Editoriale
Davide Lacagnina
Con questo numero, a due anni dalla sua ‘riemersione’ in una nuova
edizione digitale, «La Diana» transita, con i suoi primi quattro fascicoli, sulla piattaforma FUP-Firenze University Press | USiena Press: è
l’esito naturale del progetto di collaborazione tra i due atenei toscani
di Firenze e di Siena varato quest’anno per la realizzazione di pubblicazioni scientifiche in co-edizione. L’obiettivo è quello di promuovere l’editoria universitaria in modalità open-access e di potenziarne la
presenza, la visibilità e l’accessibilità sulla rete, sui principali motori di ricerca e sugli OPAC delle biblioteche di settore. Un passaggio
obbligato, dunque: per raggiungere una platea sempre più ampia di
ricercatori, studiosi e cultori della materia e anche per mettere alla
prova, in questo modo, la tenuta della nostra proposta, nell’agone più
competitivo (e inevitabilmente però anche più ‘dissipativo’) delle pubblicazioni on-line, per consolidarne missione e identità. Per tali ragioni
l’infrastruttura informatica della rivista è stata riconfigurata sul web
per rendere più agevole la comunicazione e l’interazione tra redazione,
comitato scientifico, referees, potenziali autori e lettori e ogni singolo
contributo è stato provvisto di tutto quel bagaglio di dotazioni tecniche e di informazioni complementari strumentali alla metadatazione
dei testi e quindi alla loro piena intelligibilità come oggetti editoriali
digitali, nelle specificità dei loro contenuti e della loro forma (Studi,
Contributi, Note e Recensioni). Confidiamo nel buon esito dell’operazione come ulteriore occasione di crescita della rivista e della comunità
accademica della Scuola di Specializzazione in Beni Storico Artistici
dell’Università degli Studi di Siena, che la promuove e la realizza in
ogni suo aspetto. È anche questo un modo per rilanciare e tentare di
irrobustire il progetto formativo della Scuola e il riconoscimento delle
competenze scientifiche e professionali a cui essa prepara, ancora oggi
da più parti scarsamente considerate quando non del tutto rimosse.
È ancora di quest’estate, infatti, la polemica fra la Consulta universitaria nazionale degli storici dell’arte, la Società italiana di storia della
critica d’arte e Massimo Osanna, Direttore generale dei Musei del Ministero della Cultura, sulla commissione nominata dal Ministro Gennaro Sangiuliano chiamata a selezionare i nuovi direttori di dieci importanti musei italiani. In una lettera aperta al Ministro e al Direttore
DOI 10.36253/ladiana-2378
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generale dello scorso 25 luglio CUNSTA e SISCA, congiuntamente,
hanno lamentato la presenza della disciplina in maniera così marginale
agli equilibri di una commissione composta in tutto da cinque membri, fra cui due archeologi (e due sono i musei archeologici ricompresi
nello stesso bando: Taranto e Reggio Calabria), un docente di diritto
privato (individuato come presidente della commissione), un docente
di economia e tecnica dei materiali finanziari (questi ultimi due, nel
parere delle due associazioni, senza particolari competenze nel settore
dell’amministrazione e dell’economia del patrimonio culturale) e un
solo storico dell’arte, a fronte della natura prettamente storico-artistica
della maggior parte delle collezioni in causa (Uffizi, Brera, GNAM,
Capodimonte, Gallerie Estensi, Gallerie nazionali d’arte antica, Galleria nazionale dell’Umbria, Museo nazionale d’Abruzzo). Inoltre,
l’unico storico dell’arte in commissione è un dirigente del Ministero
della Cultura: circostanza giudicata ‘critica’ dalle due associazioni, in
ragione delle dinamiche top-bottom che hanno ispirato già in passato la
ratio della selezione dei ‘super-direttori’ voluti dal precedente Ministro
Dario Franceschini, rispetto se non altro a quel principio di terzietà
così gravemente compromesso dai larghi margini di discrezionalità lasciati al Ministro o al Direttore generale per competenza, che potranno individuare in ultima istanza, e in maniera unilaterale e verticistica, i nuovi direttori all’interno di una rosa di tre nomi proposti dalla
commissione per ciascun incarico. Il timore, paventato nella lettera
delle due consulte, è che un dirigente del Ministero (in commissione
anche un altro Direttore generale) possa assumere a priori, anche in
totale buona fede, e persino naturaliter, senza ingerenze o pressioni, la
linea di condotta – anche politica in tutta evidenza (e si confida nella
sua accezione più alta e nobile, senza alcuna ipocrisia) – che si vorrà
adottare in occasione delle nuove nomine, in quanto rappresentante
del Dicastero che da ultimo dovrà decidere nel merito, onorando così,
in maniera ineccepibile (e incontestabile), il patto fiduciario che lo lega
all’istituzione presso cui presta servizio.
