Utente:Barba Nane/Sandbox

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Eccidi di Trieste (1902)

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Il 1 febbraio 1902 era stato proclamato a Trieste lo sciopero dei trecento fuochisti delle navi del Lloyd, in quel periodo a terra, che protestavano anche in nome dei quattrocento compagni imbarcati. La protesta progressivamente s’allargò alle diverse categorie dei lavoratori, sino a divenire uno sciopero generale cittadino. Tale decisione fu presa dopo che il luogotenente imperiale a Trieste, il conte von Goëss, aveva chiesto l’intervento delle autorità militari ed imposto l’impiego di fuochisti provenienti dalla flotta da guerra sulle navi del Lloyd, che così avevano potuto riprendere l’attività. Lo sciopero generale fu proclamato mercoledì 12 febbraio ed entrò in vigore nel giovedì del 13. La giornata seguente, venerdì 14 febbraio, i dirigenti del partito socialista triestino tennero un pubblico comizio al Politeama Rossetti, il teatro più grande della Trieste dell’epoca, a cui parteciparono Carlo Ucekar e Valentino Pittoni ed, in rappresentanza dei fuochisti in sciopero, Ferdinando Castro. La riunione era stata compiuta con il permesso delle autorità. Dopo i discorsi dei vari relatori, gli scioperanti scesero in un ordinato corteo lungo l’Acquedotto e quello che allora si chiamava Contrada del Corso (oggi Corso Italia). La manifestazione si svolgeva pacificamente, quando intervennero i reparti della 55° brigata di fanteria agli ordini di Conrad von Hoetzendorf. I soldati erano muniti del fucile Mannlicher repetier Gewehr, all’epoca assai moderno, ed erano stati spediti a fronteggiare gli scioperanti con le armi cariche e le baionette inastate. Era stato inoltre proclamato lo stato d’assedio, ossia imposta la legge marziale. Le truppe avevano avuto l’ordine d’impedire ad ogni costo che i manifestanti giungessero sino a quella che allora si chiamava piazza Grande (l’attuale piazza Unità di Trieste), in cui sorgeva il palazzo del governo. Un primo assalto si ebbe quando i reparti caricarono alla baionetta i dimostranti presso la vicina piazza della Borsa. Questo fu soltanto l’antefatto degli eccidi che seguirono, mediante violente scariche di fucileria tirate ad altezza d’uomo e nel mucchio degli scioperanti. Il primo massacro avvenne all’imboccatura di piazza Grande, con il fuoco aperto da una compagnia comandata da tale capitano Köppel, pare su ordine del luogotenente del Litorale, il conte von Goëss. Un’altra scarica fu fatta partire da un altro reparto asburgico nella vicina piazza Verdi, dove parte della folla che scappava dalla compagnia del capitano Köppel aveva cercato scampo: i soldati qui spararono proprio sui fuggiaschi. Durante la notte, avvenne un scambio di telegrammi fra il luogotenente governatore di Trieste, P. Goëss, ed il governo austriaco. Il potere centrale temeva che si potesse avere una saldatura fra il socialismo triestino, che sebbene internazionale di tendenze era comunque egemonizzato da Italiani nei suoi vertici ed abbastanza aperto verso le tematiche irredentiste. D’altronde, nei comizi, nei giornali, nei manifesti, i socialisti usavano l’italiano, malgrado molti degli iscritti ed elettori fossero slavi. Vienna paventava quindi una saldatura fra il socialismo e l’irredentismo in senso stretto, ossia che lo sciopero generale finisse per diventare un’insurrezione aperta contro il potere imperiale. Es dringt ein Exempel statuiren: “Bisogna dare un esempio”. Con questa frase, che era un ordine esplicito, Vienna aveva chiuso le sue comunicazioni con Trieste. La mattina di sabato 15 febbraio erano giunti in città altri reparti militari asburgici, provenienti da Klagenfurt, Villaco e Lubiana: significativamente, si fecero affluire rinforzi da lontano e da località in cui non vivevano Italiani, anziché dalle ben più vicine Istria e Gorizia. Furono addirittura messa alla fonda nel porto tre corazzate giunte in tutta fretta da Pola, mentre al largo incrociavano altre unità navali minori. Le unità militari imperiali avevano avuto l’ordine di far fuoco senza preavviso, il che avvenne ancora una volta presso piazza Grande, con altri morti fra gli scioperanti. Poi i reparti ricevettero l’ordine d’occupare militarmente parte di Cittavecchia, in direzione di San Giusto, all’epoca un quartiere poverissimo, il che avvenne mentre gli abitanti cercavano di resistere gettando sassi e mattoni. Anche qui la truppa sparò sui cittadini triestini e si ebbero altri morti. Il numero delle vittime fu imprecisato: almeno 14, poiché questi furono quelli registrati fra gli scioperanti in conseguenza delle violenze della truppa, ma la cifra non è completa e certamente inferiore al vero, non tenendo neppure conto di quelli che perirono successivamente per le ferite riportate, per non parlare dei feriti. Secondo alcune stime, il totale generale dei morti ammontò a molte decine e quello dei feriti a diverse centinaia. Naturalmente s’ebbe una sequela di arresti ed a molti leaders della protesta fu imposto di lasciare la città. La polizia si scatenò fra l’altro in una sorta di caccia agli anarchici, approfittando del fatto che erano molto più deboli politicamente dei socialisti stessi. Lo stato d’assedio in tutta Trieste (con sospensione, fra l’altro, del diritto di riunione e di manifestazione) rimase in vigore a lungo, precisamente dal 14 febbraio 1902 sino al mese d’aprile dello stesso anno. La città si trovò presidiata militarmente, poiché Conrad organizzò diverse pattuglie armate di due uomini, generalmente costituite da un marinaio e da un fuciliere o da un poliziotto, che percorrevano le vie di Trieste giorno e notte. Il boia di Vienna, Lang, (lo stesso che poi impiccò Cesare Battisti) fu spedito a Trieste con i suoi aiutanti e con i suoi strumenti di morte, qualora vi fosse stato bisogno del suo intervento. Lo sciopero non aveva avuto di per sé alcun carattere nazionale, ma è noto che Conrad, un vero e proprio italofobo, affermò ed espresse in decine e decine di rapporti, lettere ecc. la sua personale convinzione che le imponenti manifestazioni dei lavoratori avessero avuto l’appoggio degli irredentisti italiani. Tale sua opinione fu talmente radicata, che la repressione sanguinosa dello sciopero triestino rappresentò per questo alto ufficiale imperiale uno spartiacque nelle sue idee politiche e strategiche. Conrad von Hötzendorf divenne da quel momento un accanito sostenitore d’una guerra, offensiva e senza preavviso, contro il regno d’Italia, malgrado questo fosse alleato dell’Austria. Il socialismo nella Venezia Giulia era infatti assieme internazionalistico e patriottico, nel senso che difendeva la componente nazionale italiana (maggioritaria nella regione ma minacciata dall’azione di snazionalizzazione promossa da Vienna, tesa ad imporre una sua germanizzazione e slavizzazione forzate), quale necessario ambito d’emancipazione anche sociale e civile. Questo binomio fra cosmopolitismo e patriottismo, per nulla negatore dei diritti degli abitanti slavi, affiancava il socialismo giuliano a quello del Trentino, guidato e rappresentato da Cesare Battisti. Ad esempio, un leader socialista dell’Istria, Giuseppe Tuntar, parlò apertamente nella sua opera Socialismo e questioni nazionali in Istria (Pola 1905) «dell’impotenza delle popolazioni italiane della Venezia Giulia di opporsi alla slavizzazione e alla germanizzazione in corso», azione di cui egli era testimone diretto e ben consapevole.


