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4. San Vincenzo al Volturno
Basilica Maior
Federico Marazzi, Marianna Cuomo
Le vicende architettoniche1
Federico Marazzi
La Basilica è un edificio a tre navate, ciascuna conclusa da un’abside, e privo di transetto. Contrariamente alla
maggioranza delle chiese medievali ha la facciata rivolta a oriente e le absidi a occidente, riproducendo così l’orientamento delle antiche basiliche paleocristiane di Roma, come San Pietro e San Giovanni in Laterano (fig. 1).
Atteso che in età carolingia l’edificio era privo di ingresso in facciata, l’accesso avveniva tramite una porta (ampia
m 3 ca.) aperta nel muro settentrionale, nel punto esattamente intermedio tra il muro di facciata e il presbiterio (fig.
2). Non è da escludere anche la presenza di un ingresso sul lato opposto, ma non vi sono dati archeologici certi sul
fatto che l’accesso attualmente visibile, posto presso l’abside meridionale, certamente funzionante nell’XI secolo,
si collochi in continuità con uno di data anteriore.
La navata centrale è separata dall’area presbiteriale da una pergula (fig. 3a). Questa, chiusa con lastre di marmo intercalate da pilastrini, era interrotta da un varco, posizionato a metà della sua lunghezza, che immetteva in
un breve andito dal quale ci si poteva avvicinare alla fenestella confessionis che guardava nella camera centrale
della cripta (fig. 3b) oppure accedere a due rampe di scale che conducevano al presbiterio rialzato al di sopra della
cripta stessa. La sistemazione dell’area presbiteriale, con pergula, cripta e rampe di accesso al presbiterio richiama
da vicino quella ipotizzata per l’antica basilica di San Pietro in Roma, secondo il modello messo in opera nella
costruzione della cripta anulare di papa Gregorio I. I vani della cripta erano coperti con lastre di pietra, similmente
a quanto realizzato in altri contesti coevi, come le cripte di Santa Prassede a Roma e di Santa Maria in Vescovio,
in Sabina2.
L’edificio ha una lunghezza complessiva di m 64,40, compresa la corda dell’abside maggiore, che si riducono
a m 57,44, esclusa quest’ultima. Tale misura corrisponde, quasi al centimetro, al doppio della larghezza della Basilica (m 27,96), il cui impianto è quindi costruito secondo un rapporto di 2:1.
Il passo della vita di Giosuè, all’interno del Chronicon Vulturnense, in cui si narra dell’edificazione di questo
edificio, fornisce, espresse in passus, le sue tre dimensioni. Considerando che ci sono note larghezza e lunghezza,
è possibile ricavarne che il passus utilizzato dal cronista corrisponde a m 1,795 (fig. 4). L’altezza di dodici passus,
dichiarata dal Chronicon, corrisponde perciò alla ragguardevole elevazione di m 21,54, al colmo delle travi della
nave centrale.
Le navate erano separate da due file di dodici colonne ciascuna, più due coppie di pilastri addossati rispettivamente alla facciata e alle absidi. Le colonne erano impostate su plinti costituiti da blocchi di calcare compatto e
questi, a loro volta, erano immersi entro setti continui di opera cementizia che percorrevano l’edificio in tutta la sua
lunghezza, dal muro di facciata sino ai muri che separano l’abside principale dalle laterali. Colonne, basi e capitelli
erano tutti di reimpiego. Purtroppo, lo spoglio sistematico di tutte le parti in alzato (e anche della maggior parte dei
plinti di sostegno alle colonne) avvenuto al momento dello smantellamento della Basilica, ha lasciato in situ solo
le basi delle prime due colonne del colonnato settentrionale e l’individuazione della tipologia dei fusti colonnari e
dei capitelli è stata possibile solo sulla base di pezzi erratici recuperati nell’area (figg. 5, 6).
In particolare, si è potuto appurare che le colonne impiegate erano costituite da fusti di granito bigio e rosa
(probabilmente posizionati in modo da alternare i due colori) dell’altezza complessiva presumibile di m 4,50 ca.
Quanto ai capitelli, nella Basilica sembra ne siano stati utilizzati due tipi: il primo, impiegato come coronamento
delle colonne, è in marmo proconnesio ed è databile al tardo III secolo d.C.; il secondo, probabilmente al di sopra
dei semipilastri che concludevano i colonnati, è rappresentato - almeno nel caso superstite - da un pezzo in marmo
lunense databile entro la prima metà del I secolo d.C.3
Le pareti perimetrali della Basilica erano realizzate con grandi blocchi parallelepipedi di travertino (dim. max.
cm 180x90x70), poggianti in fondazione su blocchi di calcare compatto. Sembra però abbastanza plausibile ipotizzare che, per le parti più elevate delle pareti, la tecnica a blocchi sia stata sostituita dall’impiego di bozzette di
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travertino di dimensioni più piccole.
Come si è precedentemente accennato, nel IX secolo l’accesso principale alla Basilica avveniva lateralmente,
sul fianco nord, tramite un ampio ingresso di circa m 3 di luce, collegato a una rampa che saliva verso il Colle della
Torre e con il Corridoio che proveniva dalla zona claustrale. Solo con le ricostruzioni dell’edificio e la realizzazione dell’atrio, tra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo, si realizza un ingresso in facciata, posto al centro della
navata mediana. La sua posizione è stata evidenziata nel corso dei restauri seguiti ai recenti scavi. Il fatto che la
chiesa non disponesse, nel IX secolo, di un’entrata frontale, non deve apparire particolarmente sconcertante, poiché, trattandosi di un edificio il cui uso prevalente era per le esigenze cultuali della comunità monastica, l’accesso
di maggiore importanza era proprio quello che metteva in collegamento con gli edifici claustrali. In periodo carolingio, almeno due altri casi rilevanti indagati archeologicamente, vale a dire quelli dei monasteri di Müstair, in
Svizzera4, e quello della Mittelzell di Reichenau5, sul lago di Costanza, in Germania, hanno mostrato l’adozione di
un’analoga soluzione, con la chiesa priva di accesso in facciata e posta in comunicazione con gli edifici claustrali,
piuttosto che con l’esterno del monastero.
La planimetria dell’aula basilicale a tre absidi e priva di transetto costituisce una tipologia che nell’Occidente
cristiano appare diffusa soprattutto nel corso della seconda metà dell’VIII secolo: i paralleli italiani più immediati
e calzanti sono quelli del San Salvatore di Brescia, databile nel corso del terzo quarto dell’VIII secolo6; di Santa
Maria Alta presso Valle, in Istria7, di Santa Maria in Cosmedin a Roma, databile al 781-782, sotto il pontificato
di Adriano I8. Anche i principali paralleli extraitaliani si trovano con importanti edifici della prima età carolingia,
come il St. Emmeram di Ratisbona9 e i Santi Salvatore e Maria a Werden10, datato intorno al 780 e la prima fase
del Duomo di Paderborn, in Westfalia, datata fra l’800 e l’82011.
Questi confronti rendono quindi plausibile la data di consacrazione della Basilica individuata dal Chronicon
Vulturnense nell’anno 808.
I pavimenti della Basilica furono realizzati tutti in opus sectile, con crustae di recupero da edifici di età antica12.
Le superfici sono purtroppo conservate solo in minima parte. Tuttavia, le impronte lasciate nei massetti di alloggiamento hanno consentito di comprendere sufficientemente bene l’articolazione degli schemi decorativi, che si sono
potuti riconoscere per poco meno della metà della superficie complessiva della Basilica (fig. 7).
Nella navata centrale il pavimento era organizzato in fasce longitudinali intersecate a 90° da fasce trasversali,
realizzate con lastre di marmo bianco, che andavano a formare campi rettangolari o quadrati (di lato variabile fra
m 1,50 e 2,00), nei quali trovavano posto rotae policrome o trame geometriche costituite da elementi, variamente
assortiti, di forma esagonale, quadrata, a losanga o triangolare. In un secondo momento questa trama viene risarcita con interventi che solo in parte ne seguono l’ordito, mentre a volte vi si sovrappongono disordinatamente.
Tali trasformazioni, databili alla metà dell’XI secolo, sono eseguite talora con una certa cura, determinando la
composizione, a esempio, di rotae più ampie e complesse di quelle della prima stesura (m 1,60 di diametro, contro
m 1,20 delle più antiche) (figg. 8a,b). In altri casi, invece, ci troviamo di fronte a interventi piuttosto raffazzonati,
che appaiono quasi come delle semplici risarciture di tratti lacunosi, realizzate con materiali assai disuguali fra
loro. All’interno di una di queste campiture, a ridosso dell’angolo meridionale della pergula, è stato rinvenuto un
frammento di un’iscrizione sepolcrale della seconda metà del IX secolo.
Questi interventi sembrano essere stati eseguiti contestualmente alla elevazione di un muretto che percorre
trasversalmente le tre navate, a circa due terzi della loro lunghezza, e che è da interpretarsi quasi certamente come
un recinto che separava dal resto la parte delle navate più prossima all’area absidale. Ciò avviene quando la chiesa,
dotata di accesso frontale, è destinata anche allo svolgimento del servizio pastorale per coloro che non fanno parte
della comunità, alla quale viene invece riservata la zona presbiteriale della chiesa.
La chiesa doveva avere le pareti in origine interamente affrescate, ma di tutto ciò rimangono in situ scarsissime
tracce, limitate a pochi lacerti presenti nella parte terminale, verso l’abside, della navata nord, dove si leggono i
resti di due pannelli decorati a motivi geometrici, datati al IX secolo (fig. 9a). La maggior parte delle evidenze
proviene invece dalle centinaia di migliaia di frammenti di intonaco (coesi o meno al proprio supporto murario) recanti tracce di superfici pittoriche, riferibili principalmente alla fase di XI secolo dei rifacimenti della decorazione
pittorica, recuperati dalle stratigrafie di abbandono della cripta anulare e da un ambiente attiguo al fianco nord della
Basilica (su cui vedi oltre), utilizzato probabilmente come luogo di cernita e “ripulitura” degli elementi murari che
venivano via via recuperati nel corso dello smantellamento della Basilica stessa (figg. 9b, c).