Il titolo semplificatorio e maliziosamente tranchant dell’intervista di
Antonio Ferrara su «la Repubblica» dello scorso 28 luglio, cui era stata
affidata la replica del Direttore Osanna, I musei sono aziende e hanno bisogno di manager, assecondava la logica tutta giornalistica dello scontro
ideologico, esacerbando in premessa la rappresentazione – infondata e
invero del tutto inutile, se non controproducente – di un dibattito polarizzato tra accademici parrucconi e lungimiranti policy-makers, con
una visione chiara dello stato di salute dei nostri musei e dei rimedi
necessari per il loro ‘efficientamento’ (magari….!). Per fortuna, Osan-
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na – stimato studioso, già apprezzato direttore del Parco Archeologico
di Pompei ed egli stesso professore ordinario di archeologia presso l’Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’ – chiariva nel testo dell’intervista che «i musei come luoghi della cultura […] si configurano
come piccole aziende e quindi hanno bisogno di figure complesse con
capacità anche manageriali per la direzione, unite alle competenze tecniche che da sole non bastano». C’è dunque nelle sue dichiarazioni un
salvifico anche – mio il corsivo – che stempera il contrasto e afferma
la necessità di affiancare capacità manageriali a competenze tecniche.
Naturalmente, non si può non essere d’accordo con un’affermazione di
questo tipo, fin troppo ovvia nella sua verità, ma rimane nondimeno
irrisolto il nodo problematico posto dalle due consulte: in che modo e
in che misura le capacità manageriali saranno valutate positivamente a
integrazione (o a discapito) delle competenze tecniche? Quale credito
potrà essere dato alle valutazioni ‘tecniche’ dell’unico storico dell’arte
in commissione, immaginando anche un confronto paritetico fra tutti
i membri che la compongono? E, soprattutto, basterà il bagaglio di
conoscenze di un solo storico dell’arte (e di due archeologi) per entrare nel merito di competenze così ampie e articolate su uno spettro
cronologico che va dalla tarda antichità all’età contemporanea qual è
quello rappresentato dai musei a bando? Considerato il carattere delle
loro collezioni, non sarebbe stato più opportuno rafforzare la presenza
in commissione di storici dell’arte con specializzazioni, background
ed esperienze professionali diversificate? E ancora: visto che due dei
tre ‘tecnici di settore’ sono interni al Ministero, e considerata l’enfasi
posta sul carattere di autonomia dei musei in concorso nel nuovo loro
assetto giuridico e finanziario voluto per essi dalla cosiddetta ‘Riforma
Franceschini’, non sarebbe stato più appropriato garantire anche nel
processo di selezione un’autonomia di giudizio svincolata da logiche e
dinamiche ministeriali?
Sono domande più che legittime, che non dovrebbero irritare, portare
al muro contro muro o alla polemica sterile, ma al contrario favorire il
dibattito pubblico. Non si tratta di difendere interessi corporativistici, quanto un principio di certezza della competenza specialistica che
muove in prima battuta – e non potrebbe essere altrimenti – dalla verifica di una rigorosa preparazione di base e da percorsi di formazione
ben definiti e fra loro opportunamente integrati: una laurea magistrale
in Storia dell’arte o una laurea comunque di ambito umanistico con
almeno una tesi d’argomento storico-artistico; una Specializzazione
in Beni Storico Artistici; un Dottorato in Storia dell’arte; accanto ad
altri corsi di perfezionamento o master su aspetti di management, co-
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municazione, fundraising, conseguiti in Italia o all’estero. Del resto,
i due titoli di terzo livello – Dottorato e Specializzazione – presuppongono necessariamente un’organica formazione storico-artistica di
secondo livello (nel caso dell’accesso alle Scuole di Specializzazione è
persino obbligatoria) e rappresentano due percorsi di formazione distinti e tuttavia complementari: nel primo caso, il focus di lavoro su
un unico argomento addestra alla ricerca e al raggiungimento di risultati innovativi e originali, tali da apportare un contributo significativo
alle conoscenze disciplinari e dunque alla storiografia di riferimento
e predisporre sviluppi di carriera soprattutto (ma non esclusivamente) in ambito universitario; nel secondo caso, l’obiettivo è forse più
ambizioso e mira ad affinare le competenze disciplinari e ad acquisirne di nuove, specie nell’ambito della conservazione (lo studio delle
tecniche e dei materiali delle opere e delle metodologie di intervento
su di esse), della gestione (economica e amministrativa), della comunicazione e quindi della valorizzazione del patrimonio, sul fronte sia
dell’amministrazione pubblica che dell’azione privata, secondo le indicazioni contenute nel D.M. 524 del 31 gennaio 2006. Il decreto, che
ripensava in maniera radicale gli ordinamenti didattici delle Scuole
di Specializzazione nel settore del patrimonio culturale, era l’esito di
una valutazione congiunta operata allora dal Ministero della Cultura e
dal Ministero dell’Università e presto però rimasta lettera morta nelle
sue applicazioni e nelle sue ricadute nel settore dell’Amministrazione
Pubblica: premesse e propositi ottimali e oggi tuttavia largamente da
rivedere (cfr. Editoriale, «La Diana», 3, 2022).
