca»5. Dunque, in nessun
modo la filosofia può costituire un presupposto del discorso scientifico sulla vita
reale degli uomini, ma può solo facilitare l’ordinamento del materiale storico.
Un metodo di esposizione alternativo, non speculativo, è subordinato ai processi
reali, quindi alla prassi vitale degli individui che producono in società le loro
1
2
3
4
5
K. Marx, F. Engels, Opere, V 1845-1846, tr. it. di F. Codino, Roma 1972, p. 23.
Ibid.
Ibid.
Ibid.
Ivi, pp. 116-117; tr. it., cit., ibid.
317
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
condizioni materiali di esistenza. È questo soggetto reale, ossia la società, a rimanere «saldo nella sua autonomia fuori della mente; fino a che, almeno, la mente si
comporta solo speculativamente, solo teoricamente»6.
A mio parere, un discorso su Napoli fatto “da filosofi”, deve mantenersi entro
questo preciso limite di astrazione niente affatto autonoma, ma del tutto subordinata alle condizioni della vita reale degli uomini, che caratterizza la filosofia.
Bisogna allora chiedersi preliminarmente se è possibile fare di Napoli l’“oggetto”
di un discorso filosofico. Evidentemente, dal punto di vista che ho qui accennato,
la risposta è nettamente negativa, perché nell’età moderna e contemporanea, o
postmoderna che dir si voglia, la città, o la metropoli, non può costituirsi come
oggetto a se stante di “esposizione” in quel senso non speculativo ma reale, indicato da Engels e Marx, su cui poi è possibile poggiare, solo a mo’ di facilitazione
dell’ordinamento del materiale storico-sociale, un minimo di residua astrazione
filosofica. Marx indicava come oggetti di esposizione attraverso cui criticare lo
stato di cose presenti, le sei parti in cui si divide quell’«anatomia»7 della moderna
società borghese che è l’economia politica: «capitale, proprietà fondiaria, lavoro salariato; Stato, commercio estero, mercato mondiale»8. Questi mi sembrano nell’età
moderna i nuclei capaci di generare delle categorie espositive e, attraverso l’esposizione, critiche, tratte dalle connessioni della vita reale degli uomini e rispetto a
cui può avere senso quel minimo di astrazione filosofica.
La città poteva generare delle “categorie” nell’antichità, e nel medioevo come
primo nucleo della moderna società borghese. L’epoca della globalizzazione si
presenta con caratteristiche tali per cui l’universalità delle relazioni sociali produttive, riproduttive, culturali ecc. si accompagna a un crescente processo di
singolarizzazione e soggettivazione, e ciò sembrerebbe giustificare la possibilità
di fare sulla città come tale proprio una riflessione filosofica che non pretenda di
porsi come autonoma o di ordinare il materiale storico in uno schema speculativo, ma sia radicata nel processo vitale produttivo degli uomini. E tuttavia a me
sembra che questo sarebbe un modo inadeguato di intendere il radicamento e il
carattere solo subordinato alla vita reale, dell’astrazione di cui la filosofia fa uso.
Il fatto che oggi per parlare dei rapporti politico-sociali il discorso filosofico corrente faccia uso frequente del termine “polis”, trae in inganno. Credo che questo
6
7
8
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. I, cit., p. 28.
K. Marx, F. Engels, Per la critica dell’economia politica, cit., p. 4.
Ivi, p. 7; tr. it., cit., p. 3.
318
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
termine ripescato dall’antichità sia solo una metafora la quale serve ad esprimere
la percezione che ci si trova in un momento di transizione, rispetto a cui le precedenti categorie moderne sono inadatte, ma ancora non ve ne sono altre atte ad
esporre i processi che stanno avvenendo.
Proprio quando sembra che [i viventi] lavorano a trasformare se stessi e le cose, a creare
ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano
con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito
i nomi, le parole d’ordine per la battaglia, i costumi per rappresentare sotto questo
vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scena
della storia9,
come avvenne col travestimento da apostolo Paolo fatto da Lutero, coi panni
della Repubblica romana indossati dalla Rivoluzione francese, con quelli dell’Impero romano, indossati da Napoleone, e con la parodia della rivoluzione francese
fatta da Luigi Bonaparte. Nella globalizzazione vi sono profondi cambiamenti
negli strumenti di produzione, nelle relazioni sociali e nell’ordine mondiale. I
tratti che di solito rileviamo più nettamente sono il cambiamento delle relazioni
sociali che sembrano organizzate in maniera reticolare, quindi dove la connessione non esclude le singolarità che si formano nei punti di intreccio, e la crisi
dello Stato come attore politico privilegiato nel diritto internazionale. Ma queste
singolarizzazioni non sono comprensibili, a mio parere, se non a partire dalle
grandi connessioni dell’economia politica che includono, anche nella riflessione
marxiana, un pensiero della loro crisi. Ad esempio, nella globalizzazione non è
scomparsa, ma si è accentuata, quella forma antagonistica di produzione degli
uomini in società che si chiama rapporto di classe tra capitale e lavoro salariato,
ideologicamente occultato dal conflitto di civiltà. I grandi processi di formazione
di entità politiche soprastatali non fanno venire meno la questione del potere
politico come violenza organizzata di una classe per opprimerne un’altra.
Naturalmente ciò non significa che della città o metropoli non si possa parlare. Ma i saperi sociologici, architettonici, geografici ecc. sulla città riescono a
cogliere aspetti più vicini al processo vitale degli uomini che ci vivono. Questo
però, a sua volta, non vuol dire che tali saperi vadano accettati così come sono.
K. Marx, F. Engels, Rivoluzione e reazione in Francia 1848-1850, a cura di L. Perini, Torino
1976, p. 172.
9
319
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Infatti essi non sono neutrali, ma hanno la loro radice in quella vita materiale degli uomini che si presenta, nella modernità e nella tarda o post-modernità, strutturata in modo antagonistico e segnata profondamente dal rapporto di dominio
del capitale sul lavoro, dal mercato mondiale liberista e dalle odierne istituzioni
post-statuali ad esso subordinate10. Perciò va colta la connessione organica di
questi saperi particolari con le grandi forme pratiche della vita sociale espresse
e criticate dall’economia politica, proprio laddove di queste forme si registra la
crisi. Solo da questo angolo visuale mi sembra possibile esercitare quel po’ di
riflessione filosofica astraente.
Ebbene, assumendo come filo conduttore del discorso che voglio svolgere,
il conflitto tra capitale e lavoro salariato che, come dicevo, persiste e in ultima
analisi condiziona anche i conflitti che si presentano in primo piano nella globalizzazione, un utile punto di partenza mi sembra essere questa affermazione di
Mario Tronti:
Tutti capiscono che c’è stato un sommovimento strutturale dentro il modo di produzione capitalistico, e di qui poi dappertutto, nel dopo epoca taylorista-fordista-keynesiana. Tutti sentono che – come conseguenza o come causa, lasciamo adesso da
parte il problema – c’è stato un passaggio di crisi nella composizione della soggettività
alternativa11.
Circa il passaggio che si è verificato all’interno del modo di produzione capitalistico, c’è un grado di consapevolezza dell’analisi che permette una certa
approssimazione al fenomeno. Viceversa, circa la composizione del soggetto alternativo o antagonistico al capitalismo, vi è estrema difficoltà e disordine di
comprensione. Si è creato uno spazio vuoto, rispetto alla composizione di questa
soggettività, in parte occupato in modo intelligente dalla rivoluzione femminile.
Contemporaneamente vi è stato un passaggio, poco notato ma che ha contato
molto, «dalla centralità politica alla marginalità politica del lavoro operaio»12.
Ma tale “marginalità” non significa emarginazione, intesa nel senso del rendere
Preciso che non ho nessuna nostalgia per l’epoca in cui la forma politica dominante era lo
Stato nazionale, il quale esprimeva, ed esprime ancora, perché non è tramontato, in altro modo
questi rapporti di produzione e di dominio capitalistici.
11
M. Tronti, Tra passione e realismo, in «La rivista del manifesto», n., 31, 2002, www.ilmanifesto.it.
12
Ibid.
10
320
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
subalterni, impoverire, lasciare nel sottosviluppo, giacché essa è, più sottilmente,
una forma di inclusione che al tempo stesso è un tenere a margine. Si vuole che si
stia da parte ma che si collabori alla gestione del tutto, si stia nella comunicazione
ma senza prendere la parola. Ciò è caratteristico del processo di globalizzazione,
il quale centralizza e include, ma la forma di questa inclusione è la marginalizzazione politica. Questo passaggio entro la forma di produzione capitalistica non
significa che non ci sia più la classe operaia o che non ci sia più quella forma di
produzione. Ciò che è venuto meno è il cuore di questo rapporto di produzione,
che è la concretezza della grande fabbrica, luogo di aggregazione del soggetto
operaio. Ma nonostante questo, l’archeologia industriale non significa archeologia operaia, bensì richiede una nuova fenomenologia del lavoro.
Anche Michael Hardt e Antonio Negri partono dalla constatazione che la
fabbrica non è più il luogo paradigmatico dove si concentra il lavoro. Tuttavia
ciò non significa la scomparsa del lavoro, giacché, al contrario, esso oggi occupa
più che mai il centro della scena. Ma questo avviene avendo il lavoro subìto una
metamorfosi radicale: esso è diventato immateriale, ossia coinvolge sempre più
il linguaggio, la cognitività, il corpo e l’affettività. In tal modo esso finisce col
coincidere con la vita stessa, ragion per cui non si può più parlare di un luogo privilegiato della produzione rispetto alla riproduzione. Al tempo stesso la perdita di
centralità della fabbrica porta con sé non il declino della disciplina della fabbrica,
bensì la sua estensione a tutte le forme della produzione sociale. Pertanto, se in
superficie il lavoro sembra scomparso, in realtà in questa nuova configurazione
immateriale esso finisce con l’essere sempre più la sostanza comune del mondo13.
Se si volesse fotografare a Napoli questo passaggio capitalistico dal fordismo
al postfordismo, si pensa subito, per quanto riguarda il fordismo, allo sviluppo del polo industriale di Bagnoli negli anni Sessanta-Settanta con la grande
fabbrica dell’Italsider e i suoi oltre cinquemila occupati, e, per quanto riguarda
il postfordismo, alla successiva deindustrializzazione dell’area – intendendo per
“industria” quella grande-fordista in senso stretto – e alla centralità data oggi al
progetto del Parco scientifico e tecnologico dell’area metropolitana di Napoli e
Caserta, promosso dal consorzio Technapoli. Tale consorzio punta sulla ricerca
scientifica per favorire le innovazioni tecnologiche trasferendole alla piccola impresa e alla pubblica amministrazione, promuove consorzi territoriali tra imprese, la diversificazione della produzione in termini di prodotto e di sistemi indu-
13
Cfr. M. Hardt, A. Negri, Il lavoro di Dioniso, cit., pp. 16-17.
321
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
striali – il che contrasta col carattere standardizzato della produzione dell’epoca
fordista –, partecipa ai consorzi sulla promozione del libro, dell’informazione
e della comunicazione, quindi punta sul sapere, sulla tendenziale “immaterializzazione” del lavoro e sulla scienza come forza produttiva principale. Questi
consorzi di piccole e medie imprese locali, enti e università, che operano nell’area
metropolitana suddetta, tendono a organizzarsi “a rete”, come è caratteristico
nel post-fordismo. Tale organizzazione a rete, essendo ancora capitalistica, è una
catena dorata, ma pur sempre una catena, la quale riproduce i meccanismi di
comando sul lavoro stesso, anche immateriale, su tutto il territorio e non più
nella sola fabbrica. Quest’ultima a sua volta organizza la produzione parimenti
privilegiando la comunicazione e l’informatizzazione, e strutturando il processo
lavorativo a filiere, a rete, ecc., cioè in forme nuove di comando sul lavoro, il quale rimane pur sempre lavoro salariato produttore di plusvalore. Per quanto invece
riguarda la composizione della soggettività alternativa, si pensa, per il fordismo,
alla centralità che assunse – forse, caso unico nella storia di Napoli – la classe
operaia negli anni Settanta sia in termini di lotta che in termini di presenza dei
partiti della sinistra, comunque se ne giudichi il merito delle scelte politiche, e
alle ricadute positive che ciò ebbe, sociologicamente parlando, sulla vita della
città. Per il postfordismo si pensa invece alla manifestazione del 17 marzo 2001
contro il Global Forum sull’e-government, brutalmente repressa dalla polizia del
governo Amato di centro-sinistra, e a cui avrebbe fatto seguito la manifestazione
di Genova contro il G-8 del luglio dello stesso anno, altrettanto brutalmente
repressa dal governo Berlusconi di centro-destra.
Poiché, però, questo passaggio, all’interno del modo di produzione capitalistico, dal fordismo al postfordismo riguarda tutta la società capitalistica, ci si
chiede che ruolo specifico può giocarvi Napoli. Credo che ciò possa essere compreso solo esaminando il rapporto tra sviluppo e arretratezza. Fino agli anni
Sessanta queste categorie hanno segnato l’allora centenaria “questione meridionale”, mentre con la globalizzazione e la perdita di centralità dello Stato-nazione
i termini di quella questione sono cambiati, se non addirittura tramontati. Sostengono Hardt e Negri che con il passaggio alla globalizzazione e al suo ordine
“imperiale”, le divisioni tradizionali tra centro e periferie e tra Nord e Sud non
sono più sufficienti per capire come si distribuiscono la produzione, l’accumulazione e le forme sociali, poiché la decentralizzazione della produzione e il mercato
mondiale hanno frammentato e moltiplicato le divisioni internazionali e i flussi
di capitale e di forza-lavoro.
322
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
Anche nelle metropoli ritroviamo tutta la gamma del lavoro, dalle vette ai tuguri della
produzione capitalistica: gli sweatshop di New York e di Parigi rivaleggiano con quelli
di Hong Kong e di Manila. Se il Primo e il Terzo Mondo, il centro e le periferie, il
Nord e il Sud erano effettivamente separati dalle linee della divisione nazionale, oggi si
intramano tra loro, distribuendo le ineguaglianze e le barriere lungo una rete di linee
multiple e frammentate14.
Tuttavia questo non vuol dire che tutti i territori del mondo, dal punto di vista del rapporto capitalistico tra sviluppo e arretratezza, siano identici, bensì che
le differenze diventano sempre meno essenziali e sempre più di grado. In ogni nazione e regione del mondo troviamo pertanto in proporzioni e gradazioni diverse
ciò che prima era appannaggio, rispettivamente, del centro e delle periferie, ma
non vi sono più barriere nazionali di divisione o nette differenziazioni tra Primo
ed ex Terzo Mondo. «La geografia dello sviluppo ineguale e le linee di divisione
gerarchica non si basano più su solidi confini nazionali e internazionali, ma su
un sistema di frontiere fluide e sopranazionali»15.
Volendo applicare queste categorie a Napoli, potremmo dire sommariamente
che essa non è Londra ma neanche Calcutta, e ciò sembra evidente. Ma tuttavia
essa non può neanche essere considerata a metà strada, o a tre quarti di strada, tra
Londra e Calcutta, perché queste due ultime realtà a loro volta non sono disposte
su una linea retta ascendente, sì da far collocare Napoli a un determinato punto
intermedio. Tutte e tre le metropoli combinano trasversalmente le stesse forme
di sviluppo e di arretratezza caratteristiche del capitalismo globale odierno, e al
tempo stesso non sono territori egualmente “sviluppati”, sempre dal punto di
vista della produzione e circolazione capitalistiche, ma vi sono gradazioni differenti nella distribuzione di sviluppo e arretratezza. Perciò si tratta di capire, entro
questa riconfigurazione del rapporto tra i due termini non più per grandi o medie
aree territoriali ma con gradi differenti all’interno delle stesse realtà in tutte le
parti del mondo, come ciò si verifica specificamente a Napoli.
Una simile operazione, che consideri Napoli nel sistema-mondo della globalizzazione, richiede un lavoro di appropriazione del materiale nei particolari (“metodo di ricerca”, marxianamente parlando), per poi ricostruirne il nesso interno
(“metodo di esposizione”). Poiché tale compito non è alla mia portata, ho optato
14
15
Id., Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, tr. it. di A. Pandolfi, cit., p. 311.
Ivi, p. 312.
323
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
per un lavoro preliminare scegliendo una via traversa, la classica formula-pretesto della cosiddetta “rilettura”. Mi soffermerò su un testo, che fra poco citerò, di
una corrente del marxismo degli anni Settanta del secolo scorso, l’“operaismo”,
dedicato al Mezzogiorno d’Italia, allo scopo di trovare un punto di collegamento
con la problematica a cui sopra accennavo. Ciò dà l’impressione in primo luogo
di prendere la questione alla lontana, ossia di parlare in generale del Mezzogiorno
italiano e non immediatamente di Napoli, in secondo luogo di soffermarsi su una
fase passata, quella relativa al fordismo, e, in terzo luogo, di assumere una sola
impostazione possibile del problema, quella operaista. Quanto al primo punto,
osservo che la messa a fuoco del problema sviluppo-arretratezza in generale, è il
massimo consentito a chi ha competenze limitate a un discorso di tipo filosofico,
anche se può forse in tal modo contribuire a richiamare qualche categoria di metodo utile per la ricerca concreta su Napoli. Quanto al secondo punto, l’evidenza
del passaggio, nella produzione capitalistica, dal fordismo al postfordismo non
deve far dimenticare, per restare all’esempio di Napoli, che, nonostante tutte le
abissali diversità, il polo industriale fordista di Bagnoli e il Parco tecnologico
postfordista di Napoli e Caserta rimangono egualmente “industria”, cioè produzione e circolazione capitalistiche, dunque sfruttamento che passa dalla forma
“ferrea” a quella “dorata”. Inoltre, la camorra la troviamo, certo con diverse caratteristiche, sia nella fase odierna postfordista che in quella precedente fordista,
e il rapporto tra occupazione e disoccupazione, e, nell’occupazione, la prevalenza
del lavoro terziario con caratteri più “pre-” che “post-”industriali, hanno conservato a Napoli sempre delle costanti specifiche, anche nell’indiscutibile passaggio
al postfordismo che tocca Napoli come gli altri luoghi della terra. Infine, per
quanto riguarda il terzo punto – ossia la scelta della sola impostazione operaista,
che pure rappresentò una linea di comprensione teorica importante di una fase
di lotte politiche in Italia – il tema, caro a quella corrente, della “centralità della
classe operaia”, pur con tutte le riserve che si possono sollevare, mi offre la possibilità di arrivare, attraverso l’archeologia del processo, a porre, alla fine del saggio,
un problema cruciale della Napoli odierna.
2. Sviluppo e arretratezza
Osserva Negri che nella tradizione marxista, così come era stata declinata
dalle due correnti classiche del movimento operaio fino alla metà del Ventesimo secolo, il concetto di classe operaia si formava attraverso una trasposizione
324
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
politica del concetto di forza-lavoro, la quale è, a sua volta, la raffigurazione
sociale del capitale variabile al cui interno essa si forma. Il capitale ha certamente avuto la funzione storica di creare la forza-lavoro, ma così questa era determinata in modo statico all’interno del concetto di capitale e di conseguenza, se il concetto di classe operaia era la proiezione e il raffinamento politico
del concetto di forza-lavoro, anche essa era costruita in maniera statica, ossia
«come proiezione meccanica della forza-lavoro, quindi come figura interna al
capitale»16. Questo oggettivismo caratterizzava sia la concezione del movimento operaio occidentale sia quella del socialismo sovietico che si impadronì di
questo schema per la realizzazione del suo progetto di industrializzazione, il
quale comportava l’esasperazione di «questa figura di classe operaia dentro un
regime disciplinare»17.
In queste interpretazioni della teoria marxista era impossibile fare della
classe operaia una variabile indipendente, autonoma rispetto al rapporto di capitale. Viceversa, l’osservazione storica delle lotte operaie e non solo, nel corso
della prima metà del Novecento e negli anni Sessanta e Settanta, mostrava un
comportamento autonomo di queste lotte nel senso che esse non avvenivano
all’interno di uno sviluppo posto e diretto dal capitale, ma erano esse stesse
motori dello sviluppo in quanto costringevano il capitale costantemente a trasformarsi: «La classe operaia era […] il motore di ogni sviluppo attraverso la lotta»18. In tal modo la nozione stessa di sviluppo veniva capovolta, in quanto esso
non è un processo di cui è soggetto motore il capitale, ma, al contrario, è solo la
risposta reattiva a cui le lotte lo costringono continuamente. Di conseguenza,
«la classe operaia [è] definita dal suo essere soggettivo, dalla capacità di mostrarsi come evento e di disporsi come costituzione sociale»19. Il capitale stesso,
a sua volta, non è un movimento oggettivo così come appare, ma “soggettività”, sia pure costituentesi reattivamente rispetto ai movimenti autonomi della
soggettività operaia. I movimenti del capitale sono «movimenti sociali, ovvero emergenza di eventi di rottura»20, eventi soggettivi subordinati ai processi
soggettivi di massa autonomi. Data questa caratterizzazione così fortemente
A. Negri, Guide. Cinque lezioni su “Impero” e dintorni. Con contributi di M. Hardt e D. Zolo,
Milano 2003, p. 39.
17
Ibid.
18
Ibid.
19
Ibid.
20
Ivi, p. 40.
16
325
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
soggettiva, il movimento storico, più che a un processo unitario, assomiglia a
una costellazione discontinua di eventi. Di conseguenza la stessa rivoluzione
«non [è] una scadenza oggettiva, il limite a cui tend[ono] i fattori materiali che
la caduta del saggio di profitto crea […], ma il cumulo di un insieme di processi
soggettivi di massa, un evento»21.
In coerenza con questa linea interpretativa, sbilanciata sul momento della
soggettività, il che significa sul momento politico, Luciano Ferrari Bravo sostiene, all’inizio degli anni Settanta, che non è possibile immaginare lo sviluppo
come la spontaneità del processo economico e di conseguenza immaginare una
separazione tra Stato ed economia. Pertanto, i termini “sviluppo” e “arretratezza”
assumono connotati fortemente politico-soggettivi:
Definiamo […] lo sviluppo come nient’altro che un processo di conquista e ridefinizione continue di un rapporto di forza politico tra le classi, il piano come forma necessaria
di questo processo a certi livelli di maturità della produzione capitalistica e, d’altra parte, il sottosviluppo, l’arretratezza bensì come “disgregazione”, ma come disgregazione
delle stesse possibilità materiali di un attacco politico proletario al rapporto di classe
fondamentale22.
Come si vede, sviluppo e sottosviluppo sono sì definiti a partire dallo scontro
tra le due classi fondamentali, capitale e lavoro salariato, ma di questo scontro
viene esasperato il momento soggettivo dei rapporti di forza politici: come è detto
esplicitamente, ci si vuol collocare «sul terreno di una definizione politica di sviluppo e sottosviluppo»23, e questa definizione riguarda specificamente lo stadio
del capitale in cui è centrale il “piano” come forma di costituzione della propria
soggettività. Pertanto, lo sviluppo è il modo politico in cui il capitale, in risposta
all’attacco operaio, cerca una ridefinizione continua del suo rapporto di forza
rispetto all’avversario, e lo fa in termini di panificazione (ci riferiamo sempre
alla metà del Ventesimo secolo), la quale è la forma caratteristica dello sviluppo,
mentre il sottosviluppo è certamente disgregazione, ma tale disgregazione significa incapacità, da parte proletaria, di un attacco materiale allo sviluppo, ossia al
21
Ibid.
L. Ferrari Bravo, Forma dello stato e sottosviluppo, in L. Ferrari Bravo e A. Serafini, Stato e
sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano, Milano 1973, p. 18.
23
Ibid.
22
326
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
piano come rapporto di forza favorevole al capitale. La disgregazione è dunque
il risultato della ridefinizione favorevole del rapporto di forza capitalistico e, al
tempo stesso, l’uso che il capitalismo ne fa piegandola alle ragioni dello sviluppo,
cioè di quel rapporto di forza favorevole conquistato. Da tutto ciò consegue che
sviluppo e sottosviluppo non sono i termini “oggettivi” di un dualismo, ma sono
intrinsecamente integrati come momenti in cui si definiscono i rapporti di forza
soggettivi tra le classi, ossia i rapporti politici stessi.
Questo tipo di impostazione si opponeva alla definizione allora dominante
dello sviluppo, la quale concentrava l’attenzione sull’aumento del reddito medio
pro capite ed è vista da Ferrari Bravo come il terreno comune – sempre negli anni
qui in questione – sia dell’economia borghese che della scienza marxista “ufficiale”. Quest’ultima assumeva l’ideologia oggettivistica dello scarto tra sviluppo
reale e sviluppo possibile in modo del tutto disincarnato dalla reale vicenda della
lotta di classe. Invece la prima assumeva il punto di vista per cui l’arretratezza è la
fase preliminare dello sviluppo che bisogna conquistare al capitalismo, e tuttavia
coglieva contemporaneamente che il sottosviluppo «costituisce una condizione
di rilancio, politica ed economica, che va mantenuta e continuamente ricostituita»24. Così, il sottosviluppo non è né il “non ancora” dello sviluppo, secondo uno
schema oggettivistico, né un prodotto dello sviluppo nel senso di una sottodeterminazione nella struttura complessiva, quindi in un senso strutturalistico, ma è
piuttosto «una funzione […] materiale e politica»25 dello sviluppo capitalistico, in
quanto esso serve internamente al processo di socializzazione del capitale. Questa
socializzazione si ha nel momento in cui esso opera in modo pianificato come
Stato-piano, come un momento politico di soggettivazione, il cui senso è quello
di sottomettere tutta la società al suo dominio.
Nella stessa prospettiva e contesto, anche Alessandro Serafini critica la teoria per cui l’imperialismo sarebbe un «accerchiamento dello sviluppo»26, nel
senso che il capitalismo, incapace di crescere ulteriormente in patria, dove si è
massimamente sviluppato, troverebbe nelle aree sottosviluppate la possibilità di
espansione, colonizzandole. Questa teoria dualistica accomuna, secondo Serafini, sia le teorie rivoluzionarie di tipo terzomondista, sia le tesi “economiche”,
Ivi, p. 19.
Ibid.
26
A. Serafini, Sviluppo capitalistico e forza-lavoro in Italia: l’ intervento sul Mezzogiorno (19501962), in L. Ferrari Bravo e A. Serafini, Sviluppo capitalistico e forza-lavoro in Italia: l’ intervento
sul Mezzogiorno (1950-1962), cit., p. 174.
24
25
327
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
ossia oggettivistiche, del capitalismo. Infatti queste teorie non dicono mai «il
“perché politico” di questo processo»27, lo descrivono ma non ne colgono la dimensione soggettiva, e ciò sempre perché partono dall’economicismo del reddito
medio pro capite. «Capire l’uso capitalistico dell’arretratezza significa capirne la
sostanza politica, cioè, da un lato, l’uso politico ai fini del dominio di classe che
di essa viene fatto, dall’altro i salti organizzativi complessivi ai quali la necessità
di questo uso obbliga i capitalisti»28. Dunque, anche per Serafini l’arretratezza va
definita in termini politici.
Essa è, prima di tutto, arretratezza organizzativa e politica della classe operaia delle
“zone sottosviluppate”, incapacità di ostacolare effettivamente, da parte proletaria, lo
sviluppo capitalistico, le sue ragioni, le sue esigenze, incapacità cioè di scindere i propri
interessi di classe da quelli dello sviluppo della società capitalistica, di riaffermarli continuamente contro quello sviluppo29.
Perciò, anche quando la classe proletaria lotta per lo sviluppo, non scinde i
suoi interessi da quelli capitalistici. Tale lotta è, in un certo senso, espressione di
arretratezza, mentre l’interesse operaio spezza il circolo arretratezza-sviluppo ed
è piuttosto lotta per i propri interessi in quanto completamente antitetici a quelli
della società capitalistica, e così solo indirettamente costringe il capitale allo sviluppo come risposta alle lotte che lo mettono in crisi.
Perciò il sottosviluppo, se non è solo un “non-ancora”, ma anche una funzione dello sviluppo stesso, va scientificamente ricostruito nella sua espressione
oggettivistica e ideologica, propria dell’economia borghese, ma accolta anche dal
marxismo dominante in quegli anni, e poi va rovesciato praticamente30.
3. Il Sud italiano nella “ fase fordista”
Secondo Ferrari Bravo «il cervello politico borghese»31, riflettendo sul brigantaggio, che è all’origine della questione meridionale, considera la repressione
27
28
29
30
31
Ibid.
Ibid.
Ivi, p. 175.
Cfr. L. Ferrari Bravo, Forma dello stato e sottosviluppo, cit., p. 19.
Ivi, p. 20.
328
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
armata nei confronti «degli strati “profondi” del proletariato meridionale»32, che
rifiutavano lo Stato, come un «momento “interno”»33 di tutto un processo che
vuole però nello stesso tempo andare alle cause del fenomeno. Perciò l’ideologia
borghese spiega la ribellione a partire dall’arretratezza del Mezzogiorno, e questa
è vista come «insufficienza capitalistica della società civile meridionale»34, caratterizzata dalla sopravvivenza dei rapporti feudali, dal parassitismo delle città,
dall’assenteismo della grande proprietà ecc. Da questa posizione deriva l’ideologia dell’immissione o dell’integrazione del popolo nello Stato, possibile solo sulla
base dei rapporti di produzione moderni. Questa ideologia meridionalistica dello
sviluppo e della modernizzazione aveva, per Ferrari Bravo, «un ruolo politico
permanente»35. Infatti stava alla base dell’ideologia dello sviluppo economico,
della razionalizzazione oggettiva, comune sia alla scienza borghese che a quella
marxista, socialdemocratica o della Terza internazionale.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta l’intervento statale nel Mezzogiorno costituisce il fattore decisivo che sposta i termini della questione meridionale, cambiandone l’assetto in termini qualitativi. Questo spostamento dipende dal fatto
che lo Stato capitalistico assume la struttura e la forma del piano. È fondamentale
sottolineare che la questione meridionale non si estingue, o, se si vuole, non cambia radicalmente i suoi termini qualitativi, perché si siano estinti l’arretratezza e
il sottosviluppo che l’hanno determinata, quindi perché si sia verificata l’ideologia dello sviluppo e della modernizzazione. Certamente, nell’arco degli anni
Cinquanta e Sessanta, quindi in venti anni, il quadro del Mezzogiorno mutò
profondamente, come era constatato dai meridionalisti Manlio Rossi Doria e
Pasquale Saraceno, con la cui diagnosi Ferrari Bravo concorda. Vi furono senza
dubbio mutamenti per quanto riguarda l’espansione del reddito, l’aumento della
popolazione extragricola, l’aumento relativo della produzione agricola in proporzione all’esodo migratorio, la presenza di aree industrializzate in varie parti
del territorio meridionale, infrastrutture, bonifiche, acquedotti e soprattutto la
viabilità stradale, che rivoluzionò il paesaggio. Tuttavia a questo fa da contrasto
l’aumento dell’occupazione extra-agricola più nei servizi e nell’edilizia che non
nell’industria manifatturiera, ma soprattutto, dagli indici di reddito alla possi-
32
33
34
35
Ibid.
Ibid.
Ibid.
Ibid.
329
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
bilità di un autonomo meccanismo di sviluppo, il divario tra Nord e Sud si era
accresciuto, cioè l’arretratezza persisteva in termini relativi.