Come nel Refettorio, anche la Basilica riceveva la luce esterna attraverso numerose finestre che si dovevano
aprire nella parte superiore della navata centrale. Frammenti di queste finestre, costituite da tarsie vitree multicolori, sono stati recuperati nel corso degli scavi. Esse contribuivano a creare all’interno una luce assai suggestiva,
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che si rifletteva sui marmi preziosi dei pavimenti e delle colonne e sui colori delle pitture parietali. L’atmosfera
di estatico rapimento e di mistico stupore che l’edificio doveva trasmettere veniva accresciuta dalla luce generata
dalle lampade sospese ai sottarchi, alla pergula e nel presbiterio e dai drappi in tessuti preziosi che nelle chiese
altomedievali era usanza stendere tra una colonna e l’altra.
A fronte di questi elementi, sorprende il fatto che, a eccezione di alcuni attribuibili alla pergula (vedi, a esempio, i pilastrini posti alla base o i capitelli a stampella che dovevano sostenerne la cornice superiore), non sia
emersa dagli scavi alcuna traccia del ricco arredo scultoreo (transenne, plutei, lastre) che normalmente articolava
lo spazio interno delle chiese altomedievali (fig. 10). L’unica ipotesi per spiegare questa curiosa assenza è supporre
che, nel nostro caso, siano stati utilizzati a questo scopo arredi mobili, realizzati a esempio in legno rivestito di
materiali preziosi. Anche il diaframma che separava la zona delle navate più vicina al presbiterio dal resto della
chiesa fu realizzato in muratura e non con l’impiego di elementi litici scolpiti.
Presso le absidi di ambedue le navate laterali una breve rampa immetteva nella cripta anulare, che occupa tutta
la superficie corrispondente alla soprastante zona presbiteriale. Essa era solo parzialmente ipogea, in quanto era
illuminata da due finestre a forte strombatura che si aprivano verso l’esterno nella metà sud del corridoio anulare
(fig. 11).
In corrispondenza del vertice dell’abside, dal corridoio anulare si diparte un altro corridoio, rettilineo, anch’esso in origine con copertura piana a lastre di pietra, che termina in una camera cruciforme, originariamente collocata
esattamente al di sotto dell’altar maggiore (fig. 12). All’interno di questa camera, in una nicchia sottostante la
fenestella confessionis, vi era lo spazio per collocare reliquie (probabilmente quelle di san Vincenzo) all’interno di
una grande urna o di un sarcofago. Al di sopra di questa nicchia, nella fenestella confessionis erano stati praticati
degli incavi ove potevano essere deposte offerte o accese lampade. Ai lati della principale, nella camera erano presenti altre quattro nicchie, disposte a coppie affrontate sui due lati dell’ambiente. Le due nicchie poste accanto alla
principale erano precedute da un altarino addossato alla parete e demolito al momento dell’abbandono della chiesa.
Tutta la cripta era decorata con affreschi, dei quali restano in situ tracce cospicue (figg. 13, 14). È da notare che
nella camera centrale di questo ambiente la decorazione a fresco, a eccezione delle nicchie appena descritte, copre
solo la parte superiore delle pareti. La parte più bassa è stata solo rivestita con uno strato di intonaco bianco e vi
si scorgono tracce di schizzi di pittura caduti dall’alto. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che, a coprire la parte
inferiore delle pareti, venivano appesi dei drappi in tessuti preziosi, con l’intento di rendere più tangibile l’omaggio
alle reliquie che vi erano deposte.
Molti dei motivi eseguiti nei pannelli del corridoio anulare dovevano avere precisi riscontri nei decori dei
pavimenti marmorei e forse anche nelle tarsie vitree delle finestre. A loro volta, tutti questi motivi trovano precisi
rimandi a opere di età classica e tardoantica13.
La tipologia della cripta richiama, come tutta la chiesa, esempi di ambito romano di cronologia piuttosto alta14,
quali San Crisogono, del 735 circa, San Marco (ultimo quarto dell’VIII secolo) e Santo Stefano degli Abissini (fine
VIII - inizio IX secolo). Fuori Roma, i raffronti più calzanti sono quelli con l’abbazia di Farfa, del secondo quarto
del IX secolo15 e, non lontano da questa, con la cattedrale di Santa Maria di Vescovio (fine VIII – inizi IX secolo)16
e con la cattedrale altomedievale di Spoleto17. Fuori Italia, planimetrie analoghe si riscontrano a St. Emmeram di
Ratisbona, nel duomo di Paderborn, a Saint-Denis, vicino Parigi, datata ai primi anni del regno di Carlo Magno
(768-775), a St. Maurice d’Agaune (datata al 790 circa), a San Lucio di Coira (datata anch’essa alla fine dell’VIII
secolo), in Svizzera, e nell’abbaziale di Nivelles (intorno all’800), nell’odierno Belgio18.
Uscendo dalla cripta, si ripercorre tutta la Basilica sino alla facciata. Superato l’ingresso aperto nella navata
centrale, si accede all’atrio. Esso costituisce un corpo di fabbrica a pianta quadrata di m 28 per lato, i cui muri si
addossano a quelli della facciata della Basilica, eretto al di sopra di un podio che si eleva per circa m 4 sul sottostante piano di campagna (figg. 15, 16).
La struttura si articola in uno spazio aperto al centro a pianta rettangolare (m 19,40x14,25), circondato da portici sui lati, ovest, sud e nord; a essi doveva probabilmente aggiungersi un quarto portico, sul lato est, impostato al
di sopra delle strutture dell’Avancorpo della Basilica.
I bracci porticati sono sostenuti da setti murari, costruiti a vista, che s’impostano - come i muri perimetrali - sul
piano di campagna dell’area delle Officine. È molto interessante il fatto che, all’interno delle strutture dei muri
dell’atrio (come del resto nelle parti della basilica che sono state oggetto di ricostruzioni) si trovino inglobati massi
recanti lacerti d’intonaco dipinto, che in un caso ha restituito resti di figure stilisticamente databili al IX secolo. Ciò
starebbe a dimostrare che, al momento della costruzione di questo annesso dell’edificio basilicale, si riutilizzarono
materiali di età carolingia, probabilmente recuperati da quelle parti della chiesa che dovettero essere demolite o
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che erano già crollate in seguito ai danni dell’attacco dell’881 e del conseguente, prolungato abbandono.
Successivamente alla costruzione dell’impianto strutturale, le camere definite dai setti murari perimetrali e di
sostegno ai portici furono riempite di terreno, che ha restituito, fra l’altro, materiale ceramico databile al X e XI
secolo (fig. 17).
Il tipo di atrio circondato da bracci porticati, detto in latino paradisus, è un elemento architettonico di ascendenza paleocristiana che sembra godere, in Italia, di un primo momento di revival in epoca carolingia, come testimoniano le strutture di questo tipo costruite all’inizio del IX secolo davanti alle chiese dei Santi Quattro Coronati19
e di Santa Prassede20. Un atrio del medesimo tipo fu forse costruito anche davanti alla chiesa monastica di Centula,
nella Francia del nord, ma se ne ha indicazione solo dalle fonti scritte e la sua planimetria effettiva è comunque
del tutto sconosciuta21. In epoca ottoniana si assiste a un deciso rilancio di questo elemento nell’architettura sacra
dell’Europa occidentale, in connessione a chiese sia monastiche sia secolari. Molti casi della sua presenza sono
stati verificati archeologicamente, come in Germania, con le cattedrali di Magdeburgo in Sassonia (intorno al 970)
e di Ratisbona in Baviera (prima metà dell’XI secolo) e le abbaziali di Fulda in Assia (intorno al 980), di Lorsch
in Renania (seconda metà del X secolo) e di San Massimino a Treviri (poco dopo la metà del X secolo). In Italia,
troviamo i casi di Fruttuaria in Piemonte (inizi XI secolo) e di Montecassino (fra 1022 e 1035). Le fonti attestano
che atri furono costruiti (o ri-costruiti) anche presso l’abbaziale di Reichenau, sul lago di Costanza (intorno al 990)
e a Centula (nel secondo quarto dell’XI secolo)22.
Il braccio ovest dell’Atrio, a ridosso della facciata, fu adibito ad area cimiteriale, per ospitare le spoglie dei
componenti della comunità vulturnense che avevano ripreso a vivere nell’antico monastero (figg. 18, 19). I corpi
erano deposti in sarcofagi le cui pareti sono costituite da blocchi di travertino connessi con malta e intonacati
all’interno e le coperture sono realizzate con lastre del medesimo materiale. Anche i portici nord e sud sono stati
utilizzati come area sepolcrale, ma solo assai parzialmente e in maniera meno sistematica.