La controversa composizione della commissione di questo ultimo concorso riflette in realtà l’aleatorietà del bando che l’ha determinata e più
in generale l’incertezza che sembra ormai da tempo innervare le politiche del patrimonio culturale. Il bando stesso infatti avrebbe dovuto
sollecitare alcune riflessioni a monte del più recente dibattito estivo
sulla composizione della commissione giudicatrice, proprio con riferimento all’assenza di titoli di studio specialistici fra i requisiti richiesti
per la partecipazione. S’indica infatti solo una laurea generica, specialistica o magistrale, ovvero di vecchio ordinamento, o titolo equipollente conseguito all’estero, senza alcun riferimento a una classe di laurea
o a uno specifico indirizzo di specializzazione. Ergo, qualunque titolo
di studio – da una Laurea in Giurisprudenza a una in Economia e
commercio o in Biologia – va bene, purché accompagnato da adeguate
esperienze professionali. Seguono allora, nel bando, i criteri che definiscono la «qualificazione professionale richiesta in materia di tutela
e valorizzazione dei beni culturali» e comprovata dalla sussistenza di
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almeno due requisiti: la responsabilità di «incarichi gestionali presso
aziende private o amministrazioni pubbliche, in Italia o all’estero, da
cui possano desumersi le spiccate doti manageriali in materia di patrimonio culturale» e/o il «possesso di una particolare specializzazione
professionale, culturale e scientifica in materia di patrimonio culturale desumibile da concrete esperienze di lavoro maturate, per almeno
un quinquennio, anche presso amministrazioni pubbliche, in Italia o
all’estero» (Ministero della Cultura, Bando internazionale per i Direttori dei musei italiani, 16 giugno 2023, art. 2, comma 1, lettere d) ed
e), punti 1 e 2).
Risulta evidente che l’esperienza professionale è premiante e primariamente – sembrerebbe, leggendo il bando – quella maturata nel settore privato e solo in subordine o oppure anche in amministrazioni
pubbliche. Nessuno scandalo, naturalmente, per le collaborazioni nel
privato e per la valorizzazione di competenze maturate anche in ambiti
d’intervento strategico per la valorizzazione del patrimonio (le società
di servizi, l’editoria, le fondazioni di diritto privato, la comunicazione
culturale…) ma forse alle pregresse esperienze nella PA andava accordato un rilievo maggiore, visto che si tratta di musei statali che esigono
un bagaglio di conoscenze – normative, procedurali, contabili – che
non necessariamente possiede chi ha lavorato nel privato. Altra (e più
dolorosa) considerazione: la «particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica in materia di patrimonio culturale» (ovvero
titoli di studio, pubblicazioni, curatele, organizzazione di convegni,
partecipazione a progetti di ricerca ecc.) rimane un dato opzionale,
essendo uno dei due requisiti attesi in alternativa a dimostrare la «qualificazione professionale richiesta in materia di tutela e valorizzazione
dei beni culturali». Ne consegue, ahinoi, non solo che «le competenze
tecniche […] da sole non bastano», ma persino che esse non servono:
un segnale non proprio incoraggiante per chi sta investendo tempo e
risorse in un progetto di formazione indirizzato a uno specifico ambito
professionale, dai confini sempre più sfuggenti e arbitrari.
