LRCW3
Late Roman Coarse Wares,
Cooking Wares and Amphorae
in the Mediterranean
Archaeology and archaeometry
Comparison between western and eastern
Mediterranean
Edited by
Simonetta Menchelli, Sara Santoro,
Marinella Pasquinucci and Gabriella Guiducci
Volume I
BAR International Series 2185 (I)
2010
Published by
Archaeopress
Publishers of British Archaeological Reports
Gordon House
276 Banbury Road
Oxford OX2 7ED
England
[email protected]
www.archaeopress.com
BAR S2185 (I)
LRCW3 Late Roman Coarse Wares, Cooking Wares and Amphorae in the Mediterranean: Archaeology
and archaeometry. Comparison between western and eastern Mediterranean. Volume I.
© Archaeopress and the individual authors 2010
Cover illustration : Eratosthenes map (drawing by Giulia Picchi, Pisa, after G. Dragoni, Eratostene e l'apogeo della scienza
greca, Bologna 1979, p.110).
Papers editing: Giulia Picchi, Pisa
ISBN 978 1 4073 0736 7 (complete set of two volumes)
978 1 4073 0734 3 (this volume)
978 1 4073 0735 0 (volume II)
Printed in England by Blenheim Colour Ltd
All BAR titles are available from:
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122 Banbury Road
Oxford
OX2 7BP
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PISA – VIA MARCHE: LE ANFORE DELLA NECROPOLI TARDOANTICA
ALESSANDRO COSTANTINI
Scuola di Dottorato in Archeologia, Università di Pisa. Via C. Colombo 12, Fucecchio (FI) (
[email protected])
Recenti scavi effettuati sotto la direzione della Soprintendenza Archeologica della Toscana nel suburbio settentrionale di Pisa hanno
messo in luce un ampio settore di una necropoli con circa 194 inumazioni, prevalentemente in semplice fossa terragna, alla
cappuccina e ad enchytrismòs. Il sepolcreto si caratterizza per l’estrema povertà e per la quasi totale assenza di oggetti di corredo,
cosicché solo la determinazione della tipologia delle anfore reimpiegate nelle tombe ha permesso di coglierne i limiti temporali. Le
sepolture ad enchytrismòs rappresentano circa il 40% del totale, con inumati sia di età infantile che di età adulta. I contenitori
utilizzati sono inquadrabili in un arco cronologico compreso tra fine II – inizio III secolo d.C. e il V secolo d.C.: le attestazioni sono
riferibili quasi esclusivamente a produzioni africane (Africana II A, C, D, Keay 25, Keay 27, Keay 36, Keay 35) e lusitane (Almagro
51 a-b, c), che consentono di ampliare le conoscenze sulle direttrici commerciali che coinvolgono la città di Pisa e, in generale,
l’Etruria settentrionale in età tardoantica.
PAROLE CHIAVE: ITALIA, PISA, NECROPOLI TARDOANTICA, ENCHYTRISMOS, ANFORE AFRICANE, LUSITANE.
unico spazio: in questi casi si nota una particolare attenzione per
il punto di giunzione tra le anfore, protetto di solito da
frammenti ceramici. Nonostante l’ampio numero di sepolture ad
enchytrismòs, i contenitori sicuramente identificabili sono
relativamente pochi, a causa dell’estrema frammentarietà di
alcuni esemplari e dall’assenza dell’orlo, solitamente asportato
per l’inserimento del defunto.
IL CONTESTO
Le indagini condotte negli anni 2005 – 2006 sotto la direzione
della Soprintendenza Archeologica della Toscana nella zona
settentrionale di Pisa, presso l’attuale via Marche, all’esterno
del circuito murario medievale, hanno portato al rinvenimento
di un vasto settore di un sepolcreto di età tardoantica con circa
194 tombe, esclusivamente ad inumazione. La destinazione
funeraria dell’area in questione, situata nell’immediato suburbio
della città di età romana, risale ad epoca ben più antica, come
dimostrano i numerosi rinvenimenti effettuati a più riprese nella
zona (Banti 1943, 88) e soprattutto i cinerari di età villanoviana
rinvenuti al di sotto delle tombe tardoantiche, in uno dei settori
del sepolcreto (Paribeni et al. 2006, 232). Lo scavo ha permesso
di indagare solo una porzione- anche se piuttosto estesa- del
cimitero, per cui ancora ci sfuggono la sua reale estensione e il
rapporto con l’area urbana e il resto del suburbio. La necropoli
si impianta probabilmente nei pressi di un tracciato stradale
diretto a settentrione, verso Lucca, da identificare con l’iter a
Luca Pisas m. p. XII menzionato dall’Itinerarium Antonini; non
lontano doveva pure trovarsi l’antico corso del fiume Auser,
che, proveniente da Nord Est, lambiva l’area occupata dalla
necropoli, dirigendosi verso Ovest (Pasquinucci 2003, 81-85).