Ma proprio in questo permanere dell’arretratezza, non permane la vecchia
questione meridionale come linearità dello sviluppo possibile, bensì emergono
degli elementi «qualitativamente nuovi»36, in modo da spostarne i termini. Due
sono gli aspetti di questo spostamento. Il primo è il passaggio, nel rapporto
tra sviluppo e arretratezza, quindi tra Nord e Sud italiani, «da un rapporto
di “separazione” a uno di “integrazione” rispetto al complesso dell’economia
nazionale (ed internazionale)»37. Però, da quanto si è visto finora, si ricava che,
per l’impostazione qui esaminata, “integrazione” non significa che il Sud abbia
raggiunto una struttura economica simile a quella settentrionale, il che confermerebbe la tesi economicistica e oggettivistica dell’eliminazione delle sacche di
arretratezza feudale, monopolistica, parassitaria ecc., ma significa solo che il
rapporto tra sviluppo e sottosviluppo ha assunto una diversa fisionomia. Il sottosviluppo si conserva, ma trascorre «da rapporto esterno a rapporto interno»38,
vale a dire diventa un rapporto interno allo sviluppo. Questa trasformazione
è espressa in modo caratteristico dalle migrazioni interne di forza-lavoro dal
Sud al Nord negli anni Sessanta, cosicché il sottosviluppo diventa una risorsa
interna allo sviluppo stesso, viene, per così dire, interiorizzato allo sviluppo. In
tal modo è superata la visione dualistica esterna, di tipo coloniale, del rapporto
tra i due momenti, mentre, d’altra parte, il rapporto “interno”, non dualistico,
si ha non nel senso di un’omologazione di struttura economica, altrimenti non
si potrebbe parlare di rapporto tra sviluppo e sottosviluppo, bensì nel fatto che
il sottosviluppo, mantenuto, viene interiorizzato dallo sviluppo, ricondotto a
una sua funzione, diventa una risorsa per lo sviluppo stesso, e questa funzionalizzazione del sottosviluppo allo sviluppo è la forma del dominio capitalistico
complessivo su tutta la società italiana.
Ciò è coerente con la funzione del sottosviluppo e dell’arretratezza a livello
di internazionalizzazione dell’economia, già avvertita a quel tempo. Infatti,
non funzionava in generale lo schema del rapporto tra sviluppo e sottosviluppo
come un rapporto dualistico di tipo coloniale: il sottosviluppo, nella pratica del
capitalismo, «si rappresenta non come “lato” di un rapporto duale ma semmai
36
37
38
Ivi, p. 13.
Ibid.
Ivi, p. 14.
330
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
come “angolo” attardato, accanto ad altri, di un sistema economico più largo
e, appunto, integrato»39. In tal modo la questione del Sud d’Italia diventava già
allora un caso certo specifico, ma non diverso come momento del più complesso rapporto mondiale tra sviluppo e sottosviluppo, dove veniva superata praticamente la rappresentazione dualistica e coloniale, se si vuole usare l’analogia
rispetto alla precedente rappresentazione dell’imperialismo. Si tratta quindi di
sottosviluppo ma dentro il domino complessivo del capitalismo, e non dualisticamente fuori di esso.
Il secondo aspetto di questo spostamento qualitativo nei termini della
questione meridionale, non fa che radicalizzare il superamento del modello di
rapporto dualistico, e quindi confermare il modello di “integrazione”. Infatti,
secondo Ferrari Bravo, in concomitanza con il fatto che il Sud, ovvero l’arretratezza, costituiva una riserva di forza-lavoro per le aree sviluppate, si avviò un
processo complementare, per cui la contrapposizione tra sviluppo e sottosviluppo non passava più soltanto tra Nord e Sud, ma si fece interna al Sud stesso,
ossia quest’ultimo agli inizi degli anni Settanta si presentava non più come
una zona omogenea nella sua arretratezza, ma come a sua volta differenziato
al suo interno, e in questa differenziazione troviamo dei rapporti dualistici tra
sviluppo e sottosviluppo.
Ora, questa ridefinizione pratica dei termini della questione meridionale, per
cui il sottosviluppo viene integrato nello sviluppo passando da rapporto esterno
a rapporto interno, come una sua funzione, mentre il dualismo passa all’interno
stesso del sottosviluppo meridionale, considerato non più come area omogenea,
ma come sviluppo e arretratezza insieme, è opera dell’iniziativa statale a partire
dagli anni Cinquanta: «Tutti i principali passaggi materiali e storici che conducono a quelle trasformazioni e le caratterizzano – dislocazione del ruolo dell’agricoltura meridionale e nuovo paesaggio agricolo; struttura polarizzata dell’industrializzazione meridionale e via dicendo – hanno costituito via via l’oggetto specifico
dell’intervento»40. Lo Stato, dunque, definisce a partire dagli anni Cinquanta
il problema meridionale come problema generale, ossia non come una sacca di
arretratezza da eliminare, ma come una funzione dell’intero sviluppo nazionale,
il che significa: controllo politico dello spostamento di forza-lavoro dal Sud al
Nord, quindi dominio del capitalismo e delle sue esigenze, e contemporanea-
39
40
Ibid.
Ivi, p. 16.
331
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
mente dualismo anche nel Sud. Ebbene, uno Stato siffatto, in cui il sottosviluppo
è integrato nel progetto complessivo, non può che essere uno Stato-piano, e questa era la forma generale che lo Stato assunse allora a livello mondiale, determinando la forma specifica del trattamento dell’arretratezza, ossia come funzione
dello sviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano nei primi venti anni del secondo
dopoguerra fu perciò l’espressione della trasformazione dello Stato in Stato-piano, che passava «da un rapporto “esclusivo” col sottosviluppo ad una dimensione
complessiva: dal sottosviluppo allo sviluppo, o meglio […], al governo del loro
rapporto»41.
Va precisato che quando per Ferrari Bravo si parla di intervento pianificatore
dello Stato nel Sud italiano a partire dagli anni Cinquanta, questo non significa
che nella forma del piano e nella soggettività capitalistica che tale piano direttamente esprime, si debba sempre vedere un’intenzione e una consapevolezza degli
esiti del processo. Ciò sarebbe smentito dai fallimenti e dalle critiche meridionalistiche che sia da parte borghese che da parte comunista vennero fatte alle varie
fasi dell’intervento, il quale fu anche un non-intervento o omissione, e in nome
di questo fatto fu criticato. Né significa che ci fosse coincidenza tra i progetti e
gli esiti. Quello che conta è la valenza strutturale del piano, cosicché «anche il
non-intervento, e ogni forma negativa o inefficace di esso, configura un’ipotesi di
“imputazione” all’interno di una forma di Stato che si definisce complessivamente come Stato “responsabile”»42.
Osserva Serafini che negli anni Cinquanta il capitale, attraverso il governo
della forza-lavoro, usò l’arretratezza per piegarla alle ragioni dello sviluppo, nel
senso che attraverso questo governo avrebbe piegato le spinte eversive contenute
nella lotta del proletariato di quegli anni contro il latifondo e gli agrari, lotta che
i partiti della sinistra incanalarono verso la riforma agraria. Questa modalità di
dominio sulle spinte eversive del proletariato, fu esercitata assumendo che il Sud
avesse un’abbondanza di forza-lavoro a basso costo, e proprio grazie a questo
fatto la gestione dell’arretratezza fu volta a piegarla alle ragioni dello sviluppo. La
gestione dell’arretratezza divenne compito dello Stato, il quale pianifica i tempi,
i modi e la disponibilità di forza-lavoro. Ciò avveniva attraverso l’organizzazione e il controllo della mobilità territoriale di questa forza-lavoro stessa. Come
abbiamo sopra accennato, già dopo l’unificazione italiana il brigantaggio aveva
41
42
Ivi, p. 17.
Ivi, p. 19.
332
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
costituito un elemento di estraneità e di ribellione rispetto allo Stato unitario.
Dinanzi alla repressione statale e al mantenimento della struttura latifondistica e assenteistica, che costitutiva la base materiale dell’arretratezza del Sud, vi
fu l’ondata migratoria transoceanica degli inizi del Ventesimo secolo. Questa
emigrazione fu la risposta alla durezza della repressione contro il brigantaggio, il
quale mostrava così tutti i suoi limiti per esprimere l’odio di classe di fronte alla
capacità di controllo sulle spinte eversive, capacità che la borghesia aveva conquistato con il nuovo Stato unitario. In riferimento a questo punto, si discuteva se
l’emigrazione fosse da intendersi come una “cacciata” o come una “fuga”. Serafini
polemizza con la posizione di Emilio Sereni, il quale distingue tra le zone con
pesanti residui feudali, dove avviene la fuga dalle terre, e le zone organizzate in
modo capitalistico, dove si può parlare di cacciata. Questa tesi, secondo Serafini,
si inseriva nella posizione complessiva del Partito comunista italiano, secondo
cui il capitalismo italiano non era capace di impiegare razionalmente le risorse,
quindi bisognava combattere per lo sviluppo, seguendo così i movimenti del capitale. Infatti in questa tesi viene ribadita «l’incapacità del proletariato ad opporsi
all’organizzazione capitalistica»43. Se la possibilità di parlare di fuga si ha dove
i rapporti sono ancora feudali o semifeudali, mentre non c’è possibilità di fuga
dove i rapporti sono capitalistici, quindi le migrazioni possono esserci solo perché
si è cacciati, allora è evidente che
perfino i “servi della gleba” – in questo caso i contadini poveri delle zone “feudali” –
hanno un minimo di capacità autonoma di decidere del loro futuro – in questo caso
decidono di fuggire; coloro invece che non possono in alcun modo aspirare all’autodecisione sono i proletari –, per definizione soggetti e subordinati sempre ai movimenti
del capitale44.
È chiaro che in questo modo abbiamo lo schema oggettivistico, secondo cui
la forza-lavoro è un momento tutto interno al capitale, e la classe operaia è una
proiezione della forza-lavoro, quindi la sua possibilità di movimento è completamente subordinata alle necessità oggettive della razionalizzazione capitalistica,
cosicché la lotta è diretta a combattere le arretratezze del capitale, come di fatto
43
A. Serafini, Sviluppo capitalistico e forza-lavoro in Italia: l’ intervento sul Mezzogiorno (19501962), cit., p. 141.
44
Ibid.
333
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
accadeva nella politica del Pci relativa alla lotta contro il latifondo e per la riforma
agraria. L’emigrazione come costrizione a fuggire, era per l’appunto espressione
dell’irrazionalità e dell’arretratezza del capitale. Serafini avanza dubbi anche sulla
fondatezza storica di questa interpretazione, facendo propria la posizione di Giuseppe Galasso, secondo cui si sarebbe «trattato ovunque di una fuga, mai di una
cacciata»45. Ma soprattutto la sua tesi politica, in opposizione a quella di Sereni,
è che anche e soprattutto i proletari hanno autonomia, il che contesta completamente lo schema oggettivistico e fa della classe operaia il motore dello stesso sviluppo capitalistico attraverso la lotta. Le migrazioni, peraltro incentivate non da
un’iniziativa organizzata dello Stato ma dalla pubblicità delle compagnie di navigazione, «costituirono una manifestazione di rifiuto proletario dell’organizzazione statuale in Italia, uno “sciopero bianco” contro i nuovi e vecchi padroni»46.
Serafini osserva che l’emigrazione come tale era un’arma scarsamente efficace,
poiché la fuga, anche se rappresentava di per sé un momento di rifiuto e di rivolta,
era al tempo stesso «dimostrazione dell’impotenza organizzativa, dimostrazione
di incapacità politica di tradurre il rifiuto spontaneo delle masse in affermazione
politica del loro antagonismo di classe»47. Infatti la fuga è certamente un negare
al padrone la propria forza-lavoro, ma è anche incapacità di organizzarsi politicamente, «affermare la propria disperazione nella possibilità di costruire una forza
politica proletaria efficace»48. Anche l’invecchiamento della popolazione colpita
dall’emigrazione è qui vista in termini soggettivi e dunque politici: «Chi emigra
sono sì i più giovani, ma anche i più coscienti, i più suscettibili di attività politica
e organizzativa. Chi emigra sono i possibili quadri politici, i giovani più dotati
di iniziativa e coraggio. Chi resta sono i vecchi, sono gli sconfitti, i rassegnati o i
ruffiani dei padroni»49.
Per battere la carica eversiva delle lotte nelle campagne, si attuarono la riforma
fondiaria e l’intervento della Cassa per il Mezzogiorno, intervento settoriale coordinativo e straordinario. La riforma fondiaria, anche grazie all’incanalamento
delle lotte fatto verso di essa ad opera della sinistra, non a caso si concentrò dove
le lotte contadine erano state più dure, e così esse furono battute e disorganizzate.
Come sopra detto, l’intervento della Cassa per il Mezzogiorno non fu efficace in
45
46
47
48
49
Ivi, pp. 141-142.
Ivi, p. 142.
Ibid.
Ibid.
Ivi, p. 143.
334
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
termini di coordinamento, il quale non appariva come un piano ma come una
concertazione effettuata dopo l’intervento stesso. Inoltre, misurando lo sviluppo
in termini di aumento del reddito medio pro capite, i risultati mostravano addirittura un fallimento dell’intervento, e su questo punto convergevano negli anni
Sessanta e Settanta le critiche sia da parte del meridionalismo laico-cattolico,
che attaccava la scarsa razionalità dell’intervento, sia da parte dei comunisti che
ne criticavano il grado di sufficienza quantitativa e di democraticità. Ma questo,
anche secondo Serafini, non contraddice, anzi finisce col mistificare i veri nessi
strutturali. Esso stravolge i termini dell’analisi, perché assume il parametro dello
sviluppo come aumento del reddito medio pro capite. Questa teoria, già se applicata all’allora Terzo mondo, benché di qualche utilità, restava comunque in
superficie. Perciò meno che mai poteva funzionare per il Sud italiano di allora.
Infatti,
quando mai il capitale ha fatto suo il punto di vista dell’arretratezza? Sono le ragioni
del suo sviluppo a dettare la sua politica, anche quella nei confronti delle “aree depresse”, mai viceversa. Sono le esigenze dello scontro di classe che, ai suoi più alti livelli,
determinano il livello di sviluppo “oggettivo” delle forze produttive; non sono certo i
bisogni del proletariato “arretrato”, cioè poco organizzato, che obbligano a certe scelte
i capitalisti, che inducono il capitale a certe operazioni politiche. Solo da questo punto
di vista si capisce che cosa è avvenuto nel Sud dopo il ’5050.
Quindi, se la “scelta” per lo sviluppo è determinata solo dall’esigenza della
lotta di classe da parte del capitale, perché per esso la condizione essenziale di
esistenza è quella di mantenere la libertà di comandare il lavoro salariato, allora una scelta per il pieno sviluppo da parte del capitale non si dà mai in modo
meccanico, oggettivo e lineare, ma sempre valutando in che modo condurre lo
sviluppo e a che grado mantenere l’arretratezza. Si vede come, in questa prospettiva di analisi, l’oggettività dello sviluppo sia solo una funzione della soggettività,
cioè una funzione non economica ma completamente politica. Si tratta sempre,
nel caso del rapporto tra sviluppo e sottosviluppo, del modo il cui il capitale
deve mantenere la sua libertà di movimento per dominare il lavoro salariato, sua
sorgente e suo nemico al tempo stesso, quindi in definitiva si tratta sempre delle
esigenze della lotta di classe. Perciò lo sviluppo non va visto come un movimento
50
Ivi, pp. 146-147.
335
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
oggettivo, ma come un’arma del capitale per dominare la forza-lavoro.
Dunque, sconfitto il movimento contadino con la riforma agraria, si trattava di controllare la mobilità della forza-lavoro e al tempo stesso eliminare le
cause per cui nel Sud potesse scoppiare la rabbia proletaria. Da un lato bisognava rompere il blocco agrario, quindi il latifondo, e dall’altro lato bisognava
gestire la mobilità della forza-lavoro in modo controllato, nel senso che «se […]
l’emigrazione dal Meridione andava giocata per “scaricarne” le tensioni, essa non
doveva trasformarsi in un esodo incontrollato verso il Nord, con il rischio di
porre insolubili problemi di “pace sociale”. La politica di intervento dello Stato
puntò dunque sul “contenimento”, in questo periodo, dell’emigrazione al Nord
dal Meridione»51. Quindi, abbiamo un governo del nesso tra sviluppo e sottosviluppo, un’azione completamente politica, consistente nel contenimento dell’emigrazione, che, se non promossa, avrebbe provocato lotte sociali minacciose, data
la struttura ancora latifondistica nel Sud, ma che, se incentivata fino in fondo,
avrebbe innescato per altri versi tensioni incontrollabili. Questa politica di contenimento fu fatta con interventi infrastrutturali, di bonifica, di risanamento
dell’agricoltura al Sud, accanto alla rottura del blocco agrario, e, al tempo stesso,
con l’incentivazione dell’emigrazione all’estero, nonché, negli anni Cinquanta,
con il mantenimento delle leggi fasciste contro l’emigrazione interna, cioè delle
leggi contro l’urbanesimo. In quelle leggi fasciste vi era un circolo vizioso, giacché per trasferirsi dalla campagna nella città bisognava prendere la residenza in
città, e per avere la residenza in città bisognava avere un contratto di lavoro, condizione del quale era però, a sua volta, la residenza in città. Serafini ritiene che il
mantenimento delle leggi fasciste sull’inurbamento giocò negli anni Cinquanta
un ruolo sul livello dei salari nell’industria del Nord, facendo leva sulla passività
politica degli emigrati del Sud. Infatti le piccole e medie aziende del Nord si
comportavano con gli emigrati dal Sud al Nord d’Italia in condizioni di clandestinità, esattamente come ci si comporta con un clandestino a bordo di una nave.
Questi, per nutrirsi, deve pagare a qualcuno dei prezzi di rapina fino a che non
viene scoperto e denunciato. I prezzi di rapina erano i bassi salari delle piccole e
medie aziende, proprietà della Fiat, della Pirelli o di Italcementi, e gli affitti esorbitanti delle periferie urbane. Quando l’emigrato si ribellava a qualche angheria
di troppo o non aveva i soldi per pagare l’affitto, doveva a quel punto lavorare
gratis per “pagarsi il biglietto” e poi veniva scaricato. Dopo di che, veniva denun-
51
Ivi, p. 147.
336
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
ziato come clandestino e rispedito al Sud col foglio di via. Sostiene Serafini che
non risultano sanzioni, se non qualche multa irrisoria, per i datori di lavoro di
questi operai-fantasma, né per i proprietari delle stamberghe. Anzi, questo potere
di comando del capitale sulla forza-lavoro anche utilizzando al clandestinità, era
riconosciuto dalle stesse fonti ufficiali, le quali parlavano, secondo l’affermazione
del Ministero del lavoro nel 1958, del
criterio di realizzare verso la disciplina delle migrazioni interne […] una più equa distribuzione delle disponibilità di lavoro che concili due esigenze spesso contrastanti: quella
di eliminare o di ridurre nei limiti del possibile l’eventuale contrasto tra situazioni
di privilegio e di assoluto bisogno, e quella di far salve le necessità, spesso inderogabili,
dell’attività produttiva52.
Serafini sottolinea che l’uso anche delle leggi fasciste sull’emigrazione interna
come modo di controllare il livello dei salari, durò «tanto a lungo con soddisfazione di tutti (o quasi)»53, e ciò fa vedere come il sottosviluppo, lungi dall’essere il
“non ancora” dello sviluppo, ne è una funzione, in quanto viene usato sempre dal
capitale e governato per tenere il vantaggio sul suo avversario, il lavoro salariato.
Il governo del rapporto tra sviluppo e arretratezza esercitato dallo Stato, fino a
metà degli anni Cinquanta, come controllo sulla mobilità della forza-lavoro, comportò il dominio dell’ideologia del “mercato del lavoro”. Ma questo non significa
altro che l’accettazione della legge capitalistica della domanda e dell’offerta, che
regola tutte le altre merci, cosicché l’operaio è libero di vendere o di non vendere la
sua merce forza-lavoro. Ma accettare questa ideologia, significa accettare la mistificazione con cui il capitalista domina e vince sul suo avversario, il lavoro salariato:
Assumere che esista scelta per il detentore di forza-lavoro tra vendere la propria attitudine a lavorare o non venderla […], è una bugia semplicemente. In una società capitalistica il detentore di forza-lavoro ha un’alternativa un po’ diversa: vendere la propria
merce e sopravvivere e riprodursi o non venderla ed estinguersi (con tutte le sfumature
che questa seconda possibilità contiene: il sottosalario, l’economia di sussistenza ecc.
che il capitale comprende in sé, proprio al fine di impedire questa estinzione fisica)54.
52
53
54
Ivi, p. 149.
Ivi, p. 148.
Ivi, p. 149.
337
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Ma se trionfa l’ideologia del “mercato del lavoro”, cioè dell’alternativa per
cui l’operaio è libero di vendere la propria forza-lavoro e riprodursi, oppure non
venderla ed estinguersi, ciò «significa che si è in presenza di una sconfitta operaia,
di una incapacità operaia di rompere la continuità del processo, le proporzioni
che dentro ad esso lo sviluppo si dà in virtù non di leggi neutrali e oggettive, ma
di violenti atti di dominio, di controllo materiale e politico del ciclo»55. Questa
ideologia del “mercato del lavoro” e del suo governo fu accettata da tutti gli attori
istituzionali in quel periodo:
Il rapporto salari-produttività appare anche ai sindacati una relazione data, insuperabile,
regolata da una ferrea e oggettiva legge economica che pone il salario come variabile dipendente della produttività del lavoro e assegna al sindacato il compito di contrattare proprio
un rapporto ottimale tra le due grandezze, compatibile con lo sviluppo della seconda56.
Ma questa concordanza sul mercato del lavoro e quindi sulla rigidità del
rapporto tra salario e produttività entro cui si muove la contrattazione salariale,
significa sconfitta operaia:
Lo stesso fatto che capitale e organizzazioni operaie esprimano lo stesso punto di vista
sul “processo economico” è vittoria capitalistica. Teorizzare un funzionamento oggettivo del mercato del lavoro è sì mistificazione, ma è per i capitalisti affermazione – anche
se teoricamente non chiarita – della propria vittoria, del proprio potere, mentre è – di
contro e inevitabilmente – sanzione teorica di sconfitta l’accettazione di tale teorizzazione da parte delle organizzazioni storiche della classe57.
L’intervento nel Sud in questo quadro fu di carattere diffusivo, cioè volto a
creare infrastrutture per attrarre gli investimenti, come condizione preliminare
necessaria ma anche sufficiente allo sviluppo. Apparentemente si tratta di una
politica liberale classica, la quale a prima vista contraddice la concezione dello
Stato-piano. Ma dal punto di vista del rapporto soggettivo tra le due classi, attraverso un intervento siffatto era lo Stato a controllare la mobilità della forza-lavoro
e in tal modo si affermava, con l’ideologia del “mercato del lavoro”, il controllo
55
56
57
Ibid.
Ivi, p. 150.
Ivi, p. 152.
338
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
capitalistico su tutta la società. Infatti, come si è visto, se da un lato il controllo
della mobilità della forza-lavoro era stata la chiave dello sviluppo, quest’ultimo
andava tuttavia a sua volta controllato, altrimenti avrebbe messo in moto nuove contraddizioni sociali. Perciò, come correttivo a questa incentivazione e, al
tempo stesso, moderazione della mobilità della forza-lavoro, lo Stato interveniva
direttamente nei rapporti economici, attraverso la trasformazione dei Consorzi
di bonifica e della Cassa per il Mezzogiorno. Questo intervento ebbe come conseguenza la sconfitta del padronato agrario meridionale e la gestione del saggio
medio di profitto non più in modo personalistico e parassitario, ma in modo
capitalisticamente più maturo, ossia controllando complessivamente, attraverso
la pianificazione statale, il ciclo dello sviluppo e la funzione del sottosviluppo in
questo ciclo. Così, gli industriali settentrionali vedevano un alleato non più nel
padronato agrario sconfitto, ma nello Stato-imprenditore. Questo Stato però non
era un semplice comitato d’affari della borghesia, bensì un «autonomo centro
d’iniziativa, non solo politica, ma anche economica»58, che quindi imponeva decisioni e strategie.
Il senso di questo intervento meridionalistico dei primi anni Cinquanta si
può cogliere in un contesto storico di lungo periodo. La gestione corporativa del
fascismo aveva certamente eliminato la conflittualità operaia, riducendo la classe
a mera forza-lavoro, e in questo modo poté rispondere all’Ottobre del 1917 e alla
sua proiezione nel Biennio rosso, senza però passare per la crisi del ’29, cioè per
l’opposta via seguita dagli altri paesi capitalistici, in primo luogo l’America. Ma
d’altra parte ciò comportò l’accumulazione di tensioni inespresse che alla lunga
non potevano reggere entro quel sistema. In America invece il 1917 fu, per così
dire, incorporato nello sviluppo capitalistico, ossia, se da un lato la lotta operaia
era stata sconfitta con la profonda trasformazione fordista delle tecniche produttive e l’uguagliamento della classe operaia, il capitalismo scoprì in essa non solo
l’aspetto eversivo e distruttivo, ma anche la possibilità di costituire il motore
dello sviluppo capitalistico stesso. Questa via non aveva preso il fascismo, che
invece aveva gestito la sconfitta operaia «circondando e isolando la classe»59, e
in tal modo rifiutandosi, per così dire, di assimilare dentro di sé e trasformare
vittoriosamente il 1917 comunista, cosa che in un America era avvenuto con la
crisi del 1929.
58
59
Ivi, p. 157.
Ivi, p. 128.
339
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Orbene, il problema del capitalismo italiano tra gli anni Quaranta e Cinquanta, di fronte all’insufficienza della risposta data dal fascismo alla conflittualità della classe operaia, risposta che con la guerra aveva rivelato il suo fallimento,
fu quello di scoprire gli insegnamenti del ’29, quindi avviare uno sviluppo imposto dalle nuove esigenze del capitalismo. Ma ciò comportava scoprire il ruolo
politico attivo della classe operaia nello sviluppo. Questo fatto spostò il terreno
politico dell’intervento dello Stato nell’economia: la riforma agraria degli anni
Cinquanta, unitamente al controllo dello spostamento della forza-lavoro, fu l’esito di questo cambiamento di strategia di lungo periodo. Tale strategia ebbe per
conseguenza la sconfitta degli agrari, per i quali esisteva solo il carattere eversivo
dell’insubordinazione proletaria. Questo carattere pericoloso era parimenti riconosciuto dal capitalismo più sviluppato, ma, mentre gli agrari volevano rispondervi con la sola violenza fisica, il capitalismo del dopoguerra assunse il punto di
vista dello sviluppo, cioè il ruolo politico attivo degli operai dentro di esso e in
pari tempo gestì politicamente il sottosviluppo come funzione dello sviluppo, ossia come mantenimento dei limiti all’iniziativa autonoma operaia nello sviluppo.
L’attore di questa iniziativa divenne lo Stato. Negli anni Cinquanta l’iniziativa
capitalistica nel Sud gestì la vittoria sulla classe operaia attraverso il controllo
sulla forza-lavoro, facendo giocare l’arretratezza in funzione dello sviluppo, quindi non eliminandola ma contenendola. Ciò avvenne, come abbiamo visto, attraverso la riforma agraria, che evitava uno sbocco eversivo alle lotte proletarie
contro il latifondo, e, nello stesso tempo, attraverso una gestione della mobilità
della forza-lavoro, gestione che permetteva di contenere le spinte eversive che
un’accentuata mobilità verso le aree industriali del Nord avrebbe comportato.
Di conseguenza, l’arretratezza fu tenuta, per così dire, «uguale a se stessa il più a
lungo possibile»60.
Ma già nei primi anni Cinquanta questa impostazione fu messa in questione, e dalla metà degli anni Cinquanta fino ai primi anni Sessanta si ebbe nella
pratica un ulteriore salto nell’intervento dello Stato, considerato non come mero
comitato di affari della borghesia ma come attore, mediante la pianificazione,
dell’iniziativa del capitale contro la classe operaia. Infatti si intravedeva che la
semplice creazione delle infrastrutture come condizione preliminare per suscitare uno sviluppo autonomo dell’economia meridionale, e la riforma agraria, non
avrebbero in realtà creato alcuno sviluppo autonomo. Viceversa, doveva essere
60
Ivi, p. 163.
340
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
lo Stato direttamente a intervenire come soggetto immediato del processo di
industrializzazione del Sud, applicando la linea keynesiana e i principi del piano
Beveridge, e così portando a pieno compimento la linea volta a includere quella
faccia della classe operaia non eversiva del capitalismo e della sua forma di affermazione del dominio, lo sviluppo, bensì di fattore politico positivo dello sviluppo
capitalistico stesso.
Così, dalla fine degli anni Cinquanta fino agli anni Sessanta, si ha una trasformazione sostanziale dell’iniziativa capitalistica nel Sud e di conseguenza si ha
un’impostazione nuova del rapporto tra sviluppo e arretratezza. Serafini sottolinea che anche in questo passaggio «l’iniziativa passa attraverso l’uso dello Stato, la
riqualificazione del suo intervento, del suo rapporto con la società meridionale»61.
E anche qui, coerentemente con l’impostazione secondo cui i “processi oggettivi”
sono in realtà iniziative soggettive di classe imposte dal capitale come risposte a
iniziative potenziali o attuali, ma sempre di attacco, da parte della classe operaia,
la domanda suona così: «A quali movimenti, attuali o potenziali, della classe
operaia, del proletariato, risponde questo salto di qualità dell’intervento sull’arretratezza? A quali nuove esigenze politiche deve far fronte il capitale?»62. Come
si vede, in questa impostazione tutti i problemi economici sono eminentemente
problemi politici, i processi oggettivi sono passaggi soggettivi ideologicamente
mistificati come “oggettività” (reddito pro-capite, mercato del lavoro ecc.). In
conseguenza dell’esigenza di comprendere a quali possibilità, potenziali o attuali,
di iniziativa della soggettività proletaria deve far fronte l’iniziativa politica capitalistica, si pone poi il problema di «come si modifica il quadro istituzionale, in
relazione ai nuovi compiti che deve svolgere»63.
Orbene, se negli anni Cinquanta l’intervento pubblico aveva la funzione
prima di tutto di contenimento, vale a dire di gestire e contenere l’esodo della forza-lavoro e al tempo stesso fare la riforma agraria, mantenendo costante
l’arretratezza in funzione dello sviluppo, le migrazioni c’erano state non solo da
Sud verso Nord – Italia ed Europa –, ma anche, e in modo rilevante, all’interno stesso del Sud Italia. Questa linea migratoria avveniva dall’entroterra, ossia
dalla montagna e dalla campagna, verso la costa, il che voleva dire precisamente
verso le città costiere. In città come Napoli, Bari, Taranto, si poteva constatare
61
62
63
Ivi, p. 164.
Ibid.
Ibid.
341
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
«l’incredibile ammasso della popolazione, la sua precarietà, nonché il fatto che la
maggior parte di questi depositi umani prov[eniva] da altre zone, [era] urbanizzata da tempi molto recenti»64. La funzione della città meridionale costiera negli
anni Cinquanta appare a Serafini duplice. Da un lato essa è un fattore di controllo sociale dei fluissi migratori. Infatti l’emigrato, prima di partire per il Nord
dell’Italia o dell’Europa, si trasferiva in città tentando inizialmente di rimanerci,
quindi di non emigrare. Questo non riusciva a molti, che appunto emigravano, e
coloro che rimanevano in città avevano il destino del sottoproletariato urbano e
dell’impiego in attività terziarie. In tal modo la città mette in atto tutta una serie
di meccanismi spontanei caratteristici dell’organizzazione capitalistica per controllare il movimento della forza-lavoro. Ma così, rispetto allo sviluppo, «la “città” sembra essere la sintesi, l’esplicitazione della sconnessione, della disgregazione
sociale e politica che le sconfitte subite, che l’“arretratezza” nel suo senso più
pieno, avevano indotto nel proletariato del Sud»65. Tuttavia dall’altro lato questa
concentrazione “disgregata” come segno della sconfitta operaia e del controllo
sciale, diventava una condizione pericolosa di ribellione, data la difficoltà di organizzare nelle città il consenso. Ed è appunto da questo doppio carattere della
città meridionale costiera, ossia di essere al tempo stesso momento di controllo
sociale e di forte antagonismo, che assume senso l’industrializzazione nel Sud.
A questa pericolosità insita nel doppio carattere della grande città, si aggiunge
una contraddizione più complessiva sul piano del controllo generale dello spostamento di forza-lavoro. Anche qui, da un lato, la politica di favorire l’emigrazione
verso il Nord Italia e verso il Nord Europa, ossia sulle linee migratorie degli anni
Cinquanta non più prevalentemente transoceaniche come agli inizi del secolo
XX, serviva, se fatta in modo contenuto, a controllare i movimenti della forza-lavoro e in vista di ciò funzionava l’uso politico dell’arretratezza meridionale.
