Books by Silvia Ronchey
Walter de Gruyter, 2021
This study reconstructs Hypatia’s existential and intellectual life and her modern Nachleben thro... more This study reconstructs Hypatia’s existential and intellectual life and her modern Nachleben through a reception-oriented and interdisciplinary approach. Unlike previous publications on thesubject, Hypatia explores all available ancient and medieval sources as well as the history of the reception of the figure of Hypatia in later history, literature, and arts in order to illuminate the ideological transformations/deformations of her story throughout the centuries and recover “the true story”. The intentionally provocative title relates to the contemporary historiographical notion of “false” or “fake history”, as does the overall conceptual and methodological treatment. Through this reception-oriented approach, this study suggests a new reading of the ancient sources that demonstrates the intrinsically political nature of the murder of Hypatia, caused by the phtonos (violent envy) of the Christian bishop Cyril of Alexandria.
Contents:
Pages I-XII Front matter
Pages 1*-386* Prolegomena:
Pages 3*-186* Introduzione stori... more Contents:
Pages I-XII Front matter
Pages 1*-386* Prolegomena:
Pages 3*-186* Introduzione storico-letteraria (Paolo Cesaretti)
Pages 187*-313* Introduzione storico-filologica (Silvia Ronchey)
Pages 315*-385* Bibliografia
Pages 1-264 Critical edition with apparatuses:
Pages 3-6 Sigla
Pages 7-111 Prooemium, Oda I et III (Silvia Ronchey)
Pages 112-265 Oda IV usque ad IX (Paolo Cesaretti)
Pages 265-486 Indices (Paolo Cesaretti)
Pages 487-492 Riproduzioni fotografiche
This volume offers the first critical edition of the vast Commentary on the Pentecostal iambic canon (traditionally ascribed to St. John the Damascene) composed by Eustathius, Archbishop of Thessalonica. The attribution of the hymn to the Damascene was, in principle, called into question by Eustathius himself who eventually suggested that Damascene’s paternity be accepted only out of ecclesiastical obedience.
The Commentary is probably the last text Eustathius wrote. It can be regarded as the summa of his working method, style of exposition, scholarly interests and literary tastes. Moreover, it can be read as the first Byzantine attempt to create a fusion between a working method originating in the exegesis of classical texts and modes of theological interpretation connected in turn to liturgical experience and pastoral practice.
The edition of the text is accompanied by three apparatuses, a complete range of indices and exhaustive Prolegomena where the editors shed light on the Commentary as such – its genesis and date, audience, discussion of traditional attribution, and sources – and the history of its manuscript tradition, with a special focus on the Constantinopolitan didaskaleion of Prodromos-Petra.
Guida letteraria alla Roma d’Oriente, 2010
Le voci di centocinquanta testimoni, tra poeti, viaggiatori, filosofi, esploratori, eruditi, pell... more Le voci di centocinquanta testimoni, tra poeti, viaggiatori, filosofi, esploratori, eruditi, pellegrini, avventurieri di ogni nazionalità ed epoca, accostate come in un mosaico variegato e scintillante, compongono l’eterno «romanzo» di Costantinopoli.
Da Procopio a Le Corbusier, da Paolo Silenziario a Mandel’stam, da Psello a Dos Passos, da Anna Comnena a Flaubert, da Ibn Battuta a Gide, da Gilles a Loti, da Grelot a Melville, da Andersen a Cocteau, da Chateaubriand a Fermor, da De Amicis a MarcTwain, da Byron a Yeats, da Nerval a Pamuk, narrazioni e descrizioni si snodano attraverso la Roma d’Oriente in dieci percorsi: un inconsueto itinerario topografico che è anche un viaggio nel tempo e nei segreti di un’eredità storica, artistica e culturale, quella bizantina. Ogni percorso è illustrato da una mappa-itinerario e da un’introduzione scientifico-narrativa ai monumenti e ai luoghi, che fornisce anche indicazioni precise per rintracciarli nel «labirinto» dell’antica Città. Un breve apparato di note, un’indispensabile quanto aggiornata bibliografia e un supplemento biografico con i profili di tutti gli autori convocati completano il volume, corredato inoltre da piú di centocinquanta immagini tra disegni, incisioni, foto d’epoca e mappe.
La vita bizantina del Buddha, 2012
Il presente volume ripropone al pubblico italiano, adeguandola ai nuovi e risolutivi apporti scie... more Il presente volume ripropone al pubblico italiano, adeguandola ai nuovi e risolutivi apporti scientifici forniti dall’edizione critica curata da Robert Volk per la serie degli Schriften des Johannes von Damaskos (De Gruyter, Berlin - New York 2009), la versione integrale della Storia di Barlaam e Ioasaf pubblicata dai curatori nel 1980 (Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf, Rusconi, Milano) in base all’edizione Woodward-Mattingly.
Capofila di tutte le storie cristianizzate del Buddha, questo testo bizantino degli anni intorno al Mille ha una genesi affascinante tra il Caucaso e il Monte Athos, in un intreccio di lingue, culture e religioni diverse. La Storia di Barlaam e Ioasaf racconta di un principe indiano che, grazie agli insegnamenti di un anacoreta, fugge dal palazzo dove il padre l’ha rinchiuso per proteggerlo dai mali del mondo, abbandona il destino regale e avvia il suo percorso mistico-eremitico. Che la storia ricalcasse quella del Buddha se ne erano accorti già gli studiosi di fine Ottocento, ma la matassa dei passaggi e delle mediazioni è stata dipanata solo in anni recenti, anche grazie all’edizione critica pubblicata da Robert Volk nel 2009. Basandosi sul suo testo e sui suoi apparati, Paolo Cesaretti consegna ai lettori una puntuale revisione della traduzione (di entrambi i curatori) e una ristrutturazione delle note e degli indici, che completano l’informazione aggiornata sull’insieme dell’opera fornita nel saggio introduttivo. Tutto questo rinnova profondamente l’edizione firmata dai due studiosi nel 1980. Si possono così apprezzare appieno per la prima volta sia le qualità narrative del testo sia la ricchezza allusivo-sapienziale delle parabole incastonate nel racconto, che hanno affascinato e influenzato molti scrittori nel corso dei secoli, da Iacopo da Varazze a Boccaccio, da Shakespeare a Tolstoj.
Il saggio introduttivo della co-traduttrice e co-curatrice (Il Buddha bizantino, pp. vii-cvii) traccia in cento pagine il primo ancorché sintetico bilancio storico-filologico sulla questione del Barlaam e Ioasaf stilato tenendo presente la nuova edizione critica di Robert Volk (Historia animae utilis de Barlaam et Ioasaph, I-II, Berlin – New York 2006-2009, che solo oggi di fatto ha rimpiazzato l’editio princeps ottocentesca di Jean François Boissonade) e in particolare i suoi monumentali prolegomeni (Einführung, ivi, vol. II). Dà anzitutto conto delle nuove e cruciali acquisizioni scientifiche presenti in questi ultimi, e in generale emerse dalla comunità degli studiosi nei più di trent’anni che separano questa nuova edizione italiana dalla prima pubblicata dai due curatori nel 1980 (Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf, introd., trad. it., note e repertorio biblico di S. RONCHEY e P. CESARETTI, Milano, Rusconi, 1980, 317 pp.). Delucida quindi l’evoluzione del nucleo narrativo, dalle versioni orientali della vita del Buddha alla cristianizzazione georgiana alla formalizzazione e all’attribuzione autoriale della narrazione greco-bizantina (per cui sono dirimenti le acquisizioni di Volk), sino alla fortuna del Barlaam e Ioasaf e dei suoi apologhi in età moderna. Tutti gli aspetti filologici toccati da Volk sono analizzati in termini sintetici e quanto meglio possibile chiariti, ma sono integrati nel quadro anche gli elementi da Volk volutamente tralasciati, come quelli legati agli studi orientalistici, in particolare sul buddhismo e sul manicheismo, o la fortuna del testo nella storia della letteratura medievale e moderna, o in generale il senso culturale e letterario dell’opera nell’ambito della civiltà bizantina e più circostanziatamente nel contesto della speculazione post-iconoclasta e del cosiddetto enciclopedismo del X-XI sec. Il saggio si presenta dunque come un'introduzione globale al Barlaam e Ioasaf e ai suoi vari aspetti, alla storia degli studi intorno ad esso e all’immensa vicenda della sua fortuna. Ne emerge un “romanzo di filologia” che mostra come lo studio della tradizione dei testi possa toccare il cuore degli snodi culturali e, in questo caso, degli intricati rapporti fra Occidente e Oriente.
The present volume re-introduces to an Italian audience the complete version of the Life of Barlaam and Ioasaph, published by the editors in 1980 (Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf, Milan: Rusconi), now updated with the results of new research and of the critical edition by Robert Volk (De Gruyter, Berlin - New York 2009).
Original source of all of the Christianised stories of Buddha, this Byzantine text dating from the end of the 10th or beginning of the 11th century presents a genesis between the Caucasus and Mount Athos, in a web of different languages, cultures, and religions. The Barlaam and Ioasaph recounts the story of an Indian prince who, influenced by the teachings of an anchorite, flees the palace where his father has imprisoned him to protect him from the evils of the world, abandons his royal destiny, and sets off on his own mystical-hermetic journey. That the story mirrored that of the bodhisattva was recognised by scholars already at the end of the 19th century, but the various stages and mediations were unravelled only in recent years, thanks in large part to the critical edition published by Robert Volk between 2006 (vol. II) and 2009 (vol. I). Basing his work on Volk’s text and apparatuses, Paolo Cesaretti provides readers with a revision of the translation (by both editors) and of the notes and indices. In the introduction Silvia Ronchey provides exhaustive updated information on the entire work (Il Buddha bizantino, pp. vii-cvii). This effort marks a profound renewal of the two scholars’ 1980 edition. It is now possible to fully appreciate both the narrative qualities of the text and the allusive, philosophical richness of the various trajectories of the story, which have fascinated and influenced scores of writers over the centuries, from Jacopo da Varazze to Boccaccio, Shakespeare, and Tolstoy.
The co-translator’s and co-editor’s introductory essay (Il Buddha bizantino, pp. vii-cvii) traces in one hundred pages the first, albeit concise, historical-philological evaluation of the issue of the Barlaam and Ioasaph compiled in mind with the new critical edition by Robert Volk (Historia animae utilis de Barlaam et Ioasaph, I-II, Berlin – New York 2006-2009, which only now replaces the nineteenth century editio princeps by Jean François Boissonade) and, in particular, his monumental prolegomena (Einführung, ivi, vol. II). The introduction takes into account the crucial new research results present in the latter and, in general, which have emerged from the more than thirty years of research separating this new Italian edition from the first published by the two editors in 1980 (S. Ronchey and P. Cesaretti, eds., Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf, Introduction, Notes, Biblical Repertory, Italian translation. Milan: Rusconi, 1980, 317 pp.). The essay sheds light on the evolution of the narrative nucleus from Eastern versions of the life of Buddha to the Georgian Christianisation, as well as to the formalisation, and authorial attribution of the Greek Byzantine narrative (for which Volk’s results are decisive), up until the success of the History of Barlaam and Ioasaph and its apologists in the modern age. All of the philological aspects touched on by Volk are analysed concisely and clarified as much as possible, with the addition of elements intentionally bypassed by Volk, such as those relating to Buddhist or Manichaean studies, or the reception of the text in the history of Medieval and modern literature or, eventually, the more general cultural and literary meaning of the work in the world of Byzantine civilisation and, more tangentially, in the context of post-iconoclast speculation and the so-called encyclopaedism of the 10th and 11th centuries. Therefore, the essay represents an overall introduction to the Barlaam and Ioasaph and its various aspects and the history of the scholarship surrounding it, as well as the enormous circumstances of its influence. What emerges is a “philological novel” that reveals how the study of textual tradition can touch the heart of cultural exchange and, in this case, the intricate relations between East and West.
Questo libro ricostruisce la vicenda esistenziale e intellettuale di Ipazia e il suo Nachleben mo... more Questo libro ricostruisce la vicenda esistenziale e intellettuale di Ipazia e il suo Nachleben moderno, applicando il rigore documentativo dello studio scientifico (si veda in appendice la “Documentazione ragionata”, di ampiezza pari a quella del testo principale, sorta di “libro nel libro”) a un testo destinato anche a un’utenza colta non specialistica oltre che alla didattica universitaria. Il titolo, volutamente provocatorio, fa riferimento alla “storia falsa” di canforiana memoria, come del resto l’intero impianto concettuale e metodologico della trattazione. Nella prima sezione (Chiarire i fatti) vengono raccolte e filologicamente discusse le più rilevanti notizie sulla vita e sulla morte di Ipazia fornite dalla totalità delle fonti antiche, pagane e cristiane. Dell'assassinio di Ipazia dovevano infatti coesistere in origine due versioni, una pagana e l'altra cristiana, entrambe presenti in duplice variante, più moderata e più radicale. Nei tre secoli che si interpongono tra gli eventi e il formarsi, dopo la conquista araba, della tradizione storica propriamente bizantina, una delle narrazioni cristiane, la Cronaca di Giovanni di Nikiu, a sua volta dipendente da una vulgata più antica interna alla chiesa copta e marcatamente filocirilliana, andò perduta all'occidente per conservarsi solo nella tradizione orientale in una tarda versione etiopica. La versione cristiana più moderata, ma sgradita all’opinione ecclesiastica occidentale dominante, è quella di Socrate Scolastico, la cui Storia nel caso in questione è probabilmente conforme al punto di vista della chiesa centrale bizantina. Si tramandano per mezzo di Suida entrambe le narrazioni pagane, quella di Esichio di Mileto e quella di Damascio. A una delle varianti della versione pagana, quella di Damascio, si connette inoltre, fin nella genesi della tradizione manoscritta, quella di Filostorgio, ariano e in quanto tale anticirilliano, il cui testo è conservato in ampi frammenti dalla Biblioteca di Fozio. Da un ulteriore filone tradizionale bizantino sembra dipendere, al tempo di Giustiniano, la Cronaca di Giovanni Malala, vicina al clero di corte ma soprattutto alla chiesa di Antiochia, abitualmente ostile a quella di Alessandria. Il resoconto offerto da Malala individua in Cirillo, come fa Socrate, il diretto mandante dell'assassinio e il suo responsabile morale, ma attinge probabilmente a fonti sue proprie, concordi con Socrate quanto alla colpevolezza del vescovo ma a conoscenza di dettagli che mancano tanto in Socrate quanto in Suida-Damascio. La versione più diffusa a Bisanzio resterà quella di Socrate: cristiana ortodossa, più cauta nei termini di quelle pagana e cristiano-ariana, lievemente diversa da quella cui attinge Malala, ma ugualmente anticirilliana. Lo stesso orientamento trasparirà dalle testimonianze bizantine successive, che però aggiungeranno via via elementi utili tratti dalle fonti pagane. Dalle notizie del quinto e sesto secolo, dal loro influsso e dalla loro tradizione manoscritta, che appare ramificata più di quanto in genere la si consideri, derivano, durante l'iconoclasmo, la stringata menzione dell’assassinio nella Cronaca di Teofane; nel nono secolo la posizione nettamente colpevolista di Fozio, che recupera Damascio oltreché Filostorgio; nel decimo, Suida, che recupera almeno Damascio ed Esichio; nel quattordicesimo, Niceforo Callisto Xantopulo, che dipende direttamente da Socrate Scolastico. Dall’esame di queste fonti, unito a quello di altre testimonianze contemporanee oltreché dell’Epistolario di Sinesio, emerge un quadro complesso degli equilibri e dei conflitti sociali e politici dell’Alessandria del IV-V secolo, che impedisce di ridurre la vicenda dell’assassinio di Ipazia a uno scontro tra paganesimo e cristianesimo. Tuttavia, proprio questa semplificazione ideologica, questa polarità tra Ipazia “martire” e Cirillo “vescovo-carnefice”, ha dominato a lungo il pensiero europeo. La seconda sezione del libro (Tradire i fatti) è dedicata all’oltrevita della figura di Ipazia, attualizzata, mistificata, comunque trasformata, a seconda delle epoche, delle correnti culturali e religiose, di volta in volta in icona laicista, eroina romantica, addirittura martire cristiana. Ma forse ancora più rivelatrice, per la storia del pensiero politico, è la ricezione della figura di Cirillo. Se il governo ecclesiastico cirilliano tendeva a imporre una continua ingerenza giurisdizionale rispetto al prefetto Oreste e al governo centrale romano-costantinopolitano —un'erosione del potere statale da parte di quello ecclesiastico paventata dalle aristocrazie alessandrine (pagane come cristiano-moderate) di cui era portavoce Ipazia —, la condanna o l'esaltazione del terribile vescovo fanno da cartina tornasole della posizione che ciascuno storico o interprete letterario assume rispetto al rapporto stato-chiesa. Questo fin dalle fonti antiche e poi durante tutto l'oltrevita storiografico di Ipazia: dalla Controriforma, che addirittura, per salvare Cirillo, arriverà a screditare una fonte primaria come Socrate Scolastico, fino alla letteratura postrisorgimentale e massonica, dove il costituirsi di Ipazia quale icona laicista si intreccia strettamente con il dibattito sul papa-re. Alle numerose, più o meno consapevoli deformazioni stratificatesi attraverso i secoli reagisce la terza sezione (Interpretare i fatti). Ipazia non fu una “martire laica”, né un “Galileo in gonnella” punito dalla chiesa per le sue scoperte scientifiche, né tanto meno una protoicona femminista. Se è vero che il conflitto in cui si trovò coinvolta fu quello — eterno, e trasversale alle stesse classi alte pagane, in gran parte cristianizzate soprattutto dopo i decreti teodosiani — fra integralismo e moderazione, dogmatismo e apertura di pensiero, è altrettanto vero che Ipazia fu una figura carismatica, sacerdotale, di orientatrice di coscienze e di “iniziatrice” agli insegnamenti esoterici del platonismo: una “donna-filosofo”, purché per philosophia si intenda quel particolare rapporto tra la donna e la sfera del sacro, del sovrarazionale, che è tipico della spiritualità tardoantica. Ipazia è l'emblema del fervore intellettuale del platonismo “eclettico” che dominava l’Alessandria del V secolo e che non cessò dopo il suo “martirio”, ma anzi fu il presupposto e la soglia di una fioritura che sarebbe durata per tutto il millennio bizantino.