Sulla questione del socialismo giuliano in generale e dello sciopero generale di Trieste, esistono alcuni testi fondamentali: A. AGNELLI, Questione nazionale e socialismo. Contributi al pensiero di Karl Renner e Otto Bauer, Bologna, Il Mulino, 1969; G. PIEMONTESE, Il movimento operaio a Trieste dalle origini alla prima guerra mondiale, Udine, 1961; E. MASERATI, Il movimento operaio a Trieste dalle origini alla Prima guerra mondiale, Giuffrè, Milano, 1973. MARINA CATTARUZZA, Socialismo adriatico, Piero Lacaita Editore – Manduria, Bari, Roma 1998. MASSIMO GOBESSI (a cura di), “1902 – 2000 La lotta dei fuochisti del Lloyd Austriaco”, edito dalla Tipo/Lito Astra di Trieste per conto dell’allora Istituto Regionale di Studi e Ricerche della CGIL del F.V.G. (oggi Istituto “Livio Saranz”), Trieste 200

Lingua e identità nazionale nell'Istria ottocentesca

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In Istria, agli inizi del XIX secolo, coesistevano diverse parlate, con differenze (peraltro non nette [1]) fra città e campagna, fra luogo e luogo e fra classi sociali. La lingua italiana era patrimonio delle elités (aristocratiche e borghesi), le parlate italiane (venete ed istriote) dei popolani della costa e delle città, mentre le parlate slave (ciaciave e slovene), ancor prive di una lingua standard, erano diffuse nelle campagne. Il dialetto veneto, compreso universalmente, aveva il ruolo di lingua franca regionale.[2]