Un buon ‘manager’ del patrimonio culturale – se deve essere questo il
ruolo imposto al direttore di un museo nel discorso corrente, più demagogico e à la page – va soprattutto valutato sulla sua capacità di dare
forma e contenuti a progetti culturali originali e interessanti, di elaborare proposte qualificate in linea con l’identità e la missione del museo
da lui diretto e di tradurre queste proposte in occasioni di crescita per
il museo e per le sue collezioni, avendo come primo e più importante
interlocutore la comunità cui offre i propri servizi e con cui deve essere
costantemente in dialogo. Come è possibile tutto questo se non a par-
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tire da una profonda conoscenza del patrimonio conservato nel museo
che un direttore è chiamato a dirigere? Ogni strategia ‘manageriale’
di valorizzazione di quel patrimonio non può che fare i conti con la
sua specificità e con la familiarità con essa che un direttore può dimostrare nel proprio curriculum, soprattutto culturale e scientifico, prima ancora che gestionale: nelle pubblicazioni realizzate, nelle ricerche
intraprese, nei contenuti prodotti, negli approfondimenti affrontati,
nei progetti messi in opera. Diversamente, dovremmo ammettere il
paradosso per cui ogni strategia ‘manageriale’ vale sempre e comunque
allo stesso modo per ogni museo, che sia d’arte antica, moderna o contemporanea, che abbia una collezione legata soprattutto al territorio su
cui insiste o al contrario una vocazione nazionale e internazionale, per
statuto e storia dell’istituzione. Su questa falsariga dovremmo riconoscere che mostre e iniziative, magari di circuito e pronte per l’uso, funzionano ugualmente a ogni latitudine e che possono essere replicate
dappertutto con minime varianti, assecondando prassi standardizzate,
che aggirano ogni principio di originalità e puntano al massimo risultato con il minimo investimento.
La storia ci insegna il contrario (ogni museo è un mondo a sé) e ha
dimostrato che le logiche meramente speculative dei ‘giacimenti culturali’ e del ‘petrolio d’Italia’ sono risultate fallimentari già nel breve e nel
medio termine. Estranee alla definizione di museo, così come approvata
da ICOM nell’assemblea generale del 24 agosto 2022 a Praga nella sua
nuova e più attuale formulazione, esse soccombono di fronte all’idea di
un’istituzione senza scopo di lucro – not-for-profit (!), se può suonare
più chiaro in inglese –, al servizio della società, accessibile e inclusiva,
che promuove la diversità e la sostenibilità e implica necessariamente
pratiche di gestione e di comunicazione che si vogliono etiche e professionali e assolvono le funzioni primarie della ricerca, della conservazione, dell’interpretazione e dell’esposizione del patrimonio. Tutto ciò implica altissimi livelli di consapevolezza storica e critica che non possono
essere improvvisati e vanno considerati realmente tali solo se coltivati
in anni di studio e di ricerca. Per questo, il valore di un titolo di studio
specialistico e la conseguente esperienza curriculare devono rimanere
centrali a ogni processo di selezione, a monte di ogni politica culturale
coerente, lungimirante e coraggiosa. D’altronde, le iniziative museali
di maggior successo – riallestimenti, esposizioni, aperture straordinarie, programmi pubblici – anche a livello internazionale, dal Prado di
Madrid al MoMA di New York – sono state sempre condotte dai più
accreditati specialisti del settore e da squadre di supporto composte da
profili professionali diversi (amministrativi, architetti, designer, addetti
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stampa, social-media manager, sponsor, mecenati, esperti di didattica
dell’arte, ecc.) con cui saper dialogare in maniera proficua.
Pensare di condensare tutte questa professionalità in unico profilo, per
quanto di alta qualificazione, significa nascondersi dietro a un dito e
non considerare le reali necessità, in termini di risorse umane e di investimenti economici, che da anni il nostro patrimonio reclama a gran
voce. Si pensi alla sola situazione attuale della GNAM, tra i musei a
concorso, svuotatasi negli ultimi anni di buona parte del personale tecnico-scientifico in servizio, tra pensionamenti e trasferimenti, che nessun ‘super-direttore’ potrà mai sostituire pienamente. Accanto a una
più oculata politica di reclutamento e di programmazione dei turnover nelle diverse aree, fasce e livelli funzionali, sarà bene infatti iniziare a ragionare sulla separazione delle carriere e individuare almeno due
figure apicali, una scientifica e una amministrativa, per ogni istituzione culturale media e grande, in maniera tale da condividere gli oneri
di una gestione complessa, in dialogo e in sinergia, distinguendo tra
pianificazione culturale e amministrazione tout court e potendo altresì
contare su figure di supporto in entrambi i settori in misura adeguata
alle dimensioni del museo interessato e necessariamente rispondenti a
profili e percorsi di formazione differentemente caratterizzati. A questa
buona prassi puntano le Scuole di Specializzazione come la nostra che
intendono formare figure consapevoli delle proprie competenze e delle
proprie responsabilità e nello stesso tempo capaci di dialogare con professionalità diverse, tutte necessarie e complementari, ciascuna per il
proprio ambito specialistico d’intervento, al funzionamento ottimale
di quella straordinaria realtà che è il nostro patrimonio culturale.
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