L’ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro, 2006
"La Flagellazione di Piero della Francesca è uno dei quadri più straordinari della pittura occide... more "La Flagellazione di Piero della Francesca è uno dei quadri più straordinari della pittura occidentale. È anche un enigma, che molti hanno tentato invano di risolvere. Oggi, dopo anni di ricerche, Silvia Ronchey propone una tesi rivoluzionaria sul significato del dipinto. Ce la espone in una sorta di detective story ricca di rivelazioni e colpi di scena. I protagonisti sono papi, cardinali, agenti segreti, torbidi signori rinascimentali, una dinastia imperiale raffinata e esausta, il sultano Mehmet II, una principessa iniziata ai rituali pagani e poi assassinata, sommi pittori, da Pisanello a Jan Van Eyck, spie russe e, come un ragno al centro della tela, il genio politico dell'ultimo grande bizantino,Bessarione.
La chiave sta nella tragedia che ha segnato le origini dell'età moderna: la fine dell'impero di Bisanzio con la caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi, nel 1453, un 11 settembre immensamente più devastante, sigillo dello scontro di civiltà fra cristianesimo e islam. Il celebre
quadro di Urbino è infatti il manifesto dell'ambizioso progetto politico che stava maturando nell'Italia della metà del Quattrocento: l'estremo tentativo di salvare la civiltà bizantina, garantendole sopravvivenza in Occidente. Il progetto fallì e il corso degli eventi prese un'altra direzione. Ma senza conoscere questa sotterranea operazione politica inghiottita dalla storia non si può cogliere il senso della Flagellazione di Piero.
Attraverso un'attenta ricostruzione delle tracce bizantine lasciate nei dipinti dell'epoca, Silvia Ronchey restituisce ai protagonisti del quadro di Piero il loro vero volto e compone con sapiente gusto narrativo e assoluto rigore filologico una vasta sinfonia in cui riecheggiano le gesta e il valore politico di una civiltà millenaria rimossa dalla memoria dell'Europa. "
“In questa nuova conversazione con Silvia Ronchey, che segue quella uscita nel 1999 con il titolo... more “In questa nuova conversazione con Silvia Ronchey, che segue quella uscita nel 1999 con il titolo L’anima del mondo, il grande psicologo e filosofo americano James Hillman celebra «i piaceri del pensiero, la passione delle idee, l’erotismo della mente». Sono i piaceri perseguiti con dedizione nel corso di una lunga vita operosa, che scorre davanti agli occhi del lettore in una sorta di autobiografia per immagini: gli anni dell’università alla Sorbona e al Trinity College di Dublino, in cui i caffè di Parigi e i pub irlandesi divengono lo scenario di appassionati dialoghi filosofici; il decisivo apprendistato con Carl Gustav Jung a Zurigo; il momento rivelatore in cui il vecchio Hillman, nella soffitta di casa, ritrova le pagelle della scuola elementare e scopre — o meglio ricorda — che da piccolo prendeva brutti voti in calligrafia, come se non volesse farsi leggere, non volesse diventare scrittore… E, guidato e stimolato da Silvia Ronchey, Hillman offre le sue riflessioni su alcuni temi centrali del suo pensiero: l’Anima del Mondo come organismo vivente che trascende la nostra individualità (perché, come sosteneva Jung, la psiche non è dentro di noi: siamo noi dentro la psiche), il Daimon che ci mostra ciò che dobbiamo diventare, la vecchiaia come rivelazione del carattere, il mito come origine e spiegazione del mondo, la depressione come incarnazione moderna dell’«umor melancolico» e metodo per ribellarci al consumismo che ci soffoca, la Bellezza e la Giustizia come unici scopi della politica, perché una politica che «non tende alla Bellezza e alla Giustizia […] è semplicemente una politica povera, cattiva e perfino diabolica». E’ un pensiero provocatorio e proprio per questo illuminante, un pensiero che ha la forza e la profondità per spingerci a cercare le risposte alle domande cruciali della nostra esistenza.” (Dal risvolto di copertina)
L'aristocrazia bizantina, indagine storica, filologica, diplomatica e sigillografica che Kazhdan ... more L'aristocrazia bizantina, indagine storica, filologica, diplomatica e sigillografica che Kazhdan e Ronchey hanno condotto insieme per dieci anni, si basa sull'analisi completa delle fonti letterarie, ma anche sull’immane vaglio statistico delle carriere delle quattrocento più importanti famiglie dell'impero tra il Mille e il Milleduecento, già condotto da Kazhdan nel suo periodo sovietico, qui riveduto, riorganizzato e concettualmente sviluppato. Il libro fornisce una rassegna sia delle testimonianze offerte dagli storici sull'idea bizantina di nobiltà (basata su una rilettura e reinterpretazione dei testi filologicamente rigorosa ed ermeneuticamente aggiornata), sia delle testimonianze materiali offerte dai documenti d'archivio e dai sigilli sullo statuto effettivo dell'aristocrazia a Bisanzio. Da questi dati il saggio trae, sviluppando e chiarendo precedenti intuizioni kazhdaniane, un’importante teoria sociologica sul “dinamismo verticale” delle élites nelle oligarchie aperte: se l'egualitarismo non è possibile, vi è una possibilità intermedia che risiede principalmente, a Bisanzio, nell'istruzione statalizzata, e fornisce alle nuove classi la possibilità di ascendere al vertice e agglomerarsi al centro, sia pur per breve tempo, garantendo così da un lato il ricambio dell’esecutivo politico-amministrativo e dall’altro la persistenza della forma statale. L'amplissimo materiale vagliato arriva a delineare un profilo nuovo e oggettivo della classe dominante del massimo impero mediterraneo nel suo periodo di maggiore potenza. Inoltre, la completezza documentaria rende il saggio un accurato repertorio prosopografico, utile per gli studiosi del medioevo occidentale e orientale.
La Nota sull'italianizzazione dei nomi di famiglia dei Bizantini Eminenti, premessa al testo (pp. 31-32), si studia non già di dirimere definitivamente la complessa questione, da tempo oggetto di disputa fra gli studiosi, ma di fornire criteri in base ai quali la resa onomastica sia, se non un modello normativo, almeno un esempio coerente. I princìpi proposti, elaborati con la collaborazione anzitutto di Albio Cassio, si offrono si offrono come criteri empirici, dettati da considerazioni grammaticali ma anche dal buon senso, e cercano di conciliare la correttezza morfologica, il rispetto delle abitudini della comunità scientifica e insieme l'esigenza di non complicare la lettura. (In quanto tali, i criteri enunciati nell'Aristocrazia saranno, dopo la sua pubblicazione, ufficialmente adottati per i testi bizantini della Fondazione Lorenzo Valla.)
L'aristocrazia bizantina, the historical, philological, diplomatic, and sigillographic study carried out over ten years by Kazhdan and Ronchey is based on a thorough analysis of the literary sources, together with the prodigious statistical examination of the careers of four hundred of the most important families of the empire between the 11th and 13th centuries. Carried out by Kazhdan during his Soviet period, the entire investigation is here revised, reorganised, and re-elaborated conceptually. The volume offers a compilation of both evidence provided by historians of the Byzantine notion of nobility (based on rigorous re-reading and updated re-interpretation of the texts from the standpoint of philology and hermeneutics) and physical evidence offered by archival documents and seals on the actual status of the aristocracy in Byzantium. From this data, developing and clarifying Kazhdan’s earlier intuitions, the volume draws an important sociological theory on the “ascendant vertical dynamism” of élites in open oligarchies: if equality is not possible, there is an intermediate possibility which in Byzantium resides principally in “state-controlled education,” allowing new classes to ascend to the summit and gather around the centre – albeit for a short time – and thus guaranteeing, on the one hand, political-administrative exchange and, on the other hand, the continuity in the form of the state. The extraordinary amount of material examined outlines a novel objective profile of the ruling class of the greatest Mediterraean empire at the height of its power. In addition, the exhaustive documentation renders the work an accurate prosopographical repertory of use to scholars of the Eastern and Western Middle Ages.
The Nota sull'italianizzazione dei nomi di famiglia dei Bizantini Eminenti (pp. 31-32), appended to the introduction, does not attempt so much to resolve definitively the complex question of the Italianisation of Byzantine family names, the subject of debate among scholars for considerable time, as to provide criteria by which the names produced might be, if not normative models, at least coherent examples. The proposed principles, outlined with in collaboration primarily with Albio Cassio, are offered as empirical criteria, dictated by rigorous grammatical consideration and common sense, in an effort to reconcile correct morphology and respect for customs of the academic community, together with the need to simplify reading. (As such, the Fondazione Lorenzo Valla officially adopted the criteria proposed here for Byzantine texts.)
Contents:
Pages I-XII Front matter
Pages 1*-386* Prolegomena:
Pages 3*-186* Introduzione stori... more Contents:
Pages I-XII Front matter
Pages 1*-386* Prolegomena:
Pages 3*-186* Introduzione storico-letteraria (Paolo Cesaretti)
Pages 187*-313* Introduzione storico-filologica (Silvia Ronchey)
Pages 315*-385* Bibliografia
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Pages 7-111 Prooemium, Oda I et III (Silvia Ronchey)
Pages 112-265 Oda IV usque ad IX (Paolo Cesaretti)
Pages 265-486 Indices (Paolo Cesaretti)
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This volume offers the first critical edition of the vast Commentary on the Pentecostal iambic canon (traditionally ascribed to St. John the Damascene) composed by Eustathius, Archbishop of Thessalonica. The attribution of the hymn to the Damascene was, in principle, called into question by Eustathius himself who eventually suggested that Damascene’s paternity be accepted only out of ecclesiastical obedience.
The Commentary is probably the last text Eustathius wrote. It can be regarded as the summa of his working method, style of exposition, scholarly interests and literary tastes. Moreover, it can be read as the first Byzantine attempt to create a fusion between a working method originating in the exegesis of classical texts and modes of theological interpretation connected in turn to liturgical experience and pastoral practice.
The edition of the text is accompanied by three apparatuses, a complete range of indices and exhaustive Prolegomena where the editors shed light on the Commentary as such – its genesis and date, audience, discussion of traditional attribution, and sources – and the history of its manuscript tradition, with a special focus on the Constantinopolitan didaskaleion of Prodromos-Petra.
Critica storica e fortuna agiografica di un caso giudiziario in Asia Minore, 1990
"Come tutte le fonti agiografiche, il Martirio di Policarpo comporta problemi testuali, cronologi... more "Come tutte le fonti agiografiche, il Martirio di Policarpo comporta problemi testuali, cronologici, di collocazione storica e di esegesi filologica. Come la letteratura agiografica bizantina, di cui è antesignano, esso obbedisce a esigenze dottrinali che si esprimono, sul piano formale, in una complessa chiave metaforica. Come la letteratura giudiziaria alessandrina, di cui è epigono, esso racchiude i propri contenuti in un involucro processuale apparentemente neutro, in realtà attraversato dall'ideologia politica.
La duplice intenzione dell'autrice è da un lato analizzare le istanze proprie del testo attraverso l'analisi formale – filologica e retorico-letteraria – dei suoi caratteri interni, dall'altro disegnarne la collocazione cronologica attraverso l'esame di tutti gli aspetti – storici, dottrinari, culturali e letterari – legati alla sua composizione, ed anche attraverso il raffronto con i documenti martirologici espressi dal medesimo ambiente, come il Martirio di Pionio e gli Atti di Carpo, Pailo e Agatonice. All'analisi testuale si accompagna la sensibilità per la storia della cultura, e da quest'ampia visuale scaturisce un'indagine che ripropone e rivede la questione della datazione e del valore del testo in rapporto all'evoluzione dell'ambiente microasiatico e alle relazioni tra cristianesimo e impero romano: le sezioni dedicate alle istituzioni, al tessuto sociale, alla vita economica della Smirne pagana, giudaica e cristiana affiancano il riesame della normativa giudiziaria traianea e antonina alla luce della procedura adottata nel processo contro Policarpo ed in quelli di Lione.
As with all hagiographic sources, the Martyrdom of Polycarp presents textual and chronological challenges of historical placement and philological exegesis. And as a forerunner of Byzantine hagiographic literature, it adheres to doctrinal demands expressed in a formally complex metaphorical key. Further, as an emulator (epigon) of Alexandrian judicial literature, it wraps its content in an apparently neutral trial package that is, in reality, politically charged.
The author’s dual intention is to, on the one hand, analyse the actual aims of the text through a formal, rhetorical and literary analysis of its inner features (deep text), and, on the other, map out their chronological placement through an examination of the historical, doctrinal, cultural, and literary aspects connected to its composition, in addition to a comparison with martyrological documents from the same world, such as the Martyrdom of Pionius and the Acts of Carpus, Papylus, and Agathonice. The textual analysis is accompanied by an interest and awareness of cultural history, and from this wider perspective is derived an investigation, which revisits the question of the dating and merit of the text in relation to the evolution of the more localised Asian context and relations between Christianity and the Roman Empire. The sections devoted to institutions, the social fabric, economic life in Pagan, Judaic, and Christian Smyrna accompany the re-examination of Trajan and Antonine judicial rules and regulations in light of the procedures adopted both in the trial of Polycarp and in those of Lyon.
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Scholarly Essays by Silvia Ronchey
The co-translator’s and co-editor’s introductory essay (Il Buddha bizantino, pp. vii-cvii) traces... more The co-translator’s and co-editor’s introductory essay (Il Buddha bizantino, pp. vii-cvii) traces in one hundred pages the first, albeit concise, historical-philological evaluation of the issue of the Barlaam and Ioasaph compiled in mind with the new critical edition by Robert Volk (Historia animae utilis de Barlaam et Ioasaph, I-II, Berlin – New York 2006-2009, which only now replaces the nineteenth century editio princeps by Jean François Boissonade) and, in particular, his monumental prolegomena (Einführung, ivi, vol. II). The introduction takes into account the crucial new research results present in the latter and, in general, which have emerged from the more than thirty years of research separating this new Italian edition from the first published by the two editors in 1980 (S. Ronchey and P. Cesaretti, eds., Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf, Introduction, Notes, Biblical Repertory, Italian translation. Milan: Rusconi, 1980, 317 pp.). The essay sheds light on the evolution of the narrative nucleus from Eastern versions of the life of Buddha to the Georgian Christianisation, as well as to the formalisation, and authorial attribution of the Greek Byzantine narrative (for which Volk’s results are decisive), up until the success of the History of Barlaam and Ioasaph and its apologists in the modern age. All of the philological aspects touched on by Volk are analysed concisely and clarified as much as possible, with the addition of elements intentionally bypassed by Volk, such as those relating to Buddhist or Manichaean studies or the reception of the text in the history of Medieval and modern literature or, eventually, the more general cultural and literary meaning of the work in the world of Byzantine civilisation and, more tangentially, in the context of post-iconoclast speculation and the so-called encyclopaedism of the 10th and 11th centuries. Therefore, the essay represents an overall introduction to the Barlaam and Ioasaph and its various aspects and the history of the scholarship surrounding it, as well as the enormous circumstances of its influence. What emerges is a “philological novel” that reveals how the study of textual tradition can touch the heart of cultural exchange and, in this case, the intricate relations between East and West.