Tale situazione, con registri linguistici variabili a seconda della località e/o della classe sociale, non era per nulla insolita nell'Europa dell'epoca.[3] Ad una specifica parlata non corrispondevano specifici sentimenti nazionali: all'epoca il senso di appartenenza ad una comunità era riservato ad un ambito cittadino e locale. Esiteva sì il senso di sudditanza (ma non di "cittadinanza") ad uno stato , ma questo veniva, in una scala di valori, dopo al senso di appartenenza alla comunità locale e finanaco ad una determinata classe sociale.[4] [5] Gli inevitabili processi di scambio fra le diverse realtà, con conseguente adozione di una nuovo idioma, non potevano quindi essere considerati processi di "assimilazione nazionale". E' solo nell'Europa post napoleonica che si fa strada il concetto di nazione, che si impone nella "primavera dei popoli" del 1848. E' solo a partire da tale anno che che il termine "italiano" cominciò ad implicare l'appartenenza a una "nazione" italiana[6] e che si ebbero,in Istria, le prime dichiarazioni, da parte di intellettuali, di appartenza alla nazione italiana. Sempre nel 1848 [7] si ebbero le prime affermazioni di slavismo, che, inizialmente, non distinguevano fra sloveni e croati [8] Tali manifestazioni, all'inizio molto timide diedero risultati significative solo a partire dal 1870ca.

La storigrafia moderna, che nasce in questo periodo, cominciò ad applicare arbitrariamente il nuovo concetto di nazione anche ai periodi storici preesistenti. Nello specifico istriano, pertanto, si cominciò a descrivere le locali popolazioni in termini di "italiano", sloveno" o "croato", con le inevitabili strumentalizzazioni nazionalistiche[9]. E' solo a partire dagli anni 1950 che gli storici hanno compreso l'inapplicabilità dei concetti di nazione alle società del passato: un processo, questo, che è ancora lungi dall'essere compreso nel comune sentire[10].

Citazioni Pupo (da "L'Impegno"

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  • Raoul Pupo Le foibe giuliane 1943-45; "L'impegno"; a.XVI; n. 1; aprile 1996, su storia900bivc.it, Consultato il 27 febbraio 2010 «la violenza ... sembra talvolta sfuggire anche al controllo di chi è deputato a guidarne l'uso istituzionalizzato, e si frammenta negli abusi personali, si alimenta di brutali semplificazioni - come l'equivalenza italiano/fascista - concede spazio all'inserimento della criminalità comune, e talvolta sembra colpire con tragica e quasi incredibile casualità.».
  • Raoul Pupo Le foibe giuliane 1943-45; "L'impegno"; a.XVI; n. 1; aprile 1996, su storia900bivc.it, Consultato il 27 febbraio 2010.«per quanto riguarda il 1943, ed il computo delle vittime conduce a cifre che vanno dalle cinquecento alle seicento unità»
  • Raoul Pupo Le foibe giuliane 1943-45; "L'impegno"; a.XVI; n. 1; aprile 1996, su storia900bivc.it, Consultato il 27 febbraio 2010.«Pertanto, quando noi oggi in sede storiografica parliamo di foibe, dobbiamo tenere presenti contemporaneamente entrambe le dimensioni - quella dei fatti e quella della memoria - il cui intreccio in questo caso assume una caratteristica abbastanza significativa: e ciò in quanto il secondo elemento - quello appunto della memoria e della sua rielaborazione - ha seguito per lungo tempo itinerari propri, largamente dipendenti da istanze di natura polemico-politica, fino a consolidarsi come uno dei nuclei fondanti e tuttora operanti della consapevolezza storica della comunità giuliana, sostanzialmente negli stessi termini in cui si è strutturato a cavaliere degli anni cinquanta. »
  • Raoul Pupo Le foibe giuliane 1943-45; "L'impegno"; a.XVI; n. 1; aprile 1996, su storia900bivc.it, Consultato il 27 febbraio 2010.«...gli episodi di violenza di massa ai danni della popolazione italiana della Venezia Giulia ... vengono sinteticamente ricordati con il nome di foibe»
  • Raoul Pupo Le foibe giuliane 1943-45; "L'impegno"; a.XVI; n. 1; aprile 1996, su storia900bivc.it, Consultato il 27 febbraio 2010.«...che dietro l'apparente caoticità delle situazioni e degli interventi sembra possibile discernere con una certa chiarezza le spinte fondamentali dell'onda di violenza politica che spazza la regione, fino a ricostruire le linee essenziali di una proposta interpretativa generale, che certo andrà vagliata ed integrata alla luce dei nuovi apporti documentari, ma i cui connotati di fondo appaiono già delineati in maniera sufficientemente nitida.»
  • Raoul Pupo Le foibe giuliane 1943-45; "L'impegno"; a.XVI; n. 1; aprile 1996, su storia900bivc.it, Consultato il 27 febbraio 2010.«a cavallo degli anni novanta la ripresa di interesse per il tema delle foibe, che è avvenuta prima in campo politico che in quello storiografico, è stata gestita quasi insperatamente in modo da lasciare spazi reali al riavvio della ricerca storica. »
  • Raoul Pupo Le foibe giuliane 1943-45; "L'impegno"; a.XVI; n. 1; aprile 1996, su storia900bivc.it, Consultato il 27 febbraio 2010.«Certamente però - ed è questo il dato significativo - al di là delle difficoltà tecniche, profondamente diversi sono stati nel tempo i criteri usati nelle rilevazioni, e che hanno condotto a proporre, di volta in volta, stime al ribasso, fondate cioè sul conteggio dei soli esumati oppure, all'opposto, totali assai elevati, dell'ordine delle dieci-dodicimila vittime, che rappresenta la cifra più diffusa nell'opinione corrente, anche in sede politica, ma cui si arriva soltanto conteggiando fra gli infoibati anche i morti e dispersi in combattimento. In alcune sedi vengono tuttora ripetute cifre ancora più alte - venti-trentamila infoibati - ma il loro valore è puramente propagandistico. Le stime più attendibili si attestano invece sull'ordine delle quattro-cinquemila vittime, mentre una recente ricerca condotta dall'Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione abbassa ulteriormente tale soglia, ma non copre l'intera area interessata dal fenomeno. »
  • Raoul Pupo Le foibe giuliane 1943-45; "L'impegno"; a.XVI; n. 1; aprile 1996, su storia900bivc.it, Consultato il 27 febbraio 2010. «Tuttavia, interpretare complessivamente il fenomeno delle foibe come prodotto di un eccesso di reazione, è una scelta che presenta alcuni limiti di non poco conto e che in trasparenza rivela anch'essa come nella costruzione del giudizio storico abbiano pesato istanze ed urgenze interne agli sviluppi del dibattito politico a Trieste, a cominciare dalla preoccupazione, comune a tutta la cultura democratica giuliana, per la sistematica strumentalizzazione della memoria delle foibe compiuta dalla destra triestina, ed in particolare per i tentativi di equiparazione fra Resistenza e fascismo condotti senza soste dagli ambienti del nazionalismo giuliano. »