In tutto, è stato rinvenuto un numero di casse sepolcrali ammontante a poco più di cinquanta unità e, considerando che si è riscontrata in più di un caso la loro utilizzazione per almeno una seconda deposizione, il numero
complessivo degli individui recuperati è intorno alle cento unità. Questo dato può ben corrispondere al periodo di
effettivo utilizzo di questa area cimiteriale, e cioè lo scorcio del X e i tre quarti dell’XI secolo, quando la comunità
monastica, certamente in assoluto meno numerosa che nel IX secolo, era per di più divisa fra coloro che vivevano
nella sede di Capua e coloro che avevano fatto ritorno in quella ad fontes Vulturni. D’altra parte, il Chronicon
Vulturnense riferisce che, nel IX secolo, la chiesa presso cui venivano in genere sepolti monaci e abati non era
la Basilica Maior, bensì quella dedicata a san Pietro, dotata di una ampia cripta in cui trovarono ricetto anche le
spoglie di coloro che perirono nell’eccidio seguito al sacco arabo del 10 ottobre 88123. Oltre a queste considerazioni, un altro dato sta a dimostrare la datazione all’XI secolo del cimitero posto nell’Atrio della Basilica. A ridosso
dell’ingresso alla Basilica, sul lato sinistro per chi provenisse dall’interno dell’edificio, si trova anche ricollocata
la tomba di Talarico, l’abate che aveva seguito il completamento dell’edificazione della chiesa, all’inizio del IX
secolo. Questo sepolcro, però, appare chiaramente composto da pezzi tra loro incongrui, cosa che dimostra che la
sepoltura fu recuperata altrove e rimontata dove è stata rinvenuta solo in un secondo momento24.
Di fronte all’entrata della chiesa si costruì un’alta torre, probabilmente con funzione di campanile, le cui impressionanti fondamenta, di oltre m 1,50 di spessore, sono ancora visibili. Esse inglobano, danneggiandole, alcune
sepolture, e al loro interno sono stati riutilizzati indiscriminatamente pezzi scultorei romani e massi recuperati
dalla chiesa carolingia, con tracce di affresco sulle superfici (fig. 20).
Data la sezione dei muri di fondazione, maggiore di quelle dei perimetrali della stessa Basilica, la torre doveva
elevarsi sino a svettare al di sopra del vertice del tetto della chiesa. Se ne può perciò calcolare approssimativamente
l’altezza in circa m 25. La torre era aperta sul davanti da un arco, che permetteva di transitare verso l’entrata della
chiesa. Di essa e delle sue monumentali proporzioni dà notizia anche il Chronicon Vulturnense, quando ricorda
che Ilario ordinò il rifacimento della decorazione pittorica della basilica di San Vincenzo, e anche che “ante quam
campanarium excelsum edificavit”25. È anche probabile che proprio questa sia la struttura che è ritratta nella miniatura che rappresenta l’offerta compiuta dall’abate Giosuè a san Vincenzo della basilica maior da lui fatta edificare.
Ovviamente, al tempo di Giosuè il campanile non esisteva, ma evidentemente il miniatore non tenne conto di
questo “dettaglio”, sottolineando piuttosto la presenza di un elemento che doveva aver caratterizzato fortemente lo
skyline del complesso monastico altomedievale negli ultimi decenni della sua esistenza.
Per controbilanciare il volume di questa grande struttura, alle due estremità del portico ovest vengono erette altre due torri, probabilmente più basse della prima (fig. 21). Questa imponente struttura a tre torri (triturrium) trova
precisi riferimenti nell’architettura delle chiese francesi e soprattutto tedesche del tempo. La moda di rendere più
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monumentale l’accesso alla chiesa si diffonde anche in Italia in età ottoniana e trova applicazioni durante tutto l’XI
secolo. In genere, però, la soluzione adottata è meno complessa di quella che vediamo applicata a San Vincenzo
al Volturno e consiste normalmente nell’erezione di una sola torre addossata all’ingresso principale dell’edificio
ecclesiastico.
Nello stesso periodo in cui la torre in facciata è edificata a San Vincenzo, se ne costruiscono anche davanti alle
chiese dei monasteri di Farfa e Subiaco (dove ancora sopravvivono) e a Montecassino (dove i suoi resti furono
intercettati in occasione di scavi eseguiti negli anni Trenta del XX secolo). Inoltre, un numero consistente di chiese
minori distribuite fra Lazio meridionale, Abruzzo e Campania settentrionale ne serbano ancora i resti, più o meno
ben conservati. Tra queste, l’abbaziale di San Pietro di Alba Fucens in Abruzzo26; Santa Maria della Rosa a San
Vittore nel Lazio e Santa Maria di Correano ad Ausonia, nella terra di Montecassino; Sant’Angelo a Itri, Santa Maria di Castagneto a Formia e la cattedrale di Minturno, di lì non lontane27. In Campania abbiamo gli esempi di Santa
Maria di Compulteria ad Alvignano28, di Santa Anastasia a Ponte, presso Benevento29, di Sant’Angelo de Munculanis a Sant’Agata dei Goti30 e dei Santi Rufo e Carponio a Capua31. Infine essa è attestata in alcune chiese pugliesi
quali Santa Maria di Barsento a Noci, dipendenza dell’abbazia di Banzi, a sua volta dipendente da Montecassino,
Sant’Eustachio di Giovinazzo e Sant’Angelo a Torre Santa Croce di Bitonto32. In Molise, un perfetto esemplare
di struttura di questo tipo si trova davanti all’abbaziale di San Benedetto de Iumento Albo, in agro di Civitanova
del Sannio (IS)33, una fondazione monastica posta intorno al 1020 alle dipendenze di Montecassino. Una soluzione analoga sembra essere stata adottata anche per la piccola chiesa - di cui però non viene proposta una precisa
datazione - costruita sui resti di un edificio sacro italico in località Monte Ferrante, in comune di Carovilli (IS)34.
La decorazione pittorica
Marianna Cuomo
Le testimonianze pittoriche della Basilica Maior documentano due momenti cronologicamente distinti ma
entrambi connessi alle principali vicende architettoniche dell’edificio e, pertanto, ascrivibili al periodo della fondazione e della ricostruzione. Il ritrovamento di circa 700.000 frammenti d’intonaco dipinto all’interno delle stratigrafie di abbandono testimonia la presenza di una ricca decorazione ad affresco, la quale doveva evidentemente
rivestire tutte le superfici murarie35. Purtroppo, ciò che oggi si conserva permette una lettura minima degli originali
apparati decorativi e, dunque, non facilita il processo di ricostruzione delle tematiche affrontate nelle decorazioni
pittoriche36. Tuttavia, la parziale ricomposizione dei frammenti d’intonaco ha contribuito a chiarire alcuni aspetti
della questione e ha restituito per entrambe le fasi l’immagine di una sequenza di registri sovrapposti con motivi
iconici e/o narrativi e aniconici, di cui si discuterà nel dettaglio più avanti.
I fase (IX secolo)
La più antica testimonianza pittorica dell’edificio è attestata dagli affreschi della cripta, i quali rappresentano
insieme al ciclo del sacello di Epifanio il gruppo più cospicuo di resti conservati in situ a San Vincenzo al Volturno; al contrario, quasi nulla resta della decorazione della Basilica, fatta eccezione per alcuni lacerti di zoccolo siti
all’estremità occidentale del muro nord (figg. 22, 23) e nell’avancorpo (USM 5315) (fig. 24) realizzati a imitazione
di finti paramenti marmorei, e, infine, per alcune croci dipinte all’interno delle tombe rinvenute nell’atrio, tra cui
quella dell’abate Talarico (817-823)37 (figg. 25, 26).
Nonostante le perdite connesse alle vicende architettoniche della struttura, la ricchezza decorativa della basilica è indirettamente testimoniata dall’attenzione dedicata alla cripta, la quale presenta una complessa e sofisticata
ornamentazione che può a ragion veduta considerarsi una sintesi di quanto in scala monumentale fu realizzato
negli ambienti superiori. La decorazione del sacello non si è conservata interamente, tuttavia, l’accumulo di materiale seguito all’abbandono del sito ha risparmiato almeno tre quarti degli intonaci, permettendo di riscostruirne la
sequenza ornamentale, sebbene altri fattori come depositi di carbonato di calcio e distacchi delle pellicole abbiano
inciso considerevolmente sul processo di lettura38. Dai resti sappiamo che la decorazione era organizzata per registri sovrapposti: il superiore si conserva a brandelli ma sicuramente doveva prevedere una teoria di santi, mentre
in basso è possibile leggere quasi interamente una successione di specchiature animate da complesse composizioni
geometriche organizzate in prospettiva. I resti pittorici delle parti alte dei muri ancora in situ si trovano sulla parete
ovest della rampa nord, dove si distinguono calzari rossi a punta su un fondo ocra animato da pennellate spesse
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e più scure39. Parte di una figura stante si trova su un blocco proveniente dallo strombo di una finestra40 e mostra,
sul consueto sfondo ocra animato da papaveri, i lembi di una veste e un bastone. Infine, una testina ricomposta
restituisce forse l’immagine di un angelo (fig. 27). Quest’ultimo frammento meglio chiarisce quali siano state le
coordinate stilistiche della bottega incaricata di affrescare l’edificio: si tratta di una cifra linguistica i cui riflessi
si leggono chiaramente negli affreschi nel sacello di Epifanio, riassunti qui nei tratti della piccola testa, definiti
calligraficamente da sinuosi e decisi contorni neri, rafforzati da spesse linee rosse in alcuni punti, come il naso e
l’arcata sopraccigliare. Il frammento rivela una particolare attitudine alla costruzione di volumi solidi ed incarnati
morbidi realizzati attraverso un sapiente uso del colore e giochi d’ombra modulati in funzione quasi prospettica;
caratteristici sono i tratti fisiognomici, come gli ovali leggermente appuntiti in basso e i profili sottili, i grandi occhi
a mandorla dallo sguardo impassibile. Tali aspetti resteranno invariati nella pittura volturnense di IX secolo, pertanto, la testina è stata confrontata con gli arcangeli realizzati poco più tardi nella vicina cripta41 e sui quali Belting
si era espresso utilizzando la formula di Kitzinger “perennial hellenism”, in relazione alla loro forte connotazione
orientale (fig. 28)42. Il registro superiore fu diviso dall’inferiore attraverso un doppio sistema di cornici organizzato
in due fasce diverse per motivo e cromia: la prima in rosa e rosso è delimitata da spesse linee di contorno nere e
presenta nel tratto mediano una perlinatura in bianco e gemme di forma quadrangolare e circolare campite in nero;
la seconda, in linea con i motivi geometrici dei pannelli sottostanti, è strutturata in una sequenza di cinque fasce di
cubi in prospettiva, alternati in blu e rosso.