Dall’altro lato, l’emigrazione verso il Nord Europa e verso il Nord Italia aveva
carattere stagionale, il che permetteva di mantenere il possesso della terra al Sud
e di non trasferire al Nord la famiglia, evitando così gli alti costi degli alloggi e
la difficoltà di trovarli. Questo carattere stagionale dell’emigrazione comportava
per il capitale, sul piano “oggettivo”, alti costi sociali di insediamento della forza-lavoro nelle città del triangolo industriale, quindi l’antieconomicità di quella
forza-lavoro, che a quel punto non era più a basso costo. Sul piano politico “sog-
64
65
Ivi, p. 165.
Ivi, p. 166.
342
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
gettivo”, inoltre, la pendolarità degli immigrati meridionali diventava un forte
strumento di circolazione delle lotte e di trasferimento di modelli di organizzazione politica, cosicché spontaneamente si costituiva un’embrionale unità di
classe tra Nord e Sud. Infine avendo, nella prima fase degli anni Cinquanta,
fondato lo sviluppo sull’utilizzazione dell’arretratezza in sua funzione, quindi
avendo organizzato il movimento della forza-lavoro sulla base del suo basso costo, il capitalismo italiano aveva acquistato competitività nella concorrenza internazionale, grazie ai bassi costi di produzione derivanti da quel basso costo della
forza-lavoro. Perciò, la domanda era stata trovata all’estero. Ma a questo punto
tutto il ciclo arrivava alla fine, perché l’esercito industriale di riserva si andava
estinguendo, la mobilità assumeva un segno politico di crescita di soggettività, e
non più di controllo e utilizzazione dell’arretratezza, e perché l’esposizione nella
concorrenza internazionale richiedeva un adeguamento tecnologico per competere sul mercato mondiale. Per affrontare questo passaggio, bisognava, sul piano
“oggettivo”, favorire la domanda interna e incentivare il mercato interno, perché
solo la domanda interna e la crescita dei consumi potevano favorire a loro volta
l’accumulazione indispensabile a competere al livello richiesto dalla nuova concorrenza internazionale, e bisognava, sul piano “soggettivo”, rispondere al fatto
che quella mobilità, sebbene contenuta, stava diventando un fattore di ricomposizione politica della classe operaia, pericolosa per il capitale.
Ma questo significò che alla fine degli anni Cinquanta la grande variabile
strategica su cui dovette trasformarsi l’intervento nel Sud, e su cui al tempo
stesso dovette cambiare completamente il rapporto tra arretratezza e sviluppo, diventasse il salario come questione politica. Il capitalismo deve a questo
punto rinunciare all’esercito industriale di riserva e deve giungere alla piena
occupazione, applicando coerentemente il paradigma fordista-keynesiano. Ma
è appunto su questa base che il salario diventa «motore attivo del processo, non
[…] variabile dipendente in mano ai padroni»66. Qui trova piena espressione
l’ipotesi operaista, che vede la classe operaia non come la proiezione politica
della forza-lavoro ma come il motore dello sviluppo attraverso la lotta, e lo
sviluppo capitalistico solo come la risposta all’iniziativa o non-iniziativa operaia, comunque come un evento della soggettività e non come un processo
oggettivo. Di conseguenza, nel momento in cui il capitale rinunzia all’esercito
industriale di riserva, governando il quale aveva gestito la propria vittoria sulla
66
Ivi, p. 168.
343
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
classe operaia e aveva esercitato il controllo sul ciclo di sviluppo, impiegando
l’arretratezza in funzione di quest’ultimo e quindi mostrando come il sottosviluppo sia solo l’incapacità operaia di attaccare, ecco che l’iniziativa passa di
nuovo in mano operaia, giacché il salario ridiventa, con la piena occupazione,
variabile indipendente, arma politica. Ed ecco allora che la scelta per l’industrializzazione del Sud con la conseguente riconfigurazione del rapporto tra
sviluppo e sottosviluppo, è solo la risposta a questa libertà di movimento che la
classe operaia riconquistava a partire dalla rinuncia capitalistica a controllare
l’esercito industriale di riserva e a partire dalla necessità di rilanciare la piena
occupazione.
Pertanto, il passaggio alla fase di industrializzazione del Sud ha, per il capitale e lo Stato-piano, questo senso politico:
Individuazione delle tendenze alla ricomposizione politica presenti nel proletariato,
progetto di ristabilire il controllo su di esso dividendolo in modo nuovo. La sostanza
del progetto è di portare le fabbriche al Sud per affidare parte del controllo esercitato
prima a livello sociale, e ora precario, direttamente al processo di produzione immediato, riproponendo contemporaneamente lo squilibrio all’interno stesso del Sud, per
dividere il proletariato in proletariato urbanizzato, destinato alle nuove fabbriche, e
proletariato agrario dell’interno, destinato ancora all’emigrazione, all’esodo67.
Quindi, l’industrializzazione del Sud è un modo, per il capitale, di ristabilire
il controllo sul proletariato dividendolo in maniera diversa, ossia non più usando
il momento sociale del controllo e del contenimento della mobilità della forza-lavoro e dell’arretratezza, ma usando direttamente il processo di produzione immediato, la grande industria, come strumento di dominio. Coerentemente con
queste premesse, la divisione tra sviluppo e sottosviluppo, ovvero l’uso dell’arretratezza come funzione dello sviluppo, avviene non più dividendo Sud e Nord
per poi integrare il Sud nella complessiva strategia di controllo della forza-lavoro,
ma dividendo direttamente il Sud al suo interno, vale a dire dividendo il proletariato in proletariato urbanizzato attraverso l’industrializzazione e proletariato
delle campagne e dell’entroterra. Il senso del dibattito già intorno agli anni Sessanta, ma che arriva fino agli anni Settanta, è quello di «definire aree di sviluppo
e aree di non-sviluppo, abbandonare ogni illusione di considerare il Sud come un
67
Ibid.
344
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
tutto omogeneo e di intervenire di conseguenza su tutta l’area meridionale, come
era stato nella prima fase dell’intervento»68.
In primo luogo, questa divisione, ossia questo uso del Sud come area disomogenea, quindi questo uso politico del rapporto tra sviluppo e arretratezza come
rapporto interno al Sud stesso allo scopo di controllare e dividere il proletariato,
diversamente ricomposto nel quadro di piena occupazione che si stava delineando, significò l’industrializzazione per poli e al tempo stesso l’abbandono dello
sviluppo delle aree interne. In secondo luogo, questo tipo di sviluppo significò la
scelta «di un tipo di industrializzazione che vede il suo centro nell’unità produttiva di medie-grandi dimensioni, e, soprattutto, integrata nella grande impresa»69.
Poiché insediare una grande impresa nel mezzo di una situazione di non-sviluppo, del tipo “cattedrale nel deserto”, comporta un riferimento altrove, in termini
sia di input che di output, ecco che un simile insediamento di grandi industrie
collegate con “altrove”, essendo circondato dall’arretratezza, poteva essere opera solo dell’industria pubblica, ossia dello Stato stesso che così diventa direttamente imprenditore. Questo tipo di industrializzazione andava evidentemente
in una direzione opposta all’intervento della Cassa per il Mezzogiorno dei primi
anni Cinquanta, intervento caratterizzato dall’incentivazione dei privati, giacché
adesso l’attore centrale dell’industrializzazione era lo Stato stesso. Inoltre questo
tipo di industrializzazione, essendo centrato sulla grande industria nel mezzo di
un’area non sviluppata, che perciò ha input e output altrove, si opponeva a uno
sviluppo fatto di piccole imprese, di artigianato o di turismo, settori che venivano collegati piuttosto alle aree di non sviluppo. Poiché il carattere di questo
mutamento di prospettiva dell’intervento pianificatore consiste nel passaggio dal
controllo della mobilità della forza-lavoro e dell’arretratezza in funzione dello
sviluppo come modo in cui il capitale gestì la vittoria sulla classe operaia ottenuta negli anni Cinquanta, al controllo delle migrazioni interne allo stesso Sud
nel quadro della piena occupazione e dello spostamento del terreno dello scontro
verso il salario, ecco che adesso è la città a porre il problema del controllo sociale.
Infatti, se da un lato la disgregazione delle città del Sud come punto di transito
dell’emigrazione è un momento di controllo, dall’altro lato, come abbiamo visto,
essa è anche un terreno di potenziali tensioni. Di conseguenza l’industrializzazione di alcune città del Sud fa della produzione immediata un fattore di control-
68
69
Ivi, p. 169.
Ibid.
345
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
lo sociale, vale a dire il controllo passa dall’essere controllo sulla forza-lavoro, ad
utilizzare direttamente la grande industria per potersi esercitare: «Non a caso le
aree di sviluppo industriale, o, meglio, le grandi direttrici dell’industrializzazione
del Sud includono le metropoli, le circondano con una “cintura di sanità”, quasi
a trasferire la parte del controllo sulla forza-lavoro dalla società ancora una volta
alla fabbrica»70.
Coerentemente con questo passaggio all’industrializzazione, avente per protagonista lo Stato-imprenditore, come momento di controllo della forza-lavoro
esercitato non più nella società ma mediante la fabbrica stessa, e coerentemente
con l’uso del rapporto tra sviluppo e sottosviluppo all’interno del sottosviluppo
stesso considerato come area non omogenea, cambiano gli strumenti istituzionali
dell’intervento. I «nuovi soggetti [che] partecipano alla gestione dell’arretratezza»71,
sono le industrie pubbliche, le quali devono destinare, a partire dal 1957, la maggior parte dei loro investimenti al Sud e configurano «una forma di Stato-impresa
che incide direttamente, materialmente, sul rapporto produttivo e agisce dentro
il rapporto sviluppo-sottosviluppo»72, e i Consorzi industriali, i quali, nonostante
la poca agilità dal punto di vista operativo, costituiscono il momento che media
praticamene l’applicazione del piano generale e contribuiscono a reclutare e addestrare un personale politico nuovo, atto a gestire una politica di piano. Al tempo
stesso il baricentro della decisione politica si sposta nel Comitato dei ministri per
il Mezzogiorno e la Cassa diventa solo un ente di finanziamento, laddove nella
fase precedente, come abbiamo visto, l’intervento non era un piano a priori deciso
consapevolmente, ma un intervento diffuso, che solo a posteriori veniva controllato. Invece adesso la mediazione politica avviene direttamente tra esecutivo, ossia
tra Comitato dei ministri per il Mezzogiorno e, su due lati, rispettivamente con i
grandi complessi industriali e i Consorzi industriali. Lo Stato che viene fuori da
questo progetto di industrializzazione è così descritto: «Uno Stato che sempre più
direttamente si identifica nell’esecutivo, mentre le sue articolazioni reali, le grandi
imprese, divengono sempre più gli attori materiali del sistema»73.
Abbiamo così lo Stato-imprenditore che interviene direttamente nel ciclo
economico, quindi nella regolazione e nel controllo politico del rapporto tra svi-
70
71
72
73
Ivi, p. 166.
Ivi, p. 169.
Ibid.
Ivi, p. 170.
346
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
luppo e arretratezza, e le grandi imprese come articolazione di questo progetto,
come sua esecuzione: «La grande impresa è l’interlocutore unico dello Stato, Stato essa stessa nella misura in cui funzioni essenziali di quello le vengono affidate
e d’altronde nella misura in cui l’accumulazione può avvenire solo tramite, ed
entro lo Stato»74. Funzione essenziale dell’impresa come articolazione di questo
Stato-piano è – abbiamo visto – quella di spostare il controllo capitalistico della
forza-lavoro dalla società, come era avvenuto nella prima fase degli anni Cinquanta, alla fabbrica stessa, la quale diventa la risposta soggettiva capitalistica
alla soggettività operaia che si spostava e si ricomponeva sul terreno del salario,
e questo controllo fatto mediante la fabbrica presupponeva lo Stato stesso come
soggetto dell’accumulazione. Naturalmente ciò non comportò un cambiamento
formale nell’assetto istituzionale, ma il Governo, cioè il Comitato dei ministri
per il Mezzogiorno, la Cassa per il Mezzogiorno e i consorzi industriali, venivano a costituire una struttura parallela a quella tradizionale, nel senso che di
fatto questa struttura decideva dei rapporti fondamentali, perché, come abbiamo
visto, la mediazione politica avveniva tra il governo, ossia il Comitato, e, da un
lato, i grandi complessi industriali e, dall’altro, i Consorzi industriali. Le istituzioni tradizionali conservavano solo una forma di rappresentanza, perché sempre
meno legate a quelli che erano gli interessi decisivi. Insomma lo Stato-piano era
un attore principale di fatto, era il soggetto della costituzione materiale parallelo
alle istituzioni formali tradizionali.
Questa trasformazione cambia completamente il modo di concepire il rapporto tra sviluppo e sottosviluppo: «Finora, il Sud a servizio dello sviluppo – è
questo il senso dei primi anni di intervento»75; infatti l’arretratezza era una funzione dello sviluppo, in quanto era nient’altro che l’esercito industriale di riserva
i cui movimenti andavano però controllati, ragion per cui occorreva smantellare
nel Sud il predominio agrario per evitare esplosioni violente e incontrollate di
rabbia e di lotta, ma al tempo stesso occorreva controllare e contenere gli spostamenti per evitare che il conflitto esplodesse in modo pericoloso nei luoghi dello
sviluppo. Così, attraverso la bonifica, le infrastrutture, l’incentivazione ai privati,
si manteneva un livello costante di arretratezza in funzione dello sviluppo, e la
questione meridionale, ovvero l’arretratezza, da rapporto dualistico con lo sviluppo venne in esso integrata, ma appunto restando arretratezza. Invece «ora, il Sud
74
75
Ibid.
Ivi, p. 171.
347
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
come sede privilegiata dello sviluppo. Prima il Sud funziona come mera riserva
di forza-lavoro da portare via, da esportare, ora il Sud è zona non ancora colpita
dallo sviluppo, e quindi suscettibile di industrializzazione, e quindi “riserva di
accumulazione”»76. Ma se il Sud adesso è zona suscettibile di industrializzazione,
di sviluppo, mantenendo al suo interno il rapporto tra sviluppo e sottosviluppo,
allora finisce l’intervento dello Stato come intervento separato e lo Stato diventa
complessivamente Stato-impresa per controllare i movimenti del salario e le lotte
operaie. Poiché non le poteva più controllare governando gli spostamenti della
forza-lavoro e quindi mettendo il sottosviluppo a servizio dello sviluppo, ecco
che doveva intervenire direttamente attraverso la produzione immediata. Ma allora l’intervento sul Meridione non è più intervento separato, quanto piuttosto è
esso stesso intervento sullo sviluppo, intervento di cui il Meridione è il punto di
partenza: «Vittoria della “questione meridionale”, in quanto punto di vista sullo
sviluppo italiano che parte dal Meridione»77. Quindi, il Meridione qui da problema separato diviene punto di partenza e perciò centro del problema complessivo
dell’intervento dello Stato nello sviluppo. Questo spostamento di prospettiva, in
cui il Sud diventa il punto di partenza del piano e non più la sede dell’intervento
specifico, separato, è la risposta al fatto che all’inizio degli anni Sessanta si cominciano a sviluppare lotte operaie omogenee sul salario, che uniscono gli operai
del Nord e quelli del Sud. Ciò non significa affatto che non vi sia arretratezza
e contraddizione tra sviluppo e arretratezza – anzi, fa parte dell’intervento non
considerare il Sud come area omogenea e mantenere la divaricazione al suo interno tra città e zone interne –, ma l’unità del terreno di lotta, quello sul salario,
che impone al capitale l’industrializzazione come risposta, si presenta più forte
dello iato tra sviluppo e arretratezza. In risposta a questa ricomposizione intravista come potenziale alla fine degli anni Cinquanta, e divenuta attuale nelle lotte
degli anni Sessanta, il Sud fu riassorbito dentro lo sviluppo e il Mezzogiorno diventò il luogo di sperimentazione dello Stato-impresa che poi sarebbe stato esteso
come modello a tutto lo sviluppo italiano.
Non è qui il luogo per discutere i presupposti di questa interpretazione operaista del rapporto tra sviluppo e arretratezza. Trovo giusto accentuare il significato soggettivo del rapporto tra sviluppo e sottosviluppo, mistificato dietro
l’apparenza oggettiva del loro dualismo, cioè sottolineare che questi due termini
76
77
Ibid.
Ibid.
348
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
vanno visti come momenti della lotta tra capitale e lavoro salariato, ragion per
cui non si dispongono in maniera lineare, ma secondo le esigenze dello scontro
di classe. Questa accentuazione “soggettivistica” ha senza dubbio il merito di
sottolineare che il capitale ha sempre come sua ragione di esistenza – altrimenti
verrebbe meno come modo di produzione dominante – la necessità di mantenere
la piena libertà di controllo sulla forza-lavoro. È sua condizione di vita o di morte
disporre pienamente del lavoro salariato, il quale, a sua volta, è la condizione di
valorizzazione, dunque di conservazione del capitale, ma contemporaneamente
è la sola forza che lo può abbattere, spezzando la schiavitù del lavoro. Perciò nel
capitalismo non vi è sempre necessariamente “sviluppo”, ma anche mantenere
l’“arretratezza” ha per il capitale la funzione di riprodurre se stesso. Ecco perché
il sottosviluppo non è solo sempre il prodotto di un capitalismo arretrato, impregnato di elementi feudali o monopolistici, fascisteggiante ecc. Tuttavia mi desta
perplessità questo fare della classe operaia sempre il primo motore dello sviluppo
attraverso la lotta come se essa fosse già ontologicamente data, imprevedibile, indipendente nei suoi movimenti, cosicché il capitale sarebbe solo reattività a quei
movimenti, e non piuttosto un processo internamente contraddittorio e tale da
portare questa contraddizione al punto da renderlo inadeguato come forma di
produzione dominante, quindi da superare. Osservava Marx che nella separazione della proprietà dal lavoro, quest’ultimo si presenta in una duplice forma: da
un lato come non-capitale, ossia «non-materia prima, non-strumento di lavoro,
non-prodotto grezzo»78, quindi da questo punto di vista «è il lavoro come miseria
assoluta: la miseria non come privazione, ma come completa esclusione della
ricchezza oggettiva»79. Se a tal proposito si vuol parlare di oggettività, essa è solo
l’immediata esistenza corporea dell’operaio, ossia è oggettività non oggettiva,
che non va al di là dell’esistenza immediata dell’individuo. D’altra parte e nello
stesso tempo, questo lavoro è lavoro non oggettivato e non-valore, ma inteso
positivamente, nel senso che la sua esistenza non oggettiva significa l’esistenza
«soggettiva del lavoro stesso […] non come valore esso stesso, ma come sorgente
viva del valore»80, cioè è la possibilità generale della ricchezza da cui è separato.
Dopo di che Marx aggiunge: «Non è affatto una contraddizione […] affermare
che il lavoro per un lato è la miseria assoluta come oggetto, per l’altro è la possibi-
78
79
80
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. I, cit., p. 279.
Ibid.
Ibid; tr. it., cit., p. 280.
349
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
lità generale della ricchezza come soggetto e come attività; o piuttosto i due lati di
questa tesi del tutto contraddittoria si condizionano reciprocamente e derivano
dalla natura del lavoro, giacché questo, come antitesi, come esistenza antitetica
al capitale, è presupposto dal capitale, e d’altra parte presuppone da parte sua il
capitale»81. Mi chiedo allora se è possibile spezzare questo reciproco presupporsi
del capitale e del lavoro entro la stessa lotta di classe, cioè entro lo stesso passaggio
dalla forza-lavoro alla classe operaia. Certamente in questa impostazione operaista non si nega che la forza-lavoro sia posta all’interno del rapporto capitalistico,
mentre il passaggio alla classe operaia è il momento in cui il rapporto si rovescia
completamente e diventa politico. Ma questo passaggio qui sembra essere piuttosto un salto qualitativo tale da non far riconoscere più il fatto che comunque,
se certamente il momento del diventare classe è un momento di consapevolezza
politica, un momento in cui l’antagonismo prende forma, nondimeno questo
prendere forma avviene ancora entro rapporti di produzione capitalistici e quindi
entro un processo contraddittorio, altrimenti tale rapporto sarebbe già spezzato
e saremmo in un nuovo rapporto di produzione. Perciò credo che non sempre
si possano giudicare le politiche che fecero i partiti della sinistra solo come una
funzione del comando pianificato del capitale e dello Stato sul lavoro. Mi sembra
che qui vengano invece identificati comunismo e transizione.
4. Napoli tra sviluppo e arretratezza
La riproposizione del problema del rapporto tra sviluppo e arretratezza in
un’impostazione significativa nella discussione della sinistra antagonistica italiana degli anni Settanta del Ventesimo secolo, sembra prendere alla lontana il discorso su Napoli. Ma, a ben vedere, Napoli è, nel periodo qui esaminato, un caso
caratteristico di tutto il processo che riguarda la seconda fase del rapporto tra lo
Stato capitalistico della fase fordista con il Mezzogiorno, precisamente la fase in
cui si passa dal controllo della forza-lavoro e dei suoi spostamenti – attraverso il
superamento del dualismo tra sviluppo e arretratezza, quindi integrando l’arretratezza come funzione dello sviluppo – all’intervento diretto sullo sviluppo da
parte dello Stato divenuto Stato-imprenditore, nel senso che quest’ultimo diviene
il soggetto dell’industrializzazione del Sud stesso, per ovviare alla pericolosità
81
Ibid.
350
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
dell’intervento precedente sulla sola mobilità della forza-lavoro, per far fronte alle
trasformazioni che si stavano verificando sul mercato mondiale e per controllare
la ricomposizione della classe operaia che stava avvenendo sul terreno del salario.
Questa nuova fase fu caratterizzata dalla divisione tra arretratezza e sviluppo
all’interno del Sud stesso, perciò furono creati i poli industriali, localizzati intorno alle grandi città della costa, mentre l’entroterra fu lasciato alla sua arretratezza oppure al turismo o alle eventuali piccole industrie. Napoli è stata toccata
proprio da questo passaggio all’industrializzazione per poli “circondati da arretratezza”. Agli inizi degli anni Sessanta nasce l’Italsider di Bagnoli dalla fusione
dell’Ilva e della Cornigliano. Poiché, come abbiamo visto, mettere una grande
impresa nel mezzo di una situazione di non-sviluppo, comporta degli input e
degli output da e per altrove, la localizzazione dell’Italsider a Bagnoli permetteva
i rifornimenti dei materiali da lavoro e l’uscita dei prodotti via mare. Perciò mi
sembra improbabile che in quelle condizioni storiche l’insediamento si sarebbe
potuto fare altrove. Il capitalismo di allora non era ancora capace di gestire una
fase ecologica – ammesso che sia in generale capace di risolvere il problema in
radice – giacché altre dovevano essere le condizioni della produzione e quindi il
tipo di lotte. Ciò si sarebbe potuto verificare solo nei decenni successivi. Agli inizi
degli anni Settanta, già si cominciava a discutere dei limiti della localizzazione di
quell’insediamento industriale, quindi della trasformazione di Bagnoli in luogo
di attività di tipo manifatturiero ad alto contenuto tecnologico e non inquinanti,
e la destinazione di parte dell’area a verde e ad attrezzature turistiche, dunque
già si intravedeva la crisi della fase dei poli industriali, e precisamente l’inversione
di tendenza che avrebbe successivamente caratterizzato il passaggio a una nuova
fase del controllo capitalistico sulla società, la fase postfordista che sarebbe culminata nella globalizzazione.
Se dunque con questo tipo di intervento fordista negli anni Sessanta e ancora
negli anni Settanta (quando si insediò l’Alfa Romeo a Pomigliano d’Arco, allora
industria pubblica, diventando Alfa Sud), il Meridione non era più una funzione
separata dello sviluppo, bensì divenne il punto di vista generale dello Stato sullo
sviluppo stesso, ecco che in questo passaggio storico de te narratur fabula. Infatti,
Napoli fu allora appunto un’espressione di quella fase in cui l’intervento nel Sud
cessò di essere un intervento separato – vuoi come modo di affrontare il dualismo
tra sviluppo e sottosviluppo, vuoi come integrazione dell’arretratezza nello sviluppo mantenendola come sua funzione – e diventò il prototipo dell’azione dello
Stato-impresa che sul terreno della questione meridionale interviene su tutto lo
sviluppo italiano. Insomma, quando la questione meridionale finisce, ma finisce
351
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
“vincendo”, ossia “in quanto punto di vista sullo sviluppo italiano che parte dal
Meridione”, allora anche il caso Napoli diventa significativo.
Il passaggio che qui interessa sottolineare è che in quel periodo il Sud non fu
più considerato come mera riserva di forza-lavoro da portare via, ma come riserva
di accumulazione esso stesso, quindi luogo di possibile industrializzazione. La
questione meridionale divenne punto di vista generale sullo sviluppo italiano,
inteso come un processo il cui soggetto è lo Stato-impresa, il quale aveva abbozzato la sua azione generale nel Meridione. Questo passaggio storico è la risposta
soggettiva del capitale al fatto che le lotte operaie che si svolgevano tra la fine
degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, si spostavano sul salario,
data la necessità, per il capitalismo, di promuovere la domanda, avviare la piena
occupazione e far fronte all’insufficienza delle politiche di intervento degli anni
precedenti. Tutto ciò provocò un superamento dello iato tra Nord e Sud non sul
terreno del rapporto tra arretratezza e sviluppo – perché, anzi, questo rapporto si
riprodusse addirittura in forma dualistica all’interno stesso del Sud –, ma come
ricomposizione delle lotte operaie, nel senso che queste lotte assumevano una
loro tendenziale unità sul terreno del salario. Quindi la trasformazione della questione meridionale da intervento separato a punto di vista sullo sviluppo italiano
nel suo complesso, che si abbozza nella politica sul Meridione, ebbe come conseguenza la ripresa dell’iniziativa operaia come motore dello sviluppo attraverso
le lotte sì da riconfigurare la risposta capitalistica. L’impostazione operaistica che
qui ho preso come canovaccio per descrivere il processo, la si può condividere o
criticare, e comunque essa è relativa a una fase tramontata della lotta politica. Ma
comunque sia, essa ha il vantaggio di enfatizzare come passaggio cruciale negli
anni Sessanta-Settanta la centralità – certo antagonistica, ma qui è importante
sottolineare il termine “centralità” – della classe operaia nell’industrializzazione,
e nel cambiamento, che avviene in questo passaggio, della questione meridionale
da questione separata, da stralcio, a modello dell’intervento.
Questa centralità fordista operaia non era, a Napoli e a maggior ragione nel
resto del Sud, quella di Torino o di Porto Marghera, perché, come abbiamo visto,
essa era “circondata di arretratezza”, e tuttavia essa era ben avvertibile. Infatti, chi
visse le fasi storiche dalla fine degli anni Sessanta alla metà degli anni Settanta, avvertiva, ovviamente nonostante tutta la disgregazione provocata dall’inurbamento degli anni Cinquanta-Sessanta, gli effetti della centralità del soggetto
operaio, a prescindere da se lo si consideri motore o conseguenza dell’industrializzazione, e avvertiva come questa centralità si riflettesse sull’azione anche dei
partiti della sinistra, comunque li si voglia giudicare, come momento del piano
352
8. Napoli tra sviluppo e arretratezza. Rileggendo un testo del marxismo operaista
e del dominio capitalistico o come alternativa ad esso. Insomma, si percepiva
comunque, in quel periodo di lotte, la possibilità di elevarsi in qualche modo
sullo iato tra sviluppo e arretratezza e assumere un atteggiamento, per così dire,
“affermativo” e non reattivo.
Gli anni Ottanta segnarono la sconfitta della classe operaia e, anzi, una profonda trasformazione della natura e composizione della soggettività antagonistica. Infatti il capitalismo avviò la sua trasformazione come risposta alle lotte che
vi erano state negli anni Settanta. Su questo sfondo assunse ancora più risalto
quanto fosse stato politicamente suicida pensare che dal ciclo di lotte sul salario e sulla loro capacità indiscutibile di attaccare il saggio di profitto medio del
capitale, si potesse avviare un attacco complessivo, violento e organizzato, alla
forma di produzione e politica capitalistica, la quale nel frattempo stava mutando
totalmente. A Napoli, la trasformazione della composizione delle forze produttive avvenne nella forma del lavoro sommerso, dunque con un mutamento di
composizione del soggetto potenzialmente antagonistico, che ne cancellava ogni
capacità di essere motore dello sviluppo attraverso la lotta, se si vuole seguire la
tesi operaista, oppure semplicemente di costituirsi come forte soggetto politico
alternativo. Il controllo sulla società fu esercitato dal capitale e dal suo Stato
attraverso la distribuzione a pioggia, clientelare e camorristica, dei fondi della ricostruzione del dopo-terremoto, e attraverso l’uso politico del mito di Maradona.
Chi aveva colto quel passaggio degli anni Settanta come un momento “progressivo” dal punto di vista della soggettività alternativa, grazie al tipo di conflittualità che comunque l’industrializzazione aveva prodotto e che era capace
di raggiungere un livello davvero “politico”, non poteva non avvertire, agli inizi
degli anni Novanta, il carattere di “facciata” del cosiddetto “rinascimento napoletano”. Solo che il rilievo deve essere inteso in un senso molto diverso da
quello che assume in una critica qualunquistica, o anche genericamente intellettuale-progressista, al ceto politico che ha governato la città di Napoli nell’ultimo
quindicennio, giacché qui non si tratta della questione “sovrastrutturale” delle
qualità tecniche del ceto politico di sinistra. La questione non è di carattere politologico o etico, anzi, da questi punti di vista, non si può negare che il ceto politico proveniente dal Pci e dalle sue trasformazioni, portasse un know how politico
che non ha paragoni rispetto al basso livello del ceto politico della destra negli
anni del postfordismo. Il carattere inevitabilmente “di facciata” che assume l’intervento sulla città, ha la sua radice in nessi strutturali molto più forti, in quella
crisi del processo fordista e di quel suo “salto di soggettività” da cui provenne il
ceto politico che poi governò e governa il postfordismo.
353
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Se lo sbocco è quello di «dare rappresentazione politica, qualitativamente più
che quantitativamente forte, dell’attuale marginalità del lavoro»82, come vuole
Tronti, oppure se è quello di un progetto politico della moltitudine «per poter
passare dalla sfera della possibilità a quella dell’esistenza»83, come vogliono Hardt
e Negri, comunque c’è bisogno di una soggettività completamente nuova. Ma su
questo punto la teoria può, come sempre, seguire e non anticipare la prassi.
M. Tronti, Tra passione e realismo, La rivista del manifesto, 2002, n. 31, www.ilmanifesto.it.
M. Hardt, A. Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, tr. it. di A.
Pandolfi, Rizzoli, Milano 2004, p. 247.
82
83
354
9.
La soggettività tra lotta antimperialista
e resistenze contro l’impero. Vladimir Il’ič Lenin,
Michael Hardt e Antonio Negri
1. La produzione della soggettività antimperialista come motivo di fondo del
Saggio popolare
Michael Hardt e Antonio Negri ritengono che il contributo «più importante» della posizione di Vladimir Il’ič Lenin, espressa nel saggio divulgativo: L’ imperialismo, fase suprema del capitalismo – avente appunto per sottotitolo: Saggio
popolare –, consiste, attraverso l’esposizione e la critica delle teorie a lui contemporanee sull’imperialismo, nell’avere svolto quest’esposizione e questa critica dal
punto di vista della soggettività: sul terreno nuovo dello scontro di classe offerto
dal capitale giunto alla fase dell’imperialismo tra gli anni Settanta del secolo
Diciannovesimo e lo scoppio della Prima guerra mondiale, il contributo di Lenin
sta nell’aver «trasmesso un insieme di strumenti, una serie di dispositivi per la
produzione della soggettività antimperialista»2.