Raoul Pupo, Roberto Spazzali - Foibe, ed Bruno Mondadori, 2003, ISBN 9788842490159

  • pag. 1 «E' questo un uso del termine consolidatosi ormai,..., anche in quello [NdR: linguaggio] storiografico,... purchè si tenga conto del suo significato simbolico e non letterarale.»
  • pag. 3 «in realtà solo una parte degli omicidi venne perpetrata sull'orlo di una foiba ...la maggior parte delle vittime perì nelle carceri, durante le marcie di trasferimento o nei campi di prigionia ... nella memoria collettiva "infoibati" sono stati considerati tutti gli uccisi...»
  • pag. 2 «...talvolta assieme a condannati ancora in vita»
  • pag .218 «Il forzato abbandono da parte degli italiani dell'Istria,di Fiume e di Zara costituisce infatti un aspetto particolare ed emblematico di un fenomeno più generale, che travolse nel vecchio continente milioni di individui, legato all'affermarsi degli stati nazionali in territori nazionalmente misti, che distrusse in larga misure le realtà plurilinguistihce e multiculturali esistenti in buona parte dell'Europa centrale.»

Lo scontro nazionale nell'Adriatico orientale (1848-1947)

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L'Adriatico Orientale, a partire da Monfalcone, fino ad arrivare alle Bocche di Cattaro, fu abitato a partire dall'alto medioevo, da un insieme di popolazione di lingua romanza e slava. Con l'arrivo del nuovo concetto di identità nazionale, a partire dal 1848, le popolazioni di queste terra cominciarono ad identificarsi in specifiche nazionalità, dando luogo a conflitti etnici. L'epilogo di questo periodo furono gli eccidi delle foibe e l'esodo giuliano dalmata. Successivamente, negli anni '90, si verificò l'espulsione dei serbi dalla Dalmazia, e l'ulteriore serbizzazione della costa del Montenegro.

