Papers by Giuseppe Marino
I conflitti che scoppiano o riprendono vita ogni giorno in giro per il mondo nascono, il più dell... more I conflitti che scoppiano o riprendono vita ogni giorno in giro per il mondo nascono, il più delle volte, a ridosso di confini (internazionali, interregionali, interculturali, interlinguistici, interreligiosi). Non è un caso, per esempio, che sul confine orientale ucraino si stia consumando uno scontro durissimo per stabilire fin dove può estendersi il dominio russo e da dove invece cominci l’Europa delle diplomazie, oppure che il Califfato dia prove di forza – con orrore – di quanto sia potente e in grado di estendere la propria egemonia.
Si è soliti immaginare il confine come una linea unica, semplice, chiara e indiscutibile per indicare dove si conclude una proprietà territoriale. Ma la parola “confine”, che deriva etimologicamente dal latino finis, non indica solo la conclusione di qualcosa: “con-fine” significa che quella fine è con-divisa, è in comune, è la stessa per due parti, ognuna delle quali ha una conclusione che cade proprio sulla linea tracciata. Quella linea di divisione, artificiale e convenzionale, non è altro che il prodotto della sovrapposizione di due linee che, separando, finiscono per unire.
Ma chi stabilisce un confine: la natura piazzando qua e là monti, mari e fiumi? No. Non esistono motivazioni morfologiche sufficienti per legittimare la demarcazione di un confine. Ogni confine è sempre il prodotto dell'azione umana e la sua istituzione è un gesto politico, un atto sociale, che presuppone l'esercizio di un potere. Attraverso un confine, un attore territoriale (il più delle volte uno Stato) non solodelimita la sua “proprietà” e la separa da quella di un altro, ma agisce ogni volta peraffermare la propria identità, rafforzarla e farla valere dentro e fuori dai propri confini, impedendo a qualunque identità altra o diversa di entrarvi.
Tuttavia, la letteratura e le cronache sono piene di racconti di quanti, ieri come oggi, riescano a superare e scavalcare qualsiasi barriera, mettendo in dubbio la presenza e il potere che l’ha costruita, dando prova dell’inesistenza di confini completamente impermeabili. Al massimo quelli più sensibili si trasformano, si ingrossano, affinché sia sempre più difficile valicarli, e da linee di demarcazione diventano zone di frontiera. La parola frontiera racchiude in sé proprio il sostantivo “fronte”; la frontiera è fronte a, è rivolta verso (contro) qualcosa, verso (contro) qualcuno.
E come si costruisce una frontiera? Un po’ come un palcoscenico pronto ad ospitare la ribalta teatrale. Ne è un esempio la nostra (italiana ed europea) frontiera meridionale.Lampedusa è un perfetto set di spettacoli, troppo spesso tragici, che tengono banco da anni, a intensità diverse. È un set a cui fanno da scenografia le flotte navali che pattugliano il mare, talvolta semplicemente andando avanti e indietro quasi a ricalcare la linea immaginaria; le barche, i gommoni e i pescherecci che sfidano le correnti. Ma anche i corpi delle migliaia di operatori e di quelli, vivi e morti, dei migranti.
È un set in cui rimbombano parole come emergenza, invasione, sbarchi, clandestini che servono solo a montare il palco.
L’emergenza (dal latino e-mergere, cioè che esce inaspettatamente dalla superficie calma delle acque) rimanda a qualcosa di improvviso, a un parossismo e alla fase acuta di un evento. L’Italia invece è diventata ufficialmente paese d’immigrazione nel 1973, 42 anni fa. Parlarne in termini di emergenza dopo tutto questo tempo è come considerare “Pazza Idea” di Patti Pravo la hit del momento.
L’invasione (dal latino in-vàdere, andare contro), preannuncia il pericolo di una massa umana straniera pronta a riversarsi minacciosa. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, però, solo il 10% degli immigranti arriva dal mare, il 20% giunge via terra attraverso le frontiere orientali dell’Europa e circa il 70% arriva in aeroporto, con un visto turistico e con un biglietto di ritorno in patria che non utilizzeranno mai. L’invasione, quindi, al massimo arriverebbe dal cielo.