I muri furono intonacati in pontate con un procedimento simile all’affresco realizzato da maestranze specializzate e pienamente padrone di una tecnica oramai consolidata, come dimostrano la composizione e la stesura
dell’intonaco: più spesso, consistente e depurato sulle murature irregolari, sottile e miscelato con inclusi litici su
quelle regolari per garantirne maggiore aderenza sui blocchi di travertino. I disegni preparatori furono realizzati
a corda battuta e/o a compasso e, nonostante una certa imprecisione - le linee non sono mai dritte e gli intervalli
variano sensibilmente – l’impressione complessiva è di una generale armonia ritmica e compositiva43.
La decorazione dello zoccolo era organizzata per successione di specchiature rettangolari e quadrangolari, le
cui misure dovevano raggiungere un’altezza minima di cm 70 ed una massima di m 2 per una larghezza che dai
cm 70 arrivava ai m 344. Ad oggi, si sono conservati trenta pannelli già esaminati e ricostruiti graficamente45, i
quali presentano al loro interno motivi geometrici alternati secondo un ordine simmetrico e preciso solo in alcuni
punti, probabilmente concepito con l’obiettivo di suscitare specifiche reazioni cognitive ed emotive. Le specchiature superstiti si trovano all’imbocco degli accessi nord e sud della cripta (figg. 30, 31), in parte sui muri est e
ovest del corridoio anulare e su quelli del passo assiale, mentre sono andati del tutto persi i pannelli della parte
centrale del perimetrale esterno, in corrispondenza delle aperture. Per ragioni di praticità, si è scelto di mantenere
la numerazione data da Mitchell (fig. 29)46, tuttavia, per provare a capire come dialogassero fra loro i pannelli è
stata accantonata la precedente tipologia di analisi di stampo progressivo in favore di uno studio incrociato tra
riquadri opposti. L’intenzione è di ricostruire le effettive condizioni di percezione di un visitatore che discendendo
o risalendo dai due accessi si sarebbe trovato in posizione frontale rispetto ad alcune specchiature, mentre, durante
il percorso avrebbe goduto della visione prospettica delle altre. Data la corrispondenza tra l’impianto decorativo
dei due accessi, l’ingresso alla cripta poteva avvenire sia da sud che da nord, senza che nulla alterasse l’ordine di
lettura della decorazione47.
Guardando all’interno della cripta dall’ingresso settentrionale, il primo pannello immediatamente visibile ovvero in posizione frontale alle scale - è il n. 5, una rota policroma ottenuta per successione di dischi concentrici
decorati con composizioni di tipo assonometrico. L’elemento doveva presentarsi piuttosto elaborato, esattamente
come il disco del pannello n. 26 (figg. 31, 40), posto nella medesima posizione in corrispondenza dell’accesso sud.
Dai frammenti superstiti è stato possibile intuire che il disco sia stato concepito come una sequenza concentrica di
fasce circolari, orientate in sensi opposti e suddivise in segmenti cromaticamente alternati in rosso, ocra, blu scuro
e bianco. Questo pannello - insieme alle attigue rotae - anticipa uno dei temi dominanti della decorazione aniconica della cripta, ovvero il rapporto tra uno spazio reale - che è quello interno all’ambiente - e uno esterno e immaginario ma potenzialmente attraversabile, suggerito dal ritmo rotatorio e vorticoso delle composizioni circolari.
Prescindendo dalla chiara volontà di stupire immediatamente un visitatore preparandolo a ciò che avrebbe visto
proseguendo nella sua visita48, non sembra essere un caso che le rotae si concentrino quasi tutte in corrispondenza
degli accessi e, specialmente, sui muri che separano il corridoio dalla camera delle reliquie e dal presbiterio, quasi
a suggerire la naturale prosecuzione tra un’area di passaggio - dunque caratterizzata da una funzione meramente
pratica - e le aree più sacre e, pertanto, potenziandone simbolicamente il significato.
Discesi i primi gradini, il visitatore si sarebbe trovato immediatamente sulla destra il pannello n. 9 e poco più
68
sotto opposti il n. 10 (fig. 45) e il n. 1 (figg. 30, 34). Il n. 9 raffigura un reticolato di stelle a otto punte bicrome,
tinte in blu chiaro/ocra e rosso scuro/ocra, profilate in bianco e nero. La composizione si caratterizza per l’utilizzo
dello schema cromatico alternato in senso orizzontale e per la presenza comune ai registri dell’ocra in funzione
unificante e costruttiva, sicché negli spazi di risulta tra le stelle essa contribuisce allo sviluppo di solidi prismatici a
rilievo con andamento rotatorio. Il pannello non presenta cornici, fatta eccezione per il fregio continuo a “blocchi
rotolanti”, piuttosto, s’innesta direttamente sotto il successivo n. 10, una rota con ventaglio a soffietto nel centro,
la quale per dimensioni e per numero dei bracci - qui moltiplicati - sembra essere la versione monumentale delle
precedenti a otto punte. La continuità tra le due specchiature - già implicita per l’assenza di qualsiasi elemento divisorio - è sottolineata dall’utilizzo della medesima cromia - specialmente dal sottofondo blu scuro - e dall’effetto
rotatorio della composizione, rafforzato dal gioco illusionistico dell’anello esterno suddiviso in sezioni bicrome
spezzate diagonalmente in triangoli rettangoli affrontati e disposti a scalare.
Le necessità di mantenere costante l’attenzione sui giochi prospettici della decorazione travalica qui la composizione centrale per confluire nella cornice, dove il movimento sinuoso di un nastro scuro avviluppato intorno a un
setto dentellato ancora una volta sottolinea l’esistenza di uno spazio oltre le superfici murarie. Questi due pannelli
inauguravano la sequenza ornamentale del muro ovest; di fronte la stessa funzione era assolta dal n. 1, una scacchiera ottenuta per bipartizione cromatica di moduli quadrangolari in bianco/blu rosso/ocra alternati in verticale ed
orizzontale, la cui articolazione restituisce l’immagine di una sequenza prospettica di parallelepipedi rettangolari
che segnalano la direzione di percorrenza relativamente al punto di vista dello spettatore: ai piedi della scalinata le
figure sembrano rivolgersi verso l’alto, al contrario, in cima all’ingresso esse si dirigono verso il basso. I successivi
pannelli (nn. 2, 3, 4; figg. 30, 34) guardavano in fuga le specchiature che si susseguivano sui muri del corridoio;
apparivano, dunque, in posizione frontale per coloro che stessero per uscire dall’accesso nord. Il n. 2 (fig. 51)
raffigura una rota a bande concentriche segmentate, circoscritta all’interno da una cornice quadrangolare campita
in nero e decorata nei pennacchi con motivi vegetali a bacche rosse. La rota è il risultato di una sequenza di nastri
concentrici suddivisi in sezioni cromaticamente alternate dai toni più chiari e più scuri di bianco, blu, ocra, rosso.
Le sezioni dei primi sei nastri sono disposte in senso orario e le loro dimensioni decrescono progressivamente in
prossimità del centro della composizione fino ad assottigliarsi all’altezza delle ultime due circonferenze dove,
improvvisamente, si dispongono in senso antiorario. L’andamento della rota determina un effetto vortice, che
suggerisce l’idea di uno spazio entro cui il visitatore potrebbe entrare. Pertanto, non sembra casuale che le sezioni
attigue delle prime due circonferenze presentino la stessa cromia (modificata solo nel tono) e una curvatura tale
da formare una specie di gradino/ingresso prospettivamente organizzato, utile a rafforzare l’idea di uno spazio
attraversabile.
Lo stesso principio sottintende alla creazione di tutte le altre composizioni circolari della cripta e testimonia
l’esigenza di una coerenza formale e cromatica - come dimostrerà l’analisi di tutta la decorazione dell’ambiente ben definita già in fase progettuale e strettamente dipendente dall’ornamentazione aniconica - pavimenti e vetrate
specialmente - della Basilica superiore.
Sulla scia del gioco prospettico/cromatico del pannello n. 2, fu realizzato il n. 3 (figg. 30, 34, 35) una griglia di
parallelepipedi disposti in direzioni alterne il cui apparente disordine è stato ragionevolmente definito un “incubo
prospettico”49. In realtà, si tratta di una composizione regolare di solidi, ottenuta disponendo le figure in senso antiorario e facendole convergere negli apici, sicché dagli spazi di risulta emerge il tema della losanga. Da un punto
di vista percettivo, sembra di trovarsi dinanzi a una cascata di forme, il cui moto viene enfatizzato dall’utilizzo
del colore in chiave prospettica e costruttiva - un altro tema caro agli autori della decorazione della cripta, come
già visto - assecondando qui una volontà scenografica quasi drammatica, molto più accentuata rispetto a quella
che sottintende la costruzione dei pannelli limitrofi, i quali, in virtù delle caratteristiche prima esaminate, possono
essere considerati una pacata anticipazione delle successive e più ardite soluzioni decorative. Chiudeva la parete il
pannello n. 4 (figg. 30, 34) una rota simile nell’impostazione alla precedente n. 2, sebbene riveli un’organizzazione
prospettica meno impegnativa. Anche in questo caso, il disco è posto all’interno di un pannello a campitura cromatica piena - qui di colore ocra – chiuso dalla solita cornice a solidi romboidali, tuttavia la rota non è a essa tangente.