Il contesto storico

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Gli eccidi delle foibe ed il successivo esodo costituiscono l'epilogo di una secolare lotta per il predominio sull'Adriatico orientale, che fu conteso da popolazioni slave (prevalentemente croate e slovene, ma anche serbe) e italiane. Tale lotta si inserisce all'interno di un fenomeno più ampio e che fu legato all'affermarsi degli stati nazionali in territori etnicamente misti. Nel XX secolo, furono decine di milioni le persone coinvolte nei conseguenti processi di assimilazione ed emigrazione forzata, che provocarono milioni di vittime[9][10]. Fra gli episodi più noti si ricordano il genocidio armeno, il drammatico scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia e l'esodo dei tedeschi dall'Europa orientale. Molte delle realtà plurilinguistiche e multiculturali esistenti in Europa ed Asia ne uscirono distrutte.

Le radici di questo fenomeno affondano nella fine dell'ancien régime, un sistema dove gli Stati erano il risultato delle lotte di potere delle classi dominanti[11]. Con la rivoluzione francese e la conseguente delegittimazione del potere monarchico, gli stati trovarono la loro nuova legittimità nel concetto di popolo, inteso come una comunità cementata da alcune caratteristiche distintive (come lingua, cultura, religione, origine, storia). Man mano che le singole popolazioni si identificavano in specifiche nazioni (che inizialmente - in molti casi - erano indefinite e controverse), si vennero a creare diverse occasioni di conflitto. Ad esempio quando una nazione rivendicava territori abitati da propri connazionali e posti al di fuori dei confini del proprio stato. Oppure quando specifiche minoranze etniche cercavano la secessione da uno Stato, sia per formare una nazione indipendente, sia per unirsi a quella che consideravano la madre patria. Una terza fonte di conflitto fu provocata dal tentativo, da parte di molti Stati, di assimilare od espellere le proprie minoranze, considerandole realtà estranee o un pericolo per la propria integrità territoriale. Le fasi furono:

  • 1848: nascita dei sentimenti di appartenenza nazionale.
  • 1848-1915: lotte nazionaliste
  • Prima guerra mondiale
  • Dopoguerra e annessione all'Italia.
  • Italianizzazione fascista.
  • Invasione della Jugoslavia.

L’opinione fino a questo punto espressa con modalità perlopiù attente soprattutto agli aspetti formali, diventa di tipo etnico-ideologico in una fase successiva dell’intervista nella quale Mesić afferma che in Croazia non c’è nessun tabù a parlare di questo argomento, ricorda che durante l’ultimo conflitto l’invasione fascista si era caratterizzata per una fase iniziale di distruzioni e massacri ai danni del popolo croato e conclude affermando che quindi gli episodi delle foibe sarebbero stati una semplice vendetta, o meglio una rappresaglia, per quanto subito dai croati. Il Presidente esorta quindi l’Italia a giudicare in primo luogo i propri crimini di guerra e afferma che la Croazia ha già intrapreso questo processo con i propri, e lo sta portando tuttora avanti. Un altro spunto polemico arriva a fine intervista: riguardo al problema della cacciata dei croati di etnia italiana dalle loro terre avvenuta nel dopoguerra, Mesić ricorda che molti di essi hanno scelto spontaneamente di rifugiarsi in Italia e non sono stati allontanati con la violenza. Infine, il Presidente croato sottolinea inoltre che l’Italia non ha pagato i danni di guerra da essa generati.

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Domenica di sangue (Marburgo)

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http://it.wikipedia.org/wiki/Domenica_di_sangue

Con domenica di sangue di Marburgo (in tedesco: Marburger Blutsonntag) ci si riferisce alla sanguinosa repressione avvenuta nella città di Marburgo (Maribor) in Stiria, il 27 gennaio 1919, quando soldati dell'esercito dello Stato degli Sloveni, dei Croati e dei Serbi aprirono il fuoco contro manifestanti di etnia tedesca, che chiedevano l'annessione della città all'Austria. Il bilancio fu di 13 morti e circa 60 feriti.

Inquadramento storico

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Lo stesso argomento in dettaglio: Plebiscito della Carinzia.
Medieval Maribor
Lent - the oldest part of Maribor

Nelle ultime settimane della prima guerra mondiale, quando divenne evidente che l'Impero Austro-Ungarico era prossimo alla resa, le spinte centrifughe dei vari gruppi nazionali si fecero sempre più forti e da più parti vennero avanzate pretese di autodeterminazione, sul modello di quanto affermato dal presidente americano Wilson nel famoso discorso dei Quattordici Punti. Il 29 ottobre fu proclamato lo Stato degli Sloveni, Croati e Serbi (da non confodersi col Regno dei Serbi, Croati e Sloveni). Il giorno stesso l'Assemblea Nazionale Slovena proclamò la riunione delle "terre slovene" con quest'ultimo. La resa militare dell'Austria-Ungheria, alle potenze dell'Intesa, seguì il 3 novembre successivo.