Lo studio delle anfore della necropoli ha consentito di
determinare i limiti cronologici del settore indagato, compresi
tra fine II- inizio III d.C. e il V secolo d.C., in attesa dello studio
dei pochi oggetti di corredo rinvenuti.
Le produzioni individuate sono riferibili sostanzialmente a tre
ambiti geografici, l’Africa, la Lusitania e l’Italia- quest’ultima
rappresentata da scarsissime attestazioni- su cui ci si è basati per
una prima distinzione tra i reperti.
ANFORE AFRICANE
Il nucleo più antico della necropoli sembra da individuare in
un’area caratterizzata da una maggiore concentrazione delle
sepolture e dall’esistenza di due file perpendicolari di tombe,
quasi esclusivamente di adulti in fossa terragna: nell’angolo
formato dalla loro intersezione, si colloca un piccolo gruppo di
tombe di infanti in anfora, disposte in maniera più disordinata.
La maggiore antichità di questo settore è stata determinata
grazie all’identificazione dei contenitori reimpiegati, tutti di
produzione africana.
Le deposizioni sono in prevalenza a semplice fossa terragna, ad
enchytrismòs e, in numero minore, a cappuccina. Le sepolture,
che non presentano elementi di corredo ad eccezione di
pochissimi casi, sono realizzate in massima parte con materiali
di reimpiego dallo scarso valore economico, e appartengono
molto probabilmente ad individui dei ceti più modesti della
compagine sociale pisana di età tardoantica.
L’anfora più antica di questo gruppo è riutilizzata nella tomba
130 (Fig. 1, 1), rinvenuta pressoché integra. Caratterizzata da
schiarimento esterno di colore biancastro, presenta un impasto
ceramico di colore rosso vivo con numerosissimi inclusi bianchi
di grandi e medie dimensioni, che tendono a formare delle vere
e proprie striature all’interno del corpo ceramico. Il contenitore
appartiene con molta probabilità alla forma Ostia LIX,
individuata nelle stratigrafie ostiensi da Clementina Panella
(1973, 571-572, tav. XLVIII, Fig. 386). Oltre che per la forma
generale, l’anfora della tomba 130 trova strette analogie con la
forma LIX anche per l’aspetto delle anse, che nelle altre
produzioni africane sono di solito più massicce. Questa forma,
di produzione africana, è attestata quasi esclusivamente in siti
dell’Italia tirrenica e in Africa settentrionale, e sembra prodotta
in quantità consistenti nel periodo compreso tra l’età flavia e la
seconda metà del II secolo d.C., come mostrano le stratigrafie di
Le tombe in anfora, con 78 attestazioni, rappresentano circa il
40% del totale. Nella maggior parte dei casi questo tipo di
sepoltura è riservata ad individui in età infantile, sebbene
l’introduzione nel IV-V secolo d.C. di contenitori di lunghezza
e ampiezza maggiori abbia permesso di deporre in anfora anche
defunti in età adulta: su 78 tombe ad enchytrismòs della
necropoli di via Marche, solamente 20 appartengono ad adulti.
Nell’insieme delle sepolture di questo tipo si notano diversi
gradi di accuratezza riguardo alla sistemazione della tomba.
Allorché una sola anfora non sia sufficiente a contenere il
defunto, si ricorre all’utilizzo di due contenitori, spesso di
diverso tipo, tagliati all’altezza della spalla e uniti a formare un
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LRCW3
Ostia (Panella 1973, 571): non si può tuttavia escludere che la
produzione sia proseguita, in quantità modeste, fino alla fine del
II - inizio III secolo d.C., come indurrebbe a pensare
l’esemplare rinvenuto a Porto Torres in strati formatisi in questo
ambito cronologico, pur potendo costituire un residuo più antico
(Villedieu 1984, 181, 325, Fig. 241). Sulla base di queste
considerazioni e delle anfore individuate a breve distanza, si
propone per la deposizione della tomba 130 una datazione alla
fine del II - inizio III secolo d.C., tenuto conto anche che tra la
produzione del contenitore e il suo ultimo impiego nella
sepoltura può essere intercorso un certo intervallo di tempo.