Tre anelli concentrici nettamente separati dai bordi in blu scuro e bianco sono a loro volta suddivisi in due giri di
bande segmentate e cromaticamente alternate con sfumature diverse della stessa tinta: la prima è costruita alternando sezioni in ocra chiaro e scuro, a cui corrispondono nel successivo registro segmenti in blu scuro e chiaro; segue
il secondo anello, dove all’ocra chiaro si alterna il rosso; infine il terzo, in ocra e blu, rosso e ocra. Le sezioni degli
anelli girano in senso contrario, sicché anche in questo caso l’effetto complessivo è quello di un vortice.
Al di sopra, fu aperta una nicchia, intonacata e affrescata con due figure di cui sopravvivono solo i bordi in-
69
feriori di sontuose vesti liturgiche, in blu scuro, arricchite da paramenti tessuti in oro ed impreziositi con gemme.
Un’altra nicchia si trova in posizione speculare nel braccio sud; doveva trattarsi di stazioni dedicate alla venerazione di martiri “minori” rispetto a quelli le cui spoglie furono conservate all’interno della confessio50. Al pannello n.
5 seguivano i nn. 6 e 7 (figg. 30, 36) quasi impossibili da leggere per lo stato di conservazione, soprattutto per ciò
che riguarda il primo, di cui si conservano nella porzione inferiore del muro tracce di una griglia di piccoli quadrati
realizzati a corda battuta su intonaco fresco. Pertanto, gli unici dati che il pannello fornisce riguardano solo lo stato
della sequenza ornamentale della parte, organizzata alternando un pannello con rota a due pannelli a scacchiera a
un altro con disco (n. 8, figg. 30, 37).
Di fronte al pannello n. 6 restano i frammenti di un’altra rota, n. 11, ad andamento radiale con corpo a ventaglio simile alla precedente n. 10. Nel pannello n. 7 (fig. 36) ritornava identico il motivo del n. 1, la scacchiera a
caselle policrome bipartite, qui con diagonale a 45° che inverte nel centro, creando così un effetto “specchio”. Il
pannello di m 2,70 di lunghezza seguiva la curvatura dell’anello interno e si confrontava sul muro opposto con
un’altra scacchiera e una rota (nn. 12, 13; fig. 50) entrambe mal conservate. Della griglia resta solo la cornice a
scacchi bicromi in rosso e bianco, mentre al centro pochi lacerti testimoniano l’esecuzione di un complesso sistema decorativo dal forte effetto prospettico, formato da un disco poligonale ottenuto attraverso la combinazione
di triangoli policromi ed elementi quadrangolari, realizzati con la tradizionale tavolozza di bianco, nero, ocra,
blu scuro e rosso51. Quel che si conserva della rota (n. 13) rivela l’utilizzo di un modello differente, ottenuto per
consueta sequenza di dischi concentrici ma carente da un punto di vista prospettico; tuttavia, resta immutata l’esigenza scenografica, la quale trasforma la rota in un ingranaggio dentellato - ripreso in scala ridotta nel centro - e
minuziosamente descritto nei particolari, come la perlinatura di uno dei nastri interni e la sequenza di archetti che
lo circondano. La stessa bidimensionalità doveva caratterizzare anche il successivo pannello (n. 14; fig. 50) di cui
sopravvive un lacerto sufficientemente esaustivo per ricostruire un motivo tipico della sintassi ornamentale del cenobio volturnense: l’imbricatura di pelte. Con questa composizione termina la successione decorativa della parete
esterna, mentre quella del muro interno viene chiusa dal pannello n. 8, una rota policroma con raggi a ventaglio
(figg. 30, 37). Sebbene il motivo sia costruito intorno a una sequenza di cerchi tracciati a compasso ciò che resta sul
piano materiale non è sufficiente a identificare un motivo propriamente circolare: piuttosto, l’idea è quella di una
sequenza di fasci luminosi disposti in senso radiale e convergenti nel centro. Il ventaglio s’innesta su una cornice
quadrangolare rossa all’interno della quale sono inscritti in ordine decrescente dei motivi a festone, tracciati in ocra
e rosso su un fondo in finto marmo, chiuso esternamente da una cornice a bande di parallelogrammi a dente di sega
bicromi. I raggi della rota sono suddivisi nel centro da una spessa linea nera a cui è affidato il compito di sottolineare l’alternanza dei toni, sicché la composizione sottostante risulti organizzata per alternanza di zone d’ombra e
di luce. A differenza degli altri sistemi centrici, i cui effetti tridimensionali e prospettici determinano ritmi rotatori
e/o vorticosi verso l’interno, questo pannello sembra costruito con l’intenzione di suggerire un movimento che
dall’interno si apre verso l’esterno.
Giunti quasi al vertice della curva del corridoio la sequenza decorativa s’interrompe; da qui i fedeli si sarebbero
diretti verso la confessio, preceduta da un piccolo corridoio decorato anch’esso con motivi geometrici (pannelli nn.
20-30; fig. 53). Qui, la varietà formale e cromatica del corridoio anulare viene bruscamente interrotta dall’uniformità dei motivi decorativi del passo assiale, dipinto con otto enormi specchiature (quattro per lato) ad cancellum,
il cui motivo di base è una croce decussata a bande bicrome in rosso e bianco, ospitante nei bracci una sequenza di
losanghe a loro volta suddivise in piramidi prospettivamente organizzate.
La scelta di pannelli uguali doveva avere la funzione di non stupire eccessivamente il visitatore ma, al contrario, di preservarne la concentrazione per ciò che avrebbe visto nella camera delle reliquie. Dell’originale decorazione di questo ambiente si conservano solo poche tracce sufficienti per intuire la presenza di una gerarchia
di santi lungo le pareti, la quale fiancheggiava i cinque punti nodali dell’area, ovvero le quattro nicchie disposte
in posizione speculare sulle pareti est e ovest e l’altare sito al di sotto della fenestella confessionis. I resti pittorici
più consistenti si concentrano nell’area orientale della camera, precisamente ai lati della fenestella e nelle attigue
nicchie, entrambe munite di altari52; qui è testimoniata la presenza di due figure di santi, purtroppo a brandelli,
mentre perfettamente identificabili sono i monaci a busto intero nelle nicchie opposte (figg. 61, 62). I frammenti
restituiscono un’immagine chiara dei canoni linguistici della pittura volturnense nei primi del IX secolo, specialmente quelli delle nicchie della parete occidentale, dove i monaci muniti di nimbo quadrato e accompagnati da
resti di iscrizioni sono raffigurati in atto orante: s’intravedono qui alcuni aspetti che ritorneranno nella pittura della
cripta di Epifanio, tra i quali più immediatamente riconoscibili le lumeggiature bianche a forma di pettine e la
fisionomia delle mani, dalle dita lunghe e affusolate pesantemente contornate. Fuori dal cenobio, opportuni con-
70
fronti sono stati segnalati con la pittura di romana di VIII-IX secolo, con l’effige di san Cirillo nella chiesa di San
Clemente con le immagini dell’oratorio di Teodoto in Santa Maria Antiqua (fig. 63)53 e, specialmente, con i resti
dell’abate Altbertus affrescati sul muro esterno del perimetrale nord dell’abbazia di Farfa (VIII secolo) (fig. 64)54.
Per la presenza del nimbo quadrato e la posizione all’interno dello spazio più sacro dell’edificio è molto probabile
che i ritratti stessero a commemorare due membri importanti della comunità monastica, forse i responsabili della
costruzione della basilica, ovvero Giosuè (792-817) e Talarico (817-823)55, entrambi in perpetua adorazione dei
santi affrescati nelle opposte nicchie56.
Usciti dalla camera delle reliquie i devoti avrebbero proseguito nel loro percorso all’interno della cripta. Riprendendo la descrizione della sequenza ornamentale del corridoio anulare, i primi pannelli del braccio sud che
ancora si conservano sono il n. 15 e il n. 22. Del primo sopravvivono pochi lacerti, i quali sembrano restituire
l’immagine di un’enorme croce decussata - simile a quelle del corridoio assiale - costruita accostando un nastro
bianco a uno rosso su un fondo blu decorato con perlinature bianche. Il n. 22 (fig. 31) raffigura una scacchiera
dove riquadri in finto marmo striato si alternano a caselle suddivise in quattro gemme quadrangolari sfaccettate
a guisa di bugnato, il cui intento è quello di emulare un paramento murario dal forte impatto luminoso e plastico.
Questo motivo si estendeva - con qualche minima variazione - alla successiva specchiatura (n. 23; figg. 31, 39)
più complessa e meno regolare della precedente. È interessante che le scacchiere siano subentrate in una seconda
fase di progettazione, giacché al di sotto restano le tracce a compasso di due rotae57; ciò lascerebbe intuire un
processo di elaborazione della sequenza decorativa non affatto casuale, piuttosto meditata, forse in virtù di una
precisa strategia di percezione delle immagini e dell’ambiente. Altre due scacchiere si trovavano sul muro opposto
(nn. 16, 17; fig. 33) di queste restano pochissimi lacerti: la prima presentava dei moduli quadrangolari organizzati
in caselle cromaticamente alternate in bianco e nero, mentre, nella seconda - simile al pannello n. 7 e parzialmente
al n. 21 - l’ordine delle caselle era organizzato in ritmi ascensionali e discendenti.