Marburgo (sloveno: Maribor), era all'epoca la seconda città della Stiria: per essendo abitata all'80% da tedeschi, era inserita all'interno di un'area a prevalenza slovena. Fu quindi rivendicata sia dallo Stato SHS che dal costituendo stato dell'Austria tedesca (ufficialmente proclamata l'11 novembre).

Fu in questo contesto che, l'1 novembre, la città fu occupata da unità della milizia slovena, comandate l'ex-maggiore imperiale Rudolf Majster (di etnia slovena) Le truppe di Maister occuparono anche i centri circostanti e oltrepassarono in parte il confine linguistico tedesco-sloveno a nord (Radkersburg, Spiefell, Mureck, Abstall, ecc.).

Maister disarmò la polizia e le unità della milizia popolare ("Heimwehr") tedesca facendone deportare gli ufficiali e le truppe nella Repubblica dell'Austria tedesca. Rimosse, quindi, dall'incarico il borgomastro, sciolse il consiglio comunale e licenziò tutti i funzionari di etnia tedesca, dando inizio ad una campagna di slovenizzazione della città. La resistenza fu impedita per mezzo dell'arresto arbitrario di ostaggi.

Le ostilità in Carinzia e la missione Miles

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Contemporaneamente, anche nella vicina Carinzia, si scontrarono le contrapposte rivendicazioni nazionali. Il 17 ottobre 1918 l'Assemblea Nazionale Slovena riunita a Lubiana aveva rivendicato l'intera Regione (pretesa poi ridotta a 1/3 della regione). Il governo provvisorio tedesco della Carinzia proclamò da parte sua l'adesione alla Repubblica dell'Austria tedesca. Il 5 novembre truppe dello Stato degli Sloveni, Croati e Serbi, varcarono il confine con la Carinzia sudorientale occupando il la valle del Ros (Rosental), la valle del Gail e le città di Ferlach e Völkermarkt, a nord della Drava. Il 5 dicembre successivo, il reggente Arthur Lemisch, disobbedendo alla volontà del governo centrale di Vienna, proclamò la resistenza armata contro Le truppe serbo-croato-slovene. La controffensiva carinziana portò alla riconquista di Arnoldstein il 5 gennaio 1919, ad un'avanzata nella valle del Ros e alla riconquista di Ferlach, finché il 15 gennaio, le parti si incontrarono a Graz per trattare un armistizio.

Il negoziato sulle clausole armistiziali giunse però ad uno stallo. Fu allora che il tenente colonnello Sherman Miles (membro di una missione americana a Vienna e presente come osservatore), per scongiurare il fallimento delle trattative e ulteriori spargimenti di sangue, si offrì volontario per studiare in loco il territorio conteso e determinare una linea di demarcazione provvisoria, in attesa della conferenza di pace. Il 22 gennaio la proposta fu accettata da entrambe le parti: di conseguenza la c.d. "Missione Miles" - costituita da quattro statunitensi (due militari, uno slavista e un geografo) e un rappresentante di ciascuna parte - poté così essere inviata nella regione, dove svolse le proprie indagini tra il 28 gennaio e il 5 febbraio[19].

La domenica di sangue

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Nel frattempo a Marburgo, nonostante le misure repressive, erano arrivate associazioni volontarie tedesche, provenienti da Radkersburg, che portarono avanti forme di resistenza. Da parte sua, la neocostituita Repubblica dell'Austria tedesca rivendicò formalmente Marburgo e la zona circostante. L'arrivo della delegazione comandata dal colonnello Miles, fu annunciata per il 27 Gennaio 1919. In tale data dimostranti tedeschi si riunirono di fronte al municipio, sventolando bandiere austriache e tedesche, per manifestare la propria volontà di rimanere in Austria.

Nel corso della manifestazione i soldati sloveni spararono contro i dimostranti.

Le versioni dei fatti sono contrastanti. Si sostenne da parte tedesca che Majster aprì il fuoco senza preavviso contro una folla pacifica e disarmata. Testimoni oculari di parte slovena affermarono, invece, che dimostranti tedeschi avevano cercato di prendere d'assalto il municipio e che i primi colpi furono sparati da un dimostrante tedesco.[1] Nella conseguente ressa un ufficiale delle truppe SHS aprì il fuoco senza ordini.[1]

Le vittime furono 13, a cui vanno aggiunti 60 feriti. A causa dell'eccidio i tedeschi di Marburgo non furono in grado presentare le loro istanze alla commissione americana. Subito dopo il massacro fu inoltre soppresso da Maister il locale quotidiano tedesco Marburger Zeitung.

Annessione al Regno di Jugoslavia

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LISSA: ^ Reinhard Reimann, Für echte Deutsche gibt es bei uns genügend Rechte. Die Slowenen und ihre deutsche Minderheit 1918-1941, in Harald Heppner (cur.), Slowenen und Deutsche im gemeinsamen Raum, Südostdeutschen Historischen Kommission, 2002, p. 140.

