Matteo Munari
La fine di Q (Mt 19,28 // Lc 22,28-30)
Mt 19,28 ... κρίνοντες τὰς δώδεκα φυλὰς τοῦ Ἰσραήλ
Lc 22,30 ... τὰς δώδεκα φυλὰς κρίνοντες τοῦ Ἰσραήλ
In genere, all’inizio e alla fine di un’opera letteraria emerge in modo piuttosto chiaro l’obiettivo che il suo autore si è dato, quando ha deciso di scrivere. Coloro che nella ricerca sulla questione sinottica aderiscono alla teoria
delle due fonti sono quindi invitati a porre speciale attenzione all’inizio e alla
fine di Q. Di conseguenza, meritano particolare interesse la predicazione di
Giovanni Battista (Mt 3,7-12 // Lc 3,7-9.16-17) e la promessa rivolta da Gesù
ai suoi discepoli, di sedere cioè su (dodici) troni per giudicare le dodici tribù
di Israele (Mt 19,28 // Lc 22,28-30). Queste due pericopi infatti sono generalmente riconosciute rispettivamente come l’inizio e la fine di Q1.
L’idea di fondo che ha condotto molti ricercatori a considerare il logion dei
troni come finale di Q è che l’ordine di detta fonte sia da cercare nel terzo
vangelo2, nel quale l’ultimo passo della duplice tradizione (Mt e Lc) è collocato nel contesto dell’ultima cena (Lc 22,28-30). Nell’ordine di Mt invece,
l’ultimo passo della duplice tradizione è la parabola dei talenti (Mt 25,14-30)
o delle mine (Lc 19,12-27). Si tratta anche in questo caso di un passo di carattere escatologico, che avrebbe forse i requisiti per essere considerato la fine
dell’ipotetica Q.
Il fatto che una raccolta di detti del Signore terminasse con la promessa di
una sorta di intronizzazione dei discepoli, tuttavia, risulta maggiormente affascinante e per alcuni autori, il contenuto di tale logion è addirittura indizio del
genere letterario dell’intera Q3. In ogni caso, una promessa del genere costituirebbe indubbiamente una determinante chiave interpretativa4. Se Q terminava
Cf. Fleddermann, Q. A Reconstrcuction, 210, 864.
Cf. Kloppenborg, The Formation of Q, 64-80.
3
Bammel ha pensato che Q fosse una sorta di testamento e per questo terminasse con una
promessa rivolta ai discepoli. Cf. Bammel, “Das Ende von Q”.
4
Cf. Fleddermann, “The End of Q”, 1.
1
2
Liber Annuus 72 (2022) 261-275
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Matteo Munari
con una promessa di intronizzazione dei discepoli di Gesù, allora si potrebbe
immaginare che nella comunità in cui Q fu scritta, già vi era una sorta di venerazione per gli stessi discepoli divenuti apostoli, fatta eccezione chiaramente
per Giuda Iscariota.
Nell’ordine di Lc, la parabola dei talenti o delle mine (Mt 25,14-30 // Lc
19,11-27) costituisce la penultima pericope di Q, cosicché la promessa dei troni ai discepoli segue immediatamente la punizione del servo che non ha
investito il talento (o la mina). Se si includono in Q le due diverse conclusioni
della parabola in Mt e Lc, la promessa di intronizzazione dei discepoli viene
ad essere preceduta da una scena alquanto drammatica:
Mt 25,30 καὶ τὸν ἀχρεῖον δοῦλον ἐκβάλετε εἰς τὸ σκότος τὸ
ἐξώτερον· ἐκεῖ ἔσται ὁ κλαυθμὸς καὶ ὁ βρυγμὸς τῶν ὀδόντων.
E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di
denti.
Lc 19,27 πλὴν τοὺς ἐχθρούς μου τούτους τοὺς μὴ θελήσαντάς με
βασιλεῦσαι ἐπ’ αὐτοὺς ἀγάγετε ὧδε καὶ κατασφάξατε αὐτοὺς
ἔμπροσθέν μου.
Ma quei miei nemici, che non volevano che io regnassi su di loro,
conduceteli qui e trucidateli davanti a me.
Le due versioni del drammatico finale della parabola non sono certo adatte
a introdurre una promessa di intronizzazione, per questo motivo in genere
nelle ricostruzioni di Q si tende a escludere in modo piuttosto arbitrario Mt
25,30 e Lc 19,27. In questo modo, le ultime parole salvate delle rispettive parabole sono più armonizzabili con il detto dei troni (cf. Mt 25,29 // Lc 19,26).
La domanda fondamentale che però resta aperta è se Q sia mai esistita e,
ammessa per ipotesi la sua esistenza, è doveroso chiedersi se sia corretto metodologicamente scegliere il logion di Mt 19,28 // Lc 22,28-30 come sua fine.
Da quest’ultima osservazione si comprende la voluta ambiguità del titolo
di questo articolo, nel quale mi sono proposto, studiando la pericope considerata dai più come “la fine di Q”, di contribuire in piccola parte alla fine della
teoria che presuppone la stessa esistenza di Q e cioè la teoria delle due fonti.
Cercherò dunque di mostrare come sia plausibile che Mt abbia inserito questo
detto nel dialogo tra Pietro e Gesù che già era presente in Mc 10,28-31 e che
Lc, in un secondo tempo, abbia attinto il logion da Mt 19,28 e lo abbia trasferito nel nuovo contesto dell’ultima cena. Se Lc ha attinto il detto da Mt, allora
non è più necessario supporre l’esistenza di una fonte perduta.