Rivista di Storia e Letteratura Religiosa, 2017
Dopo avere proposto in apertura, a mo’ di exergo, una breve intervista, pubblicata su “La Stampa”... more Dopo avere proposto in apertura, a mo’ di exergo, una breve intervista, pubblicata su “La Stampa” il I dicembre 1997, testimonianza del Gilbert Dagron vivo e conversativo, conosciuto e ammirato accanto al Gilbert Dagron accademico, questo ricordo del grande studioso e maestro ripercorre la sua lunga e brillante carriera di intellettuale – ivi compreso il suo stretto legame con l’intelligencija moscovita d’oltrecortina –, per soffermarsi, fra i molti temi della sua riflessione e produzione scientifica, sulla sua analisi del rapporto tra Stato e Chiesa, o meglio del rapporto tra ideologia e religione, sempre suscettibile alla degenerazione nelle opposte, eppure parallele, deformazioni del totalitarismo e dell’integralismo. In particolare, si esamina la sua opera Empereur et prêtre in rapporto al cesaropapismo bizantino e alla sua interpretazione nell’islam nella figura del khalîfa, oggetto nel mondo odierno di tendenziose e pericolose mistificazioni. Riaprendo il dossier di Bisanzio con i sottili, affilati strumenti storici che l’onestà intellettuale, l’intelligenza politica e la minuziosa erudizione di Dagron ci hanno consegnato, riandando alle radici bizantine del rapporto tra Chiesa e Stato e tra potere politico e potere religioso, è possibile dissipare alcuni pregiudizi che oscurano la nostra percezione di quello che oggi viene impropriamente chiamato “scontro di civiltà”.
La Grande Guerra. L’Italia e il Levante, 2017
L’articolo descrive lo sguardo degli intellettuali occidentali sulla nuova Istanbul dopo Grande G... more L’articolo descrive lo sguardo degli intellettuali occidentali sulla nuova Istanbul dopo Grande Guerra (1918), alla ricerca di quello Zeitgeist che riemerge inesorabilmente bizantino tra i frammenti dell’impero ottomano. Così letterati ed eruditi quali il diplomatico Paul Morand o Le Corbusier, il poeta Iosip Mandel’stam o Maurice Barrès e Pavel Florenskij, risalendo poi ai primi del Novecento con Marie Léra, Marthe Bibesco e Henri de Régner, colgono nella caduta della Turchia ottomana una resurrezione della Costantinopoli cristiana e greca. Con un implicito riferimento alle attuali problematiche tra Turchia ed Unione Europea, si ripercorrono così i ritrovamenti della tradizione cristiano-bizantina sotto quella islamica non solo in Santa Sofia ma anche nella Karyie Camii, l’antica chiesa di San Salvatore in Chora: “cristiani e musulmani vi pregarono fianco a fianco per quasi un secolo”. Un lavoro di recupero che affonda le sue radici nella seconda metà dell’Ottocento, quando la bizantinistica viene inaugurata dai lavori della scuola francese e tedesca, e si sviluppa poi lungo tutto il Novecento con scoperte sensazionali. Negli anni Venti, invece, dopo la caduta ottomana, quello che l’occhio occidentale percepisce è un crepuscolo brulicante di spie e di corruzione, dove “la Turchia non esiste” e chi non conosce i classici greci non può essere né un politico, né un oratore, né un diplomatico. Così la cultura ritrova le tracce della “Basileousa, Città Imperiale”, come scrive Steven Runciman nel 1924.
Trends in Classics, Feb 1, 2017
In investigating the manuscript tradition of the Exegesis in canonem iambicum pentecostalem, two ... more In investigating the manuscript tradition of the Exegesis in canonem iambicum pentecostalem, two features emerge with a high degree of likelihood: (a) the relationship of the work with the monastery of Prodromos Petra at Constantinople; (b) the relationship of Eustathios himself with that same monastery during his tenure as professor in the Polis. The article shows the manuscript tradition of Eustathius’ Exegesis: 5 manuscripts are described in detail, including their provenance along with their possessors: Vaticanus graecus 1409, Alexandrinus Patriarchalis 62 (107), Basileensis A.VII.1 (gr. 34), Vallicellianus F 44 (gr. 94), Vindobonensis Theol. Graec. 208 Nessel (298 Lambecius). Along with a thorough autoptical study, the reader finds here some improvements in Byzantine palaeography and philology. Then the author sheds light on the deperditus ms. Scorialensis Λ.II.11, once owned by Diego Hurtado de Mendoza and disappeared after the fire of Escorial in 1671. The codex is likely to have come from the Constantinopolitan monastery of Prodromos Petra, as well as the Vaticanus and the Alexandrinus. Positive clues of a provenance from Prodromos Petra are detected in the fragmentary tradition of the text and in further evidence: textual criticism has definitely revealed a sub-archetype Beta (β), most likely written before the Latin occupation of Constantinople in 1204. The dating and content of Beta seem to coincide with those of the deperditus ms. Scorialensis mentioned above, where codicological and philological data attest to a highest quality of the text, including its title. Thus the second section of the article deals with the so-called didaskaleion of Prodromos Petra, its cultivated readers, mouseion and scriptorium, up to Georgius Baiophorus and his interventions in the ms of Basilea in 15th century. The first known official mention of the katholikon mouseion of Prodromos Petra is that of Francesco Filelfo; on his part, Eustathios writes he was asked to compose the Exegesis by an anonymous colleague, and that it was intended for advanced rhetorical and ecclesiastical instruction. Moreover, Eustathios’ reference to the name of Moses as related to the word “mouseion” provides us with a demonstration about lessons in 12th-century Constantinople, along with ironically equating himself with God teaching Moses on the mount Sinai. The very same identification is made by Michael Choniates about Eustathios in the funeral monody dedicated to him: hardly a coincidence. Eustathios’ presence at the monastery is not documented at Prodromos Petra in the course of the 12th century. However, his acquaintance with that monastic milieu is apparent in a famous passage of the De emendanda vita monachica, where he lampoons the abundance of caviar for the emperor. Hardly a coincidence, again, that this is the absolutely first mention of Prodromos Petra found in literary sources.
This paper sheds light on the evolution of the narrative nucleus of the life of Buddha from Easte... more This paper sheds light on the evolution of the narrative nucleus of the life of Buddha from Eastern versions to the Georgian Christianisation, formalisation, and authorial attribution of the Byzantine era up to the success of the Story of Barlaam and Joasaph and its apologists in the modern age. What emerges is a “philological novel” that reveals how the study of textual tradition can touch the heart of cultural exchange and, in this case, illuminate the intricate relations between East and West in the syncretic linguistic, cultural, and religious crucible that was Byzantium. Original source of all of the Christianised stories of Buddha and ultimate mediator of earlier Buddhist, Persian, Arabic, and Georgian versions, this 10th century Byzantine text, presents a uniquely cosmopolitan DNA, resulting in a fascinating genesis between the Caucasus and Mount Athos. The Story of Barlaam and Joasaph recounts the tale of an Indian prince who, influenced by the teachings of an anchorite, flees the palace where his father has imprisoned him to protect him from the evils of the world, abandons his royal destiny, and sets off on his own mystical-hermetic journey. That the story mirrored that of the Buddha was recognised by scholars already at the end of the 19th century, but the various stages and mediations were unravelled definitively only in recent years. It is now possible to fully appreciate both the true narrative qualities of the text and the allusive, philosophical richness of the various trajectories of the story, which have fascinated and influenced scores of writers over the centuries from Jacobus de Voragine to Gui de Cambrai and Boccaccio, Shakespeare to Lope de Vega and Calderón de la Barca, Tolstoy to Hugo von Hofmannsthal and Hermann Hesse.
Nella seconda metà del XV secolo, dopo la definitiva espugnazione turca di Costantinopoli, nel di... more Nella seconda metà del XV secolo, dopo la definitiva espugnazione turca di Costantinopoli, nel disegno di riaffermazione dell’autorità papale che culminerà nel pontificato di Enea Silvio Piccolomini rientrò in maniera essenziale una nuova percezione del titulus di Costantino. Il lavoro diplomatico e il progetto strategico del salvataggio occidentale di Bisanzio, nei due decenni successivi alla caduta di Costantinopoli, avevano e avrebbero avuto il preciso scopo di reintegrare nell’orbita d’influenza papale la titolarità ereditaria dei cesari bizantini, trasferita da Costantino in Oriente e mai estinta. La cattedra della sede di Pietro e lo scettro della cristianità orientale si sarebbero dovuti riunire simbolicamente in una ‘Nuova Bisanzio’, che avrebbe avuto la sua base a Roma e la sua testa di ponte a Mistrà.
La portata, la finalità, le implicazioni, l’appassionata coralità di questo estremo tentativo di salvare dai turchi e riannettere all’Occidente il titolo di Costantino fino a qualche anno fa non erano state còlte sino in fondo né dagli studiosi di storia occidentale né da quelli di storia bizantina, per due motivi: perché tutto si svolse nell’angolo cieco tra la visione dell’una e dell’altra, oltre che alla cerniera tra Medioevo e Età Moderna; e inoltre perché quel tentativo risultò perdente, mentre la storia, si sa, è scritta dai vincitori.
Il progetto fallì anche perché perirono l’uno dopo l’altro, in un brevissimo arco di tempo, i suoi principali sostenitori. Ma nei decenni in cui fu perseguito assistiamo a un vero e proprio revival della figura di Costantino e a un’accentuazione del primato simbolico e del portato giuridico del suo titolo, nella riflessione e nell’azione politica degli intellettuali umanisti, che si rispecchiò nelle committenze artistiche del tempo.
Già ManueleII Paleologo era stato raffigurato sotto le spoglie di Costantino e con gli emblemi della regalità bizantina propri della teorizzazione di età costantiniana. In occasione della sua visita al re di Francia, allo scoccare del 1400, a questo basileus erano stati conferiti, proprio dall’Occidente, gli attributi originari e tipici dell’autorità imperiale romano-bizantina enunciata dalle Laudes Constantini di Eusebio e dai Capitoli parenetici dello Pseudo-Agapeto. Quel primo ‘avvento’ bizantino nell’Europa quattrocentesca aveva lasciato una traccia iconografica ideologicamente saliente nelle due medaglie in oro dei fratelli Limbourg — raffiguranti l’una Costantino il Grande a cavallo e l’altra il volto di Eraclio sul recto, con sofisticate allegorie sul verso — le cui copie bronzee sono conservate oggi a Parigi; e in quel capolavoro che sono Les très riches heures du Duc de Berry, il manoscritto miniato dagli stessi Limbourg e oggi conservato al Musée Condé di Chantilly.
A Ferrara, nell’agosto del 1438, Pisanello rappresentò Giovanni VIII, il figlio primogenito di Manuele, con caratteristiche e simboli ideologicamente e politicamente ancora più pregnanti di quelli adottati dai Limbourg per il padre. Nella medaglia pisanelliana Giovanni VIII, pur rappresentato nei suoi effettivi panni storici, appare effigiato secondo la tipologia degli imperatori romani. La scritta incisa sul recto, intorno al profilo, fu forse suggerita da Bessarione. Il colpo d’occhio del recto sembra comunicare un’affermazione del diritto all’eredità imperiale in contrapposizione all’imperatore d’occidente. Nel più complesso programma iconografico del verso l’emblema dell’obelisco allude in modo specifico al potere papale e il senso della scena raffigurata nel suo verso, già definito «oscuro» dagli studiosi, va letto come un auspicio dell’imperatore verso la Chiesa di Roma. Da questa prima icona-tipo si diramerà la scia pittorica i cui esempi più noti sono le raffigurazioni di Piero della Francesca, negli affreschi di Arezzo e nella Flagellazione di Urbino, che identificheranno senz’altro, per converso e a riprova di quel transfert, Costantino il Grande nei tratti di Giovanni VIII Paleologo e/o dell’ultimo eroico Costantino di Bisanzio, suo fratello Costantino XI Paleologo.
Proprio Costantino è al centro della Battaglia di Costantino e Massenzio, il primo degli affreschi della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca ad Arezzo. Lo stesso profilo, la stessa barba appuntita, l’identico copricapo si ritrovano attribuiti da Piero alla figura maschile assisa in trono che all’estrema sinistra della Flagellazione di Urbino apre l’apparentemente enigmatica sequenza dei personaggi del dipinto: la figura simbolica del Pilato neotestamentario, inteso nella sua qualità di rappresentante giuridico del potere romano, che l’opinione prevalente degli studiosi novecenteschi ha identificato con quella storica di Giovanni VIII Paleologo.
Negli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo la battaglia di Costantino contro il ‘pagano’ Massenzio è immagine di quella contro gli ‘infedeli’ turchi combattuta pochi anni prima non già da Giovanni VIII ma dal basileus suo fratello, che del fondatore dell’impero portava il nome: Costantino XI. I turchi sono chiaramente identificati, sul piano iconografico, da più simboli, tra cui quello, tipico, del ‘demoniaco’ drago, che campeggia sulla bandiera degli avversari di questo primo Costantino attualizzato nell’ultimo.
Le Storie della Vera Croce si fanno così metafora dell’impegno a far prevalere la fede cristiana sull’usurpazione islamica: i panni bizantini in cui sono raffigurati i dignitari di Eraclio nella scena dell’Esaltazione della croce, probabilmente tutti di diretta ascendenza pisanelliana, identificano con certezza nell’ultima dinastia paleologa la vera erede, l’incarnazione quasi del titolo di Costantino.
La Flagellazione è pressoché contemporanea agli affreschi di Arezzo e come questi fu dipinta in occasione della conferenza di Mantova del 1459 per celebrarne l’intento commemorando a vent’anni di distanza il diretto precedente del Concilio di Ferrara-Firenze, concluso nel 1439. La tavola di Urbino è una sorta di manifesto politico della crociata contro l’islam, il cui messaggio è ispirato dall’ampio e autorevole ambiente che in Italia perorava il recupero di quel che restava di Bisanzio e il riassorbimento giuridico della gigantesca, millenaria ed estremamente appetibile eredità dinastica dell’impero dei cesari, trasferita a Costantinopoli dal suo fondatore e primo imperatore, Costantino.
L’opera, nella sua densissima valenza simbolica, rappresenta entrambe le ‘icone’ di Costantino. L’immagine del basileus bizantino assiso in trono, con cui si apre la sequenza dei personaggi, riprende apertamente il profilo di Giovanni VIII fornito da Pisanello nella medaglia coniata tra Ferrara e Firenze. Ma il ritratto ‘a medaglia’ del basileus tardobizantino che assiste alla vessazione della cristianità orientale, simboleggiata nel Cristo flagellato, è attualizzato in un altro ruolo: quello che gli storici dell’arte hanno indicato come ‘di Pilato’, ossia di rappresentante dell’autorità politico-giuridica romana, il rhomaios, impersonato nell’imperatore. Per chi auspicava il ricongiungimento della seconda Roma con la prima Roma dei papi, il basileus Paleologo rappresentava, oltre e più ancora che l’imperatore d’Oriente, l’ultimo diretto erede e occupante del trono ‘romano’ di Costantino.
Una lunga scia iconografica, che si estende sino alla fine del Quattrocento e all’inizio del Cinquecento, moltiplicherà in questi decenni l’icona costantiniana nell’arte pittorica, ma anche in quella eminentemente libresca e umanistica della miniatura, e perfino nelle arti minori come la ceramica, conferendo all’immagine di Costantino i concreti tratti dei basileis bizantini del tempo e sottolineando sia l’indiscussa legittimità sia l’inestimabile valore politico del lascito dei cesari della Seconda Roma.
Le espressioni artistiche ci restituiscono una pletora di immagini minute e spesso misconosciute, ma di indubbia eloquenza: un filone iconografico minore e autonomo, che irriga o lambisce tutta l’arte del tempo, in quadri, affreschi, bassorilievi commissionati da borghesi oltre che da aristocratici e principi, o ancora più spesso insinuandosi sotto forma di miniature nelle pagine dei libri degli intellettuali. Gli stessi caratteri e emblemi conferiti a Giovanni VIII, poi a suo fratello Costantino XI, e di qui restituiti a Costantino il Grande, rivelano nella pittura del Quattrocento un transfert o cortocircuito temporale, in cui l’identificazione tra gli ultimi sovrani bizantini difensori di Costantinopoli e il suo fondatore corrisponde all’appassionato progetto di riannessione dell’eredità giuridica dei cesari bizantini all’Occidente e in particolare al papato.