l’uso del greco in una provincia d’Occidente, esso è altresì
attestato su una Africana II A e su una Africana I B, che recano
incise sul collo rispettivamente le lettere ΠΙ e Φ, entrambe
rinvenute a Pupput (Bonifay 2004, 19-20, Fig. 8, nn. 1-2), cui si
aggiungono i pochi frammenti di anfore africane scoperti a Bir
Ftouha, presso Cartagine, su cui sono graffite lettere greche
isolate (Kalinowsky 2005, 169). Riguardo all’interpretazione
del nostro graffito, sembra alquanto probabile che le tre lettere
incise rappresentino l’abbreviazione del termine ΑΛΛ(ΕΧ) o
ΑΛΛ(ΕΞ), che indica una salsa di pesce più densa e meno
pregiata del garum in quanto residuo della sua lavorazione: una
simile lettura appare coerente con l’incisione delle lettere dopo
la cottura, verosimilmente eseguita al momento dell’effettivo
utilizzo del contenitore nelle officinae di lavorazione del
pescato (Costantini c.s.).
Nelle vicinanze si trova la tomba 100 (Fig. 1, 2), il cui
contenitore è costituito da una Africana I B/ Keay III B (Keay
1984, 100-104, Fig. 38), che si contraddistingue per l’orlo
ingrossato e il puntale a bottone. L’anfora trova confronti
abbastanza precisi in alcuni esemplari assegnati da Keay alla
variante B, che non presentano la caratteristica concavità sulla
faccia interna ma, come il nostro reperto, hanno un orlo
piuttosto spesso, meno convesso all’esterno (Keay 1984, 104,
Fig. 38, nn. 3, 5, 7, 9). Avvicinabili a questo contenitore sono
anche le anfore rinvenute nel “relitto delle colonne” nelle acque
di Camarina, in Sicilia (Parker 1976, 27-28, figg. 3-6). In base
alla forma di appartenenza, l’Africana I della tomba 100 è
databile tra la fine del II secolo d.C. e la metà del successivo.
La tomba 124 copre direttamente la tomba 130, ed è dunque
posteriore ad essa, sebbene non sia possibile stabilire quanto
tempo sia intercorso tra le due deposizioni. L’anfora utilizzata
(Fig. 1, 3), estremamente frammentaria, può essere identificata
come Africana II A/ Keay 4, variante A3 di Bonifay (2004,
111). L’orlo ha il bordo esterno leggermente pendente, molto
simile all’esemplare R/4/- pubblicato da Keay, il quale
differisce solo per l’assenza della pendenza esterna, assegnato al
tipo Africana II A “senza gradino” (Keay 1984, 110-114, 117,
Fig. 44, n. 3); a questo confronto si può aggiungere un orlo
recuperato ad Ostia in strati databili ante 280-300 d.C. (Palma e
Panella 1968, 110-111, 116, tav. XLII, n. 559). La variante A3 è
databile alla metà- seconda metà del III secolo d.C. (Bonifay,
2004, 111).
Tra i contenitori della necropoli di via Marche sono presenti
anche quattro esemplari di “anfore africane cilindriche di medie
dimensioni” (Keay 25).
A questo tipo appartiene l’anfora della tomba 86 (Fig. 1, 6),
sconvolta da eventi successivi alla deposizione, di cui si
conserva solo l’orlo e il puntale cilindrico, corto e abbastanza
massiccio. L’orlo è accostabile all’esemplare E/P/63 pubblicato
da Keay e attribuito alla variante G (Keay 1984, 186, 201, Fig.
79, n. 9). La variante G, inserita da Bonifay nel sottotipo 3
(Bonifay 2004, 119), è databile tra gli inizi del IV e la metà del
V secolo d.C. (Keay 1984, 195).
L’anfora della tomba 232 (Fig. 1, 7) ha l’orlo fortemente
estroflesso, con le anse molto ravvicinate al collo. Questa anfora
ha un confronto molto puntuale in un reperto inserito da Keay
nella variante Q, l’orlo T/1/259, simile anche per la forma delle
anse, per quanto non integre (Keay 1984, 188, 204, Fig. 82, n.