La fine di Q (Mt 19,28 // Lc 22,28-30)
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Il logion in Mt 19,28
ὁ δὲ Ἰησοῦς εἶπεν αὐτοῖς· ἀμὴν λέγω ὑμῖν ὅτι ὑμεῖς οἱ ἀκολουθήσαντές μοι ἐν τῇ παλιγγενεσίᾳ, ὅταν καθίσῃ ὁ υἱὸς τοῦ
ἀνθρώπου ἐπὶ θρόνου δόξης αὐτοῦ, καθήσεσθε καὶ ὑμεῖς ἐπὶ
δώδεκα θρόνους κρίνοντες τὰς δώδεκα φυλὰς τοῦ Ἰσραήλ.
E Gesù disse loro: “In verità io vi dico: voi che mi avete seguito nella
rigenerazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della
sua gloria5, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici
tribù d’Israele.
Nella versione matteana il detto è inserito nel dialogo tra Pietro e Gesù (cf.
Mc 10,28-31) incentrato sulla ricompensa destinata a coloro che hanno lasciato tutto per seguire il Messia. Nella versione marciana dell’episodio, come
reazione all’affermazione sulla difficoltà per i ricchi nell’ottenere l’ingresso
nel regno di Dio (cf. Mc 10,23-27), Pietro dice ἰδοὺ ἡμεῖς ἀφήκαμεν πάντα
καὶ ἠκολουθήκαμέν σοι “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito” (Mc 10,28). L’intervento di Pietro sembra implicitamente richiedere
una parola di Gesù sulla sorte o sulla ricompensa di coloro che hanno lasciato
tutto per seguirlo. Tale richiesta, che in Mc è implicita, viene esplicitata in Mt
19,27: τί ἄρα ἔσται ἡμῖν; “cosa ci sarà dunque per noi?”. La domanda è senza dubbio pertinente e sembra colmare la forma ellittica del dialogo in Mc. A
questo punto Mt introduce con un δέ metabatico il breve discorso di Gesù, il
quale comincia con le parole ἀμὴν λέγω ὑμῖν già presenti in Mc 10,29, e poi
inserisce il logion sui troni.
Nel primo vangelo, il tema nel quale il detto è inserito è quindi quello della
ricompensa per la sequela. Alla figura negativa del giovane che se ne va triste
è contrapposta quella dei discepoli che hanno lasciato tutto per seguire il maestro. Più in generale, si può osservare che il capitolo diciannovesimo di Mt è
una riedizione del materiale di Mc 10, nella quale è stato inserito il detto sugli
eunuchi per il regno dei cieli (Mt 19,10-12) e quello sulla promessa dei troni,
oggetto di questa ricerca. Si tratta dunque di una sezione che tratta temi di natura “vocazionale” e che serve principalmente a consolidare la formazione di
coloro che nella comunità hanno un ruolo di autorità. Non a caso Mt ha inserito il discorso ecclesiale nella sezione che precede (Mt 18).
5
Traduzione letterale. Si tratta probabilmente di un calco dell’espressione כורסי יקריהdiffusa nei targumim e che significa “il suo trono glorioso”. Cf. TgOnq Es 24,10.
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Παλιγγενεσία
In Mt 19,28 la promessa di Gesù rivolta ai discepoli è legata al concetto di
παλιγγενεσία, il quale può essere interpretato in diversi modi. Molti esegeti
hanno pensato che il termine παλιγγενεσία non abbia un equivalente in aramaico o in ebraico e che esso sia in realtà un prestito dalla cultura ellenistica e
in particolare dallo stoicismo6. Il sostantivo di fatto non è mai usato nella Lxx
e nel NT compare soltanto in un altro passo e cioè in Tt 3,5 con riferimento al
lavacro di rigenerazione che è il battesimo7.
In primo luogo va sottolineato che nel contesto di Mt 19,28 l’idea di una
rigenerazione ciclica del cosmo, secondo il modello stoico, non avrebbe alcun
senso. La παλιγγενεσία di Mt può essere interpretata in senso escatologico,
poiché essa sembra essere legata al tempo in cui il figlio dell’uomo sarà seduto sul suo trono di gloria8.
Il concetto di una rigenerazione dell’intero creato o, in altre parole, di una
nuova creazione è già presente in passi come Is 65,17 o 66,22. Anche se nella
Lxx non si trova il sostantivo παλιγγενεσία, nelle suddette profezie isaiane
sono menzionati cieli e terra nuova e viene utilizzato il classico verbo della
creazione ברא. Se da una parte in Mt non si parla di cieli nuovi e terra nuova
(cf. Ap 21,1), dall’altra è evidente che per l’autore i cieli e la terra attuali sono
destinati a passare (cf. Mt 5,18; 24,35), poiché giungerà la fine della presente
era o del mondo presente (cf. Mt 13,39.40.49; 24,3; 28,20). Il fatto che in Mt
παλιγγενεσία sia utilizzato soltanto una volta ne rende più incerta l’interpretazione. Il sostantivo infatti può assumere una vasta gamma di significati,
diversi dei quali sono compatibili con il contesto di Mt 19,28.
In alcune opere coeve al NT παλιγγενεσία assume il significato di “risurrezione” di un singolo9. In questo senso il sostantivo potrebbe corrispondere
Cf. Gundry, Matthew, 392; Dupont, “Le logion des douze trônes”, 364. Burnett sostiene
che l’inserzione del concetto di παλιγγενεσία in Mt 19,28 possa essere un indizio sulla provenienza del primo vangelo. Egli pensa dunque a una comunità giudaico-ellenistica, nella quale i
dodici avevano già raggiunto uno stato di venerazione. Cf. Burnett, “Παλιγγενεσία”, 65. Per
l’uso di παλιγγενεσία nell’ambiente pagano, cf. Iacono, “Παλιγγενεσία”, 383-397.