A differenza della Carinzia, dove fu organizzata una resistenza militare contro l'occupazione SHS, il governo provinciale della Stiria rinunciò a qualsiasi resistenza militare organizzata, confidando che la giustizia dei vincitori elaborasse frontiere rispettose della situazione etnica (secondo i 14 punti di Wilson).

Nell'autunno del 1919 il Trattato di Saint-Germain, sancì l'anessione di Marburgo e del territorio circostante al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (in seguito noto come Jugoslavia). Si rimarca da parte tedesca che l'annessione avvenne senza un referendum.

Già nel primo censimento post-bellico del 1921 la percentuale dei germanofoni di Maribor scese al 25%. La politica del neonato stato iugoslavo fu fortemente discriminatoria contro i tedeschi, tendendo alla loro rapida slovenizzazione[20]. Pur in un contesto così sfavorevole, vennero mantenuti alcuni diritti quali l'insegnamento nella propria lingua materna (fortemente contrastato), e alcune famiglie germanofone di Maribor rimasero fra le più prominenti della città.

La maggior parte dei tedeschi rimasti in città dopo la annessione alla Slovenia furono espulsi nel 1945, anche in conseguenza al sanguinoso regime di occupazione nazista della Stiria.

Fonti austriache dell'epoca

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  • Articolo in: Die Neue Zeitung, 29 Jänner 1919, S. 1 (Online bei ANNO ) Gennaio 1919, p. 1 (on-line su anno)
  • Articolo di: Pester Lloyd, 29 Jänner 1919, S. 4 (Online bei ANNO ) Gennaio 1919, p. 4 (on-line su anno)
  • Articolo di: Wiener Allgemeine Zeitung, 28 Jänner 1919, S. 4 (Online bei ANNO ) Gennaio 1919, p. 4 (on-line su anno)
  • Articolo di: Reichpost, 29 Jänner 1919, S. 4 (Online bei ANNO ) Gennaio 1919, p. 4 (on-line su anno)

Fonti slovene

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1. ? Joachim Hösler, Slowenien , Regensburg 2006, S. 148 ? Joachim Hosler, Slovenia, Regensburg 2006, p. 148 dell =G


23 maggio 1915 l’incendio della sede della Lega Nazionale di via Mazzini (contemporaneamente alle sedi della Societa’ Ginnastica Triestina e del Piccolo); 1928 l’incendio della scuola scuola materna e del doposcuola della Lega Nazionale ad Opicina”.

  1. ^ AA.VV., "Istria nel tempo. Manuale di storia regionale dell'Istria con riferimenti alla città di Fiume," Unione Italiana di Fiume - Università Popolare di Trieste, Rovigno 2006, p.370
  2. ^ "Istria nel tempo", p.296 - 368
  3. ^ "Istria nel tempo..."; p.348;367
  4. ^ "Istria nel tempo... p.368«La sovranità era altra cosa rispetto alla cittadinanza, che era quella di Rovigno (o Pola, o Venezia, O Torino, ecc.). Prima si era cittadini di una comunità, poi si era suddito. Al contrario di oggi, quando si è prima di tutto cittadino e quindi, secondariamente, residenti di una certa città, di un certo luogo.»
  5. ^ "Istria nel tempo...", p.450
  6. ^ "Istria nel tempo..."p.458
  7. ^ "Istria nel tempo..."; p. 459
  8. ^ "Istria nel tempo...", p. 510
  9. ^ "Istria nel tempo...", p.347, p.297
  10. ^ "Istria nel tempo...", p.368
  11. ^ [http://paleozonenutrition.com/2011/03/26/why-i-dont-recommend-a-low-fat-raw-vegan-diet/ Health problems on low fat raw vegan and vegan diets]
  12. ^ http://www.cataniacentro.com/curiosita-e-approfondimentia-a-catania/49-spunti-su-cui-riflettere/272-la-dieta-vegetariana-e-vegana-fa-male-alla-salute-ecco-recenti-studi-in-materia.html
  13. ^ Come una dieta 100% vegana ha fatto ammalare questa bambina
  14. ^ Dieta vegetariana, più rischi di tumore all'intestino
  15. ^ Vegetarianism, Eating Disorder Study Reveals Worrisome Relationship Among Women
  16. ^ [http://www.ok-salute.it/alimentazione-e-diete/11_a_vegani-cuore-a-rischio.shtml Cuore a rischio con la dieta vegana]
  17. ^ Tumori e alimentazione: vegetariani a rischio per cervice e colonretto
  18. ^ A VOLTE RITORNANO: LA DIETA VEGANA GUERRA IMMOTIVATA ALLA FETTINA
  19. ^ (DE) Kärntner Landesgeschichte
  20. ^ [1] Sito plurilingue sui tedeschi della zona di Gottschee (oggi Kočevje)