4). Ad Ostia, un frammento simile di orlo è stato recuperato in
strati di fine IV- inizi V secolo d.C. (Manacorda 1977, 251).
A Roma, questa variante compare presso la Schola Praeconum,
in strati riconducibili agli anni 430-440 d.C., ritrovamento di
notevole interesse perché rappresenta l’attestazione più tarda
proveniente da contesti databili non solo della variante Q, ma in
generale del tipo Keay 25 (Whitehouse 1979, 280-281, Fig. 2, n.
4; Keay 1984, 197). Il sottotipo 2 distinto da Bonifay, cui
appartiene questa variante, è datato in generale al IV secolo
d.C.; appare abbondantemente attestato a Nabeul nella seconda
metà del secolo, anche se, in associazione al sottotipo A, è
presente ad Arles in quantità non trascurabili ancora verso il
400 d.C. (Bonifay 2004, 122). Sulla base dei confronti, l’anfora
della tomba 232 sembra da collocare con molta probabilità tra la
fine del IV e gli inizi del V secolo d.C.
A questo gruppo di sepolture in anfora appartiene anche una
Africana II D/Keay 7 utilizzata nella tomba 101 (Fig. 1, 4).
L’orlo è molto simile ad alcuni esemplari distinti da Keay in
base alla convessità esterna dell’orlo, caratteristica assente nelle
versioni canoniche della forma, ed in particolare al reperto
T/8/1, che appare però leggermente più estroflesso (Keay 1984,
122-124, Fig. 46, n. 8).
Il gruppo di sepolture di cui fanno parte le tombe 130-100-124101 sembra dunque essersi formato, stando ai contenitori
utilizzati, nel periodo compreso tra la fine del II e la metà del III
secolo d.C.: l’appartenenza della tomba 101 a questo insieme
permette dunque di proporre una datazione del contenitore
intorno alla metà del III secolo d.C. e quindi all’inizio della
produzione di questa forma.
Al tipo Keay 25 è quasi sicuramente da riferire anche l’anfora
della tomba 40, nonostante sia priva dell’orlo, come
suggeriscono l’aspetto generale e la forma del puntale (Fig. 1,
8). Il corpo è stretto e allungato, terminante in un puntale pieno
dall’estremità ingrossata “a bulbo”. Per queste caratteristiche
l’anfora è avvicinabile ad un’anfora integra rinvenuta ad Ostia
(Bonifay 2004, 118-119, n. 15), e databile al IV secolo d.C.
Sempre a questo tipo appartiene probabilmente anche il puntale
della tomba 145 (Fig. 1, 9), sebbene l’assenza delle altri parti
dell’anfora renda impossibile l’assegnazione ad una variante
specifica. Il puntale è piuttosto corto, e reca una linea verticale
incisa prima della cottura. L’identificazione proposta per questo
reperto è motivata dalla forte somiglianza col puntale di una
Keay 25 sottotipo 1 rinvenuta nel relitto Heliopolis 1, databile
tra la fine del III e gli inizi del IV secolo d.C. (Joncheray 1997,
148, n. 1).
Un’altra Africana II D è stata rinvenuta in un diverso settore
della necropoli. Si tratta dell’anfora riutilizzata nella tomba 221
(Fig. 1, 5), conservata quasi per intero. La morfologia dell’orlo
consente di riferire il reperto alla variante 1 distinta da Bonifay
(2004, 115). L’orlo trova confronti con l’esemplare R/5/- di
Keay, non convesso all’esterno (Keay 1984, 124, Fig. 46, n. 3);
il reperto più simile proviene tuttavia da Luni, sul quale
compare anche parte di un bollo (Lusuardi Siena 1973, 450, tav.