7
In Rm 6,1-11 il battesimo è visto come morte in vista della nuova vita inaugurata dalla
risurrezione. Anche se non si trova il termine παλιγγενεσία, la nuova vita in Cristo dopo la
morte nel battesimo rappresenta in ogni caso un tipo di rinascita o rigenerazione. Per la morte
nel battesimo e la vita nuova inaugurata dalla risurrezione, cf. anche Col 2,12.
8
Cf. Sim, “The Meaning of παλιγγενεσία”, 6.
9
Cf. Filone, Post 124. Flavio Giuseppe (Ant 11,66) usa παλιγγενεσία per indicare la restaurazione della patria dopo l’esilio. Per altri usi di παλιγγενεσία nella letteratura apocrifa, cf.
6
La fine di Q (Mt 19,28 // Lc 22,28-30)
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all’aramaico (o ebraico) תחייה10. Nell’ebraico rabbinico תחייהè usato anche in
modo più ampio per indicare il mondo a venire, il quale è inaugurato dalla risurrezione dei morti. תחייהnella letteratura rabbinica può quindi fungere in
alcuni casi da sinonimo dell’ebraico העולם הבאo dell’aramaico עלמא דאתי11.
Non stupisce quindi che nel passo parallelo di Mc 10,30 si trovi la corrispondente espressione ἐν τῷ αἰῶνι τῷ ἐρχομένῳ “nel mondo a venire”.
In Mt 12,32 si trova un’espressione molto simile che riprende la concezione di un mondo presente e di un mondo a venire: “a chi parlerà contro lo
Spirito Santo, non sarà perdonato, né in questo mondo né in quello futuro
(οὔτε ἐν τούτῳ τῷ αἰῶνι οὔτε ἐν τῷ μέλλοντι)”. Ci si deve perciò chiedere
se per Mt ἐν τῇ παλιγγενεσίᾳ possa costituire un’espressione sinonima a ἐν
τῷ αἰῶνι τῷ μέλλοντι o se invece si tratti di un concetto diverso.
Mt, nella disputa con i sadducei sulla vita oltre la morte (Mt 22,23-33), per
il concetto di “risurrezione” utilizza il termine ἀνάστασις che si trova nel
passo parallelo di Mc 12,18-2712. Si tratta anche in questo caso non soltanto
del momento della risurrezione, quanto del tempo inaugurato da essa. Questo
può essere indizio del fatto che la παλιγγενεσία in Mt 19,28 coincida con un
altro concetto. Certamente l’uso di un diverso vocabolo può costituire semplicemente una variante stilistica o una forma sinonimica, ma resta possibile che
qui παλιγγενεσία indichi qualcos’altro, come ad es. una nuova nascita o nuova creazione e che corrisponda al significato dell’aramaico ברייה חדתהcosì
come si trova in TgNeof Nm 16,3013.
Un’ulteriore interpretazione, non considerata nella maggior parte dei commentari, è quella che lega il sintagma ἐν τῇ παλιγγενεσίᾳ al participio del
verbo ἀκολουθέω. Secondo questa lettura, Gesù prometterebbe ai discepoli
la ricompensa dei troni, poiché essi sono coloro che lo hanno seguito nella
nuova γένεσις (ὑμεῖς οἱ ἀκολουθήσαντές μοι ἐν τῇ παλιγγενεσίᾳ), intesa
nei suoi diversi significati di nascita, storia, vita o parentela.
Se da una parte infatti è vero che il termine παλιγγενεσία compare soltanto una volta nel primo vangelo, dall’altra è da notare che Mt utilizza γένεσις
in 1,1 e in 1,18 sfruttandone la polisemia. In Mt 19,28 potrebbe quindi esserci
un richiamo lessicale al titolo dell’opera. In Mt 1,1 γένεσις è infatti parte del
titolo con cui comincia il vangelo (Βίβλος γενέσεως) e può riferirsi alla geSim, “The Meaning of παλιγγενεσία”, 5-6. Attraverso tali testi Sim mostra come l’idea di una
distruzione e restaurazione del cosmo doveva essere altamente diffusa nel I secolo d.C.
10
Cf. DJPA 579.
11
Cf. Jastrow 2:1661; Derrett, “Palingenesia”, 53.
12
Cf. Mt 22,23.28.30-31; 27,53.
13
Cf. anche 1QS 4,25 dove l’espressione עשות חדשהpuò indicare un “rinnovamento” o un
“rifacimento” della creazione.
266
Matteo Munari
nealogia, alla prima parte dell’opera o all’intero vangelo. Nella Lxx βίβλος e
γένεσις sono associati in Gen 2,4 e 5,1. La prima occorrenza si trova all’inizio del secondo racconto della creazione e traduce l’ebraico תוֹלדוֹת
ְ (stato costrutto) seguito da “i cieli e la terra”. Il significato più probabile in questo caso
è dunque “origini” o “storia delle origini”. La seconda delle occorrenze di
βίβλος γενέσεως nella Lxx (Gen 5,1) si trova in apertura della genealogia del
primo uomo e traduce l’ebraico תּוֹלד ֹת
ְ ֵס ֶפר. Questi due esempi mostrano la
polisemia di βίβλος γενέσεως che probabilmente è intenzionale anche nelle
prime due parole di Mt.