Gli sbarchi, fanno pensare a chi scendere dalla barca una volta giunto sulla costa. Ma da noi non sbarca proprio nessuno. I barconi vengono intercettati in acqua, alcuni sono carichi di cadaveri, altri ne hanno disseminati lungo il tragitto. Tuttavia lo sbarco è spettacolare: l’idea di chi arriva dal mare, sporco, affaticato, che non ha nulla da perdere, forse arrabbiato con la vita e in una condizione di disperazione, fa decisamente più scena di chi arriva col trolley a Malpensa.
Clandestino, cioè relativo a colui che si nasconde (o dovrebbe farlo), diventa un marchio, uno stigma, una parola chiave utilizzata dalla retorica xenofoba e razzista per costruire muri e frontiere simbolici tra "noi" e "loro", laddove il "noi" identifica i cittadini autoctoni e il "loro" chiunque provenga da un paese extra-comunitario (Stati Uniti, Svizzera, Giappone e Australia naturalmente esclusi). Clandestino è un'etichetta che disumanizza le persone e la disumanizzazione serve a negare i diritti, persino quello di esistere.
Così Lampedusa è qualcosa di più di un confine territoriale, di un limite geografico; è una potente e grottesca rappresentazione condivisa di un limite anche culturale a cui partecipano attori, che forse sarebbe più opportuno chiamare registi, e spettatori, ovvero cittadini (o elettori), a cui deve arrivare il messaggio e che si fanno inevitabilmente condizionare dagli effetti mirabolanti dello spettacolo del confine.
I confini sono fatti sociologici e mettono in contatto non solo spazi, ma persone, cose, culture,... more I confini sono fatti sociologici e mettono in contatto non solo spazi, ma persone, cose, culture, identità tra loro differenti. Se da un lato essi sono sempre il risultato di dinamiche sociali, dall'altro contribuiscono a loro volta a produrre la realtà sociale, trasformando e condizionando, nel bene e nel male, le sorti di individui e collettività.
Migrazioni, guerre e trattati hanno contribuito a costruirli, a modificarli nel corso del tempo e ad attribuirgli un valore ogni volta diverso, al punto che lo studio classico dei confini lineari e materiali si è arricchito di senso da quando ai confini è stato attribuito anche il significato di separatori identitari, simbolici, mentali; da quando è stata loro riconosciuta la capacità di riproporsi in forme e modalità operative rinnovate e diverse.
Lo scopo di questo lavoro è esaminare il “caso Lampedusa”, raccontare la frontiera meridionale italiana ed europea in pieno Mediterraneo, provare a mostrare l’isola che non c’è, quella lontana dal fracasso dei media. Per fare questo, non faccio parlare i migranti ma gli abitanti, cercando di adottare il loro punto di vista. Il risultato, presentato nel terzo capitolo, è un mosaico a più voci, in cui alcuni stralci di interviste, insieme a documenti storici, testi legislativi, materiale letterario saranno sottolineati con il carattere corsivo e creeranno un’immagine che, di fatto, i media non restituiscono.
Depuis que je me suis rendu compte qu’un migrant sur dix franchissait la mer Méditerranée tandis ... more Depuis que je me suis rendu compte qu’un migrant sur dix franchissait la mer Méditerranée tandis que les autres arrivaient en Europe "confortablement" en avion et en bus et qu'il faisait un bruit médiatique assourdissant tandis que les autres passaient presque inaperçus, Lampedusa s’est révélée être un gros bluff, le résultat d'une représentation grotesque et exagérée d'un phénomène mondial dont font partie plusieurs endroits et beaucoup plus de gens.
C’est pour cela que j’ai choisi d'aller au fond de la question et de développer l'idée de ce mémoire et de ses trois objectifs: comprendre et clarifier les différences entre limites et frontières en approfondissant la relation entre territoire et identité; étudier les méthodes et les méthodologies pour la représentation de la frontière et des migrations; et enfin raconter Lampedusa comme je l'ai vu directement, en reconstruisant sa transformation pendant les quinze dernières années, le spectacle des migrations mis en scène et la métonymie géant qui a suivi.
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Si è soliti immaginare il confine come una linea unica, semplice, chiara e indiscutibile per indicare dove si conclude una proprietà territoriale. Ma la parola “confine”, che deriva etimologicamente dal latino finis, non indica solo la conclusione di qualcosa: “con-fine” significa che quella fine è con-divisa, è in comune, è la stessa per due parti, ognuna delle quali ha una conclusione che cade proprio sulla linea tracciata. Quella linea di divisione, artificiale e convenzionale, non è altro che il prodotto della sovrapposizione di due linee che, separando, finiscono per unire.