L’attenzione alla componente ritmica delle composizioni rimbalzava nel pannello n. 24 (figg. 31, 39) - il più
lungo di tutto il corridoio - dove partendo dall’alto lo schema compositivo si articola in una serie di meandri assonometrici sovrapposti e alternati per cromia e per direzione. La prospettiva, costruita, variando l’intensità dei toni,
sembra indicare per il pannello una funzione segnaletica capace di suggerire al visitatore le possibili direzioni di
percorrenza dell’ambiente. Lo stesso concetto è alla base della combinazione di mensole aggettanti (n. 18; figg. 33,
38) site di fronte alla sequenza di meandri. Il motivo la cui organizzazione prospettica e formale trova riscontro nei
pannelli n. 3 e n. 19 (figg. 31, 35, 38) (di cui sembra essere una versione disciplinata) è organizzato per colonne di
parallelepipedi rettangolari, opposti per cromia e direzione. Questa visione estremamente prospettica s’interrompe bruscamente nella specchiatura successiva (n. 19), dove i moduli quadrangolari di un’ennesima scacchiera si
dispongono secondo un andamento più regolare e bidimensionale, a cui doveva corrispondere sulla parete interna
del corridoio una semplice specchiatura in finto marmo striato (n. 25).
Arrivato in prossimità dell’accesso sud il visitatore si sarebbe trovato di fronte il pannello n. 27 (figg. 31,
41, 58), una rota ottenuta da cinque dischi concentrici, di cui il primo formato da una sequenza di pelte bicrome
sovrapposte in tre fasi, il secondo da due file di bande di parallelogrammi spezzati a dente di sega, il terzo da un
meandro assonometrico. I motivi del quarto e del quinto disco sono a spicchi e risultano dalla rotazione di un
elemento a forma di raggiera che parte dal centro della composizione. Anche in questo caso, l’effetto “vortice” è
accentuato dall’alternanza cromatica e dal moto in direzioni opposte delle singole circonferenze. Il pannello si trovava al di sotto di una nicchia in origine affrescata, speculare per funzione e decorazione a quella già esaminata nel
braccio nord (n. 4) e alla sinistra di una seconda rota (n. 26; figg. 31, 40) la quale aveva la funzione d’inaugurare la
processione decorativa della cripta (come la n. 5), essendo posta direttamente di fronte la rampa di accesso sud. Per
tali ragioni, non sorprende la particolare attenzione dedicata a questo pannello estremamente complesso dal punto
di vista formale e cromatico. Il disco principale è ottenuto per successione di cinque cerchi concentrici tracciati a
compasso, a loro volta strutturati in ardite composizioni prospettiche dall’orientamento alternato. La prima sezione presenta un meandro assonometrico; la seconda è composta da una banda di parallelogrammi spezzati a dente
di sega ad andamento orario; la terza era decorata con una specie di meandro a svastica nuovamente orientato in
senso antiorario; infine, la quarta e la quinta riprendevano rispettivamente i motivi del primo e del secondo disco,
invertendone l’orientamento. L’effetto complessivo è quello di un ingranaggio dall’accentuato moto rotatorio,
rafforzato da un’alternanza cromatica tutta giocata sui toni del bianco, del blu, dell’azzurro, dell’ocra e del rosso.
La visita all’interno della cripta si chiudeva - o si apriva - con i pannelli che fiancheggiano la rampa sud (nn.
28 e 20, 21; figg. 31, 32). Il primo è una rota più grande per dimensioni e leggermente più articolata nelle composizioni assonometriche rispetto alla precedente n. 27; qui il numero delle fasce di pelte aumenta da tre a quattro e
71
l’effetto decrescente è molto più accentuato, inoltre, gli anelli più interni - pur mantenendo una propria autonomia
decorativa - tendono a fondersi in un’unica soluzione ad “ingranaggio” mossa nel cuore da un motivo a raggiera.
Immutati restano l’effetto di rotazione e la cromia, come il fondo scuro ed il sistema di cornici - a solidi in prospettiva - sicché, esattamente come nel caso delle rotae della rampa nord, l’intento sembra essere quello di creare
un’unità sintattica e un collegamento visivo tra motivi analoghi divisi in settori opposti dell’ambiente.
Sull’altro muro i pannelli nn. 20 e 21 - entrambi a reticoli - chiudevano la decorazione del corridoio anulare.
Il primo presenta su fondo bianco tre registri sovrapposti di clessidre in rosso disposti a spina di pesce; all’interno
di ciascun registro, le clessidre si articolano in tre fasci orientati in verticale - orizzontale - verticale. Non si tratta
di una composizione particolarmente elaborata, tuttavia, anche in questo caso sembra che la volontà non sia tanto
quella di stupire il visitatore quanto piuttosto di suggerirgli in base alla sua provenienza le due uniche direzioni
possibili. Il n. 21 è una scacchiera che sul fronte nord apriva/chiudeva la sequenza decorativa. La composizione
presenta un modulo di base che alterna celle quadrangolari in ocra e blu su cui s’innestano nastri diagonali in bianco organizzati a spina di pesce, che invertono di direzione ogni cm 30. Come nel pannello n. 8, si viene a creare un
effetto di zone d’ombra e di luce attraverso l’utilizzo del colore, sicché i nastri bianchi obliqui schiariscono le tinte
dell’intelaiatura sottostante e, contemporaneamente, determinano l’effetto bicromo delle celle. È suggestivo che
anche questo pannello sembri indicare due direzioni inverse, in su per coloro che lo guardavano dal basso e in giù
per quelli che si accingevano a scendere nell’ambiente, esattamente come il pannello n. 1 della rampa nord. Sembra evidente che l’intenzione alla base della progettazione di una così complessa “macchina” decorativa sia stata
quella di sviluppare un percorso visivo dal forte impatto emotivo, apparentemente disorientante per la complessità
dei pannelli e per le corrispondenze che essi intrecciano tra di loro, ma perfettamente in linea con la funzione mistica dell’ambiente, sicché il corridoio anulare assume la fisionomia di un viaggio all’interno di una realtà irreale, il
cui culmine era rappresentato dalla camera delle reliquie, la quale offriva agli occhi dei fedeli l’immagine tangibile
della dimensione ultraterrena.
Sotto il profilo iconografico la decorazione aniconica della cripta rappresenta un unicum nel panorama pittorico altomedievale, nonostante il repertorio decorativo esibito derivi dalla tradizione ornamentale in opus sectile
di età classica e tardo antica58, ripresa per consuetudine in contesti liturgici del Mediterraneo altomedievale; al
riguardo, ci sembra significativo il confronto con ciò che si conserva della decorazione aniconica del refettorio
del monastero di Abu-Fanu in Egitto (VI secolo) (figg. 42, 43)59, dove l’utilizzo di rotae in finto marmo dal forte
impatto tridimensionale anticipa i pannelli di San Vincenzo, sia per il ricorso alle stesse soluzioni decorative ma,
soprattutto, per la comune vocazione dei contesti di appartenenza. Altri riscontri sono stati individuati con la pittura ornamentale dell’Italia settentrionale60, i quali testimoniano lo stretto rapporto tra le équipes attive nella penisola
ma, soprattutto, la funzione unificante svolta dai repertori aniconici in finto marmo nel rapporto tra produzione
artistica della Langobardia Maior e Minor61. Per ragioni di spazio, si segnalano alcune delle testimonianze cronologicamente più vicine, utili a chiarire il contesto entro il quale agirono gli artefici della cripta62; tra queste, si
ricordano gli affreschi che decorano una delle cupole del tempietto di Seppanibale a Fasano (VIII secolo)63 e i resti
negli intradossi dell’atrio della chiesa di Santa Sofia a Benevento (VIII secolo)64; tuttavia, restringendo i confini
territoriali, è la stessa produzione artistica di San Vincenzo al Volturno a mostrare i confronti più stringenti, giacché
testimonia lo sviluppo di una sintassi ornamentale caratteristica che ricorre in diversi ambienti del cenobio in tutte
le sue fasi di vita. Tale unitarietà di motivi si ravvisa in diversi ambiti produttivi e trova nei pannelli della cripta
un’eccellente ed esaustiva sintesi, come già accennato in precedenza; specialmente, la complessa e sofisticata elaborazione di motivi geometrici trova una perfetta corrispondenza nelle soluzioni adottate per rivestire il pavimento
della Basilica nelle sue diverse fasi65 (figg. 48, 49, 56, 59, 60)66 e che dovevano caratterizzare anche le vetrate
dell’edificio67 (figg. 52, 54, 55)68 e parte dell’arredo in marmo69 e fittile (figg. 44, 46, 47, 57)70. L’impressione che
si ricava dall’analisi dei reperti restituiti dalle indagini archeologiche è di un progetto decorativo basato sull’idea
di una percorrenza all’interno dell’edificio regolata da una continuità visiva, a sua volta organizzata attraverso una
sintassi ornamentale che “rimbalza” tra supporti, superfici e ambienti diversi. In tale prospettiva si chiarisce l’opinione condivisa di una realtà eccezionale che non trova corrispettivi nel panorama artistico altomedievale italiano
ed europeo71, i cui sviluppi possono essere ragionevolmente spiegati dalla presenza all’interno del monastero di
officine di alto livello, preposte alla produzione di diverse classi di materiali e di oggetti di lusso per il consumo
interno e per l’esportazione. Alla luce di questi dati, l’immagine che il cantiere volturnense restituisce è quella di
“organismo” autosufficiente capace di trovare al suo interno gli stimoli visivi necessari per creare e riformulare
nuova materia, fissa nelle sue coordinate stilistiche ed iconografiche ma altrettanto duttile per essere adattata alle
diverse esigenze della comunità72.
72
II fase (prima metà XI secolo)
La seconda campagna decorativa fu intrapresa durante l’abbaziato di Ilario (1011-1044)73 ed è documentata
da numerosi frammenti d’intonaco (US 584), la cui ricomposizione ha messo in luce la presenza sicura di alcuni
soggetti - un Martirio di san Lorenzo (fig. 87), l’Incredulità di Tommaso (figg. 68, 72), una Teoria di monaci (fig.
65) - e di altri non chiaramente identificati74.
Di questo gruppo, particolare attenzione è stata dedicata dagli studi alla sequenza di monaci e all’Incredulità
di Tommaso in ragione delle maggiori possibilità di confronto che essi offrivano e, pertanto, ritenuti più utili a un
inquadramento iconografico e stilistico.