78, n. 24). La particolarità di questo contenitore risiede nel
graffito realizzato all’altezza della spalla: esso è costituito da tre
lettere di piccole dimensioni in alfabeto greco, che compongono
il termine AΛΛ. Le incisioni sono sottili e poco profonde,
eseguite dopo la cottura. Per quanto possa sembrare insolito
330
A. COSTANTINI: PISA – VIA MARCHE: LE ANFORE DELLA NECROPOLI TARDOANTICA
Qualche problema di identificazione ha posto il contenitore
reimpiegato nella tomba 67 (Fig. 1, 10): l’orlo permette, seppur
con qualche riserva, di riferire l’anfora alla forma Keay 11
(Keay 1984, Fig. 50, n. 2), da intendere non come l’equivalente
della Tripolitana III , ma come un tipo particolare prodotto in
Africa, ben attestato alla fine del IV e nel V secolo d.C. a Roma
(Schola Praeconum: Whitehouse et al. 1982, Fig. 13, n. 175), e
a Marsiglia (Bonifay 1986, Fig. 6, n.19). Un confronto possibile
per questo esemplare è rappresentato da un’anfora rinvenuta a
Savona, nella necropoli del Priamàr, il cui orlo è molto simile al
nostro, che viene identificata come esempio tardo di Africana II
D, databile genericamente nel IV secolo d.C. (Lavagna e
Varaldo 1988, 195-196, Fig. 15).
L’anfora della tomba 75 (Fig. 2, 5) appartiene invece alla forma
B, sulla base dell’orlo estroflesso a sezione triangolare,
confrontabile col reperto B/5/7 di Keay (1984, 239, Fig. 101, n.
4). Per l’aspetto generale, al tipo Keay 35 vanno verosimilmente
riferiti anche i due contenitori riutilizzati nella tomba 60, oltre ai
puntali delle tombe 218 e 227. L’esemplare della tomba 227
(Fig. 2, 6) è corto e massiccio; quello della tomba 218 (Fig. 2,
7), invece, è di forma troncoconica e internamente cavo, per il
quale non sono stati trovati confronti puntuali. Ad eccezione di
quest’ultimo reperto, tutti gli altri esemplari di Keay 35
mostrano lo stesso impasto ceramico, dalla matrice di colore
rossastro con scarsa frequenza di inclusi di piccole dimensioni,
senza tracce di schiarimento esterno, indizio della
concentrazione delle officine nella stessa area geografica. Le
Keay 35 sono prodotte nell’ambito del V secolo d.C., e sono tra
i contenitori più diffusi nel bacino occidentale del Mediterraneo
nei primi due terzi di questo secolo (Bonifay 2004, 135).
Dalla necropoli di via Marche provengono anche numerosi
contenitori appartenenti all’insieme delle “anfore cilindriche di
grandi dimensioni”, che per la loro grandezza e capacità
risultano particolarmente adatti ad accogliere le spoglie di
defunti, anche di età adulta. Nell’area indagata sono stati
individuati i tipi riferiti alla “prima generazione” di queste
produzioni (Bonifay e Piéri 1995, 98), in cui rientrano le anfore
Keay 27 e Keay 36.
ANFORE DI INCERTA ATTRIBUZIONE
Per tre contenitori della necropoli, pur essendo di sicura origine
africana, in base alle caratteristiche morfologiche e soprattutto
all’impasto ceramico, non sono stati trovati in letteratura
confronti convincenti.
Al primo tipo, databile tra la seconda metà del IV e il V secolo
d.C. (Bonifay 2004, 132), appartiene almeno uno dei contenitori
della tomba 59, di cui si conserva l’orlo con le anse, messo di
rincalzo presso la deposizione, e l’orlo frammentario con
attacco d’ansa della tomba 136. L’esemplare della tomba 59
(Fig. 2, 1) ha orlo verticale indistinto, con anse a nastro
impostate pochi centimetri sotto l’orlo, molto simile all’orlo
T/1/98 pubblicato da Keay (1984, 221, Fig. 92, n. 1). Anche
l’orlo della tomba 136 è verticale e indistinto, con
rigonfiamento della parete interna e terminazione appuntita,
molto simile all’orlo proveniente da La Lansargues, che appare
però leggermente più estroflesso (Bonifay 2004, 130, 132, Fig.
70, n. 2). In base alle caratteristiche morfologiche, le Keay 27 di
via Marche sono da inquadrare nella variante A definita da
Bonifay, datata alla seconda metà del IV secolo d.C. (Bonifay
2004, 132).
Il primo fra questi, relativo alla tomba 125 (Fig. 2, 8-9), fa parte
del gruppo più antico di anfore precedentemente descritto
(tombe 130-100-124-101): si tratta di un contenitore di grandi
dimensioni, con orlo appuntito, che presenta all’interno un
rigonfiamento piuttosto marcato. Il puntale tende ad ingrossarsi
nella porzione inferiore, pur avendo la base piatta; le anse sono
di grandi dimensioni, a sezione pressoché triangolare.