La seconda occorrenza di γένεσις nel primo vangelo si trova in Mt 1,18 e
di norma, a causa del contesto, le si attribuisce il significato di “nascita”14. Il
modo in cui Mt impiega γένεσις mostra fin dal principio dell’opera la sua
propensione all’uso della polisemia. La tendenza a variare la si nota anche
nelle diverse grafie dei toponimi e nell’uso della sinonimia. In ogni caso, è da
notare che Mt sembra utilizzare γένεσις con i vari significati dell’ebraico
תולדותe dell’aramaico תלדוo תולדה15.
Questi sostantivi possono indicare la nascita, la genealogia, la discendenza
e per estensione la storia, l’origine o la parentela. Se si interpreta il termine
παλιγγενεσία di Mt 19,28 come una rinnovata γένεσις, allora si aprono diverse vie interpretative. I significati dell’ebraico תולדותo dell’aramaico תלדו
infatti sono in piena armonia con la promessa del centuplo in quanto a case,
fratelli, sorelle, padre, madre, figli o campi (cf. Mt 19,29). I discepoli di Gesù
che fanno la volontà del Padre suo costituiscono una nuova famiglia, sono inseriti in una nuova storia ed entrano in una nuova relazione di parentela (cf.
Mt 12,49-50). Chiunque abbia lasciato la propria ( תלדותהaramaico) per seguire Gesù nella nuova תלדותהda lui fondata, trova in essa il centuplo.
Secondo questa interpretazione, la παλιγγενεσία non sarebbe tanto da collocare in un contesto escatologico, quanto in una nuova nascita nel presente.
Di fatto, da un punto di vista puramente sintattico, il momento in cui il figlio
dell’uomo siederà sul trono della sua gloria non è obbligatoriamente contemporaneo alla παλιγγενεσία. A tal riguardo è bene notare che nelle occorrenze
della letteratura cristiana più antica il sostantivo non è usato tanto in contesto
escatologico, quanto con riferimento a una rinascita dopo un evento catastrofiDiversi copisti hanno tentato di rendere il testo più univoco sostituendo a γένεσις il sostantivo γέννησις “nascita”. Lo stesso è avvenuto anche nella trasmissione del testo di Lc 1,14,
dove sono riportare le parole dell’angelo rivolte a Zaccaria, a proposito della nascita di Giovanni Battista: καὶ πολλοὶ ἐπὶ τῇ γενέσει αὐτοῦ χαρήσονται “e molti si rallegreranno della sua
nascita”.
15
Cf. in particolare l’uso di γένεσις in Gen 2,4; 5,1; 6,9. Riguardo all’uso della polisemia
del termine γένεσις nel NT, cf. anche le due occorrenze di Gc 1,23 e 3,6.
14
La fine di Q (Mt 19,28 // Lc 22,28-30)
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co come il diluvio o in particolare con riferimento alla rigenerazione del
battesimo (cf. Tt 3,5). Anche nel quarto vangelo si parla di nascita dall’alto o
daccapo (ἄνωθεν) o dall’acqua (cf. Gv 3,3.5)16.
È possibile pensare che anche in Mt 19,28 il sostantivo παλιγγενεσία sia
riferito al battesimo? Innanzi tutto va detto che nel primo vangelo non vi sono
approfondimenti espliciti sul significato del battesimo. Da una parte va ricordato che Giovanni Battista profetizza un battesimo in Spirito Santo e fuoco
(cf. Mt 3,11) e che Gesù stesso nel suo mandato finale ordina agli undici di
fare discepole tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e
dello Spirito Santo (cf. Mt 28,19). Tale battesimo non è descritto però come
una rinascita. Nonostante ciò, è da notare che coloro che non diventano discepoli del Cristo sembrano essere giudicati come morti (cf. Mt 8,22). A mio
avviso quindi non può essere esclusa la possibilità che la παλιγγενεσία sia da
riferire alla rinascita di coloro che sono divenuti discepoli del Cristo.
Mt 19,28 potrebbe quindi indicare che il conferimento dei troni sia la ricompensa promessa ai discepoli per aver seguito Gesù nella fondazione di una
nuova storia, di una nuova stirpe o di una nuova famiglia. I primi due discepoli infatti hanno seguito Gesù per divenire “pescatori di uomini” (Mt 4,19).
Tale missione ovviamente non riguarda soltanto i primi due chiamati ma
anche coloro che verranno coinvolti in seguito nella stessa opera di evangelizzazione. Da questo punto di vista è rilevante notare che, se da una parte la
Peshitta traduce παλιγγενεσία con &"! )(ܬ#$% “nuovo mondo”, preferendo così l’interpretazione escatologica, dall’altra la Vetus Syra (Sycs) traduce il
termine con &(* )(ܬ+,- “nuova nascita” o “nuovo parto”, lasciando in
questo modo aperta la possibilità che la παλιγγενεσία sia già avvenuta o che
comunque sia da interpretare in senso esistenziale, possibilmente con riferimento al battesimo17.
Riguardo alla possibilità di interpretare ἐν τῇ παλιγγενεσίᾳ come dipendente da οἱ ἀκολουθήσαντές μοι, è bene anticipare qui il confronto con
alcuni elementi strutturali della versione lucana del logion. Anche Lc, infatti,
chiarisce a chi è rivolta la promessa dei troni con un participio seguito da ἐν +
dativo18. Qui sotto riporto le due versioni della prima parte del detto per mo16
In 1Clem 9,4 è detto che “Noè proclamò per mezzo del suo ministero una rinascita per
il/al mondo (παλιγγενεσίαν κόσμῳ)”. Teofilo di Antiochia nella sua Apologia ad Autolico
(2,16) usa il termine in riferimento al lavacro di rigenerazione (λουτροῦ παλιγγενεσίας) che è
il battesimo. Giustino (Apol 1,66) usa per il lavacro di rigenerazione un’espressione simile che
esprime in modo ancor più univoco il concetto di rinascita (εἰς ἀναγέννησιν λουτρόν).