Solo negli anni Settanta del Quattrocento, dopo che la mancata riunificazione ideologico-giuridica della Prima Roma con la Seconda divenne un dato di fatto irrefutabile e insormontabile, il passaggio del titulus di Costantino da un lato ai turchi osmani, dall’altro alla Terza Roma produrrà non solo l’eclissi di Bisanzio nell’autocoscienza politica dell’era moderna, ma anche una metamorfosi nella ricezione della figura storica del fondatore dell’impero che si era affermata durante il suo revival umanistico.
La sua successione dinastica passerà alla Russia, attraverso il matrimonio tra Zoe Paleologina, la figlia primogenita di Tommaso Paleologo, e il Gran Principe Ivan III di Mosca, negoziato dallo stesso Bessarione proprio attingendo ai fondi pontifici per la crociata antiturca in Morea. Tramite Zoe, che assumerà il nome di Sofija, la tradizione imperiale costantiniana, con i suoi riti, emblemi e simboli, si annetterà alla corte di Ivan III Groz^nij: di qui comincerà la translatio ad Russiam del titolo di Costantino, da cui prenderà vita un’altra storia, che lo riallontanerà di nuovo dagli interessi e dunque dalla memoria dell’Occidente.
L’Introduzione storico-filologica è divisa in 4 parti: I) La tradizione manoscritta; II) Critica ... more L’Introduzione storico-filologica è divisa in 4 parti: I) La tradizione manoscritta; II) Critica del testo; III) Edizioni; IV) Ratio. Nella prima parte si descrive la tradizione manoscritta dell’Esegesi eustaziana e se ne tenta la storia, ampliando ed aggiornando le acquisizioni della paleografia e della filologia anche recenti. In particolare, vi si dà conto di una completa ricognizione autottica dei manoscritti Vaticano greco 1409, Alessandrino Patriarcale 62 (107), Basileense A.VII.1 (gr. 34), Vallicelliano F 44 (gr. 94), Vindobonense Theol. Graec. 208 Nessel (298Lambecius), ivi inclusi i paratesti, le aliae manus, gli aspetti codicologici, le vicissitudini storiche che confermano o rivelano, insieme ai possessori di ciascun codice.
Inoltre sono rivisitate ed ampliate le conoscenze sul deperditus Scorialense Λ.II.11, appartenuto a Diego Hurtado de Mendoza e scomparso all’Escorial a seguito dell’incendio del 1671: in base allo spoglio esaustivo e alla disamina della totalità degli antichi cataloghi e documenti di archivio, se ne ricostruisce il contenuto e si evince la corretta titolatura dell’Exegesis e se ne ipotizza la provenienza dal monastero di Prodromos Petra. La medesima provenienza è verosimile anche per i manoscritti Vaticano ed Alessandrino, che quindi gettano luce non solo sul cosiddetto didaskaleion di Prodromos Petra ma anche sui suoi colti lettori, sul suo mouseion e sul suo scriptorium fino all’ attività di Giorgio Baioforo, ben visibile nel manoscritto di Basilea, del XV secolo.
Nella seconda parte è attentamente esaminata e ricostruitala parentela tra i codici, con completa dimostrazione dello stemma (p. 289*). Nella terza parte si esamina la storia del testo dal Seicento all’Ottocento, tra edizioni precritiche (Mai e Migne) ed edizioniparziali (gli Excerpta di Leone Allacci e i progetti editoriali di Tafel e Pitra). Nella quarta parte sono spiegati i criteri della nuova edizione critica sia
per il testo e la titolatura del commento eustaziano, sia per il testo del canone; inoltre si dà conto dell’accurata preparazione dei tre apparati: delle varianti (V), dei marginalia (M), delle fonti e deitestimoni (F), quest’ultimo allestitomore antiquo, nei più di tre decenni di lavoro spesi sull’opera dai due editori.
This volume offers the first critical edition of the vast Commentary on the Pentecostal iambic canon (traditionally ascribed to St. John the Damascene) composed by Eustathius, Archbishop of Thessalonica. The attribution of the hymn to the Damascene was, in principle, called into question by Eustathius himself who eventually suggested that Damascene’s paternity be accepted only out of ecclesiastical obedience.
The Commentary is probably the last text Eustathius wrote. It can be regarded as thesumma of his working method, style of exposition, scholarly interests and literary tastes. Moreover, it can be read as the first Byzantine attempt to create a fusion between a working method originating in the exegesis of classical texts and modes of theological interpretation connected in turn to liturgical experience and pastoral practice.
The edition of the text is accompanied by three apparatuses, a complete range of indices and exhaustive Prolegomena where the editors shed light on the Commentary as such – its genesis and date, audience, discussion of traditional attribution, and sources – and the history of its manuscript tradition, with a special focus on the Constantinopolitan didaskaleion of Prodromos-Petra.
Uploads
Books by Silvia Ronchey
Pages I-XII Front matter
Pages 1*-386* Prolegomena:
Pages 3*-186* Introduzione storico-letteraria (Paolo Cesaretti)
Pages 187*-313* Introduzione storico-filologica (Silvia Ronchey)
Pages 315*-385* Bibliografia
Pages 1-264 Critical edition with apparatuses:
Pages 3-6 Sigla
Pages 7-111 Prooemium, Oda I et III (Silvia Ronchey)
Pages 112-265 Oda IV usque ad IX (Paolo Cesaretti)
Pages 265-486 Indices (Paolo Cesaretti)
Pages 487-492 Riproduzioni fotografiche
This volume offers the first critical edition of the vast Commentary on the Pentecostal iambic canon (traditionally ascribed to St. John the Damascene) composed by Eustathius, Archbishop of Thessalonica. The attribution of the hymn to the Damascene was, in principle, called into question by Eustathius himself who eventually suggested that Damascene’s paternity be accepted only out of ecclesiastical obedience.
The Commentary is probably the last text Eustathius wrote. It can be regarded as the summa of his working method, style of exposition, scholarly interests and literary tastes. Moreover, it can be read as the first Byzantine attempt to create a fusion between a working method originating in the exegesis of classical texts and modes of theological interpretation connected in turn to liturgical experience and pastoral practice.
The edition of the text is accompanied by three apparatuses, a complete range of indices and exhaustive Prolegomena where the editors shed light on the Commentary as such – its genesis and date, audience, discussion of traditional attribution, and sources – and the history of its manuscript tradition, with a special focus on the Constantinopolitan didaskaleion of Prodromos-Petra.
Da Procopio a Le Corbusier, da Paolo Silenziario a Mandel’stam, da Psello a Dos Passos, da Anna Comnena a Flaubert, da Ibn Battuta a Gide, da Gilles a Loti, da Grelot a Melville, da Andersen a Cocteau, da Chateaubriand a Fermor, da De Amicis a MarcTwain, da Byron a Yeats, da Nerval a Pamuk, narrazioni e descrizioni si snodano attraverso la Roma d’Oriente in dieci percorsi: un inconsueto itinerario topografico che è anche un viaggio nel tempo e nei segreti di un’eredità storica, artistica e culturale, quella bizantina. Ogni percorso è illustrato da una mappa-itinerario e da un’introduzione scientifico-narrativa ai monumenti e ai luoghi, che fornisce anche indicazioni precise per rintracciarli nel «labirinto» dell’antica Città. Un breve apparato di note, un’indispensabile quanto aggiornata bibliografia e un supplemento biografico con i profili di tutti gli autori convocati completano il volume, corredato inoltre da piú di centocinquanta immagini tra disegni, incisioni, foto d’epoca e mappe.
Capofila di tutte le storie cristianizzate del Buddha, questo testo bizantino degli anni intorno al Mille ha una genesi affascinante tra il Caucaso e il Monte Athos, in un intreccio di lingue, culture e religioni diverse. La Storia di Barlaam e Ioasaf racconta di un principe indiano che, grazie agli insegnamenti di un anacoreta, fugge dal palazzo dove il padre l’ha rinchiuso per proteggerlo dai mali del mondo, abbandona il destino regale e avvia il suo percorso mistico-eremitico. Che la storia ricalcasse quella del Buddha se ne erano accorti già gli studiosi di fine Ottocento, ma la matassa dei passaggi e delle mediazioni è stata dipanata solo in anni recenti, anche grazie all’edizione critica pubblicata da Robert Volk nel 2009. Basandosi sul suo testo e sui suoi apparati, Paolo Cesaretti consegna ai lettori una puntuale revisione della traduzione (di entrambi i curatori) e una ristrutturazione delle note e degli indici, che completano l’informazione aggiornata sull’insieme dell’opera fornita nel saggio introduttivo. Tutto questo rinnova profondamente l’edizione firmata dai due studiosi nel 1980. Si possono così apprezzare appieno per la prima volta sia le qualità narrative del testo sia la ricchezza allusivo-sapienziale delle parabole incastonate nel racconto, che hanno affascinato e influenzato molti scrittori nel corso dei secoli, da Iacopo da Varazze a Boccaccio, da Shakespeare a Tolstoj.
Il saggio introduttivo della co-traduttrice e co-curatrice (Il Buddha bizantino, pp. vii-cvii) traccia in cento pagine il primo ancorché sintetico bilancio storico-filologico sulla questione del Barlaam e Ioasaf stilato tenendo presente la nuova edizione critica di Robert Volk (Historia animae utilis de Barlaam et Ioasaph, I-II, Berlin – New York 2006-2009, che solo oggi di fatto ha rimpiazzato l’editio princeps ottocentesca di Jean François Boissonade) e in particolare i suoi monumentali prolegomeni (Einführung, ivi, vol. II). Dà anzitutto conto delle nuove e cruciali acquisizioni scientifiche presenti in questi ultimi, e in generale emerse dalla comunità degli studiosi nei più di trent’anni che separano questa nuova edizione italiana dalla prima pubblicata dai due curatori nel 1980 (Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf, introd., trad. it., note e repertorio biblico di S. RONCHEY e P. CESARETTI, Milano, Rusconi, 1980, 317 pp.). Delucida quindi l’evoluzione del nucleo narrativo, dalle versioni orientali della vita del Buddha alla cristianizzazione georgiana alla formalizzazione e all’attribuzione autoriale della narrazione greco-bizantina (per cui sono dirimenti le acquisizioni di Volk), sino alla fortuna del Barlaam e Ioasaf e dei suoi apologhi in età moderna. Tutti gli aspetti filologici toccati da Volk sono analizzati in termini sintetici e quanto meglio possibile chiariti, ma sono integrati nel quadro anche gli elementi da Volk volutamente tralasciati, come quelli legati agli studi orientalistici, in particolare sul buddhismo e sul manicheismo, o la fortuna del testo nella storia della letteratura medievale e moderna, o in generale il senso culturale e letterario dell’opera nell’ambito della civiltà bizantina e più circostanziatamente nel contesto della speculazione post-iconoclasta e del cosiddetto enciclopedismo del X-XI sec. Il saggio si presenta dunque come un'introduzione globale al Barlaam e Ioasaf e ai suoi vari aspetti, alla storia degli studi intorno ad esso e all’immensa vicenda della sua fortuna. Ne emerge un “romanzo di filologia” che mostra come lo studio della tradizione dei testi possa toccare il cuore degli snodi culturali e, in questo caso, degli intricati rapporti fra Occidente e Oriente.
The present volume re-introduces to an Italian audience the complete version of the Life of Barlaam and Ioasaph, published by the editors in 1980 (Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf, Milan: Rusconi), now updated with the results of new research and of the critical edition by Robert Volk (De Gruyter, Berlin - New York 2009).
Original source of all of the Christianised stories of Buddha, this Byzantine text dating from the end of the 10th or beginning of the 11th century presents a genesis between the Caucasus and Mount Athos, in a web of different languages, cultures, and religions. The Barlaam and Ioasaph recounts the story of an Indian prince who, influenced by the teachings of an anchorite, flees the palace where his father has imprisoned him to protect him from the evils of the world, abandons his royal destiny, and sets off on his own mystical-hermetic journey. That the story mirrored that of the bodhisattva was recognised by scholars already at the end of the 19th century, but the various stages and mediations were unravelled only in recent years, thanks in large part to the critical edition published by Robert Volk between 2006 (vol. II) and 2009 (vol. I). Basing his work on Volk’s text and apparatuses, Paolo Cesaretti provides readers with a revision of the translation (by both editors) and of the notes and indices. In the introduction Silvia Ronchey provides exhaustive updated information on the entire work (Il Buddha bizantino, pp. vii-cvii). This effort marks a profound renewal of the two scholars’ 1980 edition. It is now possible to fully appreciate both the narrative qualities of the text and the allusive, philosophical richness of the various trajectories of the story, which have fascinated and influenced scores of writers over the centuries, from Jacopo da Varazze to Boccaccio, Shakespeare, and Tolstoy.
The co-translator’s and co-editor’s introductory essay (Il Buddha bizantino, pp. vii-cvii) traces in one hundred pages the first, albeit concise, historical-philological evaluation of the issue of the Barlaam and Ioasaph compiled in mind with the new critical edition by Robert Volk (Historia animae utilis de Barlaam et Ioasaph, I-II, Berlin – New York 2006-2009, which only now replaces the nineteenth century editio princeps by Jean François Boissonade) and, in particular, his monumental prolegomena (Einführung, ivi, vol. II). The introduction takes into account the crucial new research results present in the latter and, in general, which have emerged from the more than thirty years of research separating this new Italian edition from the first published by the two editors in 1980 (S. Ronchey and P. Cesaretti, eds., Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf, Introduction, Notes, Biblical Repertory, Italian translation. Milan: Rusconi, 1980, 317 pp.). The essay sheds light on the evolution of the narrative nucleus from Eastern versions of the life of Buddha to the Georgian Christianisation, as well as to the formalisation, and authorial attribution of the Greek Byzantine narrative (for which Volk’s results are decisive), up until the success of the History of Barlaam and Ioasaph and its apologists in the modern age. All of the philological aspects touched on by Volk are analysed concisely and clarified as much as possible, with the addition of elements intentionally bypassed by Volk, such as those relating to Buddhist or Manichaean studies, or the reception of the text in the history of Medieval and modern literature or, eventually, the more general cultural and literary meaning of the work in the world of Byzantine civilisation and, more tangentially, in the context of post-iconoclast speculation and the so-called encyclopaedism of the 10th and 11th centuries. Therefore, the essay represents an overall introduction to the Barlaam and Ioasaph and its various aspects and the history of the scholarship surrounding it, as well as the enormous circumstances of its influence. What emerges is a “philological novel” that reveals how the study of textual tradition can touch the heart of cultural exchange and, in this case, the intricate relations between East and West.
La chiave sta nella tragedia che ha segnato le origini dell'età moderna: la fine dell'impero di Bisanzio con la caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi, nel 1453, un 11 settembre immensamente più devastante, sigillo dello scontro di civiltà fra cristianesimo e islam. Il celebre
quadro di Urbino è infatti il manifesto dell'ambizioso progetto politico che stava maturando nell'Italia della metà del Quattrocento: l'estremo tentativo di salvare la civiltà bizantina, garantendole sopravvivenza in Occidente. Il progetto fallì e il corso degli eventi prese un'altra direzione. Ma senza conoscere questa sotterranea operazione politica inghiottita dalla storia non si può cogliere il senso della Flagellazione di Piero.
Attraverso un'attenta ricostruzione delle tracce bizantine lasciate nei dipinti dell'epoca, Silvia Ronchey restituisce ai protagonisti del quadro di Piero il loro vero volto e compone con sapiente gusto narrativo e assoluto rigore filologico una vasta sinfonia in cui riecheggiano le gesta e il valore politico di una civiltà millenaria rimossa dalla memoria dell'Europa. "
La Nota sull'italianizzazione dei nomi di famiglia dei Bizantini Eminenti, premessa al testo (pp. 31-32), si studia non già di dirimere definitivamente la complessa questione, da tempo oggetto di disputa fra gli studiosi, ma di fornire criteri in base ai quali la resa onomastica sia, se non un modello normativo, almeno un esempio coerente. I princìpi proposti, elaborati con la collaborazione anzitutto di Albio Cassio, si offrono si offrono come criteri empirici, dettati da considerazioni grammaticali ma anche dal buon senso, e cercano di conciliare la correttezza morfologica, il rispetto delle abitudini della comunità scientifica e insieme l'esigenza di non complicare la lettura. (In quanto tali, i criteri enunciati nell'Aristocrazia saranno, dopo la sua pubblicazione, ufficialmente adottati per i testi bizantini della Fondazione Lorenzo Valla.)