L’impasto è di colore arancio, piuttosto depurato, privo di
schiarimento esterno. Nel complesso, questo contenitore ha una
forma alquanto singolare: esso proviene forse da zone di
produzione non ancora indagate approfonditamente, situate
probabilmente nell’attuale Algeria. L’unico indizio ricavabile
dal contesto di rinvenimento riguarda la datazione del reperto,
in quanto l’appartenenza ad un insieme di anfore databile nel
complesso alla fine del II- metà III secolo d.C. suggerisce di
riferire l’anfora al medesimo ambito cronologico.
Al tipo Keay 36, molto diffuso nel Mediterraneo occidentale in
contesti databili nei primi due terzi del V secolo (Bonifay 2004,
132), è relativo il contenitore della tomba 1 (Fig. 2, 2), che
presenta orlo ingrossato a sezione circolare, molto simile al
reperto CS/2 descritto da Keay, un’anfora di circa 1 m di altezza
con corto puntale a bottone, assegnato alla forma B (Keay 1984,
241, 243, Fig. 103, n. 2); la Keay 36 da via Marche sembra
differire solo per lo spessore più esile delle anse.
Altro contenitore non identificabile con certezza è relativo alla
tomba 102 (Fig. 3, 1), di cui si conservano solo scarsi
frammenti. L’argilla è di colore rosso acceso con pochissimi
inclusi di vario tipo; all’esterno ci sono evidenti tracce di
schiarimento esterno di colore bianco. Per le caratteristiche del
contenitore si potrebbero proporre confronti con le Keay 25 più
tarde, soprattutto con due orli pubblicati da Keay e assegnati
alla variante Q (Keay 1984, 204, Fig. 82, nn. 6, 8): tuttavia,
sembra preferibile restare prudenti sull’attribuzione di questo
reperto.
Ai tipi Keay 27 o Keay 36 sono con ogni probabilità attribuibili
anche altri contenitori privi dell’orlo reimpiegati nelle sepolture
di via Marche, la cui identificazione è resa possibile dalla
presenza del puntale, dalla caratteristica forma a bottone poco
pronunciato e inferiormente appiattito: si tratta delle tombe 119,
172, 224 (Fig. 2, 3). Altro elemento a favore di questa
identificazione è costituito dall’impasto ceramico, di colore rosa
e piuttosto depurato, privo di schiarimento esterno, che sembra
al momento esclusivo di questi due tipi e che indica forse la
provenienza da aree ad occidente di Cartagine (Bonifay 2004,
132).
Il terzo contenitore proviene dalla tomba 226 (Fig. 3, 2), che ha
restituito solo un frammento dell’orlo e del collo con attacco
dell’ansa. L’impasto è di colore rosso acceso con pochi inclusi,
la superficie esterna è di colore violaceo. In base alle poche
parti superstiti, l’anfora appare simile alle Keay 39, provenienti
dal cimitero paleocristiano di Tarragona, databili tra il IV e la
metà del V secolo d.C. (Keay 1984, 250-251, Fig. 108, n. 2).
Ancora alla prima generazione di anfore cilindriche di grandi
dimensioni, sono da riferire le Keay 35. Appartengono
sicuramente a questo tipo le anfore delle tombe 216 e 75: la
prima (Fig. 2, 4) è assegnabile alla variante A sulla base delle
caratteristiche morfologiche, ed ha un confronto piuttosto
puntuale nell’orlo T/4/52 pubblicato da Keay (1984, 240-241,
Fig. 99, n. 1).
ANFORE LUSITANE
Oltre ai contenitori di produzione africana, appaiono numerosi
anche quelli provenienti dalla Lusitania, seppure con un numero
minore di attestazioni.
Il tipo maggiormente rappresentato è l’Almagro 51 a-b/ Keay
19, prodotto nel periodo compreso tra la seconda metà del III e
331
LRCW3
la metà del V secolo d.C. (Villa 1994, 379; Keay 1984, 160) in
centri della Lusitania dislocati in particolare nella valle del Sado
e in Algarve, e destinato al trasporto di salse di pesce (Mayet
2001, 279-281).
terragna come copertura degli arti inferiori, mentre il resto del
corpo è privo di protezione (Fig. 3, 7). Questa singolare
consuetudine è attestata anche in altre tombe, dove però sugli
arti inferiori è solitamente deposta una tegola.