Ma chi stabilisce un confine: la natura piazzando qua e là monti, mari e fiumi? No. Non esistono motivazioni morfologiche sufficienti per legittimare la demarcazione di un confine. Ogni confine è sempre il prodotto dell'azione umana e la sua istituzione è un gesto politico, un atto sociale, che presuppone l'esercizio di un potere. Attraverso un confine, un attore territoriale (il più delle volte uno Stato) non solodelimita la sua “proprietà” e la separa da quella di un altro, ma agisce ogni volta peraffermare la propria identità, rafforzarla e farla valere dentro e fuori dai propri confini, impedendo a qualunque identità altra o diversa di entrarvi.
Tuttavia, la letteratura e le cronache sono piene di racconti di quanti, ieri come oggi, riescano a superare e scavalcare qualsiasi barriera, mettendo in dubbio la presenza e il potere che l’ha costruita, dando prova dell’inesistenza di confini completamente impermeabili. Al massimo quelli più sensibili si trasformano, si ingrossano, affinché sia sempre più difficile valicarli, e da linee di demarcazione diventano zone di frontiera. La parola frontiera racchiude in sé proprio il sostantivo “fronte”; la frontiera è fronte a, è rivolta verso (contro) qualcosa, verso (contro) qualcuno.
E come si costruisce una frontiera? Un po’ come un palcoscenico pronto ad ospitare la ribalta teatrale. Ne è un esempio la nostra (italiana ed europea) frontiera meridionale.Lampedusa è un perfetto set di spettacoli, troppo spesso tragici, che tengono banco da anni, a intensità diverse. È un set a cui fanno da scenografia le flotte navali che pattugliano il mare, talvolta semplicemente andando avanti e indietro quasi a ricalcare la linea immaginaria; le barche, i gommoni e i pescherecci che sfidano le correnti. Ma anche i corpi delle migliaia di operatori e di quelli, vivi e morti, dei migranti.
È un set in cui rimbombano parole come emergenza, invasione, sbarchi, clandestini che servono solo a montare il palco.
L’emergenza (dal latino e-mergere, cioè che esce inaspettatamente dalla superficie calma delle acque) rimanda a qualcosa di improvviso, a un parossismo e alla fase acuta di un evento. L’Italia invece è diventata ufficialmente paese d’immigrazione nel 1973, 42 anni fa. Parlarne in termini di emergenza dopo tutto questo tempo è come considerare “Pazza Idea” di Patti Pravo la hit del momento.
L’invasione (dal latino in-vàdere, andare contro), preannuncia il pericolo di una massa umana straniera pronta a riversarsi minacciosa. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, però, solo il 10% degli immigranti arriva dal mare, il 20% giunge via terra attraverso le frontiere orientali dell’Europa e circa il 70% arriva in aeroporto, con un visto turistico e con un biglietto di ritorno in patria che non utilizzeranno mai. L’invasione, quindi, al massimo arriverebbe dal cielo.
Gli sbarchi, fanno pensare a chi scendere dalla barca una volta giunto sulla costa. Ma da noi non sbarca proprio nessuno. I barconi vengono intercettati in acqua, alcuni sono carichi di cadaveri, altri ne hanno disseminati lungo il tragitto. Tuttavia lo sbarco è spettacolare: l’idea di chi arriva dal mare, sporco, affaticato, che non ha nulla da perdere, forse arrabbiato con la vita e in una condizione di disperazione, fa decisamente più scena di chi arriva col trolley a Malpensa.
Clandestino, cioè relativo a colui che si nasconde (o dovrebbe farlo), diventa un marchio, uno stigma, una parola chiave utilizzata dalla retorica xenofoba e razzista per costruire muri e frontiere simbolici tra "noi" e "loro", laddove il "noi" identifica i cittadini autoctoni e il "loro" chiunque provenga da un paese extra-comunitario (Stati Uniti, Svizzera, Giappone e Australia naturalmente esclusi). Clandestino è un'etichetta che disumanizza le persone e la disumanizzazione serve a negare i diritti, persino quello di esistere.