L'aristocrazia bizantina, the historical, philological, diplomatic, and sigillographic study carried out over ten years by Kazhdan and Ronchey is based on a thorough analysis of the literary sources, together with the prodigious statistical examination of the careers of four hundred of the most important families of the empire between the 11th and 13th centuries. Carried out by Kazhdan during his Soviet period, the entire investigation is here revised, reorganised, and re-elaborated conceptually. The volume offers a compilation of both evidence provided by historians of the Byzantine notion of nobility (based on rigorous re-reading and updated re-interpretation of the texts from the standpoint of philology and hermeneutics) and physical evidence offered by archival documents and seals on the actual status of the aristocracy in Byzantium. From this data, developing and clarifying Kazhdan’s earlier intuitions, the volume draws an important sociological theory on the “ascendant vertical dynamism” of élites in open oligarchies: if equality is not possible, there is an intermediate possibility which in Byzantium resides principally in “state-controlled education,” allowing new classes to ascend to the summit and gather around the centre – albeit for a short time – and thus guaranteeing, on the one hand, political-administrative exchange and, on the other hand, the continuity in the form of the state. The extraordinary amount of material examined outlines a novel objective profile of the ruling class of the greatest Mediterraean empire at the height of its power. In addition, the exhaustive documentation renders the work an accurate prosopographical repertory of use to scholars of the Eastern and Western Middle Ages.
The Nota sull'italianizzazione dei nomi di famiglia dei Bizantini Eminenti (pp. 31-32), appended to the introduction, does not attempt so much to resolve definitively the complex question of the Italianisation of Byzantine family names, the subject of debate among scholars for considerable time, as to provide criteria by which the names produced might be, if not normative models, at least coherent examples. The proposed principles, outlined with in collaboration primarily with Albio Cassio, are offered as empirical criteria, dictated by rigorous grammatical consideration and common sense, in an effort to reconcile correct morphology and respect for customs of the academic community, together with the need to simplify reading. (As such, the Fondazione Lorenzo Valla officially adopted the criteria proposed here for Byzantine texts.)
Pages I-XII Front matter
Pages 1*-386* Prolegomena:
Pages 3*-186* Introduzione storico-letteraria (Paolo Cesaretti)
Pages 187*-313* Introduzione storico-filologica (Silvia Ronchey)
Pages 315*-385* Bibliografia
Pages 1-264 Critical edition with apparatuses:
Pages 3-6 Sigla
Pages 7-111 Prooemium, Oda I et III (Silvia Ronchey)
Pages 112-265 Oda IV usque ad IX (Paolo Cesaretti)
Pages 265-486 Indices (Paolo Cesaretti)
Pages 487-492 Riproduzioni fotografiche
This volume offers the first critical edition of the vast Commentary on the Pentecostal iambic canon (traditionally ascribed to St. John the Damascene) composed by Eustathius, Archbishop of Thessalonica. The attribution of the hymn to the Damascene was, in principle, called into question by Eustathius himself who eventually suggested that Damascene’s paternity be accepted only out of ecclesiastical obedience.
The Commentary is probably the last text Eustathius wrote. It can be regarded as the summa of his working method, style of exposition, scholarly interests and literary tastes. Moreover, it can be read as the first Byzantine attempt to create a fusion between a working method originating in the exegesis of classical texts and modes of theological interpretation connected in turn to liturgical experience and pastoral practice.
The edition of the text is accompanied by three apparatuses, a complete range of indices and exhaustive Prolegomena where the editors shed light on the Commentary as such – its genesis and date, audience, discussion of traditional attribution, and sources – and the history of its manuscript tradition, with a special focus on the Constantinopolitan didaskaleion of Prodromos-Petra.
La duplice intenzione dell'autrice è da un lato analizzare le istanze proprie del testo attraverso l'analisi formale – filologica e retorico-letteraria – dei suoi caratteri interni, dall'altro disegnarne la collocazione cronologica attraverso l'esame di tutti gli aspetti – storici, dottrinari, culturali e letterari – legati alla sua composizione, ed anche attraverso il raffronto con i documenti martirologici espressi dal medesimo ambiente, come il Martirio di Pionio e gli Atti di Carpo, Pailo e Agatonice. All'analisi testuale si accompagna la sensibilità per la storia della cultura, e da quest'ampia visuale scaturisce un'indagine che ripropone e rivede la questione della datazione e del valore del testo in rapporto all'evoluzione dell'ambiente microasiatico e alle relazioni tra cristianesimo e impero romano: le sezioni dedicate alle istituzioni, al tessuto sociale, alla vita economica della Smirne pagana, giudaica e cristiana affiancano il riesame della normativa giudiziaria traianea e antonina alla luce della procedura adottata nel processo contro Policarpo ed in quelli di Lione.
As with all hagiographic sources, the Martyrdom of Polycarp presents textual and chronological challenges of historical placement and philological exegesis. And as a forerunner of Byzantine hagiographic literature, it adheres to doctrinal demands expressed in a formally complex metaphorical key. Further, as an emulator (epigon) of Alexandrian judicial literature, it wraps its content in an apparently neutral trial package that is, in reality, politically charged.
The author’s dual intention is to, on the one hand, analyse the actual aims of the text through a formal, rhetorical and literary analysis of its inner features (deep text), and, on the other, map out their chronological placement through an examination of the historical, doctrinal, cultural, and literary aspects connected to its composition, in addition to a comparison with martyrological documents from the same world, such as the Martyrdom of Pionius and the Acts of Carpus, Papylus, and Agathonice. The textual analysis is accompanied by an interest and awareness of cultural history, and from this wider perspective is derived an investigation, which revisits the question of the dating and merit of the text in relation to the evolution of the more localised Asian context and relations between Christianity and the Roman Empire. The sections devoted to institutions, the social fabric, economic life in Pagan, Judaic, and Christian Smyrna accompany the re-examination of Trajan and Antonine judicial rules and regulations in light of the procedures adopted both in the trial of Polycarp and in those of Lyon.
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Scholarly Essays by Silvia Ronchey
La portata, la finalità, le implicazioni, l’appassionata coralità di questo estremo tentativo di salvare dai turchi e riannettere all’Occidente il titolo di Costantino fino a qualche anno fa non erano state còlte sino in fondo né dagli studiosi di storia occidentale né da quelli di storia bizantina, per due motivi: perché tutto si svolse nell’angolo cieco tra la visione dell’una e dell’altra, oltre che alla cerniera tra Medioevo e Età Moderna; e inoltre perché quel tentativo risultò perdente, mentre la storia, si sa, è scritta dai vincitori.
Il progetto fallì anche perché perirono l’uno dopo l’altro, in un brevissimo arco di tempo, i suoi principali sostenitori. Ma nei decenni in cui fu perseguito assistiamo a un vero e proprio revival della figura di Costantino e a un’accentuazione del primato simbolico e del portato giuridico del suo titolo, nella riflessione e nell’azione politica degli intellettuali umanisti, che si rispecchiò nelle committenze artistiche del tempo.
Già ManueleII Paleologo era stato raffigurato sotto le spoglie di Costantino e con gli emblemi della regalità bizantina propri della teorizzazione di età costantiniana. In occasione della sua visita al re di Francia, allo scoccare del 1400, a questo basileus erano stati conferiti, proprio dall’Occidente, gli attributi originari e tipici dell’autorità imperiale romano-bizantina enunciata dalle Laudes Constantini di Eusebio e dai Capitoli parenetici dello Pseudo-Agapeto. Quel primo ‘avvento’ bizantino nell’Europa quattrocentesca aveva lasciato una traccia iconografica ideologicamente saliente nelle due medaglie in oro dei fratelli Limbourg — raffiguranti l’una Costantino il Grande a cavallo e l’altra il volto di Eraclio sul recto, con sofisticate allegorie sul verso — le cui copie bronzee sono conservate oggi a Parigi; e in quel capolavoro che sono Les très riches heures du Duc de Berry, il manoscritto miniato dagli stessi Limbourg e oggi conservato al Musée Condé di Chantilly.
A Ferrara, nell’agosto del 1438, Pisanello rappresentò Giovanni VIII, il figlio primogenito di Manuele, con caratteristiche e simboli ideologicamente e politicamente ancora più pregnanti di quelli adottati dai Limbourg per il padre. Nella medaglia pisanelliana Giovanni VIII, pur rappresentato nei suoi effettivi panni storici, appare effigiato secondo la tipologia degli imperatori romani. La scritta incisa sul recto, intorno al profilo, fu forse suggerita da Bessarione. Il colpo d’occhio del recto sembra comunicare un’affermazione del diritto all’eredità imperiale in contrapposizione all’imperatore d’occidente. Nel più complesso programma iconografico del verso l’emblema dell’obelisco allude in modo specifico al potere papale e il senso della scena raffigurata nel suo verso, già definito «oscuro» dagli studiosi, va letto come un auspicio dell’imperatore verso la Chiesa di Roma. Da questa prima icona-tipo si diramerà la scia pittorica i cui esempi più noti sono le raffigurazioni di Piero della Francesca, negli affreschi di Arezzo e nella Flagellazione di Urbino, che identificheranno senz’altro, per converso e a riprova di quel transfert, Costantino il Grande nei tratti di Giovanni VIII Paleologo e/o dell’ultimo eroico Costantino di Bisanzio, suo fratello Costantino XI Paleologo.
Proprio Costantino è al centro della Battaglia di Costantino e Massenzio, il primo degli affreschi della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca ad Arezzo. Lo stesso profilo, la stessa barba appuntita, l’identico copricapo si ritrovano attribuiti da Piero alla figura maschile assisa in trono che all’estrema sinistra della Flagellazione di Urbino apre l’apparentemente enigmatica sequenza dei personaggi del dipinto: la figura simbolica del Pilato neotestamentario, inteso nella sua qualità di rappresentante giuridico del potere romano, che l’opinione prevalente degli studiosi novecenteschi ha identificato con quella storica di Giovanni VIII Paleologo.
Negli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo la battaglia di Costantino contro il ‘pagano’ Massenzio è immagine di quella contro gli ‘infedeli’ turchi combattuta pochi anni prima non già da Giovanni VIII ma dal basileus suo fratello, che del fondatore dell’impero portava il nome: Costantino XI. I turchi sono chiaramente identificati, sul piano iconografico, da più simboli, tra cui quello, tipico, del ‘demoniaco’ drago, che campeggia sulla bandiera degli avversari di questo primo Costantino attualizzato nell’ultimo.
Le Storie della Vera Croce si fanno così metafora dell’impegno a far prevalere la fede cristiana sull’usurpazione islamica: i panni bizantini in cui sono raffigurati i dignitari di Eraclio nella scena dell’Esaltazione della croce, probabilmente tutti di diretta ascendenza pisanelliana, identificano con certezza nell’ultima dinastia paleologa la vera erede, l’incarnazione quasi del titolo di Costantino.
La Flagellazione è pressoché contemporanea agli affreschi di Arezzo e come questi fu dipinta in occasione della conferenza di Mantova del 1459 per celebrarne l’intento commemorando a vent’anni di distanza il diretto precedente del Concilio di Ferrara-Firenze, concluso nel 1439. La tavola di Urbino è una sorta di manifesto politico della crociata contro l’islam, il cui messaggio è ispirato dall’ampio e autorevole ambiente che in Italia perorava il recupero di quel che restava di Bisanzio e il riassorbimento giuridico della gigantesca, millenaria ed estremamente appetibile eredità dinastica dell’impero dei cesari, trasferita a Costantinopoli dal suo fondatore e primo imperatore, Costantino.
L’opera, nella sua densissima valenza simbolica, rappresenta entrambe le ‘icone’ di Costantino. L’immagine del basileus bizantino assiso in trono, con cui si apre la sequenza dei personaggi, riprende apertamente il profilo di Giovanni VIII fornito da Pisanello nella medaglia coniata tra Ferrara e Firenze. Ma il ritratto ‘a medaglia’ del basileus tardobizantino che assiste alla vessazione della cristianità orientale, simboleggiata nel Cristo flagellato, è attualizzato in un altro ruolo: quello che gli storici dell’arte hanno indicato come ‘di Pilato’, ossia di rappresentante dell’autorità politico-giuridica romana, il rhomaios, impersonato nell’imperatore. Per chi auspicava il ricongiungimento della seconda Roma con la prima Roma dei papi, il basileus Paleologo rappresentava, oltre e più ancora che l’imperatore d’Oriente, l’ultimo diretto erede e occupante del trono ‘romano’ di Costantino.
Una lunga scia iconografica, che si estende sino alla fine del Quattrocento e all’inizio del Cinquecento, moltiplicherà in questi decenni l’icona costantiniana nell’arte pittorica, ma anche in quella eminentemente libresca e umanistica della miniatura, e perfino nelle arti minori come la ceramica, conferendo all’immagine di Costantino i concreti tratti dei basileis bizantini del tempo e sottolineando sia l’indiscussa legittimità sia l’inestimabile valore politico del lascito dei cesari della Seconda Roma.
Le espressioni artistiche ci restituiscono una pletora di immagini minute e spesso misconosciute, ma di indubbia eloquenza: un filone iconografico minore e autonomo, che irriga o lambisce tutta l’arte del tempo, in quadri, affreschi, bassorilievi commissionati da borghesi oltre che da aristocratici e principi, o ancora più spesso insinuandosi sotto forma di miniature nelle pagine dei libri degli intellettuali. Gli stessi caratteri e emblemi conferiti a Giovanni VIII, poi a suo fratello Costantino XI, e di qui restituiti a Costantino il Grande, rivelano nella pittura del Quattrocento un transfert o cortocircuito temporale, in cui l’identificazione tra gli ultimi sovrani bizantini difensori di Costantinopoli e il suo fondatore corrisponde all’appassionato progetto di riannessione dell’eredità giuridica dei cesari bizantini all’Occidente e in particolare al papato.
Solo negli anni Settanta del Quattrocento, dopo che la mancata riunificazione ideologico-giuridica della Prima Roma con la Seconda divenne un dato di fatto irrefutabile e insormontabile, il passaggio del titulus di Costantino da un lato ai turchi osmani, dall’altro alla Terza Roma produrrà non solo l’eclissi di Bisanzio nell’autocoscienza politica dell’era moderna, ma anche una metamorfosi nella ricezione della figura storica del fondatore dell’impero che si era affermata durante il suo revival umanistico.
La sua successione dinastica passerà alla Russia, attraverso il matrimonio tra Zoe Paleologina, la figlia primogenita di Tommaso Paleologo, e il Gran Principe Ivan III di Mosca, negoziato dallo stesso Bessarione proprio attingendo ai fondi pontifici per la crociata antiturca in Morea. Tramite Zoe, che assumerà il nome di Sofija, la tradizione imperiale costantiniana, con i suoi riti, emblemi e simboli, si annetterà alla corte di Ivan III Groz^nij: di qui comincerà la translatio ad Russiam del titolo di Costantino, da cui prenderà vita un’altra storia, che lo riallontanerà di nuovo dagli interessi e dunque dalla memoria dell’Occidente.
Inoltre sono rivisitate ed ampliate le conoscenze sul deperditus Scorialense Λ.II.11, appartenuto a Diego Hurtado de Mendoza e scomparso all’Escorial a seguito dell’incendio del 1671: in base allo spoglio esaustivo e alla disamina della totalità degli antichi cataloghi e documenti di archivio, se ne ricostruisce il contenuto e si evince la corretta titolatura dell’Exegesis e se ne ipotizza la provenienza dal monastero di Prodromos Petra. La medesima provenienza è verosimile anche per i manoscritti Vaticano ed Alessandrino, che quindi gettano luce non solo sul cosiddetto didaskaleion di Prodromos Petra ma anche sui suoi colti lettori, sul suo mouseion e sul suo scriptorium fino all’ attività di Giorgio Baioforo, ben visibile nel manoscritto di Basilea, del XV secolo.
Nella seconda parte è attentamente esaminata e ricostruitala parentela tra i codici, con completa dimostrazione dello stemma (p. 289*). Nella terza parte si esamina la storia del testo dal Seicento all’Ottocento, tra edizioni precritiche (Mai e Migne) ed edizioniparziali (gli Excerpta di Leone Allacci e i progetti editoriali di Tafel e Pitra). Nella quarta parte sono spiegati i criteri della nuova edizione critica sia
per il testo e la titolatura del commento eustaziano, sia per il testo del canone; inoltre si dà conto dell’accurata preparazione dei tre apparati: delle varianti (V), dei marginalia (M), delle fonti e deitestimoni (F), quest’ultimo allestitomore antiquo, nei più di tre decenni di lavoro spesi sull’opera dai due editori.
This volume offers the first critical edition of the vast Commentary on the Pentecostal iambic canon (traditionally ascribed to St. John the Damascene) composed by Eustathius, Archbishop of Thessalonica. The attribution of the hymn to the Damascene was, in principle, called into question by Eustathius himself who eventually suggested that Damascene’s paternity be accepted only out of ecclesiastical obedience.
The Commentary is probably the last text Eustathius wrote. It can be regarded as thesumma of his working method, style of exposition, scholarly interests and literary tastes. Moreover, it can be read as the first Byzantine attempt to create a fusion between a working method originating in the exegesis of classical texts and modes of theological interpretation connected in turn to liturgical experience and pastoral practice.