Questa modalità leniniana di procedere, incentrata sulla soggettività, sarebbe, secondo loro, coerente col «motivo marxiano dei potenziali rivoluzionari intrinseci alla crisi»3. Ritengo corretta questa connessione, ma qui non mi è possibile sviluppare il punto di partenza della loro impostazione del discorso, ossia
il fatto che, nella concezione che Negri ha dato della metodologia di Marx, i
concetti di “astrazione determinata”, “tendenza” e “praticamente vero”, enunciati
nelle pagine introduttive dei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia
politica, 1857-1858, sarebbero tenuti insieme da quello che lo stesso Negri chiama «il principio di costituzione […] che forma l’orizzonte insieme centrale ed estremo
del metodo marxiano […]. Il principio di costituzione porta la crisi nel cuore dell’analisi marxista, della sua metodologia, così come il principio del plusvalore porta la
1
M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, tr. it. di A. Pandolfi, cit.,
p. 217.
2
Ivi, p. 218.
3
Ibid.
1
355
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
soggettività dell’antagonismo nel cuore della teoria»4. Alla luce di questo principio
Marx fonderebbe la «teoria della crisi come teoria del capitale»5 e la «teoria del
plusvalore come teoria della rivoluzione»6, mentre nella teoria della circolazione
e in quella del profitto la teoria del plusvalore si estenderebbe fino a diventare
teoria dell’antagonismo rivoluzionario comunista dispiegato nella società intera,
sussunta sotto il capitale.
Devo dare questi presupposti per scontati, cercando di farli venire fuori nel
loro significato alla fine, quindi ricavandoli, in particolare, dalle pagine di Impero
in cui Hardt e Negri si confrontano con la teoria leniniana dell’imperialismo, al
cui centro è, come ho detto, secondo la loro lettura, la creazione della soggettività
antimperialista e comunista. Senza voler anticipare i risultati di questo lavoro,
dico subito che condivido questa linea di lettura nella sua impostazione tematica,
ma non nella modalità di argomentazione di essa, il che, forse, potrebbe avere
qualche conseguenza sulla tattica politica comunista. Ma su questo lascio la sollecitazione aperta alla discussione nelle realtà del movimento attuale. Perciò sarà
indispensabile anche tirare in ballo direttamente delle pagine di Lenin e di Marx.
2. La soggettività della “curva misteriosa della retta di Lenin” contro l’oggettivismo del sistema bancario unificato di Rudolf Hilferding e dell’ultraimperialismo
di Karl Kautsky
Vediamo come Hardt e Negri ricostruiscono la forma divulgativa e polemica
in cui è costruita tutta l’esposizione del Saggio popolare, ovvero de L’Imperialismo
fase suprema del capitalismo.
Essi individuano punti di partenza condivisi e al tempo stesso obiettivi polemici di Lenin in due nuclei fondamentali: 1) le analisi di Rudolf Hilferding e
di Karl Kautsky; 2) la critica dell’imperialismo di stampo non rivoluzionario ma
«populista e borghese»7, rappresentata da John Hobson.
Lenin parte dalla tesi di Hilferding, secondo cui la base economica dell’imperialismo è la formazione dei monopoli. Di conseguenza, man mano che il
4
5
6
7
A. Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Milano 1979, p. 67.
Ibid.
Ibid.
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 220.
356
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
capitale si espande in questa forma monopolistica e imperialistica, e con la mediazione decisiva del capitale finanziario, il livellamento dei saggi del profitto,
che richiederebbe condizioni pacifiche entro cui si formino uguali profitti per
uguali capitali e uguali sfruttamenti per lavori uguali, incontra degli ostacoli,
dato che quei monopoli – risultato del trapasso della libera concorrenza nel suo
opposto – si dividono il mercato mondiale alterando così il libero movimento dei
capitali verso il livellamento dei saggi del profitto stessi. Di qui, ossia da questa
spartizione del mercato mondiale a opera dei monopoli, si sviluppano le guerre
commerciali e anche le guerre tra Stati. Perciò Hilferding riteneva che soltanto
un sistema bancario internazionale unificato avrebbe potuto evitare queste contraddizioni, perturbazioni e guerre.
Lenin, invece, pur partendo dal dato di fatto della trasformazione della libera
concorrenza in monopolio e dalle contraddizioni che questa trasformazione crea,
non riteneva che attraverso un intervento estrinseco di tal genere, riequilibratore
dei saggi del profitto, il capitalismo potesse risolvere queste sue contraddizioni.
Egli «non accettava che l’utopia di una banca internazionale unificata potesse
essere presa sul serio e che il superamento della crisi, e cioè una Aufhebung capitalista, potesse mai realizzarsi»8.
A sua volta Kautsky, la cui posizione Lenin giudicava «ancora più utopica e
pericolosa»9, riteneva che una possibile organizzazione unitaria e non conflittuale
del capitalismo monopolistico potesse essere raggiunta più compiutamente da
un’evoluzione interna del capitalismo ossia senza l’intervento esterno di un sistema bancario internazionale, ma a opera dei monopoli stessi, che a un certo punto
si sarebbero unificati in un unico monopolio o trust mondiale e avrebbero potuto
garantire, anche grazie a una maggiore o minore regolazione statale, il livellamento dei saggi del profitto e quindi assicurare un’epoca pacifica dello sviluppo
che sarebbe succeduta a quella bellicosa dell’imperialismo.
Anche nel caso di Kautsky, come in quello di Hilferding, Lenin, secondo
Hardt e Negri, ne assume la tesi di fondo circa la tendenza del capitalismo a
un’unica organizzazione internazionale. Ma «respingeva energicamente»10 il fatto
che Kautsky usasse quest’analisi della linea di tendenza del capitale senza cogliere
il carattere contradittorio del suo sviluppo. Ancora più che rispetto a Hilferding,
Ivi, p. 218.
Ibid.
10
Ivi, p. 219.
8
9
357
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
questa appariva a Lenin una posizione reazionaria, perché metteva in ombra il
fatto che la possibilità di uscire dalla contraddizione dello sviluppo del capitale,
era quella di svilupparla e superarla agendo su di essa in modo rivoluzionario.
Il punto importante dell’esposizione che Hardt è Negri fanno della posizione
di Lenin sull’imperialismo, è che egli accettava i contributi analitici sia di Hilferding che di Kautsky, mentre la critica che loro rivolgeva, aveva un carattere pratico, dunque politico: «Mentre adottava, in linea generale, le proposte analitiche di
questi autori, Lenin rifiutava le loro posizioni politiche»11. Il rifiuto del fatto che
con la soluzione di Hilferding si potessero equilibrare i saggi del profitto, «non
era tanto teorico quanto, soprattutto, politico»12. Infatti Lenin condivideva la tesi
di Hilferding da cui partiva anche Kautsky, della tendenza del mercato mondiale
a rovesciarsi in dominio dei monopoli, ma «negava che questo sistema fosse già
stato messo a punto in modo tale da poter mediare e equilibrare il saggio di
profitto»13, essendo il capitalismo flagellato da contraddizioni, sulle quali, perciò,
i comunisti avrebbero dovuto agire. «La responsabilità del movimento operaio
era quella di opporsi a qualsiasi tentativo capitalistico di organizzare un’equalizzazione effettiva dei saggi del profitto imperialistico, ed era compito del partito
rivoluzionario quello di intervenire per approfondire le contraddizioni oggettive
dello sviluppo»14.
Ma Hardt e Negri ritengono che la preoccupazione ancora maggiore di Lenin
era di evitare che si realizzasse l’ultraimperialismo, indicato da Kautsky come
punto di arrivo del processo di formazione dei monopoli. A tal proposito essi
sottolineano come neanche Lenin ritenesse quest’analisi kautskyana un’arbitraria
fantasia, bensì una possibilità di sviluppo del capitalismo giunto alla fase monopolistica. Ma il punto è che se questa tendenza si fosse realizzata, il capitale avrebbe «mostruosamente»15 aumentato e potenziato il suo dominio e sarebbe così
diventato impossibile sviluppare lotte e conflitti proletari a partire dagli anelli
più deboli della catena di comando imperialistica, attorniati da un capitalismo
rinforzato. Come si vede, Hardt e Negri accentuano moltissimo il carattere soggettivo – quasi “esterno”, si potrebbe dire – dell’intervento politico, da parte
del movimento operaio e del partito, su una tendenza del capitale ben possibile,
11
12
13
14
15
Ibid.
Ibid.
Ibid.
Ibid.
Ibid.
358
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
quella verso l’ultraimperialismo: il potenziamento del capitale, che sarebbe seguito al realizzarsi di questa tendenza, avrebbe tolto al movimento operaio stesso la
possibilità di agire dagli anelli più deboli, e così intervenire sulle contraddizioni
capitalistiche; ove si fosse realizzata la, di per sé ipotizzabile, tendenza del capitale
all’ultraimperialismo, esso avrebbe chiuso tutti i buchi, tutti i punti deboli, li
avrebbe circondati e così il movimento operaio non avrebbe avuto la possibilità di
agire su di essi, insomma gli sarebbe stato sottratto lo spazio di iniziativa. Perciò,
intervenire e arrestare la tendenza all’ultraimperialismo, da parte del movimento
operaio, è un giocare di anticipo sulle contraddizioni, è una mossa tattica, e, in
questo senso, politica ovverossia una mossa della “soggettività”.
Infatti, Hardt e Negri citano un passo di Lenin dalla Prefazione all’opuscolo di
Bukharin «L’economia mondiale e l’ imperialismo», che è il seguente:
Questo sviluppo procede in circostanze tali, con un ritmo tale, attraverso tali contraddizioni e conflitti – non solo economici, ma anche politici, nazionali, ecc. – che l’imperialismo si consumerà inevitabilmente, il capitalismo si trasformerà nel suo opposto
molto prima che un unico trust mondiale si materializzi, prima che si crei il complesso
mondiale ultraimperialista dei capitali finanziari nazionali16.
Secondo loro, queste parole di Lenin esprimerebbero «a un tempo, una speranza e una previsione»17, dunque mi sembra che essi mantengano separato l’elemento oggettivo della tendenza che qui Lenin espone (la previsione), e l’elemento
soggettivo dell’intervento sulla tendenza (la speranza), senza risolvere la scissione
dialetticamente, il che pone qui il problema di capire cosa essi intendano per
l’“un tempo” che tiene insieme soggetto e oggetto, speranza e previsione.
Hardt e Negri affrontano a loro modo l’antinomia. Infatti essi riconoscono
che essa esiste, insomma che esiste in Lenin il problema di una divaricazione o
di un’oscurità di composizione tra questo elemento oggettivo di descrizione della
tendenza, dunque di questo elemento teorico, da un lato, e quello politico, dunque soggettivo, dell’intervento nella tendenza, dall’altro lato. Infatti essi scrivono:
«Il percorso logico di Lenin, tra proposizioni analitiche e posizioni politiche, era
piuttosto tortuoso»18, e cercano di risolvere l’antitesi sbilanciandola completa-
16
17
18
Ibid.
Ibid.
Ivi, p. 220.
359
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
mente sul momento soggettivo della prassi ossia della tattica politica. Infatti per
loro il ragionamento di Lenin, nonostante la tortuosità del percorso logico, «era
[…] efficace da un punto di vista soggettivo»19. Essi citano una celebre frase di
Isaak Babel nell’Armata a cavallo: «Io leggevo ed esultavo, ed esultando, spiavo la
misteriosa curva della retta di Lenin»20, e quest’affermazione dello scrittore russo
permette loro di intendere il passaggio a-dialettico dalla teoria alla prassi, che
avviene per vie misteriose, come un evento della soggettività:
Come disse Ilya Babel, il pensiero di Lenin correva lungo “la curva misteriosa della linea
retta” che portava dalle analisi della realtà effettuale della classe operaia alla necessità
della sua organizzazione politica. Lenin aveva colto un elemento basilare della definizione dell’imperialismo e cercava nelle pratiche soggettive della classe operaia non solo
i potenziali ostacoli a una soluzione lineare delle crisi della realizzazione capitalistica
(sottolineate anche dalla Luxemburg) ma, soprattutto, l’effettiva possibilità che queste
pratiche – lotte, insurrezioni e rivoluzioni – potessero distruggere l’imperialismo stesso.
In tal senso Lenin portò la critica dell’imperialismo dalla teoria alla prassi21.
Quindi il nesso, ovvero il percorso che porta dalla teoria, ossia dall’analisi
della tendenza del capitalismo verso l’imperialismo e l’ultraimperialismo (che
per Lenin, Hardt e Negri rientra nel novero delle possibilità teoriche) alla pratica politica del movimento operaio, è la curva misteriosa di una linea retta, più
che un movimento dialettico necessario e contraddittorio, dove, insomma, il
punto decisivo è la possibilità che le pratiche proletarie possano effettivamente
distruggere l’imperialismo con atti di anticipazione più che col derivare dal
movimento dialettico, auto-contraddittorio, del capitale la necessità del suo
superamento e quindi l’organizzazione della prassi rivoluzionaria. Insomma,
sembra che qui la prassi venga fuori come uno scatto di soggettività, sembra
che essa si imponga come un evento imprevisto o meglio eccedente, come uno
scarto rispetto a tutto il processo storico e non come un risultato necessario,
immanente, delle contraddizioni del processo stesso. E, a mio avviso, la condizione per questo tipo di lettura di Lenin è insistere sul fatto che la tendenza verso l’ultraimperialismo, prevista da Kautsky, è senz’altro possibile teoricamente,
19
20
21
Ibid.
I. Babel, L’armata a cavallo, tr. it. di R. Poggioli, e-book, posizione 714.
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 220.
360
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
ragion per cui la si può interrompere solo soggettivamente, ossia impedendo
che se ne sviluppi realmente la possibilità e dunque facendo sì che essa resti solo
teorica per effetto dell’intervento pratico, eccedente, costituente, in un certo
senso imprevisto, della classe operaia.
3. Le analisi di Lenin sull’ imperialismo getterebbero lo sguardo oltre la sovranità
“ disciplinare” Moderna
La chiave di lettura hardtnegriana complessiva dell’operazione di Lenin è
l’inquadramento della problematica dell’imperialismo nel contesto di quella della sovranità moderna e della sua crisi, che consiste nel passaggio all’Impero. Ovviamente Hardt e Negri riconoscono non essere certo questo passaggio il tema di
Lenin, e tuttavia, inquadrata in quest’ottica complessiva della sovranità moderna
e della sua crisi, l’analisi di Lenin e il suo atteggiamento politico permettono
comunque di aprire una prospettiva verso la postmodernità:
Lenin collegava la problematica della sovranità moderna a quella dello sviluppo capitalistico ricorrendo a un’unica ottica e, tessendo insieme le differenti linee della critica, fu
in grado di gettare uno sguardo al di là della modernità. In altri termini, più di ogni altro marxista, con la sua rielaborazione del concetto di imperialismo, Lenin fu in grado
di anticipare il passaggio a una nuova fase del capitale che andava oltre l’imperialismo
e fu capace di individuare il luogo (o il non-luogo) dell’emergente sovranità imperiale22.
L’imperialismo rappresenta una fase imprescindibile delle vicende della sovranità, a cui fa da contraltare la moltitudine con il suo potere costituente. Quest’ultima è in realtà il motore del processo, di cui la sovranità è, invece, il rovescio
parassitario e quindi solo reattivo.
La sovranità della prima fase della modernità era caratterizzata da un paradigma disciplinare della società, consistente nel fatto che essa dominava
mediante dicotomie tra un “dentro” e un “fuori”, quali si presentavano tra la
fabbrica con il suo tempo di lavoro, da un lato, e le sfere della riproduzione
con il restante tempo di vita, dall’altro; tra la scuola, da una parte, e la casa,
il gioco, il lavoro ecc., dall’altro; tra l’ospedale come luogo della malattia, e il
22
Ibid.
361
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
suo fuori come luogo della salute ecc. Allo stesso modo lo Stato nazionale con
i suoi confini che delimitavano l’ambito della sovranità, costituiva il dentro
in opposizione al fuori costituito dai rapporti tra Stati, mediante il commercio estero, e dal mercato mondiale. Tale dicotomia tra il dentro e il fuori era
possibile perché il paradigma produttivo della moltitudine era quello della
nascente società industriale che sarebbe culminata nella produzione fordista,
volta alla produzione di oggetti materiali e dove i mezzi di produzione erano
separati dai lavoratori e si trovavano in mano al capitalista il quale li metteva
a cooperare, così come gli strumenti di istruzione, cura, pena ecc., erano in
mano allo Stato che organizzava la riproduzione, considerata come il “fuori”
della produzione.
La sovranità postmoderna non elimina i dispositivi disciplinari, ma li “immaterializza” ossia fa introiettare la disciplina ai singoli, cosicché l’Impero,
che è la forma che assume la sovranità in questa fase, appare come uno spazio
liscio senza confini materiali, dunque senza dicotomie tra il dentro e il fuori,
appunto perché tale dicotomia disciplinare si è trasferita nei comportamenti di
ciascuno o, per meglio dire, ne attraversa i corpi stessi. Perciò l’Impero è un
non-luogo, il quale è così configurato perché riflette la trasformazione del paradigma produttivo da moderno a postmoderno. In questo nuovo paradigma,
affermatosi dagli anni Settanta del secolo XX, i mezzi di lavoro, il processo
lavorativo e i suoi prodotti assumono carattere immateriale, ossia linguistico,
comunicativo, affettivo, cognitivo. In un tale lavoro immateriale il lavoratore
ha lo strumento di produzione nel suo corpo, in quanto la forza produttiva
principale è la vita stessa, quindi al lavoro sono messi i linguaggi, gli affetti, i
cervelli, ossia tutti elementi che hanno potenzialmente un carattere comune.
Il “comune” diventa così la potenzialità creatrice di valore esso stesso, e qui
“valore” ha un senso completamente differente, anzi opposto che nella teoria
classica del valore-lavoro, poiché esso non è l’oggettivazione del tempo di lavoro sociale medio, ma eccede ogni misura quantitativa, è “oltre misura”. Questa
eccedenza di ogni atto produttivo di valore fa sì che la produzione del comune sia anche una produzione di singolarità, una produzione singolarizzante in
cui avvengono appunto i processi di soggettivazione. Un siffatto paradigma
produttivo, dove sono al lavoro le facoltà linguistiche, simboliche, cognitive,
affettive, dunque dove è al lavoro la vita stessa, si chiama non a caso “biopolitico”. La vita messa al lavoro in questa produzione biopolitica, è intesa non come
flusso indifferenziato (altrimenti non sarebbe “al lavoro”) ma come un potere
costituente, perché l’eccedenza singolarizzante del comune crea continuamente
362
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
e continuamente innova le sue istituzioni, secondo una modalità che Niccolò
Machiavelli, autore di Hardt e Negri, nel primo capitolo del Terzo libro dei
suoi Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, chiama un «ritirarla spesso verso
il suo principio»23 se si vuole far vivere lungamente una setta o una repubblica.
Di fronte a questo mutamento della composizione della soggettività, caratteristico del paradigma di produzione postmoderno, dove la soggettività diviene
produttrice di “valore” nel senso biopolitico e quindi potere costituente, il corrispondente potere dominante, ossia la sovranità imperiale, si riduce a un parassita
che si appropria, deformandoli, dei mezzi di lavoro, del processo lavorativo e
dei prodotti del comune. Data la natura biopolitica di questa produzione postmoderna, il potere dominante che parassitariamente se ne appropria, vale a dire
la sovranità imperiale postmoderna, è – anche qui non a caso – denominato
“biopotere”. Poiché il comune è al tempo stesso singolarizzante, l’appropriazione
della produzione biopolitica da parte del biopotere imperiale avviene in modo
tale che quest’ultimo è continuamente costretto a modellarsi come contraccolpo
ai continui eventi di singolarizzazione ossia deve dominare rincorrendo i continui atti costruenti delle singolarità, che sempre lo precedono. È evidente che
in un contesto produttivo e costituente siffatto, la dicotomia disciplinare tra il
dentro e il fuori risulta completamente inadeguata, e tuttavia non si può, a sua
volta, abolire del tutto, perché il biopotere non è produttivo né, di conseguenza,
costituente, ma è soltanto reattivo e quindi incapace di esistere senza segmentare
ossia dividere la potenza della moltitudine, dove invece le singolarità non negano
il comune, perché il comune stesso è singolarizzante. Così, non potendo segmentare territorialmente (dentro/fuori), dato che la produzione si muove nello spazio
liscio deterritorializzato della globalizzazione, il biopotere imperiale segmenta i
corpi delle singole soggettività resistenti, i cui atti di resistenza sono a loro volta
produttivi di ulteriori soggettivazioni, ulteriormente inseguite e altrettanto ulteriormente soggettivantesi. Questa società postmoderna, dove il dispositivo disciplinare dentro-fuori esiste ma è deterritorializzato, a differenza che nella società
moderna dove esisteva territorializzato, è definita “società del controllo”.
È chiaro allora, da tutto quanto detto, che la sovranità imperiale postmoderna
espropria i poteri comuni di facoltà produttive e cooperative le quali sono completamente immanenti alla moltitudine, senza avere alcuna parte nell’organizzare
23
N. Machiavelli, Il Principe e Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di S. Bertelli,
Milano 1971, p. 379.
363
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
la cooperazione, come invece avveniva nel precedente paradigma fordista ovvero
industriale, e di conseguenza l’abolizione delle dicotomie tra il dentro e il fuori
è opera della moltitudine biopolitica nel momento in cui da se stessa, ossia dalle
sue lotte e resistenze, iniziate negli anni Settanta del secolo XX, fa venir fuori la
globalizzazione. Non è affatto opera del biopotere imperiale, che può solo adeguarsi passivamente a questo cambio di paradigma di produzione, stravolgendo
la deterritorializzazione moltitudinaria in una riterritorializzante segmentazione
dei corpi, come avviene nella politica delle migrazioni, nella rendita immobiliare
contemporanea, nella finanza, col razzismo ecc.
Ebbene, l’imperialismo così come è analizzato da Lenin, corrisponde, secondo Hardt e Negri, alla fase tarda della sovranità moderna e quindi alla sua crisi.
Esso, perciò, mette in questione la dicotomia del dentro e del fuori così come era
caratteristica della prima fase della sovranità moderna e, pur senza formulare una
teoria dell’Impero, nondimeno – o almeno – apre verso un al di là della modernità stessa. Vediamo in che senso ciò avviene o avverrebbe.
4. Imperialismo, ultraimperialismo, Impero e rivoluzione comunista mondiale.
Hardt e Negri di fronte al contrasto Lenin-Kautsky
Per mostrare l’assunto appena sopra enunciato, Hardt e Negri fanno riferimento a un punto chiave della descrizione leniniana dell’imperialismo, cioè
quella per cui esso era necessario al capitalismo per trasferire nei paesi meno
sviluppati le contraddizioni politiche che nei paesi più sviluppati capitalisticamente, quindi nei paesi imperialisti, sorgevano dalla lotta di classe. Essi ricordano innanzitutto quanto su questo problema Lenin avesse appreso da autori
piccolo-borghesi come Hobson, e riportano l’affermazione di Cecil Rhodes,
ricordata anche nel Saggio popolare, affermazione secondo cui l’imperialismo
ossia la politica imperialistica è un modo per risolvere, nei paesi sviluppati capitalisticamente, la questione sociale, vale a dire la guerra civile che altrimenti si
scatenerebbe all’interno di tali paesi avanzati. Rhodes si riferiva alla sua nazione, il Regno Unito: la politica coloniale imperialistica serve per dare uno sbocco
alla sovrappopolazione che si crea nel paese, alle merci prodotte dagli operai
inglesi nelle fabbriche e nelle miniere. «Grazie all’imperialismo»24, commentano
24
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 221.
364
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
Hardt e Negri, «lo stato moderno esporta la lotta di classe e la guerra civile per
preservare l’ordine e la sovranità interna»25.
Nell’interpretazione di Hardt e Negri, dunque, «Lenin giudicava l’imperialismo come una tappa strutturale nell’evoluzione dello stato moderno»26. Ciò
combacia perfettamente con quanto analizza Lenin, solo mi sembra che per
quest’ultimo l’argomentazione si incentri sul fatto che l’imperialismo è una tappa strutturale in primo luogo dell’evoluzione del capitalismo, che certo include
anche lo Stato come sovrastruttura di questa evoluzione della società moderna,
cosi come, d’altronde, per Hardt e Negri l’evoluzione dello Stato moderno include ovviamente anche quella del capitale. Tuttavia è indicativo che mentre Lenin
insiste sulla connotazione economica dell’imperialismo come fase suprema necessaria del capitalismo, Hardt e Negri insistono sullo Stato, ossia sull’aspetto
politico del processo comunque da entrambi ritenuto necessario, fermo restante
che tutti e tre includono nelle loro rispettive esposizioni genetiche dell’imperialismo entrambi i momenti, economico e politico (oltre che, naturalmente, culturale). Il problema è, allora, di capire come nelle due impostazioni si originano e si
connettono queste varie parti dell’intero, insomma come è strutturato, nella sua
dinamica interna complessiva, il soggetto di tutto il processo, rispettivamente il
proletariato moderno in Lenin o la moltitudine postmoderna in Hardt e Negri,
giacché la concezione che si ha del soggetto rivoluzionario condiziona, come è
ovvio, anche l’analisi dell’evoluzione verso l’imperialismo e, di conseguenza, l’interpretazione che Hardt e Negri danno di Lenin.
Dunque, nelle analisi di Lenin sull’imperialismo Hardt e Negri vedono esposta
la parabola dello Stato moderno, dalle forme che esso assume come Stato-nazione
nella prima fase della modernità, fino a diventare, nella tarda modernità, Stato
imperialistico colonizzatore. Così, in questa parabola, descritta da Lenin, Hardt
e Negri vedono il passaggio dalla dicotomia dentro-fuori, caratteristica dello Stato-nazione moderno, alla messa in questione di questa dicotomia nell’azione colonizzatrice dell’imperialismo, in cui si può cogliere l’apertura di un varco oltre
la modernità. Da cosa sarebbe scandito questo passaggio nel Lenin di Hardt e
Negri? Dalle modalità con cui lo Stato-nazione della prima modernità e lo Stato
imperialistico della tarda modernità rispettivamente organizzano e ottengono il
consenso da parte dei governati: «A ogni stadio di questo movimento lo stato do-
25
26
Ibid.
Ibid.
365
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
veva costruire sempre nuovi strumenti per ottenere il consenso popolare, quindi,
anche lo stato imperialista doveva trovare il modo per incorporare la moltitudine
e le forme spontanee della lotta di classe entro le strutture ideologiche statuali,
anche l’imperialismo doveva continuare a trasformare la moltitudine in popolo»27.
Dunque emerge qui come la chiave della lettura hardtnegriana dell’imperialismo
in Lenin sia data da una concezione del processo evolutivo storico della modernità
quale si scandisce sulla differenza fondamentale, antagonistica, tra moltitudine e
sovranità. Qui la moltitudine con le sue lotte, che Hardt e Negri chiamano “resistenze”, è il motore di tutto il processo28, mentre la sovranità è lo specchio reattivo,
il contraccolpo parassitario dei poteri sempre nuovamente costituenti della moltitudine con la sua tendenza immanente alla democrazia assoluta. Quest’ultima
è fondata sulla produttività ontologica delle singolarità, i cui prodotti, modi di
produrre e strumenti di produzione comuni vengono continuamente espropriati e
privatizzati dal potere sovrano dominante. La modalità di questa espropriazione e
sottomissione, che è un modo di assoggettamento, è, nella modernità, la trasformazione della moltitudine in popolo. La moltitudine è un insieme di differenze, di
singolarità intese non nel senso di individui possessivi isolati, bensì di produttori
ovvero di atti produttivi di linguaggi, simboli, affetti, conoscenze, relazioni. Tutti
questi sono poteri creativi e prodotti, per loro costituzione, comuni e al tempo
stesso singolari, poiché questo tipo di comune continuamente eccede la legge del
valore, la misura trascendente della quantità. Viceversa il popolo, in cui lo Stato
moderno parassitariamente trasforma la moltitudine, ha il suo elemento costitutivo
nell’individuo così come è concepito dall’individualismo possessivo moderno. Il
popolo è, appunto, questa misura trascendente mediante cui le singolarità vengono ridotte a un’eguale denominatore, ossia la proprietà privata quantitativamente
connotata in base alla legge mercantile e capitalistica del valore. Questa riduzione
avviene grazie a un disciplinamento reattivo delle singolarità in risposta al fatto che
esse eccedono proprio tale misura quantitativa rappresentata dalla legge del valore.
Questa tendenza eccedente è insita nel lavoro vivo, che è il valore d’uso della forza-lavoro. Il processo attraverso cui la sovranità trasforma la moltitudine in popolo
è in realtà quello per cui la moltitudine stessa, che è il soggetto del processo, si perverte in popolo, giacché la sovranità non è altro che lo specchio deformato dei suoi
poteri, e perciò non potrebbe, da sé, essere il soggetto di una vera “trasformazione”.
27
28
Ibid.
«La resistenza precede effettivamente il potere» (ivi, p. 335).
366
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
Ebbene, le due fasi dello Stato moderno, quella dello Stato-nazione della prima
modernità con la sua dicotomia dentro-fuori, e quella dello Stato imperialista tardo-moderno che rende impossibile questa dicotomia mondializzando i rapporti di
dominio, sono due scansioni del medesimo processo con cui la sovranità trasforma
la moltitudine in popolo, ovvero con cui la moltitudine si corrompe. E infatti in
Hardt e Negri le due alternative della modernità sono quella affermativa, attiva,
della moltitudine e quella reattiva, parassitaria, del popolo. Quindi, secondo l’interpretazione che essi danno della teoria di Lenin sull’imperialismo, questi «interpretava l’imperialismo populista semplicemente come una variante della sovranità,
come una soluzione alla crisi della modernità»29. L’imperialismo era una risposta
alla crisi dello Stato-nazione moderno della sua prima fase, caratterizzata dalla dicotomia dentro-fuori, crisi provocata dalle resistenze costituenti della moltitudine.
E di conseguenza esso era un modo, adeguato a questo spiazzamento che il potere
dominante aveva subito, di trasformare o corrompere ulteriormente la moltitudine
in popolo, superando la dicotomia moderna tra il dentro e il fuori, messa in crisi
dalle lotte della moltitudine, ma sempre in modo corrotto, omogeneo alla sovranità
ovvero al momento dell’auto-corruzione della moltitudine medesima. Ciò avviene
con la radicalizzazione del popolo nel populismo.
Se il superamento della dicotomia tra il dentro e il fuori, che l’imperialismo
aveva avviato, continuava a costituire un momento caratteristico, anzi una variante della sovranità moderna e il suo motivo culminante, è chiaro che avrebbe
riprodotto tutti i limiti di questa sovranità e quindi anche la dicotomia stessa in
un’altra forma. Secondo Hardt e Negri, Lenin aveva capito proprio questa contraddizione. Malgrado l’estensione mondiale del capitale, la forma dell’amministrazione coloniale riproduceva tutti i limiti e tutte le segmentazioni che venivano
a costituire un ostacolo a che esso si sviluppasse ulteriormente. L’imperialismo era
sì una fase di sviluppo della sovranità moderna perché minava la dicotomia tra il
dentro e il fuori degli Stati-nazione della prima modernità, ma al tempo stesso la
riproduceva poiché «la concorrenza, che è essenziale per il successo dell’espansione
capitalistica, nell’epoca imperialista viene inesorabilmente ridotta in proporzione
alla crescita dei monopoli. Con i suoi monopoli commerciali e il protezionismo,
con i suoi territori nazionali e coloniali, l’imperialismo non fa che tracciare e
rafforzare confini e bloccare o canalizzare i flussi economici, sociali e culturali»30.
29
30
Ivi, p. 221.
Ivi, pp. 221-222 (ho corretto un punto della traduzione che credo dovrebbe essere dovuto a
367
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Però, malgrado che l’imperialismo rappresenti quella fase in cui le limitazioni
e le divisioni tra il dentro e il fuori, proprie dell’epoca degli Stati-nazione, erano
state minate alla base, sottomettendo tutto il mondo al modo di produzione
capitalistico,
attualmente […] l’imperialismo è diventato il limite del capitale – o, più precisamente,
a un certo punto, i confini creati dalle pratiche imperialiste ostruiscono il corso dello
sviluppo capitalistico e la piena realizzazione del mercato mondiale. Il capitale deve
sbarazzarsi dell’imperialismo e distruggere le barriere tra dentro e fuori31.