17
Nel PSLG παλιγγενεσία è tradotto 01 ܪ/-ܕܬ& ܕ,+( ܬCodex A &ܕܬ,+“ )ܬܘnascita
daccapo” = “rinascita”.
18
Sulla corrispondenza tra i due participi in Mt e Lc, cf. Fitzmyer, Luke (X-XXIV), 1418.
268
Matteo Munari
strarne la simile struttura. La versione lucana può essere letta come una sorta
di parafrasi di quella matteana.
Mt 19,28 ἀμὴν λέγω ὑμῖν ὅτι ὑμεῖς
οἱ ἀκολουθήσαντές μοι ἐν τῇ παλιγγενεσίᾳ
Lc 22,28 Υμεῖς δέ ἐστε
οἱ διαμεμενηκότες μετ’ ἐμοῦ ἐν τοῖς πειρασμοῖς μου
Come vedremo nell’analisi della versione lucana, è probabile che il terzo
evangelista abbia voluto riscrivere e riadattare per un nuovo contesto la versione matteana, che fino a oggi continua ad essere di difficile interpretazione.
In entrambe le versioni il participio è seguito da ἐν + dativo. È possibile che
Lc abbia interpretato la παλιγγενεσία in senso non escatologico e abbia voluto spiegare la sequela dei discepoli in essa come loro perseveranza nelle prove
del Cristo.
In ogni caso, al di là dell’interpretazione che si voglia preferire, alla luce di
quanto visto, non è corretto affermare in modo assoluto che non esistono parole in ebraico o in aramaico atte ad esprimere il concetto di παλιγγενεσία;
ne esistono infatti molte, ma l’ampio spettro di significati del termine greco
non aiuta a individuare con certezza un corrispondente semitico.
I dodici troni
Se da una parte non è certo che il tempo della παλιγγενεσία coincida con
quello dell’intronizzazione dei discepoli, dall’altra è chiaro che essi saranno
posti su dodici troni nel momento in cui Gesù siederà sul proprio trono di gloria19. Sono diversi i passi dell’AT che presentano forti legami intertestuali con
l’intronizzazione descritta in Mt 19,28. Tra questi vanno ricordati Dn 7,13-14
e Sal 110,120. In Dn 7,13-14 colui che è “come un figlio d’uomo” () ְכּ ַבר ֱאנָ שׁ
viene sulle nubi e riceve potere, gloria e regno. In Sal 110,1 il Signore dice a
colui che il salmista considera “signore” (il Messia) di sedere alla sua destra.
Si tratta di due scene di intronizzazione che possono costituire lo sfondo veterotestamentario di Mt 19,28.
Entrambi i passi sono presenti come sfondo anche nelle parole che Gesù rivolge al sommo sacerdote durante il suo processo:
19
In Ap 3,21 è lo stesso trono che il Padre condivide con il figlio che viene a sua volta
condiviso con “il vincitore” (Ὁ νικῶν).
20
Cf. 1Enoch 62,5 dove, al di là del problema della datazione del testo, si parla esplicitamente del figlio dell’uomo seduto sul suo trono di gloria.
La fine di Q (Mt 19,28 // Lc 22,28-30)
Mt 26,64 λέγει αὐτῷ ὁ Ἰησοῦς· σὺ εἶπας. πλὴν λέγω ὑμῖν· ἀπ’ ἄρτι
ὄψεσθε τὸν υἱὸν τοῦ ἀνθρώπου καθήμενον ἐκ δεξιῶν τῆς δυνάμεως καὶ ἐρχόμενον ἐπὶ τῶν νεφελῶν τοῦ οὐρανοῦ.
Gli dice Gesù: “tu l’hai detto, anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il
Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del
cielo”.
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L’immagine del figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza è presa da
Sal 110,1, mentre quella del figlio dell’uomo che viene sulle nubi da Dn 7,13.
In Dn 7,9 si parla di troni, anche se non si dice espressamente che colui che è
simile a un figlio d’uomo si siede su uno di essi. In Dn 7,14 tuttavia, gli vengono dati potere, gloria e regno, per cui è sottinteso che egli sieda su un trono.
In Dn 7,27 il regno, il potere e la grandezza dei regni che sono sotto il cielo
vengono consegnati al popolo dei santi dell’altissimo. Il figlio d’uomo e il popolo dei santi potrebbero costituire lo sfondo veterotestamentario principale di
Mt 19,2821. Sal 110,1 è inoltre citato da Gesù nella domanda che egli rivolge
ai farisei a proposito dell’identità del Messia in Mt 22,44.
In Mt 19,28 non è detto esplicitamente che Gesù siederà sul trono per giudicare, ma il suo ruolo di giudice appare chiaramente in Mt 16,27 e 25,31. Il
ruolo dei discepoli quindi sembra essere quello di collaboratori nel giudizio
esercitato da Gesù. Riguardo al giudicare, molto si è discusso sul significato di
κρίνω in Mt 19,28. Il verbo infatti potrebbe includere il ruolo di governo22
espresso talvolta dall’ebraico שפטo semplicemente indicare il vero e proprio
giudizio sul modello di Mt 25,31-46, dove il figlio dell’uomo siede sul trono
della sua gloria per giudicare le genti, separando coloro che meritano il castigo eterno da coloro che riceveranno la vita eterna.