The edition of the text is accompanied by three apparatuses, a complete range of indices and exhaustive Prolegomena where the editors shed light on the Commentary as such – its genesis and date, audience, discussion of traditional attribution, and sources – and the history of its manuscript tradition, with a special focus on the Constantinopolitan didaskaleion of Prodromos-Petra.
Pages I-XII Front matter
Pages 1*-386* Prolegomena:
Pages 3*-186* Introduzione storico-letteraria (Paolo Cesaretti)
Pages 187*-313* Introduzione storico-filologica (Silvia Ronchey)
Pages 315*-385* Bibliografia
Pages 1-264 Critical edition with apparatuses:
Pages 3-6 Sigla
Pages 7-111 Prooemium, Oda I et III (Silvia Ronchey)
Pages 112-265 Oda IV usque ad IX (Paolo Cesaretti)
Pages 265-486 Indices (Paolo Cesaretti)
Pages 487-492 Riproduzioni fotografiche
This volume offers the first critical edition of the vast Commentary on the Pentecostal iambic canon (traditionally ascribed to St. John the Damascene) composed by Eustathius, Archbishop of Thessalonica. The attribution of the hymn to the Damascene was, in principle, called into question by Eustathius himself who eventually suggested that Damascene’s paternity be accepted only out of ecclesiastical obedience.
The Commentary is probably the last text Eustathius wrote. It can be regarded as the summa of his working method, style of exposition, scholarly interests and literary tastes. Moreover, it can be read as the first Byzantine attempt to create a fusion between a working method originating in the exegesis of classical texts and modes of theological interpretation connected in turn to liturgical experience and pastoral practice.
The edition of the text is accompanied by three apparatuses, a complete range of indices and exhaustive Prolegomena where the editors shed light on the Commentary as such – its genesis and date, audience, discussion of traditional attribution, and sources – and the history of its manuscript tradition, with a special focus on the Constantinopolitan didaskaleion of Prodromos-Petra.
Da Procopio a Le Corbusier, da Paolo Silenziario a Mandel’stam, da Psello a Dos Passos, da Anna Comnena a Flaubert, da Ibn Battuta a Gide, da Gilles a Loti, da Grelot a Melville, da Andersen a Cocteau, da Chateaubriand a Fermor, da De Amicis a MarcTwain, da Byron a Yeats, da Nerval a Pamuk, narrazioni e descrizioni si snodano attraverso la Roma d’Oriente in dieci percorsi: un inconsueto itinerario topografico che è anche un viaggio nel tempo e nei segreti di un’eredità storica, artistica e culturale, quella bizantina. Ogni percorso è illustrato da una mappa-itinerario e da un’introduzione scientifico-narrativa ai monumenti e ai luoghi, che fornisce anche indicazioni precise per rintracciarli nel «labirinto» dell’antica Città. Un breve apparato di note, un’indispensabile quanto aggiornata bibliografia e un supplemento biografico con i profili di tutti gli autori convocati completano il volume, corredato inoltre da piú di centocinquanta immagini tra disegni, incisioni, foto d’epoca e mappe.
Capofila di tutte le storie cristianizzate del Buddha, questo testo bizantino degli anni intorno al Mille ha una genesi affascinante tra il Caucaso e il Monte Athos, in un intreccio di lingue, culture e religioni diverse. La Storia di Barlaam e Ioasaf racconta di un principe indiano che, grazie agli insegnamenti di un anacoreta, fugge dal palazzo dove il padre l’ha rinchiuso per proteggerlo dai mali del mondo, abbandona il destino regale e avvia il suo percorso mistico-eremitico. Che la storia ricalcasse quella del Buddha se ne erano accorti già gli studiosi di fine Ottocento, ma la matassa dei passaggi e delle mediazioni è stata dipanata solo in anni recenti, anche grazie all’edizione critica pubblicata da Robert Volk nel 2009. Basandosi sul suo testo e sui suoi apparati, Paolo Cesaretti consegna ai lettori una puntuale revisione della traduzione (di entrambi i curatori) e una ristrutturazione delle note e degli indici, che completano l’informazione aggiornata sull’insieme dell’opera fornita nel saggio introduttivo. Tutto questo rinnova profondamente l’edizione firmata dai due studiosi nel 1980. Si possono così apprezzare appieno per la prima volta sia le qualità narrative del testo sia la ricchezza allusivo-sapienziale delle parabole incastonate nel racconto, che hanno affascinato e influenzato molti scrittori nel corso dei secoli, da Iacopo da Varazze a Boccaccio, da Shakespeare a Tolstoj.
Il saggio introduttivo della co-traduttrice e co-curatrice (Il Buddha bizantino, pp. vii-cvii) traccia in cento pagine il primo ancorché sintetico bilancio storico-filologico sulla questione del Barlaam e Ioasaf stilato tenendo presente la nuova edizione critica di Robert Volk (Historia animae utilis de Barlaam et Ioasaph, I-II, Berlin – New York 2006-2009, che solo oggi di fatto ha rimpiazzato l’editio princeps ottocentesca di Jean François Boissonade) e in particolare i suoi monumentali prolegomeni (Einführung, ivi, vol. II). Dà anzitutto conto delle nuove e cruciali acquisizioni scientifiche presenti in questi ultimi, e in generale emerse dalla comunità degli studiosi nei più di trent’anni che separano questa nuova edizione italiana dalla prima pubblicata dai due curatori nel 1980 (Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf, introd., trad. it., note e repertorio biblico di S. RONCHEY e P. CESARETTI, Milano, Rusconi, 1980, 317 pp.). Delucida quindi l’evoluzione del nucleo narrativo, dalle versioni orientali della vita del Buddha alla cristianizzazione georgiana alla formalizzazione e all’attribuzione autoriale della narrazione greco-bizantina (per cui sono dirimenti le acquisizioni di Volk), sino alla fortuna del Barlaam e Ioasaf e dei suoi apologhi in età moderna. Tutti gli aspetti filologici toccati da Volk sono analizzati in termini sintetici e quanto meglio possibile chiariti, ma sono integrati nel quadro anche gli elementi da Volk volutamente tralasciati, come quelli legati agli studi orientalistici, in particolare sul buddhismo e sul manicheismo, o la fortuna del testo nella storia della letteratura medievale e moderna, o in generale il senso culturale e letterario dell’opera nell’ambito della civiltà bizantina e più circostanziatamente nel contesto della speculazione post-iconoclasta e del cosiddetto enciclopedismo del X-XI sec. Il saggio si presenta dunque come un'introduzione globale al Barlaam e Ioasaf e ai suoi vari aspetti, alla storia degli studi intorno ad esso e all’immensa vicenda della sua fortuna. Ne emerge un “romanzo di filologia” che mostra come lo studio della tradizione dei testi possa toccare il cuore degli snodi culturali e, in questo caso, degli intricati rapporti fra Occidente e Oriente.
The present volume re-introduces to an Italian audience the complete version of the Life of Barlaam and Ioasaph, published by the editors in 1980 (Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf, Milan: Rusconi), now updated with the results of new research and of the critical edition by Robert Volk (De Gruyter, Berlin - New York 2009).
Original source of all of the Christianised stories of Buddha, this Byzantine text dating from the end of the 10th or beginning of the 11th century presents a genesis between the Caucasus and Mount Athos, in a web of different languages, cultures, and religions. The Barlaam and Ioasaph recounts the story of an Indian prince who, influenced by the teachings of an anchorite, flees the palace where his father has imprisoned him to protect him from the evils of the world, abandons his royal destiny, and sets off on his own mystical-hermetic journey. That the story mirrored that of the bodhisattva was recognised by scholars already at the end of the 19th century, but the various stages and mediations were unravelled only in recent years, thanks in large part to the critical edition published by Robert Volk between 2006 (vol. II) and 2009 (vol. I). Basing his work on Volk’s text and apparatuses, Paolo Cesaretti provides readers with a revision of the translation (by both editors) and of the notes and indices. In the introduction Silvia Ronchey provides exhaustive updated information on the entire work (Il Buddha bizantino, pp. vii-cvii). This effort marks a profound renewal of the two scholars’ 1980 edition. It is now possible to fully appreciate both the narrative qualities of the text and the allusive, philosophical richness of the various trajectories of the story, which have fascinated and influenced scores of writers over the centuries, from Jacopo da Varazze to Boccaccio, Shakespeare, and Tolstoy.
The co-translator’s and co-editor’s introductory essay (Il Buddha bizantino, pp. vii-cvii) traces in one hundred pages the first, albeit concise, historical-philological evaluation of the issue of the Barlaam and Ioasaph compiled in mind with the new critical edition by Robert Volk (Historia animae utilis de Barlaam et Ioasaph, I-II, Berlin – New York 2006-2009, which only now replaces the nineteenth century editio princeps by Jean François Boissonade) and, in particular, his monumental prolegomena (Einführung, ivi, vol. II). The introduction takes into account the crucial new research results present in the latter and, in general, which have emerged from the more than thirty years of research separating this new Italian edition from the first published by the two editors in 1980 (S. Ronchey and P. Cesaretti, eds., Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf, Introduction, Notes, Biblical Repertory, Italian translation. Milan: Rusconi, 1980, 317 pp.). The essay sheds light on the evolution of the narrative nucleus from Eastern versions of the life of Buddha to the Georgian Christianisation, as well as to the formalisation, and authorial attribution of the Greek Byzantine narrative (for which Volk’s results are decisive), up until the success of the History of Barlaam and Ioasaph and its apologists in the modern age. All of the philological aspects touched on by Volk are analysed concisely and clarified as much as possible, with the addition of elements intentionally bypassed by Volk, such as those relating to Buddhist or Manichaean studies, or the reception of the text in the history of Medieval and modern literature or, eventually, the more general cultural and literary meaning of the work in the world of Byzantine civilisation and, more tangentially, in the context of post-iconoclast speculation and the so-called encyclopaedism of the 10th and 11th centuries. Therefore, the essay represents an overall introduction to the Barlaam and Ioasaph and its various aspects and the history of the scholarship surrounding it, as well as the enormous circumstances of its influence. What emerges is a “philological novel” that reveals how the study of textual tradition can touch the heart of cultural exchange and, in this case, the intricate relations between East and West.
La chiave sta nella tragedia che ha segnato le origini dell'età moderna: la fine dell'impero di Bisanzio con la caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi, nel 1453, un 11 settembre immensamente più devastante, sigillo dello scontro di civiltà fra cristianesimo e islam. Il celebre
quadro di Urbino è infatti il manifesto dell'ambizioso progetto politico che stava maturando nell'Italia della metà del Quattrocento: l'estremo tentativo di salvare la civiltà bizantina, garantendole sopravvivenza in Occidente. Il progetto fallì e il corso degli eventi prese un'altra direzione. Ma senza conoscere questa sotterranea operazione politica inghiottita dalla storia non si può cogliere il senso della Flagellazione di Piero.
Attraverso un'attenta ricostruzione delle tracce bizantine lasciate nei dipinti dell'epoca, Silvia Ronchey restituisce ai protagonisti del quadro di Piero il loro vero volto e compone con sapiente gusto narrativo e assoluto rigore filologico una vasta sinfonia in cui riecheggiano le gesta e il valore politico di una civiltà millenaria rimossa dalla memoria dell'Europa. "
La Nota sull'italianizzazione dei nomi di famiglia dei Bizantini Eminenti, premessa al testo (pp. 31-32), si studia non già di dirimere definitivamente la complessa questione, da tempo oggetto di disputa fra gli studiosi, ma di fornire criteri in base ai quali la resa onomastica sia, se non un modello normativo, almeno un esempio coerente. I princìpi proposti, elaborati con la collaborazione anzitutto di Albio Cassio, si offrono si offrono come criteri empirici, dettati da considerazioni grammaticali ma anche dal buon senso, e cercano di conciliare la correttezza morfologica, il rispetto delle abitudini della comunità scientifica e insieme l'esigenza di non complicare la lettura. (In quanto tali, i criteri enunciati nell'Aristocrazia saranno, dopo la sua pubblicazione, ufficialmente adottati per i testi bizantini della Fondazione Lorenzo Valla.)
L'aristocrazia bizantina, the historical, philological, diplomatic, and sigillographic study carried out over ten years by Kazhdan and Ronchey is based on a thorough analysis of the literary sources, together with the prodigious statistical examination of the careers of four hundred of the most important families of the empire between the 11th and 13th centuries. Carried out by Kazhdan during his Soviet period, the entire investigation is here revised, reorganised, and re-elaborated conceptually. The volume offers a compilation of both evidence provided by historians of the Byzantine notion of nobility (based on rigorous re-reading and updated re-interpretation of the texts from the standpoint of philology and hermeneutics) and physical evidence offered by archival documents and seals on the actual status of the aristocracy in Byzantium. From this data, developing and clarifying Kazhdan’s earlier intuitions, the volume draws an important sociological theory on the “ascendant vertical dynamism” of élites in open oligarchies: if equality is not possible, there is an intermediate possibility which in Byzantium resides principally in “state-controlled education,” allowing new classes to ascend to the summit and gather around the centre – albeit for a short time – and thus guaranteeing, on the one hand, political-administrative exchange and, on the other hand, the continuity in the form of the state. The extraordinary amount of material examined outlines a novel objective profile of the ruling class of the greatest Mediterraean empire at the height of its power. In addition, the exhaustive documentation renders the work an accurate prosopographical repertory of use to scholars of the Eastern and Western Middle Ages.
The Nota sull'italianizzazione dei nomi di famiglia dei Bizantini Eminenti (pp. 31-32), appended to the introduction, does not attempt so much to resolve definitively the complex question of the Italianisation of Byzantine family names, the subject of debate among scholars for considerable time, as to provide criteria by which the names produced might be, if not normative models, at least coherent examples. The proposed principles, outlined with in collaboration primarily with Albio Cassio, are offered as empirical criteria, dictated by rigorous grammatical consideration and common sense, in an effort to reconcile correct morphology and respect for customs of the academic community, together with the need to simplify reading. (As such, the Fondazione Lorenzo Valla officially adopted the criteria proposed here for Byzantine texts.)
Pages I-XII Front matter
Pages 1*-386* Prolegomena:
Pages 3*-186* Introduzione storico-letteraria (Paolo Cesaretti)
Pages 187*-313* Introduzione storico-filologica (Silvia Ronchey)
Pages 315*-385* Bibliografia
Pages 1-264 Critical edition with apparatuses:
Pages 3-6 Sigla
Pages 7-111 Prooemium, Oda I et III (Silvia Ronchey)
Pages 112-265 Oda IV usque ad IX (Paolo Cesaretti)
Pages 265-486 Indices (Paolo Cesaretti)
Pages 487-492 Riproduzioni fotografiche
This volume offers the first critical edition of the vast Commentary on the Pentecostal iambic canon (traditionally ascribed to St. John the Damascene) composed by Eustathius, Archbishop of Thessalonica. The attribution of the hymn to the Damascene was, in principle, called into question by Eustathius himself who eventually suggested that Damascene’s paternity be accepted only out of ecclesiastical obedience.
The Commentary is probably the last text Eustathius wrote. It can be regarded as the summa of his working method, style of exposition, scholarly interests and literary tastes. Moreover, it can be read as the first Byzantine attempt to create a fusion between a working method originating in the exegesis of classical texts and modes of theological interpretation connected in turn to liturgical experience and pastoral practice.
The edition of the text is accompanied by three apparatuses, a complete range of indices and exhaustive Prolegomena where the editors shed light on the Commentary as such – its genesis and date, audience, discussion of traditional attribution, and sources – and the history of its manuscript tradition, with a special focus on the Constantinopolitan didaskaleion of Prodromos-Petra.
La duplice intenzione dell'autrice è da un lato analizzare le istanze proprie del testo attraverso l'analisi formale – filologica e retorico-letteraria – dei suoi caratteri interni, dall'altro disegnarne la collocazione cronologica attraverso l'esame di tutti gli aspetti – storici, dottrinari, culturali e letterari – legati alla sua composizione, ed anche attraverso il raffronto con i documenti martirologici espressi dal medesimo ambiente, come il Martirio di Pionio e gli Atti di Carpo, Pailo e Agatonice. All'analisi testuale si accompagna la sensibilità per la storia della cultura, e da quest'ampia visuale scaturisce un'indagine che ripropone e rivede la questione della datazione e del valore del testo in rapporto all'evoluzione dell'ambiente microasiatico e alle relazioni tra cristianesimo e impero romano: le sezioni dedicate alle istituzioni, al tessuto sociale, alla vita economica della Smirne pagana, giudaica e cristiana affiancano il riesame della normativa giudiziaria traianea e antonina alla luce della procedura adottata nel processo contro Policarpo ed in quelli di Lione.