Quindi Lenin avrebbe visto l’imperialismo come superamento della prima
fase della sovranità moderna, dunque come necessario momento strutturale della
sua crisi e del suo movimento, consistente nel superamento della dicotomia tra il
dentro e il fuori e nella trasformazione della moltitudine in popolo, inteso in senso populistico; avrebbe visto i limiti e la contraddizione di questa trasformazione, giacché la nuova fase imperialistica della sovranità moderna ripresentava tali
ostacoli alla sua universalizzazione attraverso i monopoli e le divisioni coloniali,
essendo questi degli ostacoli al principio stesso del capitale, ossia alla libera concorrenza; e chiaramente avrebbe individuato la necessità della rivoluzione proletaria mondiale come superamento complessivo delle contraddizioni che questa
fase finale della sovranità moderna aveva generato. Sconfitto questo disegno teorico-politico della rivoluzione comunista mondiale, ragionano Hardt e Negri,
ecco che il capitale stesso non può mantenere l’imperialismo, che è diventato un
limite per l’espansione mondiale del capitale. Quindi adesso è il capitale stesso
a dover distruggere le barriere tra il dentro e il fuori, il che è, infatti, quello che
oggi fa l’Impero.
Hardt e Negri non vogliono certo asserire che la teoria dell’Impero sia desumibile in modo lineare e omogeneo dalla teoria leniniana dell’imperialismo:
«Sarebbe […] esagerato sostenere che, sulla base di queste intuizioni, l’analisi
che Lenin propone dell’imperialismo e della sua crisi conduca direttamene alla
teoria dell’Impero»32. Tuttavia anche dopo la sconfitta della rivoluzione mondia-
un errore di revisione delle bozze; cfr. M. Hardt, A. Negri, Empire, Massachusetts – London
2000, pp. 233-234).
31
Id., Impero, cit., p. 222.
32
Ibid.
368
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
le comunista e nel momento in cui il capitale – sotto la spinta delle lotte della
moltitudine a seguito della sua mutata composizione di classe, direbbero Hardt
e Negri – tende a superare le contraddizioni dell’imperialismo sbarazzandosi di
tutte le dicotomie tra il dentro e il fuori mediante l’Impero, il quale ciononostante le riproduce nella forma della società del controllo, rimane attuale il modo in
cui Lenin pose la questione, ossia nei termini dell’alternativa tra imperialismo o
risposta rivoluzionaria comunista ad esso: «Benché il disegno teorico e politico
leninista di una rivoluzione mondiale sia stato sconfitto […], qualcosa di assai
simile alla trasformazione che aveva previsto è diventato non di meno necessario
[…]. Questa è l’alternativa implicita nel pensiero di Lenin: o la rivoluzione comunista mondiale o l’Impero»33, con tutta la sua repressione, integrazione e inibizione
delle lotte e resistenze della moltitudine, ossia della sua autonomia.
Come abbiamo visto, Hardt e Negri hanno dato – mi sembra – un certo
rilievo all’affermazione di Lenin secondo cui teoricamente sarebbe possibile
un’evoluzione verso l’ultraimperialismo, ragion per cui il proletariato avrebbe
dovuto energicamente impedire, con una rivoluzione mondiale, questa evoluzione del capitale, poiché se essa si fosse realizzata, sarebbero state impossibili le
lotte del proletariato intorno agli anelli più contraddittori e deboli della catena
imperialistica. Abbiamo visto altresì che in questa lettura Hardt e Negri sbilanciano la tendenza storica antagonistica sul polo affermativo della formazione
della soggettività proletaria, la quale impedisce, come un evento, un’eccedenza, questo movimento del capitale. Bene, se questo è vero, sarebbe plausibile
cogliere qualche analogia tra l’evoluzione del capitale verso l’Impero e quella
dell’imperialismo verso l’ultraimperialismo prevista da Kautsky, almeno per
quanto riguarda il fatto che l’imperialismo non è l’ultima fase del capitalismo
a cui succede la rivoluzione comunista, ma vi è un’evoluzione ulteriore di esso,
evoluzione da Kautsky, dicevo, prevista, da Hardt e Negri vista come materializzata. Però quest’analogia sottende anche un differenza decisiva. In Hardt
e Negri la spinta all’evoluzione verso una fase successiva del capitalismo oltre
l’imperialismo non deriva, come in Kautsky, da un movimento interno allo
sviluppo del capitale e quindi dell’imperialismo oltre se stesso nell’ultraimperialismo, ma dal contraccolpo alle resistenze della moltitudine che precedono
l’Impero, giacché solo la moltitudine è veramente “soggetto” nel senso di capace
di “divenir soggetto”, di “soggettivarsi”, mentre il potere sovrano ne è solo un
33
Ibid.
369
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
riflesso spettrale. Il passaggio dallo Stato-nazione moderno all’imperialismo si
ha sotto la spinta della moltitudine che si fa proletariato e internazionalizza le
lotte, a cui la risposta è quella dell’imperialismo che inizia a minare la divisione
tra il dentro e del fuori con la spartizione di tutta la terra nel sistema coloniale
o semicoloniale, palese o latente, guidato dal famoso pugno di monopoli e Stati
più forti che iugulano la maggioranza degli altri popoli, per usare la terminologia di Lenin. Ma in quanto contraccolpo reattivo, l’imperialismo, con i suoi
monopoli e sistemi protezionistici, bloccava e canalizzava i flussi economici,
sociali e culturali senza così eliminare l’antitesi del dentro e del fuori. E allora
la moltitudine, come soggetto effettivo del movimento storico, disloca ulteriormente il terreno dell’antagonismo, cosicché si apre una fase successiva all’età
della sovranità imperialistica e populistica tardo-moderna, grazie al fatto che
le lotte di classe raggiungono il pieno livello mondiale e non hanno più limiti,
in quanto la produzione linguistica, simbolica, cognitiva e affettiva, ovvero la
produzione del comune, mette la vita stessa al lavoro al di là delle opposizioni
tra il dentro del tempo di lavoro e il fuori del tempo di vita o di non-lavoro,
quindi la produttività è intesa come eccedenza rispetto alla legge del valore –
come avviene appunto con tutte quelle produzioni di carattere immateriale che
non possono essere quantificate e convertite in merce e denaro – e come fuga
da vincoli locali e territoriali attraverso le migrazioni planetarie che Hardt e
Negri interpretano, perciò, in modo alquanto diverso dal vederle solo come
movimento di formazione di un esercito industriale di riserva. A questo movimento di mondializzazione delle lotte della moltitudine fa da contraccolpo il passaggio del potere sovrano, come spettro reattivo, dall’imperialismo
all’Impero, ovvero dalla società disciplinare con le sue divisioni tra il dentro e
il fuori, a quella del controllo dove queste divisioni sono interiorizzate, ma qui
si tratta della reazione riflessa al movimento attivo della moltitudine che ha
globalizzato produzione e lotte insieme. Su questa differenza qualitativa, ossia
sulla tesi che prima il passaggio all’imperialismo e poi quello oltre di esso sono
il contraccolpo a una spinta attiva della moltitudine e non un movimento del
capitale stesso, di cui il proletariato sarebbe solo capitale variabile, e che urta
contro le sue stesse contradizioni, si spiega perché il passaggio è all’Impero e
non all’ultraimperialismo. Quindi non si tratta di una differenza di termini,
bensì di un intero paradigma interpretativo che non permette l’identificazione
della teoria di Hardt e Negri con quella di Kautsky. E infatti, riconosciuta, insieme a Lenin, la plausibilità in linea teorica del passaggio, previsto da Kautsky,
dall’imperialismo all’ultraimperialismo, per il resto Hardt e Negri stanno con
370
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
Lenin, ma per loro lo stare con Lenin significa vedere tutto il suo percorso
come la misteriosa curva di una retta il cui “mistero” sta in realtà nel problema
della formazione della soggettività antimperialista, che fa premio sul carattere
piuttosto tortuoso della sua declinazione del rapporto tra teoria e prassi. Perciò essi vedono l’attualità della posizione di Lenin sulla questione che avrebbe
posto allora, vale a dire sulla necessità e urgenza della rivoluzione proletaria
mondiale, necessità e urgenza che – ecco, a mio avviso, il punto peculiare
della loro interpretazione del pensiero di Lenin sull’imperialismo – sarebbe
giustificata dal fatto che in mancanza della rivoluzione proletaria mondiale il
capitale avrebbe avuto effettivamente briglia sciolta verso l’ultraimperialismo e
ciò avrebbe inibito o rallentato la soggettivazione proletaria stessa, cioè avrebbe
seriamente compromesso il motore, o meglio, il bios di tutto il progresso storico. In altri termini, la sovranità, di cui il passaggio dall’imperialismo all’ultraimperialismo potrebbe essere una figura, sarebbe, come tutti i poteri sovrani, un parassita che tuttavia non è innocuo, anzi è molto velenoso e pericoloso
per la crescita e l’irrobustirsi del soggetto proletario, insomma della vita stessa
che produce. Ecco quindi l’urgenza dell’intervento soggettivo ossia politico del
proletariato, così il bios della storia, l’essere stesso, si potenzia.
Tutto ciò precisato, è anche vero, però, che se Hardt e Negri partono dal fatto
che Lenin riteneva in teoria possibile la tendenza dei monopoli capitalistici a dare
luogo a una cooperazione in vista di un unico monopolio mondiale, ma riteneva
anche che lasciar realizzare questa tendenza sarebbe stato, secondo lui, micidiale
per il proletariato, perché ciò avrebbe accresciuto in modo enorme il potere del
capitale e quindi avrebbe bloccato le lotte intorno agli anelli deboli della catena di
dominio capitalistico, ragion per cui sarebbe stato dovere del movimento operaio
intervenire sulle contraddizioni per approfondirle in modo da evitare che il dominio ultraimperialistico del capitale si realizzasse rendendo impraticabili le lotte
per un lungo periodo: allora, porre, nello spirito di Lenin, l’alternativa odierna
nei termini: o rivoluzione comunista mondiale o Impero, non può non far pensare che l’Impero, così come lo descrivono Hardt e Negri, sia un po’ la realizzazione
della tendenza che Kautsky e, in modo diverso, Hilferding avevano solo prevista,
ossia un’unificazione capitalistica o capital-socialista del mondo. Ovviamente,
della sostanza immateriale o biopolitica di questi processi di unificazione del
mondo è chiaro che Hilferding o Kautsky non potevano avere ancor notizia dato
che le innovazioni informatiche, linguistiche, cognitive, comunicative e affettive
nel lavoro non si erano ancora dispiegate con l’ampiezza odierna. Ma rimane
fermo che, a differenza di Hilferding e di Kautsky, un’unificazione del mondo in
371
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
forma capitalistica o sovrana o imperiale – qui non importa distinguere – è una
situazione che Hardt e Negri non accettano assolutamente come tappa finale, ma
appunto ritengono che essa vada decisamente contrastata attraverso una rivoluzione comunista mondiale, la quale oggi avverrebbe contro un’entità altrettanto
mondiale unitaria, l’Impero, attuale e non più solo tendenziale o prevista.
5. La Prefazione all’opuscolo di Bukharin, e Marx
Nella suddetta Prefazione a Bukharin, scritta a guerra scoppiata, Lenin scrive
che «non si può neppur parlare di una valutazione storica della guerra attuale se
per dare questa valutazione non si spiega, nel modo più completo, sia dal lato
economico che dal lato politico, la natura dell’imperialismo»34. Questa affermazione è importante perché stabilisce la stretta connessione tra l’imperialismo,
considerato sia sotto l’aspetto economico che sotto quello politico, e la guerra
attuale, la quale è appunto spiegata sulla base di questo fenomeno. Poiché per
Lenin l’imperialismo è il «sistema dei rapporti economici del capitalismo contemporaneo, altamente sviluppato, maturo e stramaturo […], un grado di sviluppo ben definito del capitalismo più altamente sviluppato»35, esso deve essere
distinto dalla precedente fase di sviluppo del capitalismo. Questa fase precedente
era caratterizzata da uno sviluppo relativamente pacifico, giacché nel periodo
collocabile approssimativamente tra il 1871 e il 1814 il capitalismo poteva raccogliere le conseguenze della sua vittoria sul feudalesimo nei paesi più progrediti
dell’Europa e quindi, divenuto la forma di produzione e di potere dominante,
poté estendersi, in forma pacifica, nelle terre del globo ancora non occupate politicamente dai paesi europei e nei paesi che non erano stati ancora sottomessi al
modo di produzione capitalistico. L’aggettivo “pacifico” che Lenin adopera per
caratterizzare il modo di dominio del capitalismo nell’epoca precedente quella
imperialistica, è quindi da intendersi in modo molto relativo ossia in contrapposizione alla fase successiva – imperialistica, appunto –, dove la guerra costituisce
un esito caratteristico dei rapporti sociali di tale fase, giacché in assoluto non si
può certo chiamare pacifico un sistema di dominio dell’uomo sull’uomo fondato
34
V. I. Lenin, Opere. XXII. Dicembre 1915 – luglio 1916, tr. it. di F. Platone ed E. Negarville,
Roma 1966; ristampa anastatica Milano 2002, p. 107.
35
Ivi, pp. 107-108.
372
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
sull’antagonismo di classe. Anzi, anche nella fase che precede quella del capitalismo imperialistico il carattere relativo e contradditorio dell’apparente pace non
era dato solo dalla sostanza di classe del capitalismo, ma anche dal fatto che operazioni di oppressione esplicitamente militari non erano affatto assenti, tutt’altro.
Infatti Lenin anche per caratterizzare quest’epoca del capitalismo che precede
l’imperialismo, adopera nome, aggettivo e avverbio, dunque “pace”, “pacifico” e
“pacificamente”, tra virgolette e, caratterizzando le rispettive specificità delle due
fasi del capitalismo, quella che parte dal consolidamento della vittoria sul feudalismo nei paesi più progrediti d’Europa e quella della spartizione imperialistica
del mondo, precisa ulteriormente:
Anche in quell’epoca, approssimativamente delimitata dagli anni 1871 e 1914, il capitalismo “pacifico” creava condizioni di vita infinitamente lontane dalla vera “pace”, sia
nel senso militare sia in quello generale di classe. Per i nove decimi della popolazione
dei paesi avanzati, per le centinaia di milioni di abitanti delle colonie e dei paesi sottosviluppati, quest’epoca non è stata un’epoca di “pace”, ma di oppressione, di sofferenze,
di orrore, orrore che era forse tanto più orribile in quanto sembrava un “orrore senza
fine”. Quest’epoca è tramontata per sempre ed è stata sostituita da un’epoca relativamente molto più impetuosa, un’epoca di sbalzi, catastrofica, piena di conflitti, in cui
per le masse della popolazione diventa tipico non tanto l’“orrore senza fine” quanto la
“fine piena di orrore”36.
È da notare come, secondo Lenin, anche nella fase cosiddetta pacifica del
capitale precedente quella imperialistica, l’oppressione venga esercitata sia all’interno dei paesi avanzati sia da parte dei paesi avanzati su quelli non avanzati, oltre
che dal punto di vista militare anche da “quello generale di classe”. Ciò suggerisce
che la tendenza universalistica del capitale agisce fin dalla prima fase in senso
trasversale rispetto alle divisioni nazionali per ricondurre tutto al conflitto tra
capitale e lavoro salariato, senza confini, e che i rapporti di oppressione che si
esercitano da parte di un paese sull’altro sono funzionali all’universalizzazione
di quella contraddizione di classe fondamentale. Sotto questo riguardo Lenin
potrebbe essere qui perfino più radicale di Hardt e Negri nel vedere la rottura
o almeno la tendenza alla rottura della differenza tra il dentro e il fuori anche
nella fase precedente quella imperialistica che caratterizza invece il capitalismo
36
Ivi, p. 108.
373
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
a lui contemporaneo. Il fatto che la differenza tra l’epoca relativamente pacifica
del capitalismo precedente la fase imperialistica e quest’ultima, apertamente bellicosa, stia nell’essere la prima un’epoca che si presentava come un “orrore senza
fine”, a dispetto della sua forma relativamente “pacifica”, mentre la seconda con
i suoi espliciti sbalzi catastrofici, con i suoi conflitti e con l’entità della guerra
appena scoppiata, rende manifesto il carattere oppressivo del capitalismo senza
che si mascheri sotto l’apparenza della pace, cosicché tipica di esso è “la fine piena
di orrore”: questo fatto, dicevo, attesta che l’imperialismo è per Lenin il sistema
dei rapporti economici e politici (aggiungo anche delle ideologie, come lo stesso
Lenin, ma poi soprattutto György Lukács hanno ben mostrato) del capitalismo
giunto al massimo grado di sviluppo, e perciò giunto alla sua fine, la quale deve
necessariamente portare al comunismo. Perciò Hardt e Negri, affermando che il
punto centrale dell’analisi di Lenin sull’imperialismo è la conclusione secondo
cui la reazione a esso doveva essere rivoluzionaria e quindi non bisogna di attendere o, peggio, favorire il passaggio alla fase ultraimperialistica del capitalismo,
colgono il punto essenziale della questione – su questo, secondo me, non c’è
dubbio. Quello che è invece da discutere è come essi concepiscono a loro volta
la soggettività rivoluzionaria e di conseguenza come interpretano questo passaggio oggettivamente essenziale di Lenin e se ne appropriano per poi riformularlo
nell’odierna situazione del capitalismo che essi vedono come Impero, di modo
che, nello spirito di Lenin, anche se non nella lettera, esso suonerebbe: o la rivoluzione comunista mondiale o, appunto, l’Impero. Indicativo del loro modo di
leggere la teoria di Lenin secondo cui l’imperialismo è il sistema economico del
capitalismo giunto alla fase più sviluppata e conclusiva, cosicché solo la rivoluzione comunista può risolverne le contraddizioni, è che essi dopo aver detto, come
abbiamo visto, che sarebbe esagerato ritenere che la teoria leninista dell’imperialismo porti direttamente a quella dell’Impero, continuano così: «È comunque indubitabile che il suo punto di vista rivoluzionario ha permesso di centrare il nodo
dello sviluppo capitalistico, il nodo gordiano che doveva essere tagliato»37. La
metafora del taglio del nodo gordiano ricorda più una concezione decisionistica
della prassi rivoluzionaria comunista piuttosto che la sua genesi processuale dialettica dalle interne contraddizioni del capitalismo, il suo essere un evento della
differenza più che un processo di negazione della negazione. Negri stesso parla di
37
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 222.
374
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
«decisione anticapitalista»38 che «diviene efficace solo laddove la soggettività è più
forte, dove essa può costruire “guerra civile” contro l’Impero»39. E per quel che
riguarda la dialettica, gli stessi Hardt e Negri scrivono esplicitamente:
Una volta raggiunto il livello globale, lo sviluppo capitalistico ha a che fare direttamente con la moltitudine, senza che si interponga più alcuna mediazione. A questo
punto, la dialettica, in quanto scienza del limite e della sua organizzazione, si dissolve
completamente. La lotta di classe, determinando l’abolizione dello stato-nazione e superandone i confini, pone all’ordine del giorno la costituzione dell’Impero come punto
di riferimento dell’analisi e del conflitto. Senza quei confini, il contesto della lotta di
classe è completamente aperto. Capitale e lavoro si fronteggiano in una forma direttamente antagonistica. Questa è la premessa imprescindibile di qualsiasi teoria politica
del comunismo40.
La decisone di cui Hardt e Negri parlano non è da intendersi nel senso in
cui essa è teorizzata in Carl Schmitt ossia come il carattere che definisce la
sovranità moderna, giacché la forma più adeguata del dominio imperiale come
riflesso reattivo di una produzione di soggettività, ovvero di produzione del
comune che è al tempo stesso singolarizzante, non può essere più quella del
governo ossia di «un sistema compatto e unificato, fonte di una produzione
normativa di natura deduttiva»41, ma è quella della governance ossia è «una configurazione plastica e pluralistica»42. Ora mi chiedo: una volta raggiunto il livello globale ossia una volta che il capitale sviluppa al massimo la sua creazione
del mercato mondiale, vi è sinonimia o vi è differenza tra l’antitesi di capitale e
lavoro, da un lato, e quella di Impero moltitudine, dall’altro, visto che Hardt e
Negri usano entrambi i termini in cui le polarità si esprimono? E in che senso
essi sostengono che «la moltitudine è un concetto di classe»43? E che significa
che la dialettica è scienza del limite e della sua organizzazione, se invece essa è il
38
39
40
41
42
43
A. Negri, Guide. Cinque lezioni su “Impero” e dintorni, cit., p. 177.
Ibid.
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 224.
Idd., Comune. Oltre il privato e il pubblico, tr. it. di A. Pandolfi, Milano 2010, p. 371.
Ibid.
Idd., Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, tr.it. di A. Pandolfi, cit., p. 127.
375
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
modo «conveniente»44 (entschprechend») di esporre «il movimento effettuale»45 e
quindi, evidentemente, il conflitto di classe tra capitale e lavoro salariato “una
volta raggiunto il livello globale”? E, benché in una diversa configurazione
dello spazio e del tempo, benché nel postfordismo invece che nell’industrialismo fordista, la decisione anticapitalista è sinonimo di o si differenzia dalla
rivoluzione proletaria o comunista? A mio avviso, centro di tutto il problema è
il modo in cui si concepisce e si descrive il farsi della soggettività rivoluzionaria
comunista, si tratti di materialismo dialettico o di teoria biopolitica della differenza. Torniamo a Lenin.
Dopo aver distinto le due fasi dello sviluppo del capitalismo tra i secoli XIX
e XX, quello dell’espansione apparentemente pacifica e/ma dell’orrore senza fine,
da un lato, e quella esplicitamente bellicosa e altamente sviluppata della fine piena di orrore, dall’altro, Lenin sottolinea che la sostituzione di una fase con un’altra è, in realtà, l’«evoluzione, estensione, continuazione diretta delle tendenze più
profonde e radicali del capitalismo e della produzione mercantile in generale»46.
Queste tendenze fondamentali del capitalismo, presenti fin dall’inizio, sono volte
al progresso, all’allargamento sempre maggiore degli scambi e allo sviluppo della
produzione su larga scala. Così,
a un determinato grado di sviluppo degli scambi, a un determinato grado di sviluppo
della grande produzione, e cioè al grado raggiunto pressappoco a cavallo del XIX e XX
secolo, gli scambi hanno creato una tale internazionalizzazione dei rapporti economici
e del capitale, la grande produzione è diventata talmente grande che la libera concorrenza ha cominciato a essere sostituita dal monopolio. Sono divenute tipiche non più le
imprese concorrenti “liberamente” all’interno di un paese e nei rapporti tra paesi, ma le
associazioni monopolistiche, i trust. Tipico “padrone” del mondo è già diventato il capitale finanziario, che è particolarmente mobile e flessibile, particolarmente intrecciato
all’interno del paese e internazionalmente, particolarmente spersonalizzato e staccato
dalla produzione diretta, particolarmente di facile concentrazione e, in particolare, già
fortemente concentrato, di modo che letteralmente alcune centinaia di miliardari e
milionari hanno nelle loro mani le sorti del mondo intero47.
44
Opere di Marx ed Engels. Volume XXXI, Napoli 2011, p. 21. D’ora in poi MEOC, seguito
dall’indicazione del volume e della pagina.
45
Ibid.
46
V. I. Lenin, Opere. XXII, cit, p. 108.
47
Ivi, pp. 108-109.
376
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
Questa, nemmeno a dirlo, splendida sintesi che coglie i caratteri fondamentali dell’imperialismo attraverso il suo processo evolutivo, richiama la teoria di
Marx, il quale nei Lineamenti fondamentali scrive che «la tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto di capitale stesso»48, giacché,
per sua stessa natura e per sua stessa legge di movimento, esso tende a considerare
ogni limite come un ostacolo da superare, e perciò può realizzarsi conformemente al suo concetto solo nella mondializzazione della produzione e degli scambi.
Nel Libro primo del Capitale, Marx espone la «tendenza storica dell’accumulazione capitalistica»49 sviluppatasi nell’Europa occidentale dal Sedicesimo secolo.
La prima fase di questo processo storico, che instaurò il modo di produzione
capitalistico, si aprì con l’espropriazione dei mezzi di lavoro e della terra ai danni
di lavoratori che erano essi stessi proprietari di mezzi di produzione individuali.
Infatti, vi sono due forme di proprietà privata, che si distinguono a seconda del
tipo di proprietari a cui appartengono i mezzi di produzione, ossia se appartengono a lavoratori o a non lavoratori. Questa prima fase di espropriazione colpisce
il primo genere di proprietari, a cui appartengono la piccola azienda agricola o
quella artigiana, dunque il contadino coltivatore diretto fu espropriato del suo
campo e l’artigiano della sua officina. Così, questi lavoratori, proprietari privati
di mezzi di produzione individuali, furono violentemente trasformati in proletari, e i mezzi di lavoro e la terra furono trasformati in capitale. Mediante questo
processo di espropriazione venne superata la dispersione dei mezzi di produzione e della terra, caratteristica della piccola proprietà contadina e artigiana, e si
avviò un processo di concentrazione di quei mezzi in mano a pochi proprietari,
favorendo, in tal modo, quello che la piccola azienda escludeva, vale a dire «la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno degli stessi processi di produzione,
il dominio ed il controllo della natura da parte della società, il libero sviluppo
delle forze produttive sociali»50. Si potettero così soddisfare nuovi bisogni e si poté
sviluppare una più grande quantità di forze produttive, che erano nate entro il
sistema della piccola azienda ossia della proprietà privata individuale dei mezzi
di produzione da parte del lavoratore, ma rispetto a cui quel sistema produttivo
risultava inadeguato. Infatti quest’ultimo favoriva sì lo sviluppo individuale del
contadino o dell’artigiano, ma questo sviluppo era unilaterale, data la dispersione
48
49
50
MEOC, vol. XXIX, p. 340.
MEOC, vol. XXXI, p. 836.
Ibid.
377
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
dei mezzi di produzione, di cui prima si parlava, e quindi data la debole forza
produttiva complessiva della società. La violenza di quest’espropriazione iniziale
fu inaudita e mossa da passioni che Marx descrive molto spregiativamente, ma lo
scatenamento di tali basse passioni svolse una necessaria funzione storica, per cui
la proprietà privata individuale con i suoi limiti angusti doveva necessariamente
esser soppressa a opera delle stesse forze che essa aveva sviluppato, e doveva far
posto a un nuovo modo di produzione fondato sulla separazione tra il lavoratore
formalmente libero di vendere la sua forza-lavoro, da un lato, e il proprietario dei
mezzi di produzione che lo può sfruttare, dall’altro, giacché questo nuovo sistema corrispondeva al grado di sviluppo delle capacità e dei bisogni della società a
quella fase storica raggiunta. Una volta che il modo di produzione capitalistico,
creato mediante l’espropriazione dei proprietari privati individuali e la conseguente separazione tra la massa dei lavoratori formalmente liberi e i proprietari
dei mezzi di produzione, ebbe pervaso la società, si sviluppò una seconda forma
di espropriazione, sempre rimanendo all’interno del modo di produzione capitalistico. In questa fase,
quello che deve essere espropriato non è più il lavoratore indipendente che lavora per
sé, ma il capitalista che sfrutta molti lavoratori. Questa espropriazione si compie attraverso il giuoco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la
centralizzazione dei capitali. Ogni capitalista ne ammazza molti altri. Di pari passo con
questa centralizzazione, ossia con l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi,
si sviluppano su scala sempre crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la
consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento della terra conformemente a un piano, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili
solo in comune, l’economia di tutti i mezzi di produzione attraverso il loro uso come
mezzi di produzione del lavoro sociale combinato, mentre tutti i popoli vengono via
via aggrovigliati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa in misura sempre
crescente il carattere internazionale del regime capitalistico51.
Ora, se questa seconda forma di espropriazione, condotta secondo le stesse
leggi immanenti del modo di produzione capitalistico, avviene ai danni di molti
e a vantaggio di pochi, e contemporaneamente comporta la crescente centralizzazione e socializzazione dei mezzi di produzione, della terra e del lavoro, cosicché,
51
Ivi, pp. 837-838.
378
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
come vediamo oggi con chiarezza, non è possibile eseguire un lavoro utile agli
altri se non con la cooperazione su larga scala e con mezzi di produzione usabili
solo in comune, è chiara qui la contraddizione del capitale con se stesso, vale a
dire tra il carattere sociale, progressivo del suo modo di produzione, in quanto
esso spinge verso una società comunista, da un lato, e il carattere privato, legato
al passato, del suo modo di appropriazione, per cui pochi rappresentano tutta
la società e prendono i vantaggi del lavoro sociale complessivo, dall’altro. Come
scrive Marx nel Libro terzo del Capitale, una delle «caratteristiche fondamentali
della produzione capitalistica»52 è «la concentrazione in poche mani dei mezzi di
produzione, che cessano perciò di apparire come proprietà dei lavoratori diretti e
si trasformano in potenze sociali della produzione, anche se in un primo tempo
nella forma di proprietà privata dei capitalisti. Questi ultimi sono dei mandatari
della società borghese, ma intascano tutti gli utili di tale mandato»53. Si comprende allora perché la differenza tra la proprietà privata in cui i proprietari dei
mezzi di produzione sono direttamente i lavoratori e quella in cui i proprietari dei
mezzi di produzione sono i non lavoratori che sfruttano molti altri lavoratori – e
a quest’ultima appartiene la proprietà capitalistica – è una differenza sostanziale:
infatti, è dal secondo tipo di proprietà privata che nasce la contraddizione che
porta alla sua soppressione mediante il passaggio rivoluzionario a una società
dove la forma di proprietà, che diviene sociale, corrisponde al carattere anch’esso
sociale dei mezzi di produzione, i quali erano stati resi sociali già dal capitalismo,
ma con il limite di lasciarli avvolti nel rapporto di proprietà privata.
La forma di espropriazione che per Marx caratterizza la fase finale della tendenza storica dell’accumulazione capitalistica dovrebbe corrispondere al passaggio dalla libera concorrenza alla formazione dei monopoli, che per Lenin caratterizza l’età dell’imperialismo. Come abbiamo visto, questo esito del capitalismo
nella sua fase imperialistica, quella della fine piena di orrori, come sviluppo storico e logico della creazione capitalistica del mercato mondiale che finisce col
sopprimere la stessa libera concorrenza, cosicché, grazie alla centralizzazione dei
capitali, un’enorme ricchezza sociale viene messa nelle mani di poche persone
che ne intascano gli utili, è vista da Lenin in maniera “tipica”, come egli stesso
scrive nel passo sopra citato, nella formazione del capitale finanziario. E anche
questo richiama quanto Marx ha analizzato in proposito. Il capitale finanziario
52
53
K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro terzo, cit., p. 320.
Ibid.