Nelle restanti occorrenze del verbo κρίνω nel primo vangelo (cf. Mt 5,40;
7,1-2), il significato è quello di “giudicare” e non di “governare”. Sembra
quindi più probabile che ai dodici discepoli sia attribuito il compito di giudicare insieme a Gesù le dodici tribù d’Israele per separare chi è degno della
vita eterna da chi non lo è (cf. Mt 25,46)23. Detto questo, va ammesso che non
ci sono elementi per escludere in modo categorico la possibilità che nella promessa rivolta ai dodici sia implicato anche un ruolo di governo.
La richiesta dei figli di Zebedeo di sedere a destra e a sinistra del Maestro
(cf. Mc 10,35-40), che nel primo vangelo è espressa dalla loro madre (cf. Mt
20,20-23), implica un conferimento di onore e di potere nel regno che verrà
instaurato e che va oltre il momento del giudizio. La risposta di Gesù tuttavia
21
22
23
Cf. Nolland, Matthew, 801.
Cf. Davies - Allison, Matthew, 3:55-56.
Cf. Black, Aramaic Approach, 132.
270
Matteo Munari
mostra chiaramente che essi non sanno quello che stanno chiedendo e quindi
la loro richiesta non è certamente la più adatta a spiegare il significato della
promessa che Gesù stesso rivolge ai suoi discepoli in Mt 19,28.
Certamente l’episodio narrato in Mt 20,20-23 (// Mc 10,35-40) risulta maggiormente comprensibile alla luce della promessa contenuta nel logion di Mt
19,28: Gesù ha promesso ai suoi discepoli di sedere su dodici troni e la madre
dei figli di Zebedeo chiede che i suoi figli siedano sui troni adiacenti a quello
del Messia. Lc invece ha preferito non riportare la richiesta dei figli di Zebedeo (Mc) o della loro madre (Mt)24. Egli ha tuttavia trasferito il discorso sul
servizio, pronunciato in tale occasione (cf. Mt 20,24-28 // Mc 10,41-45), nel
contesto dell’ultima cena (Lc 22,24-27), aggiungendo l’immagine di colui che
sta a tavola e di colui che serve25. Questo dato è indizio del fatto che il terzo
evangelista, nel comporre il suo racconto dell’ultima cena, teneva davanti agli
occhi gli eventi che in Mt e Mc precedevano l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, tra i quali anche il detto sui troni di Mt 19,28.
Il logion in Lc 22,28-30
Lc 22,28 Ὑμεῖς δέ ἐστε οἱ διαμεμενηκότες μετ’ ἐμοῦ ἐν τοῖς
πειρασμοῖς μου· 29 κἀγὼ διατίθεμαι ὑμῖν καθὼς διέθετό μοι ὁ
πατήρ μου βασιλείαν, 30 ἵνα ἔσθητε καὶ πίνητε ἐπὶ τῆς τραπέζης
μου ἐν τῇ βασιλείᾳ μου, καὶ καθήσεσθε ἐπὶ θρόνων τὰς δώδεκα
φυλὰς κρίνοντες τοῦ Ἰσραήλ.
22,28 Voi tuttavia siete quelli che avete perseverato con me nelle mie
prove 29 e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato
per me, 30 perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno e siederete in trono a giudicare le dodici tribù d’Israele.
La scelta di Mt di aggiungere la promessa dei troni, che è rivolta soltanto
ai dodici, alla ricompensa di chiunque ha lasciato tutto, rischia di confondere
ciò che riguarda strettamente gli apostoli con ciò che è promesso ad ogni discepolo. Per questo motivo Lc ha forse preferito fare una distinzione tra i due
tipi di ricompensa. La collocazione del logion in un altro contesto come quello dell’ultima cena era per il terzo evangelista più adatta. Si trattava infatti di
un contesto in cui Gesù parlava ai soli discepoli che lo avevano seguito nelle
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In Mc sono gli stessi Giacomo e Giovanni a chiedere il privilegio, in Mt è la loro madre
e in Lc l’episodio è totalmente omesso. Col passare del tempo è possibile dunque che nella comunità cristiana sia cresciuto il desiderio di tutelare l’onore dei due fratelli.
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Lc contestualizza il discorso accennando a una disputa su chi fosse il più grande. Cf. Mt
18,1; Mc 9,34; Lc 9,46.
La fine di Q (Mt 19,28 // Lc 22,28-30)
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sue tribolazioni e ai quali già aveva annunciato il tradimento di uno dei dodici
(cf. Lc 22,21-22). Egli ha quindi trasposto il detto, lo ha modificato e infine
ampliato per renderlo più adatto al nuovo contesto.
Come già annotato, Lc ha rimodellato e inserito nel contesto dell’ultima
cena l’insegnamento sulla vera grandezza e sul primato nella logica inversa
del regno di Dio. Si tratta di materiale che Mt e Mc riportano prima dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme (cf. Mt 20,24-28 // Mc 10,41-45). In questo
modo, Lc ha preparato un nuovo contesto per l’inserimento del logion sui troni (Lc 22,28-30). Per questo motivo, dopo ὑμεῖς Lc introduce il δέ che serve a
creare un lieve contrasto con ciò che precede: i discepoli in questo mondo devono rinunciare alla logica della competizione e anzi ricercare la piccolezza
vivendo come servi, ma dal momento che essi hanno perseverato con Gesù
nelle sue prove, egli stesso preparerà per essi un regno così come il Padre lo
ha preparato per lui (Lc 22,28-29). Questa logica concorda in pieno con la
beatitudine di Lc 12,37-38: è beato l’amministratore che sceglie un atteggiamento di vigilante servizio, perché al ritorno del suo padrone egli stesso potrà
sedersi ed essere da lui servito. Allo stesso modo, in Lc 22,24-27, i discepoli
sono chiamati a un atteggiamento di servizio; verrà tuttavia il tempo in cui
essi mangeranno e berranno al banchetto messianico e sederanno per giudicare le dodici tribù di Israele.