Così Lampedusa è qualcosa di più di un confine territoriale, di un limite geografico; è una potente e grottesca rappresentazione condivisa di un limite anche culturale a cui partecipano attori, che forse sarebbe più opportuno chiamare registi, e spettatori, ovvero cittadini (o elettori), a cui deve arrivare il messaggio e che si fanno inevitabilmente condizionare dagli effetti mirabolanti dello spettacolo del confine.
Migrazioni, guerre e trattati hanno contribuito a costruirli, a modificarli nel corso del tempo e ad attribuirgli un valore ogni volta diverso, al punto che lo studio classico dei confini lineari e materiali si è arricchito di senso da quando ai confini è stato attribuito anche il significato di separatori identitari, simbolici, mentali; da quando è stata loro riconosciuta la capacità di riproporsi in forme e modalità operative rinnovate e diverse.
Lo scopo di questo lavoro è esaminare il “caso Lampedusa”, raccontare la frontiera meridionale italiana ed europea in pieno Mediterraneo, provare a mostrare l’isola che non c’è, quella lontana dal fracasso dei media. Per fare questo, non faccio parlare i migranti ma gli abitanti, cercando di adottare il loro punto di vista. Il risultato, presentato nel terzo capitolo, è un mosaico a più voci, in cui alcuni stralci di interviste, insieme a documenti storici, testi legislativi, materiale letterario saranno sottolineati con il carattere corsivo e creeranno un’immagine che, di fatto, i media non restituiscono.
C’est pour cela que j’ai choisi d'aller au fond de la question et de développer l'idée de ce mémoire et de ses trois objectifs: comprendre et clarifier les différences entre limites et frontières en approfondissant la relation entre territoire et identité; étudier les méthodes et les méthodologies pour la représentation de la frontière et des migrations; et enfin raconter Lampedusa comme je l'ai vu directement, en reconstruisant sa transformation pendant les quinze dernières années, le spectacle des migrations mis en scène et la métonymie géant qui a suivi.
Si è soliti immaginare il confine come una linea unica, semplice, chiara e indiscutibile per indicare dove si conclude una proprietà territoriale. Ma la parola “confine”, che deriva etimologicamente dal latino finis, non indica solo la conclusione di qualcosa: “con-fine” significa che quella fine è con-divisa, è in comune, è la stessa per due parti, ognuna delle quali ha una conclusione che cade proprio sulla linea tracciata. Quella linea di divisione, artificiale e convenzionale, non è altro che il prodotto della sovrapposizione di due linee che, separando, finiscono per unire.
Ma chi stabilisce un confine: la natura piazzando qua e là monti, mari e fiumi? No. Non esistono motivazioni morfologiche sufficienti per legittimare la demarcazione di un confine. Ogni confine è sempre il prodotto dell'azione umana e la sua istituzione è un gesto politico, un atto sociale, che presuppone l'esercizio di un potere. Attraverso un confine, un attore territoriale (il più delle volte uno Stato) non solodelimita la sua “proprietà” e la separa da quella di un altro, ma agisce ogni volta peraffermare la propria identità, rafforzarla e farla valere dentro e fuori dai propri confini, impedendo a qualunque identità altra o diversa di entrarvi.
Tuttavia, la letteratura e le cronache sono piene di racconti di quanti, ieri come oggi, riescano a superare e scavalcare qualsiasi barriera, mettendo in dubbio la presenza e il potere che l’ha costruita, dando prova dell’inesistenza di confini completamente impermeabili. Al massimo quelli più sensibili si trasformano, si ingrossano, affinché sia sempre più difficile valicarli, e da linee di demarcazione diventano zone di frontiera. La parola frontiera racchiude in sé proprio il sostantivo “fronte”; la frontiera è fronte a, è rivolta verso (contro) qualcosa, verso (contro) qualcuno.
E come si costruisce una frontiera? Un po’ come un palcoscenico pronto ad ospitare la ribalta teatrale. Ne è un esempio la nostra (italiana ed europea) frontiera meridionale.Lampedusa è un perfetto set di spettacoli, troppo spesso tragici, che tengono banco da anni, a intensità diverse. È un set a cui fanno da scenografia le flotte navali che pattugliano il mare, talvolta semplicemente andando avanti e indietro quasi a ricalcare la linea immaginaria; le barche, i gommoni e i pescherecci che sfidano le correnti. Ma anche i corpi delle migliaia di operatori e di quelli, vivi e morti, dei migranti.