379
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
e il primato crescente della banche che si intrecciano con le grandi industrie
monopolistiche, si sviluppano dal sistema creditizio, che per Marx si evolve e si
trasforma in sistema monetario. È questo un processo che Marx, già nel Libro
primo Capitale, vede in potenza nell’analizzare la forma di denaro ben prima
di esaminare la trasformazione di esso in capitale. Fino a che, nel Libro terzo,
studiando come agli agenti della produzione e della circolazione capitalistiche
appare tutto il processo complessivo, Marx scrive: «Il credito premette al singolo
capitalista o a colui che è tenuto in conto di capitalista, di disporre completamente, entro certi limiti, del capitale e della proprietà altrui, e per conseguenza del
lavoro altrui. La possibilità di disporre del capitale sociale che non gli appartiene
gli permette di disporre del lavoro sociale»54. Quindi lo sviluppo del sistema
creditizio, da cui poi si genera il potere mondiale enorme della finanza, dipende
strettamente dal processo di socializzazione del lavoro, della terra e dei mezzi
di produzione, socializzazione da cui deriva, attraverso il sistema bancario, la
centralizzazione dei depositi di tutta la società che, a loro volta, vengono messi
a disposizione nuovamente di tutta la società. In tal modo i singoli capitalisti o
gli speculatori possono disporre della ricchezza altrui e perciò del prodotto del
lavoro altrui, creando così la contraddizione tra il carattere sociale della produzione e della ricchezza, e il carattere privato dell’appropriazione capitalistica di
essa. Infatti il credito – scrive ancora Marx – «sviluppa la molla della produzione capitalistica, cioè l’arricchimento mediante lo sfruttamento del lavoro altrui,
fino a farla diventare il più colossale sistema di giuoco e d’imbroglio, limitando
sempre più il numero di quei pochi che sfruttano la ricchezza sociale»55. Quanto
al carattere particolarmente mobile e flessibile del capitale finanziario che, come
abbiamo visto, secondo Lenin si intreccia dentro il paese e internazionalmente –
quindi, nei termini, di Hardt e Negri, effettivamente supera l’antitesi di dentro
e fuori –, si stacca dalla produzione diretta e facilmente si concentra – da cui
la contraddizione tra carattere sociale della ricchezza e sua appropriazione nelle
mani di pochi –, Marx scrive:
Il credito appare come la leva principale della sovrapproduzione e della sovraspeculazione nel commercio […] soltanto perché il processo di produzione, che per sua natura
è elastico, viene qui spinto al suo estremo limite, e vi viene spinto proprio perché una
54
55
Ivi, p. 521.
Ivi, p. 523.
380
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
gran parte del capitale sociale viene impiegato da quelli che non ne sono i proprietari,
i quali quindi agiscono in tutt’altra maniera dai proprietari, i quali, quando operano
personalmente, hanno paura di superare i limiti del proprio capitale privato56.
Esaminato quindi come la fase imperialistica del capitalismo proceda dall’evoluzione, dall’estensione e dalla continuazione diretta, insomma dallo stesso
movimento interno della produzione mercantile capitalistica, ossia dalla tendenza del capitale a creare il mercato mondiale e dallo svolgimento contraddittorio
di questa tendenza, Lenin fa l’affermazione da cui, come abbiamo visto, erano
partiti anche Hardt e Negri analizzando la sua teoria dell’imperialismo:
Ragionando in modo teorico astratto si può giungere alla conclusione a cui è […] giunto, in maniera alquanto diversa ma anch’egli dicendo addio al marxismo, Kautsky,
e cioè che non è più tanto lontana neppure l’unione mondiale di questi magnati del
capitale in un unico trust mondiale, che sostituirà la competizione e la lotta dei capitali
finanziari statalmente separati con un capitale finanziario internazionalmente unificato57». La critica a Kautsky è condotta da Lenin avendo come criterio di riferimento il
marxismo, giacché essendo «il problema dell’imperialismo […] non solo uno dei più
importanti, ma […], si può dire, il problema essenziale nel ramo della scienza economica che studia il cambiamento delle forme del capitalismo nel periodo attuale»58,
ed essendo «necessario per chiunque si interessi non soltanto di economia, ma di una
qualsiasi sfera della vita sociale moderna, conoscere i fatti che al capitalismo si riferiscono»59, il marxismo è la teoria che, «su questo problema, esprime in modo particolarmente spiccato le esigenze della scienza moderna in generale»60,
dunque la critica a Kautsky è condotta dal punto di vista della scientificità del
discorso e, nello specifico, della più avanzata concezione scientifica dello sviluppo
della società.
Lenin trova delle analogie tra la concezione di Kautsky e quelle degli economisti degli anni Novanta del secolo XIX in Russia, i quali vedevano il capitalismo lì avviatosi, come un movimento progressivo irreversibile, ragion per cui o
56
57
58
59
60
Ibid.
V. I. Lenin, Opere. XXII, cit., p. 109.
Ivi, p. 107.
Ibid.
Ibid.
381
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
ne facevano l’apologia oppure «negavano la politica o l’importanza della politica,
la probabilità di sconvolgimenti generali ecc.»61, dove mi sembra evidente che
questo atteggiamento apolitico derivava proprio da una concezione lineare, priva
di contraddizione, dello sviluppo capitalistico, per cui sembravano improbabili
degli sconvolgimenti complessivi del sistema stesso. Oppure, questa concezione
ha, per Lenin, analogie con le teorie, in altro senso apolitiche, le quali pensano di
potere saltare «a piè pari dal capitalismo alla vittoria su di esso»62 mediante uno
sciopero generale, ritenendo così lo sciopero l’unica forma possibile di lotta radicale e trascurando invece la molteplicità delle altre forme di prassi del movimento
rivoluzionario comunista, o, se lo si vuol dire nel linguaggio di Hardt e Negri,
altre forme di produzione della soggettività.
Malgrado l’analogia tra Kautsky e tutti coloro che concepiscono uno sviluppo progressivo del capitale privo di contraddizioni oppure ritengono di saltare
oltre di esso mediante l’atto dello sciopero generale, così unilaterale da soffrire
della stessa astrazione della via pacifica ed economista dello sviluppo capitalistico, tuttavia Lenin dà atto a Kautsky di non negare il carattere conflittuale, anzi
bellicistico, della fase imperialistica di questo sviluppo, né di avere un atteggiamento apolitico, né di fare l’apologia del capitalismo di questa fase, dunque di
comprendere correttamente che cosa sia l’imperialismo attuale. Quindi Kautsky
ha riconosciuto le due fasi del capitalismo moderno, quella cosiddetta pacifica,
precedente l’attuale, e quella bellicosa e catastrofica odierna, e il passaggio dall’una all’altra. In questo egli rimane sulla linea di quanto aveva sostenuto precedentemente, quando era ancora marxista. Di conseguenza egli rigetta una posizione
alla Hobson secondo il quale si potrebbe combattere questo imperialismo dalla
forma conflittuale, non pacifica e piena di turbamenti, quindi niente affatto apolitica, con il ritorno al capitalismo precedente, caratterizzato dalla libera concorrenza, la qual cosa è il sogno tipico del piccolo-borghese che non riconosce
la realtà attuale, fatta di conflitti di fronte a cui non si dovrebbe indietreggiare,
ma a cui bisognerebbe rispondere politicamente con la soppressione complessiva
dell’assetto economico e politico dominante; che, insomma, ha paura delle conseguenze del conflitto sociale includente come parte costitutiva l’azione politica.
E tuttavia, al tempo stesso, che cosa fa, secondo Lenin, Kautsky? Non potendo
coltivare tale sogno piccolo-borghese del ritorno alla fase aurea della libera con-
61
62
Ivi, p. 109.
Ibid.
382
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
correnza – in questo reso esperto dal suo passato marxista – ecco che egli trasferisce il medesimo «sogno di un capitalismo “pacifico”»63, vale a dire la sostanza
del medesimo sogno piccolo-borghese di eludere i conflitti e gli sviluppi ineguali
del capitalismo, in un futuro di unificazione dei monopoli e degli imperialismi,
che oggi agiscono all’interno dei rispettivi Stati, in un unico monopolio e magari un’unica organizzazione internazionale. Vale a dire l’impossibilità del ritorno
all’indietro si rovescia in una fuga in avanti, ma sempre col contenuto del sogno
di un capitalismo pacifico che unifica il mondo. Questa proiezione dell’indietro
del capitalismo pacifico nell’avanti dell’ultraimperialismo, insomma quest’uso in
prospettiva del sogno dell’attenuazione o della scomparsa dei conflitti, ha come
conseguenza quella di distogliere l’attenzione e quindi la determinazione pratico-politica, dalle contraddizioni del presente, cioè dalla realtà dell’imperialismo,
piena di conflitti e di catastrofi. O comunque, grazie allo sguardo sul futuro relativamente pacifico del capitalismo ultraimperialistico, su cui peraltro Kautsky si
esprime al condizionale, insomma mediante questo sogno del futuro, si
potrebbe […] scacciare dal pensiero l’epoca già presente, già sopraggiunta, dell’imperialismo, estremamente gravida di conflitti e catastrofi […]. Non si potrebbero eludere i
problemi “acuti” che l’epoca dell’imperialismo, sopraggiunta per l’Europa, pone e ha già
posto, sognando che, forse, quest’epoca passerà rapidamente e, forse, sarà ancora concepibile, dopo di essa, l’epoca di un “ultraimperialismo” relativamente “pacifico”, che non
esigerà una tattica “aspra”? Kautsky dice appunto che una “simile nuova fase [ultraimperialista] del capitalismo è comunque concepibile”; quanto al decidere se “essa è realizzabile, non vi sono ancora premesse sufficienti per farlo” (Neue Zeit, 30 aprile 1915)64.
Per Lenin, con una tale posizione Kautsky mostra di abbandonare completamente il marxismo, giacché egli lo ammette solo per la fase futura del capitalismo, quella dell’ultraimperialismo, a proposito del quale Lenin sottolinea che lo
stesso Kautsky non sa neanche se si realizzerà, mentre il marxismo viene escluso
per il presente, in cui, invece, sulla base della fuga sognante verso il futuro ultraimperialistico, si attutiscono i contasti, appunto, del presente imperialistico e
soprattutto viene a cadere la determinazione a sopprimerli in modo rivoluzionario. In precedenza, quando era marxista, Kautsky aveva previsto e ammesso che
63
64
Ivi, p. 110.
Ibid.
383
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
la nuova fase imperialistica avrebbe acuito i contrasti, e infatti egli è costretto ora
ad ammetterne l’esistenza per il presente, in ciò differenziandosi dagli economisti
apologeti della funzione progressiva del capitale (senza rilevarne al tempo stesso
le contraddizioni) o da tutti coloro che assumevano un atteggiamento apolitico
volto a negare la possibilità di sconvolgimenti generali. Quindi Lenin dice che
in un certo senso Kautsky aveva promesso di essere marxista nell’epoca futura
dell’imperialismo (futura nel momento in cui la prevedeva), ma una volta che la
“promessa”, o meglio, la previsione scientificamente e dunque marxisticamente
fatta si è avverata, una volta che i contrasti e le catastrofi sono sopraggiunti,
insomma la fine piena di orrore si è realizzata, ecco che egli adesso promette di
essere marxista in un’ulteriore epoca futura della cui realizzazione non è neanche
sicuro: «Un marxismo a credito, una promessa di marxismo, un marxismo per
domani, ma per oggi una teoria – e non soltanto teoria – piccolo-borghese, opportunista dell’attenuamento dei contrasti»65.
Dopo di che Lenin ribadisce quanto abbiamo già più volte visto nelle righe
precedenti di questa prefazione a Bukharin e nell’esposizione che ne fanno Hardt
e Negri, vale a dire che in linea astratta si può certo concepire un superamento
dei monopoli all’interno di ciascuno Stato e dei contrasti mondiali a cui questa
situazione dà luogo, verso un unico monopolio internazionale, e scrive:
Una nuova fase del capitalismo che segua quella dell’imperialismo […] astrattamente
si può concepirla. In pratica però ciò significa diventare un opportunista che nega i
problemi acuti del presente in nome di sogni su problemi futuri non acuti […]. Ciò
significa non fondarsi sullo sviluppo che ha effettivamente luogo, ma staccarsi arbitrariamente da esso in nome di questi sogni66.
Lenin conclude con le affermazioni citate da Hardt e Negri in Impero, sopra
riportate letteralmente e che qui riprendo analiticamente. Dunque, egli scrive
che «lo sviluppo segue la linea di un unico trust mondiale che assorb[e] tutte le
imprese e tutti gli Stati, senza eccezione»67. Sul fatto che lo sviluppo segue la linea
che porta senza eccezione all’unico trust mondiale, «non vi è dubbio»68, scrive
65
66
67
68
Ivi, p. 111.
Ibid.
Ibid.
Ibid.
384
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
altresì Lenin. Dopo di che, con frase avversativa, aggiunge che tuttavia le circostanze in cui questa linea porta alla fusione indubbia di tutte le imprese e tutti
gli Stati, senza eccezione, nell’unico trust mondiale, non è pacifica ma avviene
con tutta una serie di contrasti, sconvolgimenti e conflitti a tutti i livelli, non solo
economici, ma anche politici, nazionali, culturali e così via. Quindi, per arrivare
a questo esito dell’unico trust mondiale, dove la lotta tra i monopoli e tra gli Stati
si pacifica, in un parola, per arrivare al traguardo teoricamente possibile dell’ultraimperialismo, nella pratica bisogna passare necessariamente per la fine piena
di orrore della fase imperialistica, vale a dire per una fase dove i contrasti non si
possono attutire. Orbene, tali contrasti sono talmente forti che non si arriverà
all’ultraimperialismo, perché prima che si giunga a questa formazione dell’unico
trust mondiale dei monopoli e degli Stati senza eccezione, l’imperialismo salterà
e si avrà «immancabilmente»69 la conversione del capitalismo nel suo contrario
ossia nel comunismo.
Certamente questo testo di Lenin non segue un andamento che faciliti la
comprensione e, almeno in relazione a esso, hanno ragione Hardt e Negri nel
ritenere il percorso di Lenin che connette analisi teoriche e posizioni politiche,
alquanto tortuoso. Per ben tre volte in un testo così breve Lenin, come abbiamo
visto, scrive che la possibilità dell’ultraimperialismo si può “concepire” “in modo
teorico astratto”, mettendo “astratto” in corsivo, e a conclusione ribadisce che
sulla concepibilità di una linea di sviluppo che porti all’unico trust mondiale
delle imprese e degli Stati “non vi è dubbio”. Un simile uso di categorie filosofiche
quali “concetto”, “teoria”, “astrazione” e “certezza”, farebbe riferimento comunque a qualcosa che nella realtà sia almeno potenziale, ovvero in sé. Nello stesso tempo, però, abbiamo anche visto che Lenin ritiene questa posizione teorica
«astratta, semplicistica e sbagliata»70, tanto in Kautsky quanto negli economisti,
negli apolitici e negli scioperisti, ossia nei sostenitori dello sciopero generale. E
abbiamo visto altresì come Lenin sottolinei che l’evidenza della rottura col marxismo, operata da Kautsky, non è data dall’apologia dell’imperialismo e dalla
dimenticanza della sua dimensione politica, ma proprio dalla proiezione, che
egli fa, dello sviluppo storico in una probabile fase finale pacifica del capitalismo.
Appunto tale proiezione Lenin dice essere un sogno, mettendo, nella citazione
che sopra abbiamo letto, la parola “sogno” in corsivo. Questo sogno in avanti
69
70
Ivi, pp. 111-112.
Ivi, p. 109.
385
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
rimedierebbe al fatto di non poter sognare all’indietro il ritorno al capitalismo
pacifico della libera concorrenza, e perciò l’ultraimperialismo rimane egualmente
un sogno, il quale nasce dall’illusione pacifista piccolo-borghese di poter eliminare i conflitti scacciando dal pensiero gli impegni politici a cui chiama l’epoca
presente del sopraggiunto imperialismo e sperando – dunque, di nuovo, sognando – che quest’epoca passi rapidamente e probabilmente sopraggiunga l’epoca
ultraimperialistica ossia pacifica. Insomma, proprio il carattere sognatore dell’ultraimperialismo allontana Kautsky dal marxismo. Ma se le cose stanno così,
allora non si potrebbero neanche usare, a proposito di questa posizione, termini
quali “teoricamente”, “astrattamente”, “concepibile”, perché si tratterebbe solo di
una fantasia, ovvero di un sogno e basta. Ed è anche strano che a proposito della,
sebbene incerta, previsione kautskyana della fase ultraimperialistica, previsione
che di fatto funziona per attenuare i contrasti imperialistici del presente, pure da
Kautsky precedentemente previsti, Lenin parli di marxismo a credito. Fin quando si tratta di aver previsto la fase imperialistica piena di conflitti e contrasti, a
differenza di economisti, struvisti e scioperisti, i quali o vedevano un’ineluttabile
linea progressiva nello sviluppo del capitale o pensavano di superare il capitalismo solo con lo sciopero generale, non c’è dubbio che ci si trova davanti a una
promessa di marxismo, o forse si potrebbe dire, meglio, di una previsione marxista
ossia corretta, visto che il marxismo è la forma che più spiccatamente esprime le
esigenze della scienza moderna. Ma nel caso della previsione finale di un ultraimperialismo, cioè di un capitalismo pacificato, che cosa c’entra il marxismo? Qui
mi pare che la cambiale non sia stata proprio emessa né lo sarebbe potuto essere,
poiché manca proprio il creditore. Invece, per quanto riguarda la previsione di un
esito imperialistico, quindi non pacifico, previsione corretta, il debito è stato già
pagato nel momento in cui questo imperialismo è arrivato con tutti i suoi orrori
finali e da Kautsky stesso riconosciuti, malgrado che egli voglia attenuarli con la
fuga in avanti nell’ultraimperialismo. Ma appunto nel momento in cui si prevede
l’evoluzione lineare del capitalismo verso l’ultraimperialismo pacifico, non c’è più
niente da pagare visto che non è propriamente marxista dire che il capitalismo
porti alla pace definitiva tra le nazioni, come fra poco vedremo. Non capisco perché Lenin prima sostiene che Kautsky, teorizzando l’ultraimperialismo, avrebbe
abbandonato il marxismo, e poi sostiene che lo stesso avrebbe contratto un debito con il marxismo da mantenere nella futura fase ultraimperialistica che certo
di marxismo non ha molto.
A questo si aggiunge che Lenin, dopo avere affermato che “indubbiamente”
la linea dello sviluppo è proiettata, o è plausibile pensare che sia proiettata,
386
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
verso l’unico trust mondiale economico e politico, scrive che nella realtà pratica
presente ci sono circostanze tali, fatte di contrasti, conflitti e sconvolgimenti,
che “immancabilmente”, ossia di necessità, l’imperialismo salterà e il capitalismo si rovescerà nel suo contrario, dunque si andrà alla transizione verso il
comunismo. Ma se questa formazione dell’unico trust mondiale di imprese e
di Stati senza eccezione alcuna è teoricamente plausibile, come mai poi nella
pratica l’imperialismo deve saltare e il capitalismo deve trasformarsi nel suo
contrario, ossia nel comunismo, “immancabilmente”, si badi, vale a dire non
per un intervento volontaristico imprevedibile e accidentale, ma per interna,
naturale necessità? Una cosa, ovvero l’esito di una linea di sviluppo, può essere
concepibile in modo teorico astratto mentre praticamente può non realizzarsi,
ma questa possibilità lascia inalterato che quanto era stato teoricamente previsto – dico: teoricamente previsto, non semplicemente sognato – si sarebbe
potuto realizzare. E allora, se questo è il caso, ossia che la linea di sviluppo
del capitalismo verso l’ultraimperialismo è astrattamente concepibile, allora
l’imperialismo non “dovrà” saltare “immancabilmente” con la conseguente
trasformazione del capitalismo nel suo contrario, ossia nel comunismo, ma “a
certe condizioni”, poniamo a un grado alto di maturità raggiunto dalla soggettività rivoluzionaria, “si può dare” che l’imperialismo salti e con esso salti il
capitalismo che si trasforma così in comunismo. Se invece “immancabilmente”
l’imperialismo dovrà saltare e quindi il capitalismo si dovrà trasformare in
comunismo prima che si realizzi l’ultraimperialismo, allora la possibilità che lo
sviluppo vada verso l’ultraimperialismo, cioè verso una situazione che esclude
(ma qui, a mio avviso, Lenin direbbe: elude) la trasformazione del capitalismo
nel suo contrario direttamente dall’imperialismo stesso che salta, non è più
qualcosa di astrattamente o teoricamente concepibile, ma è solo una sciocchezza e basta, quindi non resta che interpretare l’”astrattamente” o il “teoricamente concepibile” come un sinonimo di sogno, immaginazione, errore. Tant’è
vero che Lenin dice che con questa teoricamente plausibile teoria Kautsky si è
staccato “arbitrariamente” dallo sviluppo effettivo.
A me sembra che proprio il passaggio finale della Prefazione leniniana potrebbe offrire la chiave di lettura di un testo in cui parole come “astrazione”,
“teoria”, “concepibilità”, “sogno” e “semplicismo” ora sembrano distinguersi
ora sembrano andare insieme. All’inizio della Prefazione Lenin, come abbiamo
visto, aveva scritto che sul problema dell’imperialismo il marxismo è la teoria
scientificamente più avanzata, giacché esprime in modo particolarmente spiccato le esigenze della scienza moderna, e aveva criticato la dottrina di Kautsky
387
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
proprio rilevandone la distanza rispetto al marxismo e quindi negando a essa
valore scientifico. Ebbene, l’ammissione, da parte di Lenin, che una fase ulteriore del capitalismo susseguente all’imperialismo sarebbe astrattamene concepibile, ma non è così nella pratica e non riconoscerlo significa negare la verità
del cose; e che l’indubbio procedere della linea dello sviluppo – Lenin mette
“linea” in corsivo – verso l’unico trust mondiale che assorbe tutte le imprese e
tutti gli Stati senza eccezioni in pratica si svolge, invece, in condizioni e circostanze talmente contradditorie e piene di conflitti, catastrofi e sconvolgimenti
economici, politici, nazionali ecc., che immancabilmente, molto prima che si
realizzi questo unico trust mondiale l’imperialismo salterà e il capitalismo si
rovescerà nel suo opposto: tutto questo a me non sembra altro che una coerente
verifica e sviluppo dei risultati ultimi della tendenza del capitale a creare il mercato mondiale, di cui Marx aveva scritto nei Lineamenti fondamentali. Come
abbiamo visto sopra, citando, per Marx la tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto stesso del capitale, che, conformemente
a questa tendenza a esso immanente, considera ogni limite come un ostacolò
da abbattere e superare. Continua Marx:
Come la produzione fondata sul capitale crea da un lato l’industria universale – ossia
lavoro eccedente, lavoro che crea valore –, così essa crea, dall’altro lato un sistema di
sfruttamento generale delle qualità naturali e umane, un sistema dell’utilità generale il
cui portatore appare essere tanto la scienza quanto l’insieme di tutte le qualità fisiche e
spirituali, mentre nulla di più elevato in sé, di giustificato per se stesso appare al di fuori di
questo circolo della produzione e dello scambio sociali. Così è dunque il capitale soltanto
a creare la società borghese e l’appropriazione universale tanto della natura quanto della
connessione sociale stessa da parte dei membri della società. Di qui la grande influenza
civilizzatrice del capitale; la sua produzione di un livello sociale rispetto al quale tutti i livelli precedenti appaiono soltanto come sviluppi locali dell’umanità e come idolatria della
natura. La natura diviene qui per la prima volta puro oggetto per l’uomo, puro oggetto
dell’utilità; cessa di essere riconosciuta come potenza per sé; e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome appare soltanto come un’astuzia per assoggettarla ai bisogni
umani sia come oggetto del consumo sia come mezzo della produzione. In conformità
con questa sua tendenza il capitale tende a trascendere sia le barriere e i pregiudizi nazionali, sia l’idolatria della natura, sia il soddisfacimento tradizionale, modestamente chiuso
entro limiti determinati, dei bisogni esistenti, e la tradizionale riproduzione di un vecchio
modo di vivere. Nei confronti di tutto ciò esso è distruttivo e agisce nel senso di un perenne rivoluzionamento, abbattendo tutte le barriere che ostacolano lo sviluppo delle forze
388
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
produttive, l’espansione dei bisogni, la molteplicità della produzione e lo sfruttamento e
lo scambio delle forze della natura e dello spirito71.
La fase dell’imperialismo, così come è compresa da Lenin, non sarebbe altro che l’approfondimento, l’estensione, l’altissimo grado di sviluppo raggiunto
da quelle tendenze storiche civilizzatrici fondamentali del capitale che Marx ha
individuato in queste pagine dei Lineamenti fondamentali. Queste stesse pagine
riecheggiano nel passo del Capitale sopra citato e che Lenin stesso richiama nel
Saggio popolare, dove Marx mette in connessione il processo di centralizzazione
dei capitali con la forma cooperativa sempre più sviluppata assunta dal processo lavorativo, la socializzazione dei mezzi di lavoro, l’applicazione tecnica della
scienza e lo sviluppo del mercato mondiale che aggroviglia tutti i popoli nella sua
rete. Nella Prefazione a Bukharin, Lenin stesso trae le conseguenze implicite in
questi testi marxiani, quando scrive che a questo grado di sviluppo degli scambi e della grande produzione, si ha una tale internazionalizzazione dei rapporti
economici e una tale grandezza della produzione stessa, che le imprese cosiddette
liberamente concorrenti si trasformano in associazioni monopolistiche, dal che
deriva il ruolo strapotente che assume il credito. Vista allora questa tendenza a
una produzione sempre più grande e centralizzata, e a scambi sempre più interdipendenti a livello mondiale, è certo che sarebbe pensabile e assolutamente
plausibile una linea di sviluppo verso un unico trust mondiale e quindi verso
l’ultraimperialismo pacifico. E in questo processo si potrebbe anche ipotizzare
che la fase dell’imperialismo ossia dei conflitti acuti, prevista anche da Kautsky,
sia uno degli ulteriori ostacoli che il capitale, nella sua tendenza all’unificazione
del mondo grazie alla connessione tra grande industria, ossia scienza applicata
alla produzione, e allagamento degli scambi su sala universale, potrebbe un giorno o l’altro superare. Sennonché, dopo aver descritto il modo con cui il capitale
realizza la sua tendenza a creare il mercato mondiale trattando tutti i limiti come
ostacoli da superare, Marx aggiunge:
Dal fatto che il capitale pone ciascuno di questi limiti come ostacoli e quindi idealmente li ha superati, non consegue però in alcun modo che esso li ha superati realmente; e
MEOC, vol. XXIX, pp. 341-342 (ho modificato la traduzione; cfr. Institut für Marxismus-Leninismus beim Zk Der Sed, Karl Marx Friedrich Engels Werke, Bd. 42, Berlin 1983, p.
323; D’ora in poi MEW, seguito dall’indicazione del volume e della pagina).
71
389
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
poiché ciascuno di questi ostacoli contraddice alla sua destinazione, la sua produzione
si muove tra contraddizioni costantemente superate ma altrettanto costantemente poste. E non è tutto. L’universalità alla quale esso tende irresistibilmente trova nella sua
stessa natura ostacoli che a un certo livello del suo sviluppo metteranno in luce che esso
stesso è l’ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza e perciò spingono al suo
superamento attraverso esso stesso72.
Dunque, io penso che quando Lenin sostiene che astrattamente ovvero in teoria si può ben concepire una linea dello sviluppo che porti alla fusione di tutte le
imprese e di tutti gli Stati in un unico trust mondiale, e che, anzi, indubbiamente
lo sviluppo segue questa linea, egli stia cogliendo originalmente, nella specifica
situazione storica mondiale in cui egli vive lo scontro di classe tra lavoro salariato
e capitale, proprio la contraddizione di fondo che Marx rileva nella tendenza del
capitale, vale a dire che il superamento di tutti i limiti che esso considera altrettanti ostacoli, avvenga solo idealmente ma non realmente, perché, data la natura
del capitale, ogni contraddizione superata ne pone inevitabilmente delle nuove.
Infatti il modo di produzione capitalistico è per sua natura antagonistico, perché
è fondato sulla separazione tra lavoratori e possessori dei mezzi di produzione,
quindi sul furto del tempo di lavoro altrui. Questo carattere a esso immanente
rappresenta un insuperabile ostacolo alla sua stessa tendenza ad abbattere tutti gli
ostacoli, ragion per cui per cui alla fine necessariamente esso deve considerare se
stesso come un ostacolo alla sua stessa tendenza, insomma non può che vedere in
se stesso la massima contraddizione con se stesso. Questo essere ostacolo di sé a se
stesso spinge il capitale al superamento di sé attraverso se stesso, ossia attraverso le
forze produttive che si sono sì sviluppate entro il suo modo di produzione, ma in
modo passivo perché la spinta a questo sviluppo avviene sotto l’impulso ad accumulare a spese del lavoro altrui, cioè mediante il rapporto di proprietà privata, la
quale è al tempo stesso fattore di propulsione iniziale e ostacolo finale a ogni ulteriore sviluppo. Di qui derivano crisi, convulsioni e catastrofi, come mostra l’esito
monopolistico e imperialistico della tendenza immanente al capitale a creare il
mercato mondiale. Nei termini di Lenin ciò significa che la tendenza all’unico
trust mondiale delle imprese e degli Stati, quindi la tendenza all’ultraimperialismo, è solo idealmente concepibile, in quanto il capitale solo idealmente supera
MEOC, vol. XXIX, p. 342 (ho modificato leggermente la traduzione; cfr. MEW, Bd. 42,
p. 323).
72
390
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
gli ostacoli, ma praticamente urta con circostanze, ritmi di svolgimento, contrasti, conflitti e sconvolgimenti, dunque – detto di nuovo nei termini marxiani – si
muove tra contraddizioni che una volta superate sono sempre di nuovo poste. Di
conseguenza – ritornando a Lenin – immancabilmente, cioè necessariamente,
l’imperialismo dovrà crollare e il capitale dovrà trasformarsi nel suo contrario
prima che si realizzi l’ultraimperialismo, il quale, del resto, non può che rimanere solo ideale perché – ancora nei termini di Marx – il capitale è l’ostacolo al
superamento degli ostacoli, quindi a un certo grado del suo sviluppo questi stessi
ostacoli a esso immanenti lo spingono a superarsi mediante se stesso.
Inoltre questa posizione di Lenin mi sembra in continuità con quanto Engels
e Marx avevano scritto nel Manifesto:
L’isolamento e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno via via scomparendo con
lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con
l’uniformità della produzione industriale e con le condizioni di vita ad essa rispondenti.
Il dominio del proletariato li farà scomparire ancora di più. L’azione unita almeno nei
paesi civili è una delle prime condizioni della sua emancipazione. A misura che viene
abolito lo sfruttamento di un individuo per opera di un altro, viene abolito lo sfruttamento di una nazione per opera di un’altra. Con lo sparire dell’antagonismo fra le classi
nell’interno delle nazioni scompare l’ostilità fra le nazioni stesse73.
Anche Engels e Marx riconoscono che la tendenza del capitale va verso la
scomparsa dell’isolamento e degli antagonismi nazionali dei popoli, quindi verso
una fase di pacificazione e di unificazione del mondo grazie alla creazione del
mercato mondiale reso possibile dalla grande industria con l’uniformità della sua
produzione, a sua volta allargata dal mercato mondiale stesso. Ciò corrisponde a
quanto più tardi Marx avrebbe scritto nel passo dei Lineamenti fondamentali sopra commentato, giacché si può dire che la progressiva scomparsa dell’isolamento
e degli antagonismi nazionali dei popoli è conseguente alla tendenza a creare il
mercato mondiale data immediatamente nel concetto stesso di capitale, quindi
a considerare tutti gli sviluppi precedenti come ostacoli da superare in quanto
sviluppi locali e – appunto – nazionali isolati, e in quanto idolatria della natura,
la quale invece, con la grande industria, diventa un oggetto di utilità e di soddisfazione dei bisogni, il che vale anche per quel che riguarda le qualità naturali
73
MEOC, vol. VI, pp. 503-504.
391
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
umane. Inoltre queste considerazioni del Manifesto e dei Lineamenti fondamentali corrispondono a quanto avrebbe scritto più tardi Lenin nella Prefazione a
Bukharin, cioè che lo sviluppo del capitalismo verso un’unificazione del mondo
in un unico trust di imprese e di Stati, quindi verso una fase successiva ultraimperialistica ossia pacifica, è teoricamente possibile. Ma, appunto, teoricamente,
non praticamente. Infatti, come abbiamo letto nel passo del Manifesto, Engels e
Marx aggiungono che la possibilità di fare sparire ancora di più gli antagonismi
nazionali tra i popoli e quindi di instaurare un mondo davvero pacificato, dipende dall’azione unitaria del proletariato, il quale fa il primo passo nell’essere unito
almeno nei paesi civilizzati ossia già sottomessi al modo di produzione capitalistico giunto a un grado tale di sviluppo delle forze produttive da mettere il capitale
in contraddizione con se stesso, vale a dire con il suo modo di appropriazione
privato, e quindi avviare, su questa base, un processo di emancipazione umana
passando per la fase intermedia della dittatura rivoluzionaria del proletariato.