Dalla necropoli di via Marche provengono almeno tre esemplari
(tombe 163, 203, 149), oltre ad un puntale facilmente
riconoscibile per l’aspetto e per le caratteristiche del corpo
ceramico (tomba 167). Le anfore appartenenti a questo tipo
sono infatti realizzate in un impasto dalla matrice di colore
variabile da beige chiaro a arancio con numerosi inclusi bianchi
e neri, poco tenace e facilmente scalfibile, sulla cui superficie
esterna non compaiono tracce di schiarimento.
Per nessuna delle due anfore è conservato l’orlo o il puntale,
essendo presenti solo grandi frammenti delle pareti e buona
parte di una delle anse del contenitore della tomba 129.
L’identificazione come anfore di Empoli è consentita
dall’aspetto delle parti superstiti, dalle loro ridotte dimensioni, e
soprattutto dall’impasto ceramico, di color rosa-arancio molto
tenace, con scarsissima frequenza di inclusi bianchi di piccole
dimensioni, che si discosta nettamente da quello utilizzato per i
contenitori africani e lusitani. La superficie esterna reca ben
evidenti le tracce dell’uso del tornio. Questo contenitore è
attestato nel periodo compreso tra la fine del II e il V secolo
d.C., con un incremento delle attestazioni dal IV fino alla metà
del V secolo d.C. (Villa 1994, 346). La produzione riguarda
numerosi centri dislocati nella valle dell’Arno e del Cecina, tra
cui la stessa Pisa (Cherubini et al. 2006, 73-74).
Nonostante la relativa esiguità del campione di riferimento, gli
orli recuperati mostrano in maniera esemplare l’ampia gamma
delle varianti esistenti. Facendo riferimento alla suddivisione
interna del tipo proposta da Keay, l’anfora della tomba 203
(Tav. 3, Fig. 3) costituisce un ottimo esempio della forma A, in
virtù del collo largo e corto, molto simile al reperto T/1/85
(Keay 1984, 161, Fig. 61, n. 1). L’orlo della tomba 163 (Fig. 3,
4), che ha l’estremità inferiore leggermente pendente,
appartiene invece alla forma B (Keay 1984, 164, Fig. 64),
mentre l’anfora della tomba 149 (Fig. 3, 5) è riferibile alla
forma C, per l’orlo piuttosto estroflesso, simile all’orlo R/2/- di
Keay (1984, 166, Fig. 66, nn. 9-11).
CONCLUSIONI
La lacunosità dei dati e l’impossibilità di indagare l’area
sepolcrale nella sua estensione non permettono ovviamente di
formulare conclusioni definitive. Tuttavia, gli elementi in nostro
possesso indicano che il settore della necropoli tardoantica
individuato presso via Marche si colloca nel periodo compreso
tra fine II - inizio III secolo d.C. e il V secolo d.C. Ad eccezione
del nucleo primitivo di sepolture già descritto (tombe 100-101124-125-130), non sembra possibile ricostruire le dinamiche di
sviluppo del sepolcreto per le epoche successive sulla base della
cronologia delle anfore reimpiegate: in generale, l’unico
elemento che spicca è la minore densità delle sepolture rispetto
all’insieme iniziale. La fine dell’utilizzo è forse da collegare al
sorgere di altri sepolcreti nelle vicinanze, probabilmente
connessi a nuovi luoghi di culto cristiani: la necropoli di via
Marche sembrerebbe infatti sostituita da quella scoperta nella
vicina Piazza del Duomo, databile tra l’età tardoantica e il pieno
medioevo (Bruni 1995, 164-172). Nonostante l’interruzione del
regolare utilizzo dell’area nel V secolo d.C., la presenza in
alcune tombe di oggetti di corredo legati all’abbigliamento – tra
cui una fibbia in bronzo e un coltello in ferro rinvenuti nella
tomba di un bambino - fa supporre che in questa area si sia
continuato occasionalmente a seppellire anche in epoca
successiva.
Per le caratteristiche dell’impasto e della forma conica, è da
annoverare tra le Almagro 51 a-b anche il puntale della tomba
167, confrontabile con l’esemplare B/3/207 pubblicato da Keay
(1984, 167, Fig. 67, n. 10).