La sequela e la perseveranza
Nel processo redazionale, Lc ha probabilmente inteso la παλιγγενεσία di
Mt come una rinascita legata al participio ἀκολουθήσαντες e ha poi reso la
sequela dei discepoli in tale rigenerazione come loro perseveranza nelle prove
che Gesù ha affrontato.
Riguardo al lessico, si nota con una certa chiarezza l’intervento del terzo
evangelista nella scelta di un composto di μένω e nella sua generale inclinazione a formare verbi con il prefisso διά26. Anche riguardo all’espressione ἐν
τοῖς πειρασμοῖς μου, va detto prima di tutto che Lc è l’unico tra gli evangelisti a utilizzare la radice πειρ anche nel senso neutrale di “prova/provare”27.
Anche in questo contesto infatti πειρασμός sembra avere il significato di “tribolazione” più che di “tentazione”28.
26
Cf. Dupont, “Le logion des douze trônes”, 363; Fleddermann, Q. A Reconstrcuction,
865; Tuckett, From the Sayings, 253.
27
Cf. Lc 8,13; 22,28; At 9,26; 16,7; 20,19; 24,6; 26,21. In Mt e Mc invece la radice πειρ
ha sempre connotazione negativa (tendere un tranello o spingere al male).
28
Cf. Marshall, Luke, 816.
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Matteo Munari
Nel nuovo contesto, Gesù non parla di “prove del figlio dell’uomo” ma
delle “mie prove”. Lc ha probabilmente pensato che la prima persona fosse
più adatta a esprimere la vicinanza vissuta dai discepoli nelle prove di Gesù.
L’evangelista invece sceglie la terza persona nell’annuncio del tradimento (Lc
22,21-22) e nel momento della sua consegna (Lc 22,48).
La perseveranza nelle prove è un tema che, come noto, sta a cuore al terzo
evangelista. Un esempio di intervento redazionale mirato a evidenziare il valore della perseveranza si trova nella parabola del seminatore, nella quale la
tribolazione e la persecuzione (θλίψεως ἢ διωγμοῦ) di Mt 13,21 // Mc 4,17
sono sostituite in Lc 8,13 dal momento della prova (ἐν καιρῷ πειρασμοῦ).
Riguardo al terreno buono, inoltre, il terzo evangelista (cf. Lc 8,15) sottolinea
che il frutto viene prodotto nella perseveranza (ἐν ὑπομονῇ). In relazione al
numero, è da notare inoltre che nei vangeli Lc è l’unico a utilizzare il plurale
di πειρασμός. L’evangelista usa il plurale anche in At 20,19.
È probabile dunque che Lc, avendo notato l’ambiguità della sintassi e del
lessico nella costruzione ὑμεῖς οἱ ἀκολουθήσαντές μοι ἐν τῇ παλιγγενεσίᾳ
di Mt 19,28, abbia deciso di riformulare la frase rendendola inequivocabilmente una proposizione nominale indipendente e abbia interpretato la sequela
nella rigenerazione come perseveranza nelle prove. Secondo questa interpretazione quindi il corrispettivo di ἐν τῇ παλιγγενεσίᾳ di Mt 19,28 non sarebbe,
come diversi autori sostengono29, ἐν τῇ βασιλείᾳ μου di Lc 22,30, ma piuttosto ἐν τοῖς πειρασμοῖς μου (Lc 22,28). Anche in questo caso quindi si tratta
del consueto procedimento di traduzione culturale tipico di Lc.
Il regno conferito ai discepoli
In Lc 22,29 si trova un’affermazione che non ha un parallelo in Mt, il cui
vocabolario è caratteristico del terzo vangelo, mentre il contenuto sembra essere affine al pensiero giovanneo30. Il conferimento del regno ai discepoli in
ogni caso non è un concetto alieno al terzo vangelo. Il discorso sulla provvidenza di Lc 12,22-34 (// Mt 6,25-34) contiene un logion che non ha paralleli
negli altri vangeli e che tratta lo stesso tema:
Cf. Fleddermann, Q. A Reconstrcuction, 866-868. Secondo l’autore, in Q ci sarebbe stato
ἐν τῇ βασιλείᾳ τοῦ θεοῦ (Mc 1x; Lc 5x), che Mt avrebbe trasformato in ἐν τῇ παλιγγενεσίᾳ
e Lc in ἐν τῇ βασιλείᾳ μου.
30
Cf. Gv 15,9; 17,18.21.22; 20,21; Fitzmyer, Luke (X-XXIV), 1419. A Θ 579 syh, dopo
κἀγὼ διατίθεμαι ὑμῖν, hanno διαθήκην “alleanza”. Probabilmente si tratta di un tentativo di
supplire un complemento oggetto più vicino al verbo διατίθεμαι. Nei testimoni più antichi infatti, il complemento oggetto (βασιλείαν) compare soltanto alla fine della proposizione.