L’intervento unitario del proletariato per completare e realizzare la scomparsa
dell’isolamento e degli antagonismi nazionali dei popoli, scomparsa iniziatasi,
sia pur contraddittoriamente, già con lo sviluppo del capitale verso il mercato
mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e le corrispondenti condizioni di vita, è assolutamente necessario, perché lo sfruttamento di una nazione
da parte di un’altra dipende in ultima analisi dallo sfruttamento di un individuo
da parte di un altro all’interno di ogni singola nazione, insomma dall’esistenza
della lotta di classe tra lavoro salariato e capitale, tra proletariato e borghesia,
lotta che Engels e Marx definiscono una «guerra civile più o meno occulta»74.
Abolita questa causa, ossia lo sfruttamento che una minoranza di uomini fa del
lavoro e della vita della maggioranza, scompaiono completamente l’isolamento e
gli antagonismi nazionali tra i popoli.
Combinando un po’ le affermazioni del Manifesto con quelle dei Lineamenti fondamentali, possiamo dire che il capitale, con la sua tendenza immanente,
data nel suo stesso concetto, a creare il mercato mondiale dove tutti i limiti si
presentano come ostacoli da superare – ragion per cui esso rompe le barriere e
i pregiudizi nazionali, l’idolatria della natura, il consumo limitato e rinchiuso
entro bisogni locali esistenti e la riproduzione di un vecchio modo di vivere –, ha
già ampiamente avviato un processo teso alla scomparsa dell’isolamento e degli
antagonismi nazionali tra i popoli. Ma esso non può portare a completamento
74
Ivi, p. 497.
392
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
questa sua linea di tendenza, perché la sua essenza consiste nell’appropriarsi del
lavoro altrui senza scambio sotto l’apparenza di uno scambio. Essendo pertanto
fondato sullo sfruttamento di un individuo da parte di un altro, il capitale non
può eliminare lo sfruttamento di una nazione per opera di un’altra, insomma il
capitale non può eliminare l’imperialismo. E così ecco che il capitale trova in
se stesso l’ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza a fare sparire gli
antagonismi nazionali dei popoli, quindi spinge al suo superamento attraverso se
stesso, vale a dire porta in sé la necessità della rivoluzione comunista, necessità su
cui si organizza il soggetto rivoluzionario.
Tutto ciò mi sembra essere la stessa cosa che, nella Prefazione a Bukharin,
Lenin sostiene contro Kautsky: la linea dello sviluppo volta a fondere imprese e
Stati in un unico trust mondiale, vale a dire la fase dell’ultraimperialismo ovvero di un capitalismo pacificato, benché teoricamente pensabile, non può esserci
di fatto, perché il capitale tende alla pace idealmente o, stando al Manifesto, la
può realizzare solo tendenzialmente. Di fatto, in quanto il capitale è un modo
di produzione fondato sullo sfruttamento di un individuo da parte di un altro,
la società capitalistica nel suo complesso riproduce circostanze, ritmi, contrasti,
conflitti e sconvolgimenti tali, che immancabilmente deve rovesciarsi nel suo
contrario ossia in una società comunista. Quello che Kautsky sogna come un
mondo pacificato, non può esistere fino a che c’è un modo di produzione capitalistico, ancorché ultraimperialistico, vale a dire un mondo veramente pacificato
non può consistere in un unico trust di imprese e di Stati, ma può nascere solo
dalla soppressione di trust, banche e Stati in quanto tali, perché trust, banche e
Stati sono conseguenze dello sfruttamento di un individuo da parte di un altro e
perciò fonte di sfruttamento di una nazione da parte di un’altra. Di conseguenza
l’imperialismo salterà in aria “immancabilmente” e il capitalismo si rovescerà nel
suo contrario altrettanto “immancabilmente” prima che la fase dell’ultraimperialismo venga raggiunta, perché una fase successiva, pacificata, del capitalismo,
nella misura in cui resta capitalistica, non potrà mai essere pacifica realmente, ma
tutt’al più lo potrà essere tendenzialmente, se non solo idealmente. Kautsky stesso, da marxista quale era stato, colse il nesso tra la tendenza del capitale a creare il
mercato mondiale e la grande industria con l’uniformità della produzione e delle
corrispondenti condizioni di vita, da un lato, e la tendenza a fare scomparire gli
antagonismi nazionali dei popoli, dall’altro. Ma da marxista che non era più, non
connetté dialetticamente questa tendenza idealmente pacifica del capitale, volta
a superare gli antagonismi nazionali dei popoli, con il fatto che tali antagonismi
sono fondati sullo sfruttamento di un individuo da parte di un altro, cioè sull’e393
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
sistenza di quello stesso capitale tendente alla pace, e così egli occultò il fatto che
solo il proletariato, abolendo questa condizione di sfruttamento e, con essa, se
stesso come proletariato, può fare scomparire del tutto tali antagonismi.
6. Il punto della questione: soggettività, oggettivismo e oggettività tra materialismo biopolitico della differenza e materialismo dialettico
Come abbiamo visto, Hardt e Negri fanno leva su questo andamento “piuttosto tortuoso” del ragionamento di Lenin per dire che la linea retta di tale ragionamento ha una curva misteriosa, e invece di risolvere la tortuosità o il mistero
dialetticamente, è come se essi facessero un salto, dicendo che «nondimeno (nevertheless)»75 esso è efficace dal punto di vista soggettivo, in quanto la curva di
questa linea retta portava dall’analisi della realtà effettuale delle condizioni della
classe operaia alla necessità della sua organizzazione politica, ragion per cui il
problema di Lenin sarebbe stato quello delle pratiche soggettive della classe operaia stessa. Innanzitutto l’obiettivo delle analisi di Lenin delle condizioni e delle
pratiche soggettive della classe operaia era immeditatamente operativo, ossia era
quello di valutarne le interne potenzialità di ostacolare soluzioni riformiste della
crisi imperialista, crisi nascente dall’impossibilità del capitale di equalizzare i saggi del profitto e quindi sottomettersi pienamente il lavoro vivo e l’intera società
(è questa la lettura operativa che Hardt e Negri danno delle contraddizioni imperialistiche del capitale); in altri termini l’obiettivo delle analisi di Lenin era di
vedere che potenzialità la classe operaia aveva di ostacolare uno sviluppo lineare
verso un più o meno teoricamente plausibile ultraimperialismo. Ma soprattutto
l’obiettivo principale era di come questo insieme di resistenze, ostacoli, lotte, insurrezioni e rivoluzioni avesse in sé la potenzialità di distruggere l’imperialismo e
con esso il capitalismo. Insomma Hardt e Negri risolvono la contorsione, da loro
vista, del ragionamento leniniano con il salto completo nella soggettività delle
pratiche di lotta operaie.
Chiediamoci che cosa può voler dire precisamente che Lenin, avendo colto un
elemento basilare della definizione dell’imperialismo, cercava le potenzialità delle
pratiche soggettive della classe operaia di ostacolare le crisi di realizzazione capitalistiche, ma soprattutto cercava la possibilità effettiva che queste pratiche di lotta,
75
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 220.
394
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
insurrezionali e rivoluzionarie, avessero di distruggere l’imperialismo, cosicché il
problema di Lenin sarebbe di andare dall’analisi della realtà effettuale della classe
operaia alla necessità della sua organizzazione politica. A mio avviso si può molto plausibilmente ammettere come teoricamente concepibile una nuova fase del
capitalismo pacificata in un unico trust mondiale di imprese, capitali finanziari
e Stati, la quale segue la fase dell’imperialismo, ma rifiutarla praticamente, perché altrimenti ciò significherebbe negare i problemi acuti del presente staccandosi
arbitrariamente dallo sviluppo che effettivamente ha luogo in nome del sogno di
un capitalismo pacificato, laddove invece il cammino lineare, o presunto tale, che
porta all’ultraimperialismo è inficiato da circostanze talmente catastrofiche, conflittuali e sconvolgenti, che “immancabilmente” l’imperialismo salta in aria e il
capitalismo si rovescia nel suo contrario prima che l’ultraimperialismo si realizzi,
cosicché – vale a dire sulla base di questo corretto riconoscere i problemi acuti del
presente e fondarsi sullo sviluppo che ha effettivamente luogo – si deve individuare
nelle pratiche soggettive della classe operaia quali sono i potenziali ostacoli che
essa frappone alla linea di uno sviluppo che porterebbe all’ultraimperialismo (il
che significa evitare di lasciare che il capitale superi le sue crisi di realizzazione) e
soprattutto quali possibilità tali pratiche di lotte, insurrezioni e rivoluzioni hanno
di distruggere l’imperialismo stesso. Ma se questa è la connessione – che ho fatto “tagliando e incollando” le affermazioni analitiche della Prefazione di Lenin e
quelle propositive della lettura che ne danno Hardt e Negri in Impero –, allora il
passare dalle analisi della realtà effettuale della classe operaia alla necessità della
sua organizzazione politica, insomma la centralità, che essi molto opportunamente
mettono in risalto, della curva soggettiva percorsa dalla retta di Lenin, è il risultato
precisamente dello sviluppo oggettivo delle contraddizioni di classe del capitale nella
fase dell’imperialismo come momento in cui esso trova in se stesso il suo massimo
ostacolo, dimostrando praticamente come la tendenza a un capitalismo pacificato
in un unico trust mondiale di imprese, capitali finanziari e Stati nazionali sia solo
un sogno, laddove invece lo sviluppo che realmente ha luogo indica l’immancabile
crollo del capitalismo e la necessità del comunismo, e così di conseguenza si avvia
tutto il percorso di ricerca delle potenzialità che le pratiche soggettive insurrezionali e rivoluzionarie del proletariato hanno di ostacolare la soluzione lineare delle
crisi di realizzazione capitalistica e soprattutto di distruggere l’imperialismo. Certo,
tutto il lavoro di presa di coscienza di classe e di organizzazione delle lotte non ha
un esito scontato, ma quanto mai aperto, perché se non si lotta sulla base di queste
condizioni contraddittorie, si lascerebbe libera la tendenza del capitale all’ultraimperialismo, quindi se ne aumenterebbe mostruosamente il potere e resterebbero
395
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
impedite per lungo tempo le lotte proletarie intorno agli anelli più deboli e contradittori della catena di dominio imperialistico. E per giunta ciò non significherebbe
affatto l’avvento del capitalismo pacificato ovvero dell’ultraimperialismo, ma solo
un’acutizzazione delle catastrofi, contraddizioni e conflitti dell’imperialismo, data
la struttura stessa del capitale, il quale solo idealmente può risolvere le contraddizioni, ma realmente ogni contraddizione superata ne pone sempre di nuove perché il
capitale è ostacolo massimo a se stesso, solo riconosciuta la qual cosa può avvenire
il superamento del capitale attraverso se stesso ossia il costituirsi del «movimento
reale che abolisce lo stato di cose presente»76 e le cui «condizioni […] risultano dal
presupposto ora esistente»77. E questo “movimento reale”, così inteso, è appunto il
soggetto della rivoluzione comunista.
Orbene, se le cose stanno in questo modo – il che, a mio avviso, renderebbe
plausibile e condivisibile la lettura di Hardt e Negri –, allora non vedo in che
senso il percorso logico di Lenin tra proposizioni analitiche e posizioni politiche
sarebbe “piuttosto tortuoso”. Al contrario, esso mi sembrerebbe un percorso molto comprensibile, in quanto la produzione di soggettività rivoluzionaria antimperialista ovvero di organizzazione rivoluzionaria, giustamente individuata da
Hardt e Negri come mistero della curva della retta di Lenin, scaturisce dialetticamente da un processo oggettivo contraddittorio ossia conflittuale e catastrofico,
consistente nella “fine piena di orrore” a cui porta il capitale nella fase dell’imperialismo e che solo idealmente può essere superata sognando la tendenza a un
capitalismo pacifico, mentre invece lo può essere realmente solo riconoscendo
la catastrofe imperialistica come coerente esito dell’esistenza stessa del capitale e
della sua precedente fase mercantile “pacifica”, a sua volta caratterizzata dall’”orrore senza fine”; e quindi riconoscendo la necessità dell’organizzazione soggettiva
rivoluzionaria per passare a un sistema di rapporti sociali completamente alternativi a quelli presenti e derivanti dialetticamente delle basi materiali che risultano
da questo sviluppo.
Come abbiamo visto, Hardt e Negri, ponendo al centro di tutto il loro discorso il problema della produzione della soggettività rivoluzionaria comunista, individuano il contributo più importante di Lenin nell’avere impostato la critica dal
punto di vista soggettivo ossia nel voler dare degli strumenti, una “cassetta degli
attrezzi” per la produzione della soggettività antimperialista. In questo Lenin si
76
77
MEOC, vol. V, p. 34.
Ibid.
396
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
ricollega al motivo presente in Marx della ricerca delle potenzialità rivoluzionarie che sono interne alla crisi. Questa centralità data al tema della produzione o
meglio autoproduzione della soggettività rivoluzionaria comunista, è del tutto
condivisibile ed è il motivo centrale di tutto il marxismo, dunque è senz’altro il
filo conduttore che, nel nostro caso, unisce Marx e Lenin. Perciò, se il problema
è quello di richiamare l’importanza teorica strategica della concettualizzazione
della soggettività, allora la curva della retta di Lenin che unisce proposizioni
analitiche e posizioni politiche non ha nulla di misterioso, giacché nel Saggio popolare la soggettività rivoluzionaria antimperialista e comunista non è, tra i molti
contributi originali, “il più importante” tra questi, ma piuttosto è “il” contributo
che tiene insieme tutti gli altri, ivi compreso il far conoscere al vasto pubblico le
varie analisi dell’imperialismo, dato che la stessa esposizione e lo stesso uso che
egli fa dei risultati delle analisi di altri autori sono mossi dalla necessità oggettiva della risposta rivoluzionaria comunista all’imperialismo, quindi il metodo di
Lenin è dialettico, ossia egli fa scaturire la posizione rivoluzionaria dalla critica e
fa la critica attraverso l’esposizione, secondo il metodo di Marx. Ma il problema
inizia a esserci quando si tratta di vedere che cosa si intende per “produzione di
soggettività rivoluzionaria comunista”, perché a questo proposito Hardt e Negri
affermano che nel compito di fare la genealogia dell’Impero ossia della configurazione dell’attuale ordine globale,
le vecchie analisi dell’imperialismo non sono più sufficienti, in quanto si arrestano
sempre di fronte alla concettualizzazione della soggettività scegliendo, piuttosto, di
concentrarsi sulle contraddizioni dello sviluppo del capitale. Lo schema di cui abbiamo
bisogno deve porre in primo piano la soggettività dei movimenti sociali del proletariato
nell’ambito dei processi della globalizzazione e della costituzione dell’ordine globale78.
Il fatto che Hardt e Negri mettano in antitesi la concettualizzazione della
soggettività e l’analisi delle contraddizioni dello sviluppo del capitale, mostra che
essi hanno una specifica concezione del soggetto e quindi della soggettività rivoluzionaria proletaria, il che pone appunto il problema se questa soggettività abbia
origine e movimento autonomo oppure scaturisca dialetticamente da quelle contraddizioni ossia dal loro trapassare in altro. È chiaro che risolvendo il problema
decisamente con la prima risposta, ossia spostandosi sulla dinamica interna dei
78
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., p. 223.
397
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
processi soggettivi del proletariato o moltitudine dei poveri che dir si voglia,
Hardt e Negri debbano vedere il discorso di Lenin piuttosto tortuoso dal loro
punto di vista, e così coerentemente risolvono il mistero della curva della retta
del grande rivoluzionario nel loro modo di concepire la soggettività, a ragione o
a torto secondo come si giudica questa loro concezione. Anzi, poiché la connessione logica tra proposizioni analitiche e posizioni politiche appare loro piuttosto
tortuosa ma “nondimeno” efficace da un punto di vista soggettivo, mi sembra
che essi in tal modo siano consapevoli di introdurre una forzatura nella linea del
ragionamento leniniano, non fosse altro per il fatto che la soggettività, nel senso
in cui essi la concettualizzano, è posta nel contesto – o meglio, per essere precisi
nella comprensione del loro discorso – è il presupposto della fase capitalistica che
essi individuano successivamente a quella dell’imperialismo a partire dagli anni
Settanta del secolo XX, vale a dire della fase dell’Impero, la quale – va ricordato
– non sopprime l’imperialismo e la società disciplinare con le sue dicotomie del
“dentro” e del “fuori” di cui era espressione, ma li sussume come un momento
persistente della postmoderna società del controllo espressa dalla sovranità imperiale in quanto forma di governo mista, secondo la loro descrizione.
Il fatto che, in questa lettura hardtnegriana della teoria di Lenin sull’imperialismo, l’iniziativa politica soggettiva comunista appare come un evento, un’eccedenza piuttosto che come il risultato dialettico dello sviluppo delle contraddizioni del capitale, l’ho già messo in rilievo più volte sopra. Sembra come se Hardt
e Negri vedessero in questa curva della retta leniniana una divaricazione tra il
movimento oggettivo del capitale dalla fase imperialistica delle guerre commerciali, politiche e militari, fino alla fase dell’ultraimperialistica situazione di pace
finale teoricamente probabile (tanto che su questo punto Lenin darebbe ragione a
Kautsky sul piano della semplice analisi), da un lato, e il processo di costituzione
della soggettività rivoluzionaria che qui appunto sembra non scaturire dalle contraddizioni dell’imperialismo, ma essere uno “scatto” e uno “scarto”, una frattura
introdotta imprevedibilmente dentro e contro questo sviluppo verso l’ultraimperialismo, sviluppo che verrebbe arrestato dalla decisione comunista che taglia
il nodo gordiano, dall’altro lato. E in effetti Hardt e Negri non vogliono fare
scaturire tutto il processo di costituzione della soggettività dalle contraddizioni
immanenti del capitale – qui considerato nella sua fase imperialistica – perché, se
così fosse, tra il capitale o la sovranità, da un lato, e la lotta di classe organizzata
ovvero la soggettività rivoluzionaria, dall’altro, si stabilirebbe una continuità nella quale la legge mercantile e capitalistica del valore si proietterebbe sull’iniziativa
proletaria inficiandone l’azione e rendendola omologa a quella dell’avversario.
398
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
Insomma il socialismo o comunismo che verrebbe fuori, sarebbe la proiezione di
tutti i limiti del movimento del capitale su una transizione che avrebbe la forma
del comunismo, giudizio ricavato da Hardt e Negri dalle esperienze del socialismo sovietico e più in generale da quelle del movimento operaio della Seconda
e della Terza internazionale, qui accomunate dalla stessa concezione proiettiva
della tendenza storica compresa in base alla legge del valore che dà forma alla
stessa transizione e così ne cancella la differenza qualitativa entro cui solo può
costituirsi una soggettività davvero antagonistica. Quindi l’ipotesi che Negri formula in Marx oltre Marx, libro che porta come sottotitolo: Quaderni di lavoro
sui Grundrisse, è «che […] non la transizione si dia (e si annulli) nella forma del
comunismo ma che il comunismo si dia nella forma della transizione»79. In questa
concezione il comunismo è un processo di continua costituzione della soggettività proletaria che avviene autonomamente rispetto al movimento del capitale.
La possibilità di concepire così il comunismo poggia sull’idea che, riprendendo
tesi esposte da Mario Tronti in Operai e capitale, la forza-lavoro non è mera proiezione del suo essere capitale variabile, giacché essa ha la capacità, attraverso le
lotte, anche quando sono latenti, di erogare oppure di togliere collettivamente al
capitale il proprio valore d’uso, consistente nel lavoro vivo di cui il capitale stesso
vuole appropriarsi. «È chiaro»80, scrive Negri in Guide, la succitata raccolta di
saggi intorno a Impero,
che il capitale ha avuto l’immensa funzione storica di costruire la forza-lavoro, ma
questa funzione era data, nell’economia classica e anche, parzialmente, nella sua critica,
all’interno di un rapporto di capitale come situazione e determinazione assolutamente
statiche. Il concetto di classe operaia era, in questo quadro, esso stesso costruito in
maniera statica, come proiezione meccanica della forza-lavoro, quindi ancora come figura interna al capitale. Il socialismo statualista sovietico non faticò molto a esasperare
questa figura di classe operaia dentro un regime disciplinare81.
Rovesciato così il rapporto di classe tra capitale e lavoro salariato, il capitale
non è il primo fattore dinamico dello sviluppo, ma è costretto a ristrutturarsi sempre inseguendo l’autonoma capacità di autoorganizzazione – che Negri
79
80
81
A. Negri, Marx oltre Marx, cit., p. 161.
Id., Guide, cit., p. 39.
Ibid.
399
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
chiama autovalorizzazione, qualitativamente differente dall’autovalorizzazione
meramente quantitativa del capitale – delle lotte proletarie che sono, viceversa, il
primo motore del progresso storico. Il nocciolo della concezione della soggettività in questa prospettiva biopolitica è così espresso da Negri: «Nella tradizione
marxiana»82 e, come abbiamo visto, per Negri parzialmente nello stesso Marx,
specie quello del Capitale, rispetto a cui i Lineamenti fondamentali offrirebbero
possibilità di lettura in altra direzione,
era […] impossibile rendere il movimento di classe operaia una variabile indipendente
del rapporto di capitale; laddove, al contrario, le analisi storiche che si sovrapponevano
alla critica dell’economia politica ci offrivano con estrema ampiezza la possibilità di
identificare movimenti di classe operaia che costruivano, contro il capitale, progetti,
strategie, teleologie materiali e utopie, spesso con potenti risultati. Dunque, bisognava
rovesciare quell’interpretazione di Marx: la classe operaia era, al contrario, il motore di
ogni sviluppo attraverso la lotta. La classe operaia era definita dal suo essere soggettivo,
dalla capacità di mostrarsi come evento e di disporsi come costituzione sociale […]. La
capacità di rompere il meccanicismo, e nella fattispecie l’oggettivismo teleologico della
dottrina marxista elaborata dalla II e dalla III Internazionale, ha permesso di considerare i movimenti di capitale come movimenti sociali, ovvero emergenza di eventi di
rottura. La rivoluzione non era una scadenza oggettiva, il limite cui tendevano i fattori
materiali che la caduta del saggio di profitto creava, ma il cumulo di un insieme di processi soggettivi di massa, un evento83.
Così messa la cosa, la lotta di classe scaturisce dalla stessa immanente capacità di autoorganizzazione o autovalorizzazione del proletariato, e non come
risultato dello sviluppo contradditorio del capitale che crea da se stesso le forze
che lo portano a morte.
Va detto che qui il carattere di evento che contraddistingue la soggettività del
proletariato e in genere la soggettività (perché il proletariato ovvero la moltitudine sola, che nella postmodernità succede al proletariato, è davvero “soggetto”), e
l’opposizione all’oggettivismo teleologico che contraddistinguerebbe il processo
dialettico del capitalismo e della sua proiezione nel socialismo della Seconda e
Terza internazionale e affini, non sono da intendersi come un atto volontaristico
82
83
Ibid.
Ivi, pp. 39-40.
400
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
che esplode a guisa di un colpo di pistola, né come un’azione guidata da un teleologia ideale. Il soggetto è processo di “soggettivazione” concepito come interno e
autonomo movimento del soggetto stesso, cioè non come un evento che farebbe
pensare a qualche rivelazione di una potenza trascendente, ma come un “disporsi
come evento”, quindi come un’iniziativa, un’azione completamente immanente, anzi si tratta qui dell’immanenza per eccellenza. Pertanto il movimento di
soggettivazione non è affatto un flusso a-strutturato, ma costituzione di soggettività, struttura essa stessa, appunto capacità di farsi costituzione sociale, cioè di
darsi delle istituzioni che, però, mai si cristallizzano in una misura quantitativa
definitiva, come avviene nella legge capitalistica del valore e nei poteri costituiti
propri della sovranità. E questo discende chiaramente dalla concezione della forza-lavoro non come semplice capitale varabile, ma in quanto essa ha la capacità
dinamica di essere sorgente viva di ogni ricchezza grazie al lavoro vivo, quindi
di eccedere ed essere imprevedibile rispetto alla legge del valore e, nell’autonomo
movimento delle sue lotte, di autovalorizzarsi secondo una propria dinamica costituente ma mai definitivamente costituita.
Quindi il fatto che, secondo Hardt e Negri, la curva misteriosa della retta di
Lenin muove dall’analisi della realtà effettuale della classe operaia per arrivare
alla necessità della sua organizzazione politica, cioè muove dall’analisi delle pratiche soggettive della classe operaia per verificarne non solo la capacità di ostacolare la soluzione lineare delle crisi di realizzazione capitalistica, ma soprattutto la
possibilità che queste pratiche hanno di distruggere l’imperialismo: questo fatto
vuol dire che il centro del discorso di Lenin sull’imperialismo è l’analisi degli atti
costituenti della classe operaia, ossia della sua capacità di mostrarsi come evento
e disporsi come costituzione sociale, insomma delle sue capacità autonome di
farsi soggetto, ovvero di autovalorizzarsi. Pertanto l’autovalorizzazione operaia
significa precisamente la capacità efficace di darsi un progetto politico nel senso
di porsi come differenza qualitativa rispetto al movimento “oggettivo” del capitale, dove l’“oggettività” è una falsa oggettività, ossia, piuttosto, un oggettivismo
che rispecchia reattivamente i movimenti autonomi della classe operaia. Questo
oggettivismo è di fatto solo la soggettività del capitale mascherata di oggettività
ossia del presentarsi come “sviluppo economico (quindi ‘oggettivo’)”, “crescita”
ecc. sia nelle forme del liberismo che in quelle del riformismo, ma anche in quella
del socialismo sovietico novecentesco che ha finito col proiettare nella transizione
in forma di comunismo tutto quell’oggettivismo della legge del capitalistica del
valore. A sua volta, anche la soggettività del capitale è falsa soggettività, perché
quell’oggettivismo è solo lo spettrale riflesso della soggettivazione operaia, ossia
401
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
del “farsi soggetto” della classe operaia o, nella condizione postmoderna, della
moltitudine stessa, in quanto classe operaia, prima, e moltitudine, poi, solo sono
le sole forme di vita reale che abbiano la potenzialità, il potere virtuale di essere
e di divenire veramente soggetto, ossia motore dello sviluppo attraverso le lotte,
dunque motore della storia.
Il fatto, però, che l’Impero abbia un movimento solamente reattivo verso le
resistenze della moltitudine e quindi sia solo un parassita che si mantiene espropriando e privatizzando la ricchezza prodotta dal comune e dalle singolarità,
non vuol dire che questa sua “reattiva attività” sia inefficace. Secondo Hardt e
Negri il processo di soggettivazione consiste in un continuo passare dal virtuale
al possibile e dal possibile al reale grazie all’eccedente creatività del lavoro vivo
postmoderno. Per “virtuale” essi intendono
quell’insieme di poteri di agire (essere, amare, trasformare e creare) che risiedono nella
moltitudine […]. I poteri virtuali della moltitudine s[o]no nati nel corso delle lotte e si
s[o]no consolidati nel desiderio […]. Il virtuale preme sui limiti del possibile e, in tal
modo, giunge a lambire il reale. Il passaggio dal virtuale al reale attraverso il possibile
è un atto fondamentalmente creativo. Il lavoro vivo costruisce i tramiti dal virtuale al
reale: il lavoro è il veicolo del possibile. Dopo aver rotto le gabbie della disciplina economica, sociale e politica, e dopo aver superato tutti i regimi coercitivi del capitalismo
moderno e la sua forma stato84,
quindi, potremmo dire, oltre l’imperialismo e oltre il socialismo e il comunismo rispettivamente della Seconda e della Terza Internazionale, inclusa, perciò,
l’esperienza sovietica, le quali proiettavano sulla “transizione nella forma del comunismo” la legge del valore-lavoro e il dispositivo disciplinare della sovranità –,
il «lavoro»85, il cui rifiuto, teorizzato da Negri nel passaggio tra gli anni Sessanta
e i primi anni Settanta, probabilmente aveva senso relativamente alla persistenza di quei regimi disciplinari della modernità industriale culminante nel fordismo, «si mostra oggi come attività sociale generale, come un eccesso produttivo
nei confronti dell’ordine esistente e delle leggi della sua riproduzione. L’eccesso
produttivo è il risultato immediato di una forza collettiva di emancipazione e
la sostanza di una nuova virtualità sociale delle capacità produttive e liberato-
84
85
M. Hardt, A. Negri, Impero, cit., pp. 332-333.
Ivi, p. 333.
402
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
rie del lavoro»86. Orbene, l’efficacia negativa dell’azione imperiale, nonostante il
suo carattere puramente reattivo e la sua incapacità di misurare il valore, la cui
creazione sempre più gli sfugge ed è sempre più costretto a inseguire, cosicché
la sua “azione” non è tale nel senso pieno dell’essere produttivo, sta nel fatto che
essa si insinua nello «iato tra virtualità e possibilità»87, vale a dire tra la virtualità
della moltitudine di creare un valore completamente altro e differente dal valore
meramente quantitativo e frutto di espropriazione da parte dell’Impero, e la possibilità di esistenza di questi poteri virtuali. «Lo iato tra virtualità e possibilità,
che riteniamo debba essere colto mettendosi dalla parte della moltitudine, viene
effettivamente mantenuto sempre aperto dal dominio imperale»88, anche se la
cosa che più sta a cuore a Hardt e Negri è ribadire il carattere meramente reattivo
di questa intromissione dell’Impero nel movimento di autovalorizzazione della
moltitudine tra virtuale e possibile:
L’azione del governo imperiale interviene per danneggiare e frenare le potenzialità possedute dalla moltitudine di suturare tra di loro virtualità e possibilità. A questo riguardo, l’Impero si intromette effettivamente nel corso dei movimenti storici senza però
possedere capacità costruttive, mentre la legittimazione del suo comando viene sempre
più intensamente pregiudicata da questi movimenti89.
E allora, essendo l’intromissione dell’Impero nello iato tra virtualità e possibilità qualcosa di effettivo, malgrado la sua mancanza totale di potenzialità
costruttive, ecco che Hardt e Negri sottolineano con forza:
Una cosa che deve essere molto chiara è che la moltitudine non si trasforma spontaneamente in una soggettività politica, e che la carne della moltitudine consiste in una
serie di condizioni ambivalenti: possono portare alla liberazione, ma possono anche farsi
catturare in un nuovo regime di sfruttamento e controllo. Per poter passare dalla sfera
della possibilità a quella dell’esistenza, la moltitudine ha bisogno di un progetto politico.
Una volta esaminate le condizioni che la rendono possibile, dobbiamo […] analizzare che
genere di progetto politico può far esistere la moltitudine90.
86
87
88
89
90
Ibid.
Ivi, p. 334.
Ivi, pp. 334-335.
Ivi, p. 335.
Idd., Moltitudine, cit., p. 247.
403
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
Essendo la sovranità imperiale esclusivamente un continuo e parassitario espropriare tutti i prodotti e i poteri creativi della moltitudine deformandoli nei dispositivi identitari della famiglia, della razza, della nazione, dei generi e delle classi, senza
mettervi di suo nulla di costruttivo, ne deriva che il passaggio dalla spontaneità
all’organizzazione, dunque il processo di soggettivazione o di produzione della soggettività, così come Hardt e Negri la intendono, è una continua lotta della moltitudine contro la corruzione di se stessa, corruzione in cui consistono, in ultima
analisi, i dispositivi identitari suddetti. La «corruzione del comune»91 consiste nella
sua distruzione mediante l’imposizione di gerarchie e disuguaglianze sociali (ad esempio con le privatizzazioni) e della perpetuazione delle forme negative del comune nelle
istituzioni che sminuiscono la potenza della moltitudine, che bloccano la produzione
di soggettività e che aggravano i conflitti interni. L’attività rivoluzionaria deve essere
rivolta alla distruzione delle istituzioni che producono le forme corrotte del comune
come la famiglia, l’impresa e la nazione […]. Queste e altre istituzioni che corrompono
il comune non cadranno senza un’irriducibile resistenza. Saint-Just sostiene che la lotta
non ha solo il compito di distruggere le istituzioni corrotte ma di costruirne di nuove.