As with all hagiographic sources, the Martyrdom of Polycarp presents textual and chronological challenges of historical placement and philological exegesis. And as a forerunner of Byzantine hagiographic literature, it adheres to doctrinal demands expressed in a formally complex metaphorical key. Further, as an emulator (epigon) of Alexandrian judicial literature, it wraps its content in an apparently neutral trial package that is, in reality, politically charged.
The author’s dual intention is to, on the one hand, analyse the actual aims of the text through a formal, rhetorical and literary analysis of its inner features (deep text), and, on the other, map out their chronological placement through an examination of the historical, doctrinal, cultural, and literary aspects connected to its composition, in addition to a comparison with martyrological documents from the same world, such as the Martyrdom of Pionius and the Acts of Carpus, Papylus, and Agathonice. The textual analysis is accompanied by an interest and awareness of cultural history, and from this wider perspective is derived an investigation, which revisits the question of the dating and merit of the text in relation to the evolution of the more localised Asian context and relations between Christianity and the Roman Empire. The sections devoted to institutions, the social fabric, economic life in Pagan, Judaic, and Christian Smyrna accompany the re-examination of Trajan and Antonine judicial rules and regulations in light of the procedures adopted both in the trial of Polycarp and in those of Lyon.
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La portata, la finalità, le implicazioni, l’appassionata coralità di questo estremo tentativo di salvare dai turchi e riannettere all’Occidente il titolo di Costantino fino a qualche anno fa non erano state còlte sino in fondo né dagli studiosi di storia occidentale né da quelli di storia bizantina, per due motivi: perché tutto si svolse nell’angolo cieco tra la visione dell’una e dell’altra, oltre che alla cerniera tra Medioevo e Età Moderna; e inoltre perché quel tentativo risultò perdente, mentre la storia, si sa, è scritta dai vincitori.
Il progetto fallì anche perché perirono l’uno dopo l’altro, in un brevissimo arco di tempo, i suoi principali sostenitori. Ma nei decenni in cui fu perseguito assistiamo a un vero e proprio revival della figura di Costantino e a un’accentuazione del primato simbolico e del portato giuridico del suo titolo, nella riflessione e nell’azione politica degli intellettuali umanisti, che si rispecchiò nelle committenze artistiche del tempo.
Già ManueleII Paleologo era stato raffigurato sotto le spoglie di Costantino e con gli emblemi della regalità bizantina propri della teorizzazione di età costantiniana. In occasione della sua visita al re di Francia, allo scoccare del 1400, a questo basileus erano stati conferiti, proprio dall’Occidente, gli attributi originari e tipici dell’autorità imperiale romano-bizantina enunciata dalle Laudes Constantini di Eusebio e dai Capitoli parenetici dello Pseudo-Agapeto. Quel primo ‘avvento’ bizantino nell’Europa quattrocentesca aveva lasciato una traccia iconografica ideologicamente saliente nelle due medaglie in oro dei fratelli Limbourg — raffiguranti l’una Costantino il Grande a cavallo e l’altra il volto di Eraclio sul recto, con sofisticate allegorie sul verso — le cui copie bronzee sono conservate oggi a Parigi; e in quel capolavoro che sono Les très riches heures du Duc de Berry, il manoscritto miniato dagli stessi Limbourg e oggi conservato al Musée Condé di Chantilly.
A Ferrara, nell’agosto del 1438, Pisanello rappresentò Giovanni VIII, il figlio primogenito di Manuele, con caratteristiche e simboli ideologicamente e politicamente ancora più pregnanti di quelli adottati dai Limbourg per il padre. Nella medaglia pisanelliana Giovanni VIII, pur rappresentato nei suoi effettivi panni storici, appare effigiato secondo la tipologia degli imperatori romani. La scritta incisa sul recto, intorno al profilo, fu forse suggerita da Bessarione. Il colpo d’occhio del recto sembra comunicare un’affermazione del diritto all’eredità imperiale in contrapposizione all’imperatore d’occidente. Nel più complesso programma iconografico del verso l’emblema dell’obelisco allude in modo specifico al potere papale e il senso della scena raffigurata nel suo verso, già definito «oscuro» dagli studiosi, va letto come un auspicio dell’imperatore verso la Chiesa di Roma. Da questa prima icona-tipo si diramerà la scia pittorica i cui esempi più noti sono le raffigurazioni di Piero della Francesca, negli affreschi di Arezzo e nella Flagellazione di Urbino, che identificheranno senz’altro, per converso e a riprova di quel transfert, Costantino il Grande nei tratti di Giovanni VIII Paleologo e/o dell’ultimo eroico Costantino di Bisanzio, suo fratello Costantino XI Paleologo.
Proprio Costantino è al centro della Battaglia di Costantino e Massenzio, il primo degli affreschi della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca ad Arezzo. Lo stesso profilo, la stessa barba appuntita, l’identico copricapo si ritrovano attribuiti da Piero alla figura maschile assisa in trono che all’estrema sinistra della Flagellazione di Urbino apre l’apparentemente enigmatica sequenza dei personaggi del dipinto: la figura simbolica del Pilato neotestamentario, inteso nella sua qualità di rappresentante giuridico del potere romano, che l’opinione prevalente degli studiosi novecenteschi ha identificato con quella storica di Giovanni VIII Paleologo.
Negli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo la battaglia di Costantino contro il ‘pagano’ Massenzio è immagine di quella contro gli ‘infedeli’ turchi combattuta pochi anni prima non già da Giovanni VIII ma dal basileus suo fratello, che del fondatore dell’impero portava il nome: Costantino XI. I turchi sono chiaramente identificati, sul piano iconografico, da più simboli, tra cui quello, tipico, del ‘demoniaco’ drago, che campeggia sulla bandiera degli avversari di questo primo Costantino attualizzato nell’ultimo.
Le Storie della Vera Croce si fanno così metafora dell’impegno a far prevalere la fede cristiana sull’usurpazione islamica: i panni bizantini in cui sono raffigurati i dignitari di Eraclio nella scena dell’Esaltazione della croce, probabilmente tutti di diretta ascendenza pisanelliana, identificano con certezza nell’ultima dinastia paleologa la vera erede, l’incarnazione quasi del titolo di Costantino.
La Flagellazione è pressoché contemporanea agli affreschi di Arezzo e come questi fu dipinta in occasione della conferenza di Mantova del 1459 per celebrarne l’intento commemorando a vent’anni di distanza il diretto precedente del Concilio di Ferrara-Firenze, concluso nel 1439. La tavola di Urbino è una sorta di manifesto politico della crociata contro l’islam, il cui messaggio è ispirato dall’ampio e autorevole ambiente che in Italia perorava il recupero di quel che restava di Bisanzio e il riassorbimento giuridico della gigantesca, millenaria ed estremamente appetibile eredità dinastica dell’impero dei cesari, trasferita a Costantinopoli dal suo fondatore e primo imperatore, Costantino.
L’opera, nella sua densissima valenza simbolica, rappresenta entrambe le ‘icone’ di Costantino. L’immagine del basileus bizantino assiso in trono, con cui si apre la sequenza dei personaggi, riprende apertamente il profilo di Giovanni VIII fornito da Pisanello nella medaglia coniata tra Ferrara e Firenze. Ma il ritratto ‘a medaglia’ del basileus tardobizantino che assiste alla vessazione della cristianità orientale, simboleggiata nel Cristo flagellato, è attualizzato in un altro ruolo: quello che gli storici dell’arte hanno indicato come ‘di Pilato’, ossia di rappresentante dell’autorità politico-giuridica romana, il rhomaios, impersonato nell’imperatore. Per chi auspicava il ricongiungimento della seconda Roma con la prima Roma dei papi, il basileus Paleologo rappresentava, oltre e più ancora che l’imperatore d’Oriente, l’ultimo diretto erede e occupante del trono ‘romano’ di Costantino.
Una lunga scia iconografica, che si estende sino alla fine del Quattrocento e all’inizio del Cinquecento, moltiplicherà in questi decenni l’icona costantiniana nell’arte pittorica, ma anche in quella eminentemente libresca e umanistica della miniatura, e perfino nelle arti minori come la ceramica, conferendo all’immagine di Costantino i concreti tratti dei basileis bizantini del tempo e sottolineando sia l’indiscussa legittimità sia l’inestimabile valore politico del lascito dei cesari della Seconda Roma.
Le espressioni artistiche ci restituiscono una pletora di immagini minute e spesso misconosciute, ma di indubbia eloquenza: un filone iconografico minore e autonomo, che irriga o lambisce tutta l’arte del tempo, in quadri, affreschi, bassorilievi commissionati da borghesi oltre che da aristocratici e principi, o ancora più spesso insinuandosi sotto forma di miniature nelle pagine dei libri degli intellettuali. Gli stessi caratteri e emblemi conferiti a Giovanni VIII, poi a suo fratello Costantino XI, e di qui restituiti a Costantino il Grande, rivelano nella pittura del Quattrocento un transfert o cortocircuito temporale, in cui l’identificazione tra gli ultimi sovrani bizantini difensori di Costantinopoli e il suo fondatore corrisponde all’appassionato progetto di riannessione dell’eredità giuridica dei cesari bizantini all’Occidente e in particolare al papato.
Solo negli anni Settanta del Quattrocento, dopo che la mancata riunificazione ideologico-giuridica della Prima Roma con la Seconda divenne un dato di fatto irrefutabile e insormontabile, il passaggio del titulus di Costantino da un lato ai turchi osmani, dall’altro alla Terza Roma produrrà non solo l’eclissi di Bisanzio nell’autocoscienza politica dell’era moderna, ma anche una metamorfosi nella ricezione della figura storica del fondatore dell’impero che si era affermata durante il suo revival umanistico.
La sua successione dinastica passerà alla Russia, attraverso il matrimonio tra Zoe Paleologina, la figlia primogenita di Tommaso Paleologo, e il Gran Principe Ivan III di Mosca, negoziato dallo stesso Bessarione proprio attingendo ai fondi pontifici per la crociata antiturca in Morea. Tramite Zoe, che assumerà il nome di Sofija, la tradizione imperiale costantiniana, con i suoi riti, emblemi e simboli, si annetterà alla corte di Ivan III Groz^nij: di qui comincerà la translatio ad Russiam del titolo di Costantino, da cui prenderà vita un’altra storia, che lo riallontanerà di nuovo dagli interessi e dunque dalla memoria dell’Occidente.
Inoltre sono rivisitate ed ampliate le conoscenze sul deperditus Scorialense Λ.II.11, appartenuto a Diego Hurtado de Mendoza e scomparso all’Escorial a seguito dell’incendio del 1671: in base allo spoglio esaustivo e alla disamina della totalità degli antichi cataloghi e documenti di archivio, se ne ricostruisce il contenuto e si evince la corretta titolatura dell’Exegesis e se ne ipotizza la provenienza dal monastero di Prodromos Petra. La medesima provenienza è verosimile anche per i manoscritti Vaticano ed Alessandrino, che quindi gettano luce non solo sul cosiddetto didaskaleion di Prodromos Petra ma anche sui suoi colti lettori, sul suo mouseion e sul suo scriptorium fino all’ attività di Giorgio Baioforo, ben visibile nel manoscritto di Basilea, del XV secolo.
Nella seconda parte è attentamente esaminata e ricostruitala parentela tra i codici, con completa dimostrazione dello stemma (p. 289*). Nella terza parte si esamina la storia del testo dal Seicento all’Ottocento, tra edizioni precritiche (Mai e Migne) ed edizioniparziali (gli Excerpta di Leone Allacci e i progetti editoriali di Tafel e Pitra). Nella quarta parte sono spiegati i criteri della nuova edizione critica sia
per il testo e la titolatura del commento eustaziano, sia per il testo del canone; inoltre si dà conto dell’accurata preparazione dei tre apparati: delle varianti (V), dei marginalia (M), delle fonti e deitestimoni (F), quest’ultimo allestitomore antiquo, nei più di tre decenni di lavoro spesi sull’opera dai due editori.
This volume offers the first critical edition of the vast Commentary on the Pentecostal iambic canon (traditionally ascribed to St. John the Damascene) composed by Eustathius, Archbishop of Thessalonica. The attribution of the hymn to the Damascene was, in principle, called into question by Eustathius himself who eventually suggested that Damascene’s paternity be accepted only out of ecclesiastical obedience.
The Commentary is probably the last text Eustathius wrote. It can be regarded as thesumma of his working method, style of exposition, scholarly interests and literary tastes. Moreover, it can be read as the first Byzantine attempt to create a fusion between a working method originating in the exegesis of classical texts and modes of theological interpretation connected in turn to liturgical experience and pastoral practice.
The edition of the text is accompanied by three apparatuses, a complete range of indices and exhaustive Prolegomena where the editors shed light on the Commentary as such – its genesis and date, audience, discussion of traditional attribution, and sources – and the history of its manuscript tradition, with a special focus on the Constantinopolitan didaskaleion of Prodromos-Petra.
The essential methodological inspiration unifying the essays of this fourth, indispensable volume of Byzantinische Kultur by Peter Schreiner, edited by S. Ronchey and R. Tocci, is a reading of those marginalia in the history of Byzantium that are the hybridisations and exchanges with other ethne — be they mixed-blood matrimonial alliances within the Constantinopolitan imperial family or cultural colonisations via linguistic grafts such as those of the Slavic societies, mirror games between state and religious ideologies, as in the case of the papacy and the Frankish monarchy, fluxes and refluxes of influences, convergences and collisions between obliterated or vanquished difference and diffidence, as in the case of the Italian mercantile republics and their eastern colonies: borderline incidents at the interface between worlds, information inscribed on the margins of central imperial events, as enlightening as manuscript scholia are on the margins of the mirror writing of the primary narration.
La portata, la finalità, le implicazioni, l’appassionata coralità di questo estremo tentativo di salvare dai turchi e riannettere all’Occidente il titolo di Costantino fino a qualche anno fa non erano state còlte sino in fondo né dagli studiosi di storia occidentale né da quelli di storia bizantina, per due motivi: perché tutto si svolse nell’angolo cieco tra la visione dell’una e dell’altra, oltre che alla cerniera tra Medioevo e Età Moderna; e inoltre perché quel tentativo risultò perdente, mentre la storia, si sa, è scritta dai vincitori.
Il progetto fallì anche perché perirono l’uno dopo l’altro, in un brevissimo arco di tempo, i suoi principali sostenitori. Ma nei decenni in cui fu perseguito assistiamo a un vero e proprio revival della figura di Costantino e a un’accentuazione del primato simbolico e del portato giuridico del suo titolo, nella riflessione e nell’azione politica degli intellettuali umanisti, che si rispecchiò nelle committenze artistiche del tempo. Proprio Costantino è al centro della Battaglia di Costantino e Massenzio, il primo degli affreschi della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca ad Arezzo. Lo stesso profilo, la stessa barba appuntita, l’identico copricapo si ritrovano attribuiti da Piero alla figura maschile assisa in trono che all’estrema sinistra della Flagellazione di Urbino apre l’apparentemente enigmatica sequenza dei personaggi del dipinto: la figura simbolica del Pilato neotestamentario, inteso nella sua qualità di rappresentante giuridico del potere romano, che l’opinione prevalente degli studiosi novecenteschi ha identificato con quella storica di Giovanni VIII Paleologo.
Una lunga scia iconografica, che ha la sua espressione più emblematica e nota negli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo e nella sua Flagellazione, ma che è ben più diffusa e diversificata e si estende sino alla fine del Quattrocento e all’inizio del Cinquecento, moltiplicherà in questi decenni l’icona costantiniana nell’arte pittorica, ma anche in quella eminentemente libresca e umanistica della miniatura, e perfino nelle arti minori come la ceramica, conferendo all’immagine di Costantino i concreti tratti dei basileis bizantini del tempo e sottolineando sia l’indiscussa legittimità sia l’inestimabile valore politico del lascito dei cesari della Seconda Roma.
Solo negli anni Settanta del Quattrocento, dopo che la mancata riunificazione ideologico-giuridica della Prima Roma con la Seconda divenne un dato di fatto irrefutabile e insormontabile, il passaggio del titulus di Costantino da un lato ai turchi osmani, dall’altro alla Terza Roma produrrà non solo l’eclissi di Bisanzio nell’autocoscienza politica dell’era moderna, ma anche una metamorfosi nella ricezione della figura storica del fondatore dell’Impero che si era affermata durante il suo revival umanistico.