Gli abati dovevano fare parte di una teoria clipeata sita forse sulle pareti laterali della basilica come in esempi
noti quali San Benedetto a Capua (fig. 66), Sant’Angelo in Formis (fig. 67) (primi del XII secolo)75 e San Magno
a Fondi (prima metà del XII secolo)76. Con queste testimonianze le pitture di San Vincenzo condividono l’impostazione frontale a mezzo busto entro nastri circolari, lo stesso motivo a festone in rosso, bianco e verde interno
al clipeo, infine il tipo iconografico “classico” con cocolla e cappuccio sul capo. A San Vincenzo i monaci sono
muniti di pastorale - due anche di evangelario - e presentano tratti somatici quasi identici (un tipo più anziano si
riconosce solo per la presenza di una folta barba bianca)77.
L’Incredulità di Tommaso dovrebbe essere l’unica testimonianza di un ciclo neotestamentario che probabilmente decorava la navata centrale della basilica78, ammesso che la figura di bendato non rappresenti in realtà
l’episodio di Cristo davanti al sinedrio (fig. 86) e il frammento con la santa - dall’atteggiamento spaventato, con il
capo lievemente rovesciato all’indietro e la mano levata in alto - non stia a testimoniare una perduta Apparizione
alle Marie o una Crocifissione (fig. 85). In tal caso, gli episodi neotestamentari superstiti sarebbero tre e rappresenterebbero un buon punto di partenza per la ricostruzione dei perduti brani.
Tornando al blocco in analisi, la scena descrive fedelmente il momento in cui Cristo appare a Tommaso e gli
ordina di verificarne l’Incarnazione, pertanto Egli è raffigurato nell’atto di mostrare la piaga sul costato che l’apostolo è in procinto di toccare. La rivelazione si svolge all’interno di un ambiente chiuso da un’enorme porta lignea
serrata con un chiavistello, la quale occupa una posizione predominante all’interno della composizione probabilmente per sottolineare la fedeltà al testo, in cui si legge che il Signore venne “[…] a porte chiuse […]” (Gv 20,19).
Tale iconografia non è rara nel repertorio figurativo altomedievale, tuttavia, il carattere monumentale dell’ingresso
ha permesso di stabilire dei confronti precisi, ancora una volta con Sant’Angelo in Formis per il ricorso alla stessa
tipologia a cassettoni, con l’antependium di Salerno (prima metà dell’XI secolo)79 e con l’Exultet 3 di Troia (seconda metà XII secolo)80 per la presenza del chiavistello, identico (figg. 69, 70, 71).
In questi episodi l’attenzione dedicata alla descrizione della porta, la posizione in primissimo piano e, soprattutto, le sue dimensioni, determinano per essa una posizione centrale all’interno della narrazione probabilmente
voluta anche per soddisfare un bisogno di riconoscibilità del quotidiano da parte del fedele. La raffigurazione
così dettagliata delle serrature, infatti, lascia quasi immaginare come funzionino, esattamente come i cassettoni
alludono al meticoloso lavoro di carpenteria alla base della loro esecuzione, sicché essendo tali elementi così simili a quelli di utilizzo comune anche il discorso sacro assumeva una fisionomia diversa agli occhi del fedele, più
reale e vicina81. Di nuovo, dunque, si assiste a San Vincenzo al ricorso a strategie cognitive mirate a sollecitare
l’emotività dello spettatore, con il chiaro intento di assorbirlo nel contesto sacro. Oltre alle straordinarie capacità
narrative e descrittive, a colpire degli affreschi è la particolare cifra stilistica i cui caratteri più immediatamente
riconoscibili si rivelano nella tendenza a un progressivo linearismo, nell’utilizzo di un formulario standardizzato e
nell’abitudine a dilatare le masse su un unico piano. Tali specifiche hanno permesso di rafforzare i rapporti con gli
episodi summenzionati e contemporaneamente d’individuare nuove connessioni, utili a comprendere il contesto di
appartenenza dei frammenti, le cui radici affondano nella pittura libraria della seconda metà X secolo. Opportuni
confronti82sono stati segnalati con il Pontificale Cas. 724 (B I 13) 1 (969-970)83, con il Benedizionale Cas. 724 (B
I 13) 2 (post 969)84 e con il Vat. Lat. 9820 (981-987)85, le cui immagini raccontano gli sviluppi della prima tradizione beneventana nella cultura figurativa dell’età successiva. Tali rapporti si colgono più immediatamente nelle
fisionomie, costruite realizzando l’arcata sopraccigliare e la canna nasale in un’unica soluzione, gli occhi a forma
di goccia d’acqua, gonfiando le bocche nel labbro inferiore e assottigliandole in quello superiore, infine, segnando
il mento con un archetto e le gote con pennellate rosse circolari.
Sulla base di queste caratteristiche, i volti dell’Incredulità di Tommaso sono stati associati alle figure di Cristo
nel Miracolo di Cana (fig. 79) e del vescovo nella scena con l’Unzione e il Battesimo nel Cas. 724 (BI 13) 286
(fig. 75), in cui si assiste al ricorso di tipi unici le cui differenze sono affidate a elementi “accessori” come barbe
73
e capigliature, mentre la resa dei principali tratti somatici è identica. Pertanto, i confronti potrebbero essere estesi
anche alla Maiestas dell’Exultet (fig. 78) come ai sacerdoti del Pontificale, tutti accumunati dalla caratteristica
conformazione. Già Belting aveva individuato nelle pitture dei rotoli beneventani lo sviluppo di schemi invariati
naso-sopracciglia, di grandi occhi e il ricorso a barbe e capigliature per segnalare le differenze tra i tipi precisando,
contestualmente, che tale unitarietà non era il sintomo di una volontà artistica quanto piuttosto l’espressione di un
vocabolario ereditato87 e, pertanto, effettuava dei confronti con la precedente pittura beneventana, citando tra i tipi
replicati la fisionomia dell’abate Epifanio nell’omonima cripta88.
Tuttavia, le assonanze tra il corpus in frammenti di San Vincenzo e le miniature del Benedizionale non sembrano limitarsi al solo utilizzo di tipi standard, piuttosto, sembra essere comune anche l’abitudine - caratteristica
del rotolo beneventano89 - di dilatare i volumi sullo stesso piano, definendone le masse rigonfie attraverso contorni
pesanti ed arrotondati. Questa particolare cifra stilistica trovava un contrappunto monumentale nella prima fase
decorativa dell’oratorio dei Santi Martiri (prima metà del X secolo)90, dove a Belting sembrò più forte la tendenza
alla riduzione linearistica dell’immagine. A loro volta, le fisionomie di Cimitile servirono per inquadrare gli affreschi della cripta di San Michele a Corte a Capua (2/4 del X secolo)91(fig. 73) e, insieme a queste, il I gruppo della
grotta dei Santi a Calvi (seconda metà del X secolo)92 (fig. 74) che, pur innestandosi nella “tradizione dell’officina
di X secolo”93, rivelano un “senso di fissità”94 che pure si ritrova in alcune figure degli affreschi volturnensi. Altri
confronti sono stati segnalati tra le figure della Basilica Maior e quelle dell’antica Cales, specialmente, per il ricorso alle medesime soluzioni fisiognomiche e, per conseguenza, tale parallelismo è stato esteso anche alla prima fase
di Santa Maria in Grotta a Rongolise (seconda metà del X secolo)95 (fig. 76). Tra le testimonianze in rupe alcune
fisionomie volturnensi (fig. 80) sembrano avvicinarsi ai santi della prima campagna decorativa della grotta di Castel Campagnano (figg. 81, 82), le cui caratteristiche furono anch’esse accostate al Pontificale e al Benedizionale e
pertanto ascritte al pieno X secolo96. Su quest’asse furono inserite anche le pitture di Olevano sul Tusciano97, con
le quali è stato confrontato il Cristo dell’Incredulità di Tommaso, precisamente, con l’analoga figura nella Traditio
legis et clavis (seconda metà del X secolo)98 (fig. 84), sebbene ci sembra che esso mostri maggiori punti di contatto
con un altro frammento rinvenuto nell’US 584 (fig. 85).
In conclusione, la campagna decorativa realizzata dall’abate Ilario testimonierebbe gli sviluppi nei primi
dell’XI secolo della cultura figurativa beneventana del periodo precedente, specialmente come strutturatasi nella
Benedictio Fontis, il modello di riferimento per le esperienze pittoriche successive le quali, fondendosi con la
tradizione della prima pittura beneventana, contribuirono allo sviluppo di “uno stile regionale unitario” come teorizzato da Belting99, cui partecipano pienamente gli episodi in frammenti di San Vincenzo al Volturno.
Referenze grafiche e iconografiche
Fig. 1: disegno di A. Ferretti da Marazzi 2004; fig. 2: foto Univ. Suor Orsola Benincasa, Napoli, da Marazzi 2004; figg. 3, 11: elaborazione
D. Fiorani da Marazzi 2014; fig. 4 dal Chronicon Vulturnense; figg. 5, 6, 8a, b, 9a, b, 10a, 13, 14, 16, 17, 18, 19, 20, 44, 47-49, 53, 59-62: foto
Univ. Suor Orsola Benincasa, Napoli, da Marazzi 2014; fig. 7: elaborazione di A. Gobbi da Marazzi 2014; fig. 12: foto Archivio fotografico
Soprintendenza ABAP del Molise, Campobasso; fig. 15: disegno di A. Frisetti da Marazzi 2014; fig. 21: elaborazione di F. Pizzardi da Marazzi
2014; figg.22, 23, 66, 67, 73, 76: foto M. Cuomo; figg. 81, 82, 85: foto E. Cuomo; figg. 24, 27, 29, 35-37, 40, 41, 45, 50-52: da HodgeS, MitcHell 1995; figg. 25, 26, 64: da Ferraiuolo 2019; fig. 28: da commons.wikimedia.org; figg. 32, 58: da raiMo 2007/2008; figg. 30-32: da raiMo
2007/2008, numerazione pannelli M. Cuomo, rielaborazione M. Potenza; fig. 33: da HodgeS, MitcHell 1995, rielaborazione M. Potenza; figg.