C’è bisogno di nuove istituzioni per combattere la corruzione, non per compattare la
società e per cementare il conformismo a sostegno delle norme. C’è bisogno di nuove istituzioni per facilitare la produzione di forme positive del comune, per garantire
l’accesso libero e uguale per tutti, per incentivare gli incontri lieti delle singolarità che
costituiscono la moltitudine e, allo stesso tempo, per combattere gli ostacoli che intralciano questo percorso92.
È chiaro che qui la discussione verte sul modo in cui Hardt e Negri intendono
il soggetto rivoluzionario comunista e su come questa loro concezione della soggettività si riverbera sull’interpretazione, che essi danno, dell’esigenza di Lenin,
indubbiamente centrale, della costruzione della soggettività antimperialista al
suo tempo, dell’alternativa netta, che egli pone, tra imperialismo e comunismo,
e delle ragioni per le quali tale alternativa esclude, per lui, il sogno kautskyano
dell’ultraimperialismo.
Che la questione del soggetto ovvero del soggetto rivoluzionario comunista
sia cruciale nel marxismo, è dimostrato nei punti di partenza della riflessione
91
92
Idd., Comune, cit., p. 368.
Ibid.
404
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
teorica di Marx, innanzitutto nella Prima tesi su Feuerbach. È quindi logico che
in ogni fase di sviluppo storico che attraversa la guerra civile palese o latente che
si svolge tra capitale e lavoro salariato – per esprimerci oggettivisticamente – ovvero tra borghesi e proletari – per esprimerci soggettivisticamente –, i comunisti
sentano la necessità di affrontare la questione del soggetto o della soggettività
come riflesso, nel cervello collettivo, delle condizioni materiali in cui tale guerra
civile si combatte tra vittorie e sconfitte. Queste condizioni materiali sono create
dagli attori stessi di questa guerra, da quelli delle generazioni precedenti e da
quelli attuali, i quali ne creano di ulteriori. Perciò il lavoro teorico è sempre un
processo di educazione, inclusa l’educazione degli educatori, come Marx afferma
nella Terza tesi su Feuerbach. È merito di Hardt e Negri aver posto la questione
del soggetto rivoluzionario comunista in tutta la sua centralità entro il contesto
storico della lotta di classe a partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo Ventesimo fino allo sviluppo del mercato mondiale della globalizzazione capitalistica
e alla crisi apertasi nel 2008.
È evidente che mettendo la questione, come essi fanno, nell’alternativa secca
tra privilegiare le contraddizioni dello sviluppo del capitale, da un lato, e concettualizzare la soggettività, dall’altro, Hardt e Negri rifiutano il metodo dialettico,
che accusano di oggettivismo, mentre preferiscono affermare la differenza tra forza attiva del lavoro vivo e forza reattiva della sovranità, prima quella della società
disciplinare, entro cui si sviluppò l’imperialismo statuale, e poi quella odierna
della società del controllo, in cui si sviluppa la governance imperiale. Ora, nessuno qui vuole contestare il buon diritto di un’operazione metodologica del genere,
soprattutto se serve agli interessi della costruzione di una soggettività proletaria,
in cui anche il momento della teoria è importante, come sappiamo dal Che fare?
di Lenin. Solo che, seguendo le battute, sopra analizzate, con cui Hardt e Negri
scandiscono il processo di soggettivazione a fronte dello spettrale oggettivismo
dell’Impero, mi chiedo: se l’Impero è solo un contraccolpo reattivo, mentre la
produttività della moltitudine pregiudica continuamente questa intromissione
dell’Impero nei movimenti storici, come mai, però, questa intromissione è così
efficace da riuscire – nientemeno – a “catturare” la moltitudine nei regimi di
sfruttamento e di controllo, tanto da costringerla a darsi un progetto politico? E
se proprio in questo darsi un progetto politico consiste il “farsi soggetto” della
moltitudine, il suo passaggio dall’”essere” al “fare moltitudine”, dove va a finire
tutta questa sua strapotente e mostruosa capacità di autovalorizzazione e di autonomia, visto che il progetto politico, coincidente con il suo farsi soggetto, è
messo in moto per scampare al rischio di essere catturati in regimi di controllo
405
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
e sfruttamento? Poco cambia se il biopotere è inteso non come qualcosa di autonomo, ma come condizione corruttibile della moltitudine medesima, giacché
anche in questo caso la corruzione si presenta come un potere di cattura efficace malgrado la sua impotenza costruttiva, quindi il problema si ripropone, solo
spostato dall’esterno all’interno della soggettività. Ora, se per Hardt e Negri il
progetto politico serve alla moltitudine per passare dalla possibilità all’esistenza,
dato che in questo passaggio essa trova intromesso l’Impero che la blocca, ragion
per cui il processo di soggettivazione non può essere spontaneo, ciò vuol dire che
il passaggio dal virtuale al possibile e dal possibile all’esistenza avviene a sua volta
come azione rivoluzionaria di superamento di un ostacolo, come un contro-urto
da parte della moltitudine per superare il contraccolpo imperiale. Ma se l’Impero
è il negativo della creatività della moltitudine ossia consiste in quei processi contemporanei di espropriazione e di privatizzazione che bloccano il passaggio dalla
possibilità all’esistenza del comune, allora il doversi dare un progetto politico per
non farsi catturare dai nuovi regimi di controllo e di sfruttamento, non si pone
in un primo momento come un “contro”, dunque a sua volta necessariamente in
negativo, nei confronti della negazione imperiale, e perciò come una negazione
della negazione? Non si riproporrebbe così, inevitabilmente, una fase di transizione, assomigliante alla classica dittatura del proletariato nel corso della quale
si estinguono quelli che Hardt e Negri chiamano i dispositivi identitari familiari, nazionali, razziali, sessisti e classisti, e a cui segue l’incessante produzione
costituente delle forme positive del comune, quali l’accesso libero, gli incontri
lieti e l’amore? Dunque non si riproporrebbe piuttosto in qualche modo quella
“transizione nella forma del comunismo” da Negri rifiutata? Certo, imparando
anche dagli errori o semplicemente dai limiti delle esperienze di soggettivazione
del secolo scorso, una nuova fase di “transizione nella forma del comunismo”
sarebbe da attraversare, servendoci di parole che Hardt e Negri riserverebbero
invece al “comunismo nella forma della transizione”, con la pratica di un terrore
che «anche Saint-Just e i suoi sanguinari partner non potevano immaginarsi»93,
dato che in tale fase si dovrebbe avere parimenti una «mostruosa autopoiesi»94
che la soggettività comunista fa per liberarsi delle politiche identitarie, di gene-
Ivi, p. 369.
Ivi, p. 368. Non posso qui affrontare i temi del “mostro” e del “mostruoso” in Hardt e Negri,
in relazione alla loro concezione della differenza tra il “fuori misura” del biopotere imperiale e
l’“oltre misura” del comune e delle singolarità che caratterizzano la produttività biopolitica della
moltitudine.
93
94
406
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
re, razza, famiglia, classe e nazione, quindi un terrore che la soggettività deve
esercitare anche su se stessa ossia sulla riproduzione, sempre in agguato, di quei
dispositivi che si vorrebbero distruggere. Ma in ogni caso non si riproporrebbe,
a dispetto, dentro lo stesso ragionamento di Hardt e Negri, quella dialettica che
essi negano ritenendola proiettiva, oggettivistica e tale che fa uscire la soggettivazione (socialdemocratica, comunista terzinternazionalista, eterodossa, trotzkista
ecc.) dalle contraddizioni oggettive del capitale? E questa nemesi della dialettica
non dimostrerebbe che la soggettività proletaria in fieri non la si può concepire
così autonoma e autosufficiente che sembra uscire dal nulla?
7. La “necessità” non è “oggettivismo”: la soggettività rivoluzionaria comunista
come risultato della contraddizione del capitale con se stesso
Io non penso che ci sia un’alternativa secca tra il concentrarsi sulle contraddizioni dello sviluppo del capitale e il concettualizzare la soggettività, anzi ritengo
che mettere in connessione i due momenti permetta di centrare meglio proprio la
questione della soggettività stessa, nonché di ovviare alle insufficienze che Hardt
e Negri reclamano a proposito delle vecchie analisi dell’imperialismo. Messe così
le cose, la linea retta del discorso di Lenin non ha nessuna curva misteriosa perché la soggettività rivoluzionaria antimperialistica, che costituirebbe il mistero
di tale curva, è una forma storicamente determinata di «attività sensibile umana,
prassi»95, come scrive Marx nella prima delle Tesi su Feuerbach, e perciò è «attività
oggettiva (gegenständliche)»96. E poiché, a sua volta, «l’oggetto (Gegenstand)»97 è la
suddetta attività sensibile umana ovvero la prassi, dunque esso è concepito «soggettivamente»98 e non come oggetto (Objekt) dell’«intuizione sensibile (sinnliche
Anschauung)»99, nel senso in cui invece lo intende Feuerbach, possiamo dire che
lo sviluppo storico è l’oggettivazione dell’attività degli individui che producono
e riproducono il processo della loro vita reale, e lo fanno socialmente ossia entro
rapporti di produzione adeguati al grado di sviluppo delle loro forze produttive
materiali, essendo la produzione «sempre […] produzione a un determinato livel-
95
96
97
98
99
MEOC, vol. V, p. 3.
Ibid.
Ibid.
Ibid.
Ivi, p. 626.
407
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
lo dello sviluppo sociale – […] produzione di individui sociali»100. Nelle epoche
storiche in cui i rapporti sociali assumono la forma dell’antagonismo tra produttori e proprietari dei mezzi di produzione, e nella misura in cui tali rapporti vengono universalmente mediati dal valore di scambio e dal denaro, i quali, da un
lato, creano l’universale dipendenza reciproca tra i produttori, perché ciascuno di
essi produce per altri onde ottenere per sé i mezzi di sussistenza, e, dall’altro lato,
creano il loro isolamento individuale come produttori privati: in tali epoche, ma
soprattutto nella fase culminante di questo sviluppo fondato sulla proprietà privata, questi rapporti sociali si presentano operanti alle spalle degli stessi individui
che li hanno creati, quindi come un’oggettività a se stante, separata, estraniata,
alienata dai suoi stessi soggetti. Ma questa separazione è la conseguenza del fatto
che con il crescere delle forze produttive materiali della società, i suoi soggetti,
ossia gli individui, a un determinato grado di questo sviluppo, si sono dati inconsapevolmente un’organizzazione sociale fondata sulla divisione del lavoro, da
cui deriva la proprietà privata: qui «i loro rapporti si rendono autonomi contro di
loro […]. Le potenze della loro stessa vita diventano strapotenti contro di loro»101,
cosicché nascono rapporti antagonistici di sfruttamento, dominio e sottomissione tra un individuo e un altro. Ma in realtà «gli individui sono sempre partiti da
se stessi, prendono sempre le mosse da se stessi. I loro rapporti sono rapporti del
loro reale processo di vita»102, ragion per cui quest’autoestraneazione che a un
certo punto fanno tra loro stessi, da un lato, e i rapporti del loro reale processo di
vita, dall’altro, è relativa solo a una fase dello sviluppo delle loro forze produttive
materiali a cui sono adeguate la divisione del lavoro e la proprietà privata. E di
conseguenza, una volta che le forze produttive e i bisogni degli individui avranno raggiunto un ulteriore e determinato grado di sviluppo, anche questa fase
dell’organizzazione della società basata sulla divisione del lavoro e sul rapporto
di proprietà privata può essere superata insieme alla scissione tra gli individui e
i rapporti del loro reale processo di vita, mentre subentra «il lavoro individuale
posto realmente come lavoro sociale e viceversa»103.
Di questo sviluppo storico antagonistico dell’attività umana sensibile, quindi del soggetto inteso come attività oggettiva ovvero dell’oggetto (Gegenstand)
100
101
102
103
MEOC, vol. XXIX, p. 18.
MEOC, vol. V, p. 79.
Ibid.
MEOC, vol. XXIX, p. 195.
408
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
inteso soggettivamente, abbiamo sopra considerato l’ultima fase, quella relativa
all’era capitalistica, complessivamente scandita nelle sue due forme caratteristiche
di espropriazione: la prima, sviluppatasi nell’Europa occidentale postfeudale e
diretta contro il lavoratore indipendente che lavora per sé; e la seconda, successiva, diretta contro il capitalista che sfrutta molti lavoratori, e coincidente col
pieno sviluppo del mercato mondiale e con l’internazionalizzazione del regime
capitalistico. Come abbiamo visto, la prima forma capitalistica di espropriazione
trasforma i lavoratori indipendenti della piccola azienda, proprietari individuali
privati dei mezzi di produzione, in proletari ossia non più proprietari di tali mezzi
ma solo proprietari della loro personale forza-lavoro, che essi sono liberi di vendere; e trasforma i mezzi di produzione individuali dispersi in mezzi di produzione
socialmente concentrati, i quali diventano capitale poiché questa trasformazione
avviene mediante un’espropriazione fatta da non-lavoratori che sfruttano lavoro
altrui, dunque questa socializzazione dei mezzi di produzione si svolge ancora dentro un rapporto di proprietà privata. La seconda forma capitalistica di
espropriazione, che si ha appena il modo di produzione capitalistico si sviluppa non più con la violenza dell’accumulazione originaria che ne caratterizza la
prima fase, ma secondo le sue leggi interne, apparentemente pacifiche, produce
un’ulteriore socializzazione dei mezzi di produzione, compresa la terra. Questi
diventano mezzi di produzione sfruttabili solo in comune, la produzione stessa
avviene sempre più grazie all’applicazione tecnica della scienza, l’agricoltura si
svolge sempre più in modo pianificato e tutti i popoli vengono coinvolti sempre
più nel mercato mondiale.
Ora, è a questo punto che Marx espone in forma dialettica il passaggio antagonistico del capitalismo nel porsi reale del lavoro individuale come lavoro
sociale e viceversa. Egli scrive:
Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della
miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma
cresce anche la ribellione della classe dei lavoratori che sempre più s’ingrossa, ed essa è
disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione
capitalistico. Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è
sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e
la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col
loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ora della proprietà privata
capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati. Il modo di appropriazione capitalisti-
409
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
co, che nasce dal modo di produzione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, sono la prima negazione della proprietà individuale, fondata sul lavoro personale.
Ma la produzione capitalistica genera, con l’ineluttabilità di un processo di natura, la
propria negazione. È la negazione della negazione. E questa non stabilisce di nuovo la
proprietà privata, ma la proprietà individuale sul fondamento delle conquiste dell’era
capitalistica, sulla cooperazione e sul possesso comune della terra e dei mezzi di produzione
prodotti dal lavoro stesso104 .
La forma dialettica in cui Marx fa l’esposizione della tendenza storica dell’accumulazione capitalistica, mostra chiaramente come il processo di formazione
della soggettività rivoluzionaria, vale a dire la ribellione della classe dei lavoratori,
si sviluppi dalla contraddizione “oggettiva” del capitale tra forma esclusivamente
cooperativa del lavoro, che viene, così, socializzato su larga scala, ingrossamento
della massa dei lavoratori, loro unione, disciplinamento e organizzazione che si
crea nello stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico, da un lato,
e crescita della massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione e dello sfruttamento, dall’altro. La cosiddetta oggettività dello sviluppo – che qui assume forma massimamente antagonistica –, insomma l’oggetto
(Gegenstand), è attività sensibile umana, prassi, ossia attività oggettiva: quindi
l’oggetto è esso stesso soggetto in quanto attività, e viceversa il soggetto è oggettivo in quanto l’attività, ovvero il soggetto, non è intesa nel senso dell’astratta
attività dell’autocoscienza, come fa l’idealismo in opposizione al materialismo.
Infatti nell’Europa occidentale all’inizio dell’epoca moderna ci sono il contadino
libero e l’artigiano, vale a dire ci sono dei lavoratori come proprietari privati dei
loro mezzi di produzione individuali. La loro attività è oggettiva nella forma sociale della piccola azienda autonoma, dunque nel rapporto sociale della proprietà
individuale privata, che è unità immediata di lavoratore e mezzo di produzione,
comprendente sia il mezzo di lavoro in senso stretto sia il mezzo di sussistenza;
dunque è unità immediata di uomo come capacità lavorativa (soggetto) e natura come materiale che compone i mezzi di lavoro e di sussistenza (oggetto)105.
104
MEOC, vol. XXXI, p. 838.
In altra forma quest’unità immediata tra lavoratore e mezzo di produzione è presente anche
nei modi di produzione fondati sulla schiavitù e sulla servitù della gleba, dunque nel rapporto
antagonistico di proprietà privata dove il non lavoratore è proprietario dei mezzi di produzione.
In queste forme antagonistiche di proprietà privata «l’opposizione fra non-proprietà e proprietà
è un’opposizione ancora indifferente, non colta nella sua relazione attiva, nel suo rapporto in-
105
410
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
Nell’esposizione che il cervello fa del movimento reale caratterizzante la tendenza storica dell’accumulazione capitalistica, la produzione fondata sulla piccola
azienda costituisce il primo momento, la tesi. Invece il modo di produzione capitalistico così come si forma e si sviluppa nell’Europa occidentale all’inizio della
modernità, costituisce dialetticamente l’antitesi della proprietà privata individuale, fondata sull’unità immediata di lavoratore individuale e mezzo di produzione,
uomo e natura, soggetto e oggetto. Con questa formulazione dialettica generale
si sta esponendo un movimento reale, ossia costituito da «oggetti (Objekte) sensibili, realmente distinti dagli oggetti del pensiero (Gedankenobjekte)»106, così come
li vuole Feuerbach, il quale però, poiché «non concepisce l’attività umana stessa
come attività oggettiva (gegenständliche) […], non comprende, di conseguenza,
il significato dell’attività “rivoluzionaria”, “pratico-critica”»107. Questa forma di
esposizione dialettica poggia, dunque, su una reale distinzione tra oggetti sensibili e oggetti del pensiero e perciò è nettamente differente dalla dialettica idealistica
sistematicamente esposta da Hegel, il quale «cadde nell’illusione di concepire il
reale come risultato del pensiero che si riassume e si approfondisce in se stesso
e che si muove per energia autonoma»108. Ma l’oggetto del pensiero è prodotto
con un movimento opposto a quello dell’oggetto reale, perché il pensiero procede dall’astratto al concreto come sintesi e risultato del processo logico, mentre
l’oggetto reale è un concreto già sviluppato che preesiste al pensiero, il quale se
ne appropria nel solo modo in cui lo può fare, vale a dire andando dal semplice
al complesso e avendo così l’illusione che l’atto con cui esso produce l’oggetto sia
l’atto stesso di produzione dell’oggetto reale e non del suo oggetto proprio, cioè
terno, e non ancora come contraddizione, finché non è concepita come opposizione di lavoro e
capitale» (MEOC, vol. III, p. 320), opposizione che costituisce la proprietà privata stessa intesa
«come sviluppato rapporto di contraddizione e perciò rapporto energico, motivo di risoluzione»
(ivi, p. 321). Quindi in ogni caso l’instaurazione del modo di produzione capitalistico consiste
in dei «processi storici attraverso i quali è stata dissolta la combinazione originaria tra mezzi di
produzione e forza-lavoro; processi in seguito ai quali la massa del popolo, i lavoratori come non
proprietari, e i non lavoratori come proprietari di questi mezzi di produzione, stanno gli uni di
contro agli altri. Né ha importanza se la combinazione, prima di essere disgregata, possedesse
una forma tale per cui il lavoratore stesso quale mezzo di produzione facesse parte degli altri
mezzi di produzione, ovvero ne fosse egli il proprietario» (K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro secondo, tr. it. di R. Panzieri, Roma 1994, p. 37).
106
MEOC, vol. V, p. 3.
107
Ibid. (Ho leggermente modificato la traduzione; cfr. MEW, Bd. 3, p. 5).
108
MEOC, vol. XXIX, p. 34.
411
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
del concreto del pensiero umano. Ma questo fatto che l’oggetto reale è distinto dall’oggetto del pensiero, il quale, perciò, non può in alcun modo produrre
la realtà stessa, significa che il pensiero «purtroppo riceve soltanto un impulso
dall’esterno»109, quindi che l’oggetto del pensiero è certamente un prodotto del
pensiero, ma «in nessun caso è […] un prodotto del concetto che pensa al di
fuori o al di sopra dell’intuizione e della rappresentazione e che genera se stesso,
bensì un prodotto dell’elaborazione in concetti dell’intuizione e dell’immagine»110. L’oggetto ossia il concreto del pensiero è un prodotto del pensiero distinto
dall’oggetto reale, ma non nel senso di un’assoluta autonomia del concetto inteso
come se esso fosse un ente a se stante, bensì come modo specifico in cui il pensiero umano si appropria della realtà. Questo modo di appropriarsi del mondo reale
da parte del pensiero è diverso dal modo in cui se ne appropriano l’arte mediante
l’intuizione o la religione mediante la rappresentazione, ed è diverso anche dal
modo di appropriazione «pratico-spirituale»111. In ogni caso, tuttavia, «il soggetto
reale continua a sussistere, prima e dopo, nella sua autonomia al di fuori della
mente; finché cioè la mente mantiene un atteggiamento soltanto speculativo,
soltanto teorico. Anche nel metodo teorico, il soggetto, la società, deve quindi
costantemente esser presente alla rappresentazione come presupposto»112. Va qui
notato come l’oggetto sensibile, realmente distinto dall’oggetto del pensiero, sia
concepito da Marx come soggetto e che di conseguenza anche la società, in cui
consiste l’essere dell’uomo, sia concepita tale, cioè nella determinazione di attività sensibile umana, della prassi. Questa determinazione Feuerbach non coglie,
giacché egli concepisce l’uomo e il suo carattere, anche per lui essenzialmente sociale, nella forma dell’intuizione sensibile. Invece Hegel, il quale, a differenza di
Feuerbach, coglie il carattere attivo dell’uomo, concepisce però l’attività sensibile
umana come attività dell’autocoscienza, ossia come un’astrazione che prende vita
propria e di cui le determinazioni storiche sono solo figure in cui essa si oggettiva
e, oggettivandosi, in ogni caso si aliena per poi revocare questa sua alienazione,
in uno con il suo stesso essersi oggettivato, e confermarsi così come quello che è
fin da principio, vale a dire come attività dell’autocoscienza, dunque come attività sostanzialmente spirituale. Osserva infatti Marx: «Come […] l’ente, l’oggetto,
109
110
111
112
Ibid.
Ivi, p. 35.
Ibid.
Ibid.
412
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
in quanto ente di pensiero, è sempre coscienza o autocoscienza, così lo è anche il
soggetto; o piuttosto l’oggetto appare soltanto come astratta coscienza, l’uomo
soltanto come autocoscienza, e le diverse forme di alienazione che compaiono»113
– vale a dire tutto il processo storico della vita sociale degli uomini, i diversi modi
di produzione, le forme storiche antagonistiche che essi assumono a un certo
punto, le differenti e determinate forme di dominio di un uomo su un altro, la
lotta dei dominati per la loro emancipazione, la soppressione rivoluzionaria delle
forme antagonistiche di produzione ecc. – «sono […] soltanto figure variate della
coscienza e dell’autocoscienza»114. Con queste premesse, è chiaro allora che «alla
coscienza per la quale il pensiero intelligente è l’uomo reale e di conseguenza
solo il mondo pensato è, in quanto tale, il reale, – e la coscienza filosofica è così
determinata, – il movimento delle categorie appare quindi come il reale atto di
produzione [...] il cui risultato è il mondo»115.
Con queste precisazioni, possiamo adesso tornare al nostro “oggetto” (Gegenstand), inteso come attività sensibile umana, prassi, dunque come “soggetto”, il
quale “continua a sussistere, prima e dopo, nella sua autonomia al di fuori della
mente”, ossia possiamo tornare alla “società che deve costantemente esser presente alla rappresentazione come presupposto” e da cui “purtroppo” la cosciente
esposizione dialetticamente pensante riceve impulso. Ebbene,
appena entra in ballo la questione della proprietà, diventa sacro dovere l’attenersi saldamente all’abbiccì come unica cosa valida per tutte le classi d’età e tutti i gradi di sviluppo. Nella storia effettuale il ruolo importante è giocato, come è noto, dalla conquista,
dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza116.
All’inizio dell’era capitalistica la violenza fu esercitata contro i lavoratori diretti, proprietari dei mezzi di produzione, che vennero così rapinati da «cavalieri
dell’industria»117, i quali «riuscirono a soppiantare i cavalieri della spada soltanto
sfruttando avvenimenti dei quali erano del tutto innocenti. Essi si sono affermati
con mezzi altrettanto volgari di quelli usati un tempo dal liberto romano per farsi
113
114
115
116
117
MEOC, vol. III, p. 360.
Ibid.
MEOC, vol. XXIX, p. 34.
MEOC, vol. XXXI, p. 788.
Ivi, p. 789.
413
Giuseppe Antonio Di Marco. Il lavoro della talpa
signore del proprio patrono»118. Il momento dialettico della negazione è il modo
con cui la mente si appropria della “storia effettuale” soggettivo-oggettiva della
prima fase dell’espropriazione, che istituisce l’epoca capitalistica in Europa occidentale, ossia dell’espropriazione violenta dei lavoratori dai mezzi di produzione,
trasformando questi ultimi in capitale e i primi in lavoratori salariati, quindi sottomessi, ed espone tale storia effettuale «in maniera conveniente. Se questo riesce
e se la vita della materia si rispecchia ora idealmente, può sembrare che si abbia
a che fare con una costruzione a priori»119. E invece nell’apparente oggettivismo,
come probabilmente lo chiamerebbero Hardt e Negri, dei termini “antitesi” o
“negazione” si parla della «trasformazione della piccolissima proprietà di molti
nella proprietà colossale di pochi»120, di «questa terribile e penosa espropriazione
della massa della popolazione»121, che «costituisce la preistoria del capitale»122.
Come abbiamo visto, questa antitesi, caratteristica della prima fase della storia
capitalistica, si rafforza e si estremizza in una seconda fase storica, la quale permane sempre all’interno del rapporto di proprietà privata che ora si presenta non
più come proprietà privata del lavoratore su mezzi di produzione individuali,
bensì come proprietà privata di non lavoratori su mezzi di produzione socializzati
e sempre più socializzantesi; ma che è caratterizzata dall’espropriazione di molti
capitalisti a opera di pochi, dunque avviene tra sfruttatori all’interno stesso della
loro classe mediante la centralizzazione dei capitali, con la conseguenza che il
processo di lavoro assume forma cooperativa, il sapere sociale generale viene applicato immediatamente alla produzione, la terra viene sfruttata secondo un piano, tutti i mezzi di lavoro vengono trasformati in mezzi di lavoro utilizzabili solo
in comune, di modo che, attraverso questo lavoro sociale combinato, si può fare
economia dei mezzi di produzione, e, infine, le relazioni sociali divengono universali e fittissime grazie allo sviluppo del mercato mondiale capitalistico. Come
abbiamo visto altresì, questa è la fase culminante in cui la negazione si sviluppa
al massimo grado, vale a dire come contraddizione tra povertà, pressione, asservimento, degenerazione e sfruttamento di molti, da un lato, e appropriazione e
godimento dei vantaggi di questo processo di socializzazione da parte di pochi,
dall’altro lato. Ed è proprio questa negazione che crea le condizioni per essere a
118
119
120
121
122
Ibid.
Ivi, p. 21.
Ivi, p. 837.
Ibid.
Ibid.
414
9. La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero
sua volta negata. Tali condizioni derivano dall’unificazione dei lavoratori grazie
ai mezzi di comunicazione e dal loro disciplinamento e organizzazione grazie
alla socializzazione combinata dei processi lavorativi. Sono tutti effetti di cui «la
borghesia è l’agente involontario e passivo»123, e che vengono a costituire una base
per la ribellione della classe operaia, la quale può, così, espropriare i suoi espropriatori. Quest’espropriazione degli espropriatori da parte della classe operaia formatasi nell’epoca della centralizzazione dei capitali, chiude l’intera epoca capitalistica, iniziata in Europa occidentale con l’espropriazione dei lavoratori diretti,
proprietari di mezzi di produzione individuali, dunque con la distruzione della
proprietà individuale privata, e ristabilisce la proprietà individuale da cui si era
partiti. Ma questa volta la ristabilisce sulla base della socializzazione dei mezzi di
lavoro e della terra, preparata nelle due fasi capitalistiche successive di espropriazione, cioè, detto dialetticamente, nella fase della negazione di cui il comunismo
costituisce a sua volta la negazione. Il comunismo è negazione della negazione,
poiché la proprietà individuale da esso ristabilita non è più proprietà individuale
privata ma proprietà individuale e basta, dato che il pieno, ossia onnilaterale
sviluppo dell’individuo può esserci solo se esso dispone di mezzi di produzione
socializzati. Anche in questo caso, nella formula oggettivistica “negazione della
negazione” si parla di avvenimenti di storia effettiva, cioè, di nuovo, del “soggetto
reale, della società, che deve costantemente esser presente alla rappresentazione
come presupposto”: si parla, cioè, dell’autopoiesi della soggettività comunista, la
quale, essendo negazione della negazione, «non è […] il termine dell’evoluzione umana – la forma dell’umana società»124, ma è l’obiettivo di lavoro con cui
l’umanità sta pur sempre facendo i conti nelle sconfitte del secolo scorso e nelle
convulsioni capitalistiche del presente che tentano di occultare la contraddizione
fondamentale, vale a dire la guerra civile tra capitale e lavoro salariato, sempre
minacciosa sotto la cenere del sempre più disordinato “ordine” mondiale.
Ivi, p. 839. Questa è una citazione in nota che Marx fa dal Manifesto del Partito comunista,
scritto da lui e da Engels.
124
MEOC, vol. III, p. 334.
123
415
Università degli Studi di Napoli Federico II
Pensata come un percorso lento e inesorabile di critica all’ideologia del mondo borghese, la presente raccolta si articola in tre
sezioni. La prima, Mistificazioni: politica e religione, è dedicata alla filosofia. È nella filosofia del suo tempo infatti che Marx
trova gli strumenti teorici per sviluppare quella sua critica della
società borghese, materialista, dialettica e per questo rivoluzionaria. Nella seconda sezione, Crisi: riforme e conflitti, la teoria
di Marx diventa un metodo d’analisi del presente, un potente
apparato epistemologico che permette di far luce sul carattere
intrinsecamente contraddittorio della società capitalistica contemporanea. L’ultima sezione, Globalizzazione: resistenza e lotta, ricostruisce l’approccio di Di Marco alla questione “politica”.
Qui la sua interpretazione dell’opera di Marx è filtrata dal rapporto con la tradizione dell’operaismo italiano al quale l’autore
riconosce il merito di aver posto l’accento sulla soggettività rivoluzionaria, trovando tuttavia problematico il suo progressivo
allontanamento dal nucleo dialettico del marxismo. È nella necessità di ristabilire il centro della critica marxiana della realtà
nel conflitto capitale-lavoro che può essere individuato il filo conduttore dell’impegno marxiano di Giuseppe Antonio Di Marco il
quale, convinto dell’attualità e utilità delle categorie marxiane,
le mette alla prova delle contraddizioni e della conflittualità del
tempo presente.
Giuseppe Antonio Di Marco ha insegnato Filosofia della storia all’Università di Napoli Federico II, dove ha formato generazioni di studiosi
dedicando la propria attività a un continuo e generoso impegno didattico. Partendo dalla teologia dialettica di Barth e Bultmann, il suo lavoro scientifico si è soffermato sul pensiero di Max Weber e in seguito
su quello di Carl Schmitt. All’opera di Marx ed Engels Di Marco ha
dedicato gli ultimi vent’anni di insegnamento e ricerca, trovando in
questi autori la possibilità di dare risposte alla crisi dell’epoca contemporanea.
ISBN: 978-88-6887-046-1
DOI: 10.6093/978-88-6887-046-1