I rinvenimenti di Pisa si aggiungono alle altre attestazioni lungo
le coste dell’Etruria, tra cui Luni, in strati datati tra la fine del
IV e gli inizi del V secolo d.C. (Lusuardi Siena 1985-1987, 295,
299, Fig. 8 n. 7), Vada (Pasquinucci e Menchelli 2005, 63), San
Rocchino presso Massarosa (Lucca) (Ciampoltrini et al. 1991,
713-714, Fig. 9), l’isola del Giglio (Rendini 1991, 109-110, 112,
Fig. 81).
L’altra produzione lusitana individuata in via Marche è
l’Almagro 51 c/ Keay 23, utilizzata nella tomba 170 (Fig. 3, 6).
L’anfora ha le anse complanari all’orlo a mandorla, nettamente
distinto dal collo, il cui diametro appare leggermente più largo
rispetto agli esempi pubblicati in letteratura (Villa 1994, 374,
Fig. 5, nn. 11-12; Mayet 2001, 280, Fig. 1, nn. 5-6); il corpo ha
profilo piriforme, il puntale è cilindrico internamente cavo.
L’impasto è molto fragile, di colore arancio, con alta frequenza
di inclusi di colore nero e grigio, nettamente diverso rispetto a
quello delle Almagro 51 a-b; l’esterno non presenta tracce di
schiarimento. Un confronto possibile per il nostro esemplare è
rappresentato dall’orlo T/1/233 pubblicato da Keay, anch’esso
caratterizzato dal diametro piuttosto ampio del collo (Keay
1984, Fig. 69, n. 3).
Le indicazioni di carattere economico e commerciale che
emergono dallo studio di questi contenitori si inseriscono
pienamente nel panorama di conoscenze già acquisite sulla città
(Barreca 2006; Menchelli 2003) e, in generale, sull’Etruria
settentrionale costiera (Luni, Vada) (Lusuardi Siena 1973;
Pasquinucci e Menchelli 2005; Pasquinucci e Menchelli 2006).
I dati fin qui emersi confermano ancora una volta l’importanza
di Pisa come scalo commerciale lungo le principali rotte
mediterranee anche in età tardoantica; non bisogna inoltre
dimenticare il suo ruolo vitale anche per gli insediamenti
dell’interno, considerato che dalla città le merci venivano
redistribuite verso l’entroterra tramite le vie fluviali (Ducci et
al. 2006, 241; Menchelli 2003, 102).
Anche questo tipo si data tra il secondo quarto del III e la prima
metà del V secolo d.C. (Panella 2001, p. 206); esso è distribuito
in maniera piuttosto capillare, anche se in quantità limitate,
lungo le coste del Tirreno settentrionale e in alcuni siti
dell’interno, tra cui Albenga, Genova, Luni, Viareggio, Fiesole,
Cosa (Villa 1994, 381, con bibliografia), Lucca (Ciampoltrini et
al. 2005, 330), oltre a rinvenimenti nella stessa Pisa, nell’area
delle navi di San Rossore (Barreca e Giannini 2006, 76).
L’uso a scopo sepolcrale ha presupposto ovviamente la
selezione dei contenitori più adatti e più capienti, quindi le
attestazioni non costituiscono uno specchio fedele del volume di
importazioni e delle percentuali tra le varie produzioni: a questo
fenomeno va senza dubbio riferita l’assenza di numerosi tipi di
anfore, tra cui quelle di produzione orientale, ben attestate nel
territorio (Menchelli 2003, 102). L’unico elemento che merita
attenzione riguarda l’assenza delle anfore cilindriche di grandi
ANFORE ITALICHE
Nella necropoli pisana, le attestazioni di anfore di produzione
italica sono limitate a grandi frammenti di parete di anfore di
Empoli utilizzati in due sepolture (tombe 129, 140) in fossa
332
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dimensioni (Keay 35, Keay 27, Keay 36) nelle stratigrafie
tardoantiche di Pisa prima della scoperta della necropoli di via
Marche, pur essendo attestate tra i materiali di Portus Pisanus
(Ducci et al. 2006, 239) e in insediamenti del Valdarno, tra cui
Firenze (Cantini 2007, 241-244, tavv. XX-XXI, nn. 16.55, 56,
61, 62, 64), a cui sono giunti evidentemente tramite la rete
portuale della città. Quest’ultima considerazione indica quanto
siano ancora lacunose le nostre conoscenze sulle vicende che
hanno riguardato Pisa in età tardoantica, e pone l’accento sulla
necessità di nuove e accurate ricerche nell’area urbana.
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Fig. 2.
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LRCW3
Fig. 3.
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