È un set in cui rimbombano parole come emergenza, invasione, sbarchi, clandestini che servono solo a montare il palco.
L’emergenza (dal latino e-mergere, cioè che esce inaspettatamente dalla superficie calma delle acque) rimanda a qualcosa di improvviso, a un parossismo e alla fase acuta di un evento. L’Italia invece è diventata ufficialmente paese d’immigrazione nel 1973, 42 anni fa. Parlarne in termini di emergenza dopo tutto questo tempo è come considerare “Pazza Idea” di Patti Pravo la hit del momento.
L’invasione (dal latino in-vàdere, andare contro), preannuncia il pericolo di una massa umana straniera pronta a riversarsi minacciosa. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, però, solo il 10% degli immigranti arriva dal mare, il 20% giunge via terra attraverso le frontiere orientali dell’Europa e circa il 70% arriva in aeroporto, con un visto turistico e con un biglietto di ritorno in patria che non utilizzeranno mai. L’invasione, quindi, al massimo arriverebbe dal cielo.
Gli sbarchi, fanno pensare a chi scendere dalla barca una volta giunto sulla costa. Ma da noi non sbarca proprio nessuno. I barconi vengono intercettati in acqua, alcuni sono carichi di cadaveri, altri ne hanno disseminati lungo il tragitto. Tuttavia lo sbarco è spettacolare: l’idea di chi arriva dal mare, sporco, affaticato, che non ha nulla da perdere, forse arrabbiato con la vita e in una condizione di disperazione, fa decisamente più scena di chi arriva col trolley a Malpensa.
Clandestino, cioè relativo a colui che si nasconde (o dovrebbe farlo), diventa un marchio, uno stigma, una parola chiave utilizzata dalla retorica xenofoba e razzista per costruire muri e frontiere simbolici tra "noi" e "loro", laddove il "noi" identifica i cittadini autoctoni e il "loro" chiunque provenga da un paese extra-comunitario (Stati Uniti, Svizzera, Giappone e Australia naturalmente esclusi). Clandestino è un'etichetta che disumanizza le persone e la disumanizzazione serve a negare i diritti, persino quello di esistere.
Così Lampedusa è qualcosa di più di un confine territoriale, di un limite geografico; è una potente e grottesca rappresentazione condivisa di un limite anche culturale a cui partecipano attori, che forse sarebbe più opportuno chiamare registi, e spettatori, ovvero cittadini (o elettori), a cui deve arrivare il messaggio e che si fanno inevitabilmente condizionare dagli effetti mirabolanti dello spettacolo del confine.
Migrazioni, guerre e trattati hanno contribuito a costruirli, a modificarli nel corso del tempo e ad attribuirgli un valore ogni volta diverso, al punto che lo studio classico dei confini lineari e materiali si è arricchito di senso da quando ai confini è stato attribuito anche il significato di separatori identitari, simbolici, mentali; da quando è stata loro riconosciuta la capacità di riproporsi in forme e modalità operative rinnovate e diverse.
Lo scopo di questo lavoro è esaminare il “caso Lampedusa”, raccontare la frontiera meridionale italiana ed europea in pieno Mediterraneo, provare a mostrare l’isola che non c’è, quella lontana dal fracasso dei media. Per fare questo, non faccio parlare i migranti ma gli abitanti, cercando di adottare il loro punto di vista. Il risultato, presentato nel terzo capitolo, è un mosaico a più voci, in cui alcuni stralci di interviste, insieme a documenti storici, testi legislativi, materiale letterario saranno sottolineati con il carattere corsivo e creeranno un’immagine che, di fatto, i media non restituiscono.
C’est pour cela que j’ai choisi d'aller au fond de la question et de développer l'idée de ce mémoire et de ses trois objectifs: comprendre et clarifier les différences entre limites et frontières en approfondissant la relation entre territoire et identité; étudier les méthodes et les méthodologies pour la représentation de la frontière et des migrations; et enfin raconter Lampedusa comme je l'ai vu directement, en reconstruisant sa transformation pendant les quinze dernières années, le spectacle des migrations mis en scène et la métonymie géant qui a suivi.