In the second half of the 16th century, after the definitive Turkish conquest of Constantinople, the titulus of Constantine came to be perceived in a fundamentally new way within the design to reaffirm papal authority, which culminated in the pontificate of Aeneas Silvius Piccolomini. Diplomatic wrangling and the strategic plan to save Byzantium in the West in the two decades after the fall of Constantinople had and would have had the precise aim of reinstating the hereditary title of the Byzantine Caesars, transferred to the East by Constantine and never extinguished, within the orbit of papal influence. The seat of Peter and the sceptre of Eastern Christianity should have been symbolically reunited in the ‘New Byzantium,’ which would have had its base at Rome and its bridgehead at Mystras.
Until several years ago, the significance, objectives, implications, and impassioned unanimity of this radical attempt to save the title of Constantine from the Turks and reinstate it in the West were not understood fully by scholars of Western European or of Byzantine history for two reasons: because all of the events occurred in the blind spot between the vision each has of the other, in addition to in the period of connection between the Middle Ages and the Early Modern Era; and also because that very attempt failed and history, we know, is written by the victors.
The project failed also because its main supporters died one after the other within a short period of time. But during the decades when it was pursued, we witness a true revival of the figure of Constantine and an accentuation of the symbolic primacy and legal significance of his title in the deliberations and political actions of humanist intellectuals, and their reflection in the artistic commissions of the period. It is precisely Constantine who is at the centre of the Battle of Constantine and Maxentius, the first fresco of Piero della Francesca’s cycle, Legend of the True Cross, at Arezzo. The same profile, the same pointed beard, the identical hat are attributed by Piero della Francesca to the enthroned male figure at the extreme left of the Flagellation of Urbino who opens the apparently enigmatic sequence of characters in the painting: the symbolic figure of the New Testament Pilate, understood in his role as legal representative of Roman power, that the prevailing opinion of 20th century scholars has identified as that of the historical John VIII Palaiologos.
A long wake of iconography that has its most emblematic and well known expression in Piero della Francesca’s frescoes at Arezzo and in his Flagellation, but that is much more widespread and articulated, extending until the end of the 15th century and the beginning of the 16th century, will, in these decades, multiply the icon of Constantine in painting, in the humanistic art of book illumination, and even in the minor arts such as ceramics, conferring on the image of Constantine the physical traits of the Byzantine basileis of the time and underscoring both his indisputable legitimacy and the priceless political value of the legacy of the Caesars of the Second Rome.
Only in the 1470s, after the failed ideological and legal reunification of the First Rome with the Second became an incontestable and insurmountable fact, the passage of the titulus of Constantine to the Osmani Turks, on the one hand, and the Third Rome, on the other, would result in not only the eclipse of Byzantium from the political self-awareness of the Modern Era, but also a metamorphoses in the reception of the historical figure of the founder of the Empire that made its name during his humanistic revival.
The co-translator’s and co-editor’s introductory essay (Il Buddha bizantino, pp. vii-cvii) traces in one hundred pages the first, albeit concise, historical-philological evaluation of the issue of the Barlaam and Ioasaph compiled in mind with the new critical edition by Robert Volk (Historia animae utilis de Barlaam et Ioasaph, I-II, Berlin – New York 2006-2009, which only now replaces the nineteenth century editio princeps by Jean François Boissonade) and, in particular, his monumental prolegomena (Einführung, ivi, vol. II). The introduction takes into account the crucial new research results present in the latter and, in general, which have emerged from the more than thirty years of research separating this new Italian edition from the first published by the two editors in 1980 (S. RONCHEY and P. CESARETTI, eds., Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf, Introduction, Notes, Biblical Repertory, Italian translation. Milan: Rusconi, 1980, 317 pp.). The essay sheds light on the evolution of the narrative nucleus from Eastern versions of the life of Buddha to the Georgian Christianisation, as well as to the formalisation, and authorial attribution of the Greek Byzantine narrative (for which Volk’s results are decisive), up until the success of the History of Barlaam and Ioasaph and its apologists in the modern age. All of the philological aspects touched on by Volk are analysed concisely and clarified as much as possible, with the addition of elements intentionally bypassed by Volk, such as those relating to Buddhist or Manichaean studies or the reception of the text in the history of Medieval and modern literature or, eventually, the more general cultural and literary meaning of the work in the world of Byzantine civilisation and, more tangentially, in the context of post-iconoclast speculation and the so-called encyclopaedism of the 10th and 11th centuries. Therefore, the essay represents an overall introduction to the Barlaam and Ioasaph and its various aspects and the history of the scholarship surrounding it, as well as the enormous circumstances of its influence. What emerges is a “philological novel” that reveals how the study of textual tradition can touch the heart of cultural exchange and, in this case, the intricate relations between East and West. ""
In relating the significance of the classical tradition in Byzantine civilisation and the extensive exchange between Byzantine literature and the classics, the author illuminates an example of the hermeneutical challenges facing the translators of Byzantine texts: the Exegesis in canonem iambicum de Pentecoste, Eustathius of Thessalonica’s last work. She cites and comments on several passages which echo Homer, Sophocles, Euripides, Plato, as well as the Bible, in an essay on the “allusive chromatism” of Eustathius’ writing, which mixes and subtly and freely masks his sources, thereby testing with a touch of malice and a certain taste for mystery, the learning and skill of both his Byzantine students, and modern exegetes.
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Per farlo, è indispensabile discernere con attenzione e precisione quelli che solo superficialmente possono essere considerati costituenti “minori” dello studio di ciò che chiamiamo civiltà: gli elementi di quella che definiamo la sua cultura materiale, ossia, secondo il titolo di questo terzo volume dell’opera di Schreiner, die materielle Kultur. Stiamo parlando dell’economia affrontata non solo e non tanto nei suoi aspetti teorici — peraltro difficilmente coglibili nella tradizione scritta bizantina — ma anche e soprattutto nelle sue declinazioni concrete ed empiriche, nelle sue ramificazioni sottili, insinuate nelle pieghe della vita quotidiana, esemplificate nelle varie e molteplici modalità in cui giorno per giorno, in ogni singola e distinta parte dell’impero, si svolgevano, anzitutto, quei continui scambi tra popoli che ne definivano l’identità.
In April 1453, Mehmet II, armed with an immense army and the most advanced technology of the time, laid siege to Constantinople, defended by a few thousand troops, hemmed in around the emperor Constantine XI and the enigmatic Genoese commander Giovanni Giustiniani Longo, and entrenched behind exalted but decrepit ancient walls. Nonetheless, resistance lasted over a month and the last Ottoman attack was about to be repulsed when Giustiniani Longo inexplicably retreated from the battlements, causing the capitulation of the City. The fall of Constantinople precipitated a veritable trauma among the intellectual and political élite in the West and unleashed ambitious plans for anti-Turk expeditions.
For centuries Constantinople has elicited profound fascination and visceral passion in its most intimate connoisseurs. Among these is Peter Schreiner, assiduous visitor of the Polis since 1968, who has made “Byzantinity” both a cultural category and a lifestyle.
The fall of Byzantium into the hands of Mehmet II left the imperial title of Constantine vacant. This legacy would be claimed by Greek exiles (Theodora Comnena, Thomas Palaeologus), by Western monarchs (Maximilian Habsburg, Charles V) and, especially, by the young orthodox principality of Moscow. Here the pre-existing imperial ideology of clear Byzantine derivation was reinforced through the marriage of Zoe Palaeologina and Ivan III, which sanctioned the transfer, later theorised by Philotheus of Pskov, of the legacy of the Byzantine orthodox empire to Moscow, the “Third Rome”. The administrative re-organisation carried out under Ivan IV Grozny, according to the dictates of the Byzantine ideology of the centralised state, would ultimately and definitively complete this cultural, ideological, political and administrative assimilation.
Dedicated to Gilbert Dagron and published as a part of a homage to his work Décrire et peindre, this brief essay on icons investigates the status and conceptual implications – theological, philosophical, anthropological and historical-psychological – of the sacred image in the Orthodox Christian world. The influence of icons in 19th and 20th century literature and thought will be significant for the birth of modern painting. With the support of a helpful apparatus of plates, the themes of icon painting (particular attention is given to the Transfiguration) and the figurative characteristics of its subjects (lean lined faces, thin lips, and especially, large eyes with fixed gaze and frontal posture) are analysed for their symbolic, metaphysical, and doctrinal meanings. So-called icon theology and mystical vision are also considered in light of the anthropology of the ancient world, in particular through the work of Jean-Pierre Vernant, and in this perspective are reconnected to their pre-classical and classical Greek antecedents.
At the beginning of the 8th century, imperial authority opposed more and more openly the spread of the cult of icons, a practice explicitly condemned at the Council of Hieria in 754. As a result, active internal opposition developed, coalescing in the “party of the monks.” After the brief iconodule period during the reign of Irene, the second - more intellectual and enlightened - phase of iconoclasm began in a difficult political climate. It was definitively crushed in the mid-9th century when the Empress Theodora, guardian of Michael III, embraced again the iconodule positions of the Second Council of Nicaea. The reign of Michael III was, moreover, dominated by the figure of the great political intellectual, Photius.
The most important hagiographical folktale of the Eastern Middle Ages, Barlaam and Ioasaph, erroneously attributed to John Damascene and here presented in the first Italian edition of the Byzantine original, finds its origin in one of the most influential narrative nucleus in world literature. Ioasaf is the Buddha, but Barlaam and Ioasaph is much more than a Christian re-writing of the legend of Buddha; it is the story of a philosopher-prince, sacred to over twenty cultures in approximately thirty languages and ten different religions from Gibraltar to the Pacific, which owes its literary canonisation to Byzantium. A work whose date of composition has always been controversial, rich in oriental influences (from the original Indian to the Persian, Islamic, and Manichaean personifications) both in the development of the narration and in the ten fabulae interwoven in the plot, the story of the prince and the anchorite derives its character as a learned fable from the extraordinary grafting of ancient philosophical wisdom onto an exotic setting as splendid as it is dense with literary, and perhaps political, allusion. Enthusiastically received on its appearance, Barlaam and Ioasaph was first translated into Latin around 1050. Its subsequent reception and legendary influence are enormous, inspiring Rudolf von Ems and Gui de Cambrai, Shakespeare and Lope de Vega, Calderón, Hofmannsthal, and Tolstoy. Testimony of the greatness of Byzantine culture and its thousand-year vocation as mediator between East and West, this work would seem to offer the first refutation of the bias which would see Byzantine literature as arid and lacking in masterpieces.
- Martyrium Polycarpi
- Martyrium Carpi, Papyli et Agathonicae
- Acta Iustini
- Martyrium Lugdunensium
- Martyrium Pionii
- Testamentum XL Martyrum
Translation from the Greek of the following texts:
- Martyrium Polycarpi
- Martyrium Carpi, Papyli et Agathonicae
- Acta Iustini
- Martyrium Lugdunensium
- Martyrium Pionii
- Testamentum XL Martyrum
First Italian translation of Michael Psellos’ Chronographia, with textual revisions in the critical apparatus."
“I languori della Decadenza o, come il bel titolo di uno dei saggi del volume: ‘la voluttà di scendere’, sono il tema che unisce questa raccolta di saggi di storici, filosofi e filologi: Simone Beta, Ginevra Bompiani, Gioachino Chiarini, Daniela Fausti, Alessandro Fo, Mario Musumeci, Alberto Olivetti, Romano Romani, Silvia Ronchey. Di quel luogo dello spirito, di quell'umore o di quel periodo della storia culturale che chiamiamo decadenza (la definizione dipende dal punto di vista) gli autori cercano di riconoscere e delineare le manifestazioni caratteristiche, colte in momenti ed episodi sparsi nel tempo e osservati da prospettive disciplinari diverse: dall'antica Roma che cade in mano ai barbari alla moderna Europa decadente che vi si specchia, dall'Atlandide di Platone alla Comfortable Thébaïde di Des Esseintes, da Agostino a Benjamin, da Bisanzio a un film degli anni venti del Novecento. ’In realtà’, scrive la curatrice Silvia Ronchey nell'introduzione al volume, ‘questo libro, che nasce da un seminario all'Università di Siena ideato per celebrare laicamente il trapasso al Nuovo Millennio, tratta, più che della decadenza, dell'antidecadenza. Di quali forme il decadere abbia preso, di come al decadere si sia resistito’”. (Dalla quarta di copertina)
“The languor of Decadence or, according to the wonderful title of one of the essays in the volume, ‘the voluptuousness of descent’, is the theme that binds this collection of essays by historians, philosophers, and philologists: Simone Beta, Ginevra Bompiani, Gioachino Chiarini, Daniela Fausti, Alessandro Fo, Mario Musumeci, Alberto Olivetti, Romano Romani, Silvia Ronchey. The authors seek to identify and outline the characteristic elements of that locus of the spirit or that period of cultural history we call ‘decadence’ (the definition depends on point of view) taken from various moments and episodes in time and evaluated from diverse disciplinary perspectives: from ancient Rome that falls to the barbarians to modern, decadent Europe that sees itself reflected in that fall, from the Atlantis of Plato to the Comfortable Thébaïde of Des Esseintes, from Augustine to Walter Benjamin, from Byzantium to a film of the 1920s. ‘In reality’, the editor Silvia Ronchey writes in the introduction to the volume, ‘this work, the outgrowth of a University of Siena seminar conceived to celebrate in a secular manner the passage to the New Millennium, deals more with anti-decadence than decadence. What forms decadence has taken, how we have resisted decadence.’” (from the cover)
Co-editorial oversight, incl. bibliographical revisions and updates, of the Italian version of C. MORRISSON (sous la direction de), Le monde byzantin, I. L’Empire romain d’Orient (330-641), Paris, Presses Universitaires de France, 2004.
Co-editorial oversight, incl. bibliographical revisions and updates, of the Italian version of J.-C. CHEYNET (sous la direction de), Le monde byzantin, II. L’Empire byzantin (641-1204), Paris, Presses Universitaires de France, 2006.
The Encyclopedia on Constantine represents the work of 150 authors in three volumes edited in their disciplines by P. BROWN, G. DAGRON, J. HELMRATH, A. MELLONI, E. PRINZIVALLI, S. RONCHEY, N. TANNER. The work aims to reconstruct the life and fortune of the emperor departing from the climate and environment expressed in his political and religious choices and following the reasons for his fortune in an attempt to analyse the significance of the relationship between Christianity and power.
The essential methodological inspiration unifying the essays of this fourth, indispensable volume of Byzantinische Kultur by Peter Schreiner, edited by S. Ronchey and R. Tocci, is a reading of those marginalia in the history of Byzantium that are the hybridisations and exchanges with other ethne — be they mixed-blood matrimonial alliances within the Constantinopolitan imperial family or cultural colonisations via linguistic grafts such as those of the Slavic societies, mirror games between state and religious ideologies, as in the case of the papacy and the Frankish monarchy, fluxes and refluxes of influences, convergences and collisions between obliterated or vanquished difference and diffidence, as in the case of the Italian mercantile republics and their eastern colonies: borderline incidents at the interface between worlds, information inscribed on the margins of central imperial events, as enlightening as manuscript scholia are on the margins of the mirror writing of the primary narration.
Per farlo, è indispensabile discernere con attenzione e precisione quelli che solo superficialmente possono essere considerati costituenti “minori” dello studio di ciò che chiamiamo civiltà: gli elementi di quella che definiamo la sua cultura materiale, ossia, secondo il titolo di questo terzo volume dell’opera di Schreiner, die materielle Kultur. Stiamo parlando dell’economia affrontata non solo e non tanto nei suoi aspetti teorici — peraltro difficilmente coglibili nella tradizione scritta bizantina — ma anche e soprattutto nelle sue declinazioni concrete ed empiriche, nelle sue ramificazioni sottili, insinuate nelle pieghe della vita quotidiana, esemplificate nelle varie e molteplici modalità in cui giorno per giorno, in ogni singola e distinta parte dell’impero, si svolgevano, anzitutto, quei continui scambi tra popoli che ne definivano l’identità.
La terza e ultima fase della storia bizantina, trattata in questo terzo volume, prende la mosse dalla conquista crociata di Costantinopoli del 1204. A partire da questo evento, e dalla frammentazione territoriale che ne conseguì, i bizantini furono costretti a un vero e proprio rimodellamento identitario. I tre stati bizantini che sorsero dalle ceneri del cosiddetto impero latino (l'impero di Nicea, il despotato d'Epiro e il regno di Trebisonda) conferirono all'impero bizantino un nuovo assetto strategico, che seppe resistere ai nuovi vicini (serbi, bulgari e latini) ma non seppe o non volle contrastare la penetrazione ottomana, fino alla resa del 1453 sotto i cannoni di Mehmet II.
Co-editorial oversight, incl. bibliographical revisions and updates, of the Italian version of J A. Laiou - C. Morrisson (sous la direction de), Le monde byzantin, III. L’Empire grec (1204-1453), Paris, Presses Universitaires de France, 2006.