29
La fine di Q (Mt 19,28 // Lc 22,28-30)
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Lc 12,32 Μὴ φοβοῦ, τὸ μικρὸν ποίμνιον, ὅτι εὐδόκησεν ὁ πατὴρ
ὑμῶν δοῦναι ὑμῖν τὴν βασιλείαν.
Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi
il regno.
L’inserzione di questo detto sembra essere un commento all’esortazione
precedente, nella quale i discepoli sono invitati a cercare soltanto il regno del
Padre, in modo che tutto il resto sia loro dato in aggiunta. Il conferimento del
regno ai discepoli nel contesto dell’ultima cena riprende lo stesso concetto e
diviene un compimento della promessa contenuta nella prima beatitudine (cf.
Lc 6,20).
Gesù ha desiderato ardentemente mangiare la Pasqua con i suoi discepoli
prima di mangiarla nuovamente nel regno di Dio (cf. Lc 22,15). Ora egli dispone come in un testamento (διατίθεμαι ὑμῖν) il suo regno a favore dei suoi
discepoli, i quali mangeranno e berranno alla sua mensa e regneranno insieme
a lui giudicando le dodici tribù d’Israele.
L’ultima cena quindi è l’ultima Pasqua di Gesù in questo mondo, durante
la quale egli rilascia un testamento in cui promette la condivisione del suo regno con i suoi discepoli. Il giudizio delle dodici tribù d’Israele, esercitato da
essi sui troni a loro assegnati31, appare così come una sorta di appendice alla
visione beatifica del banchetto messianico, dove essi mangiano e bevono alla
mensa di Gesù nel suo regno (cf. Lc 22,30). Anche dal punto di vista sintattico, il passaggio da ἵνα + congiuntivo di Lc 22,30a al futuro indicativo di Lc
22,30b costituisce un indizio della combinazione di due fonti, o meglio di una
prima parte possibilmente composta dall’evangelista stesso e di una seconda
attinta da una fonte32.
Ora resta da chiedersi perché Lc abbia scelto di inserire nel racconto
dell’ultima cena elementi che in Mt e Mc si trovano prima dell’ingresso di
Gesù e dei suoi discepoli a Gerusalemme.
Si può immaginare che i racconti dell’ultima cena di Mt 26,20-29 e Mc
14,17-25 siano sembrati a Lc troppo brevi e scarni. Forse per questo motivo
egli ha pensato di rielaborare il racconto aggiungendovi materiale proveniente
da altre fonti o da punti diversi della narrazione di Mt e Mc. Il risultato è che
il racconto dell’ultima cena nel terzo vangelo è decisamente più lungo, solenne e ricco di particolari (cf. Lc 22,14-38).
31
Nella versione lucana del logion, i troni non sono espressamente dodici, come in Mt
19,28, probabilmente per evitare che il numero fissato induca a pensare alla presenza di un trono preparato per Giuda Iscariota, il cui tradimento è menzionato in Lc 22,21-23.
32
Cf. Tuckett, From the Sayings, 252.
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Matteo Munari
Conclusione
Le differenze tra le due versioni del logion sui troni si spiegano senza difficoltà leggendo Mt 19,28 come un’aggiunta alla promessa di una ricompensa
presente in Mc 10,29-31 e interpretando Lc 22,28-30 come un adattamento di
Mt 19,28 al contesto dell’ultima cena. Non è necessario a mio avviso ipotizzare ulteriori fonti perdute.
L’aggiunta operata da Mt è in armonia con la generale tendenza dell’evangelista a colmare i vuoti di Mc, sia per quanto riguarda la narrazione che per i
discorsi. La risposta di Gesù alla domanda implicita di Pietro nel racconto
marciano è stata forse giudicata da Mt come troppo generale. Se da una parte
infatti è apprezzabile che ai dodici discepoli sia promessa la ricompensa di coloro che lasciano tutto per seguire il Messia, dall’altra ci si potrebbe aspettare
che essi, che lo hanno seguito per primi, meritino un premio speciale per il
maggior rischio affrontato. Mt dunque ha deciso di aggiungere alla promessa
generale, una ricompensa particolare per i primi dodici. Tale promessa, tra
l’altro, ben si accorda con il proseguimento della narrazione, nella quale viene
chiesto a Gesù un privilegio speciale per i figli di Zebedeo, cioè che essi possano sedere alla destra e alla sinistra del Messia nel suo regno. A livello
narrativo dunque è logico che il tempo della promessa dei troni sia da collocare prima dell’ingresso a Gerusalemme, in un momento in cui le aspettative
messianiche giungono al loro apice.
Nella versione lucana del detto nulla sembra avere un carattere più antico
rispetto alla formulazione di Mt 19,28. Lc ha scelto di trasporre il logion nel
contesto dell’ultima cena e tale collocazione ne ha determinato le modifiche.
L’evangelista ha preferito dunque mantenere il carattere universale della promessa rivolta a coloro che lasciano tutto per il regno di Dio e ha poi deciso di
arricchire il racconto dell’ultima cena inserendovi elementi che appartenevano
a un contesto precedente l’ingresso nella città santa.
In sintesi, il confronto delle due versioni del logion sulla promessa dei troni rivolta ai discepoli conferma la possibilità che Lc, oltre a Mc, abbia avuto a
sua disposizione anche Mt. Si tratta quindi di un detto che, più che costituire
la fine di Q, contribuisce a determinare la fine delle teorie che presuppongono
l’esistenza di Q o, in altre parole, la fine di Q diversamente intesa.
Matteo Munari, ofm
Studium Biblicum Franciscanum, Jerusalem
La fine di Q (Mt 19,28 // Lc 22,28-30)
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