34, 38, 39: da HodgeS, MitcHell 1995, numerazione pannelli M. Cuomo; figg. 42, 43: da Brenk 2017; figg. 54, 55: da dell’acqua 1997; figg.
56, 57: foto Univ. Suor Orsola Benincasa, Napoli; fig. 63: da MattHiae 1987; figg. 65, 68, 72, 76, 80, 83, 85-87: da SaSSetti 2004; fig. 69: da
O. Morisani, Gli affreschi di Sant’Angelo in Formis, Sorrento 1962; figg. 70, 78, 79: da caVallo, d’aniello 1994; fig, 71: da Bologna 2008;
fig. 74: da Pace 2006; fig. 75: da Pace 1994.
74
Note
1
2
3
4
5
6
7
8
9
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43
44
Si rimanda, per una lettura complessiva dell’analisi archeologica
e architettonica dell’edificio, a Marazzi 2014a e ideM 2018a. Per
dovere di cronaca, va ricordato che questo contributo diverge,
su aspetti non secondari dell’interpretazione dell’edificio (come,
a esempio, la datazione dell’atrio), dalla lettura del medesimo
fornita in HodgeS, lePPard, MitcHell 2011, che appare estremamente lacunosa e viziata da due problemi principali: il fatto di
basarsi sui dati resi disponibili dall’indagine solo parziale dell’edificio basilicale e delle aree adiacenti (scavi 1994 – 1996) e la
carenza di un’analisi comparativa adeguata fra quanto emergeva dall’indagine di San Vincenzo al Volturno e l’assetto organizzativo noto per i grandi monasteri di epoca carolingia e, in
particolare, sulle funzioni in essi attribuite alla chiesa abbaziale
principale. Su questo tema chi qui scrive si è approfonditamente
misurato in Marazzi 2015.
Fiorani 2014.
caStellani 2004; giorleo, luongo 2008.
SennHauSer 2008, fig. 5.
zettler 1988, tav. 35.
Brogiolo, iBSen 2008; Brogiolo 2014.
Jurković 2001, pp. 158-159; Jurković, Mateičić 2002.
Parlato, roMano 2001, pp. 45-52.
dietl 1998.
Mcclendon 2005, pp. 176-178 e fig. 178.
loBBedey 1986, pp. 143-147.
guidoBaldi, goBBi 2008.
guidoBaldi, goBBi 2008; raiMo 2010.
GoodSon 2008; Fiorani 2014.
Mcclendon 1987, pp. 54-75.
Montagni, PeSSa 1983, pp. 35-68.
Bozzoni, carBonara 2002.
d’onoFrio 1983, p. 35.
Barelli 2002; eadeM 2009a; eadeM 2009b, pp. 29-40.
caPerna 2002; ideM 2014
Bernard 1989; ideM 2009.
Per la bibliografia relativa a tutti questi raffronti vedi IMHoF 2007;
Marazzi 2006a; ideM 2008.
CV, I, p. 375.
Marazzi 2014a, p. 196.
CV, III, p. 78.
Saladino 2000, pp. 156-158.
Betti 1999; d’onoFrio 2000.
cielo 1990; FriSetti 2010.
rotili 1979; rotili 1990.
aBBate, di reSta 1984, pp. 34-35.
cielo 2009.
Belli d’elia 1980, pp. 125-126; eadeM 2003, pp. 207, 287.
Ferraiuolo, Marazzi 2018.
PietroBono 2010.
Marazzi 2014b, p. 300.
Per un approfondimento cfr. SPeciale 2006a.
Per ragioni di spazio non è possibile trattare in questa sede le
testimonianze emerse dallo scavo delle tombe, pertanto, per un
loro approfondimento si rimanda a MitcHell et alii 1997; StraFFella 2006; Marazzi 2014a, pp. 192-211.
HodgeS, MitcHell 1995, p. 65.
iideM 1995, p. 67, fig. 4:5.
Ibidem, fig. 4:6.
iideM, p. 68.
Belting 2018, p. 100.
HodgeS, MitcHell 1995, pp. 65-66.
Le misure tengono conto dei dati registrati da HodgeS, MitcHell
1995, pp. 63-103 e raiMo 2007/2008, schede cap. VI.
45 HodgeS, MitcHell 1995; raiMo 2007/2008; ideM 2010.
46 HodgeS, MitcHell 1995.
47 Contrariamente a quanto sostenuto da Mitchell in HodgeS, MitcHell 1995, p. 112, il quale riteneva che l’accesso avvenisse
dalla rampa nord.
48 ideM, p. 77.
49 IdeM, p. 75.
50 IdeM, p. 76.
51 IdeM, p. 87.
52 IdeM, p. 103; Marazzi 2014a, p. 81.
53 HodgeS, MitcHell 1995, p. 108; catalano 2004, p. 40.
54 Ferraiuolo 2019, pp. 96-97.
55 Ibidem.
56 HodgeS, MitcHell 1995 p. 108 avevano ipotizzato che avanti le
figure fossero poste delle urne e che ad esse fosse indirizzata la
preghiera dei monaci; tuttavia, ci sembra maggiormente plausibile l’ipotesi che la preghiera dei monaci fosse indirizzata verso
gli altari addossati alla parete opposta, sui quali probabilmente
dovevano essere poggiati i reliquiari i cui frammenti furono rinvenuti in fase di scavo.
57 HodgeS, MitcHell 1995, p. 94.
58 HodgeS, MitcHell 1995; raiMo 2010.
59 Brenk 2017, p. 783.
60 raiMo 2010; Brenk 2017, p. 783.
61 Scirea 2018, pp. 213-243.
62 Per un approfondimento sui rapporti con i modelli antichi e altomedievali, nonché per le referenze fotografiche si rimanda a
HodgeS, MitcHell 1995 pp. 70, 75, 79, 82, 83, 86, 108, 112-117;
raiMo 2007/2008 pp. 245-261, 263-266, 268-273, 274-287, 289920; ideM 2010, pp. 186-189.
63 Bertelli 1994; raiMo 2010.
64 Per gli altri confronti si rimanda a HodgeS, MitcHell 1995; raiMo 2010.
65 Marazzi 2014b, pp. 110-119; cfr. anche guidoBaldi, goBBi 2008,
pp. 443-476; raiMo 2012/2013.
66 Al riguardo esaustivi sembrano essere i confronti tra i pannelli n.
3 e 13 (figg. 50, 51) e i resti pavimentali fig. 49; tra le figure nn.
58, 59, 60.
67 HodgeS, MitcHell 1995, p. 75. Per un approfondimento sulla
produzione di vetro a San Vincenzo al Volturno: dell’acqua
1997; eadeM 2002; eadeM 2003; Marazzi, d’angelo 2009; sulle
officine e la produzione monastica: HodgeS, MitcHell 1995, pp.
33-42; Marazzi 2006b; ideM 2018b.
68 Cfr. i pannelli nn. 29, 30 (fig. 53) con i materiali in figg. 52, 54,
55, 56, 57.
69 HodgeS, MitcHell 1995, pp. 81-82; raiMo 2007/2008.
70 Cfr. i pannelli n. 9, 10 (fig. 45) con le terrecotte decorative figg.
44, 46; pannello n. 7 (fig. 36) con figg. 47, 48.
71 HodgeS, MitcHell 1995; raiMo 2010.
72 Per un approfondimento sulla produzione volturnense: Marazzi
2006b; catalano 2008; HodgeS, lePPard, MitcHell 2011; Marazzi, d’angelo 2009; raiMo 2012/2013; Ferraiuolo 2013;
Marazzi 2018b.
73 la Mantia 2010, p. 226; Marazzi 2014a p. 128.
74 Per ragioni di spazio non è possibile analizzare in questa sede
tutti i frammenti ricomposti, tuttavia, per un approfondimento si
rimanda a: catalano 2004; catalano, raiMo 2004; Il laboratorio per lo studio e la ricomposizione 2004; SPeciale 2006b;
eadeM 2010; Marazzi 2014a.
75 Pace 1994a, p. 248; SPeciale 1997, pp. 186-187.
76 Bordi 2010, p. 96.
75
77
78
79
80
81
82
83
84
85
86
87
88
cuoMo 2017, pp. 140-141.
la Mantia 2010, p. 230; la Mantia, raiMo 2013, p. 16.
Bologna 2008, p. 87.
MagiStrale 1994, p. 423; la Mantia, raiMo 2013, p. 16.
keSSler 2016, pp.130-131.
MagiStrale 1994, p. 424; la Mantia 2010, pp. 228-229.
Brenk 1994a, p. 75.
Brenk 1994b, p. 85.
Pace 1994b, p. 101.
la Mantia 2010, pp. 228-229; la Mantia, raiMo 2013, p. 17.
Belting 2018, pp. 98, 149.
ideM, pp. 150-151.
89
90
91
92
93
94
95
96
97
98
99
IdeM, pp. 223-224.
IdeM, p. 223.
ideM, p. 98.
IdeM, p. 109; Piazza 2006, p. 146.
ideM, p. 109.
ideM, p. 110.
torriero, SPeciale 1994, pp. 64-65; Piazza 2006, p. 162; la
Mantia 2010, p. 230.
gerVaSio 2009, p. 13; raPuano, rotili 2015, p. 362.
Belting 2018, p. 117.
zuccaro 1977, p. 114.
Belting 2018, p. 233.
76
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