Inquadramento storico

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Nonostante la ricerca scientifica abbia, fin dagli anni 90 del XX secolo, sufficientemente chiarito gli avvenimenti[1][2], la conoscenza dei fatti nella pubblica opinione permane distorta ed oggetto di confuse polemiche politiche, che ingigantiscono o sminuiscono i fatti a seconda della convenienza ideologica.[3][4]

Gli eccidi delle foibe ed il successivo esodo costituiscono l'epilogo di una secolare lotta per il predominio sull'Adriatico orientale, che fu conteso da popolazioni slave (prevalentemente croate e slovene, ma anche serbe) e italiane. Tale lotta si inserisce all'interno di un fenomeno più ampio e che fu legato all'affermarsi degli stati nazionali in territori etnicamente misti. Nel XX secolo, furono decine di milioni le persone coinvolte nei conseguenti processi di assimilazione ed emigrazione forzata, che provocarono milioni di vittime[5][6]. Fra gli episodi più noti si ricordano il genocidio armeno, il drammatico scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia e l'esodo dei tedeschi dall'Europa orientale. Molte delle realtà plurilinguistiche e multiculturali esistenti in Europa ed Asia ne uscirono distrutte.

Le radici di questo fenomeno affondano nella fine dell'ancien régime, un sistema dove gli Stati erano il risultato delle lotte di potere delle classi dominanti[7]. Con la rivoluzione francese e la conseguente delegittimazione del potere monarchico, gli stati trovarono la loro nuova legittimità nel concetto di popolo, inteso come una comunità cementata da alcune caratteristiche distintive (come lingua, cultura, religione, origine, storia). Man mano che le singole popolazioni si identificavano in specifiche nazioni (che inizialmente - in molti casi - erano indefinite e controverse), si vennero a creare diverse occasioni di conflitto. Ad esempio quando una nazione rivendicava territori abitati da propri connazionali e posti al di fuori dei confini del proprio stato. Oppure quando specifiche minoranze etniche cercavano la secessione da uno Stato, sia per formare una nazione indipendente, sia per unirsi a quella che consideravano la madre patria. Una terza fonte di conflitto fu provocata dal tentativo, da parte di molti Stati, di assimilare od espellere le proprie minoranze, considerandole realtà estranee o un pericolo per la propria integrità territoriale.

La composizione etnica di Venezia Giulia e Dalmazia

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Lo stesso argomento in dettaglio: Istria e Storia della Dalmazia.


     italiano (veneto e istrioto)

     serbocroato

     sloveno

     istrorumeno

]]

Prima del XIX secolo, in Venezia Giulia e Dalmazia, avevano convissuto, in modo talvolta conflittuale e talvolta pacifico, popolazioni autoctone di lingua romanza e popolazioni di stirpe e lingua slava, spinte a ovest dagli Avari e dagli Unni, giunte a ridosso delle Alpi Giulie all'inizio del VII secolo e infiltratesi - con alterna fortuna - nella Venezia Giulia a partire dal IX secolo e poi con le pestilenze del XV e XVI secolo; le ricorrenti tensioni non erano dovute ad ancor inesistenti concetti di nazionalità, essendo ben noti - peraltro - fin dall'antichità i concetti di stirpe e di tribù, (le diverse etnie, viceversa, erano, sotto il dominio asburgico, in larga misura mischiate).[8] Vi era una differenza di carattere linguistico - culturale fra città e costa (prevalentemente romanzo-italiche) e le campagne dell'entroterra (in parte slavi o slavizzati). Le classi elevate (aristocrazia e borghesia) erano dovunque di lingua e cultura italiana, anche qualora di origine slava.

Gli opposti nazionalismi

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Con la Primavera dei Popoli del 1848-49, anche nell'Adriatico orientale, il sentimento di appartenenza nazionale cessò di essere una prerogativa delle classi elevate e cominciò, gradualmente, a estendersi alla masse[9][10]. Fu solo a partire da tale anno che il termine "italiano" (ad esempio) cessò, anche in queste terre, di essere una mera espressione di appartenenza geografica o culturale e cominciò ad implicare l'appartenenza a una "nazione" italiana[11]. Analogo processo subirono gli altri gruppi nazionali: si vennero pertanto a definire i moderni gruppi nazionali: italiani, sloveni, croati e serbi.

Lo scontro nazionale in Venezia Giulia

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Dopo il 1848-49 pertanto, in Venezia Giulia, il senso di identità nazionale, precedentemente prerogativa di parti della nobiltà e della borghesia italiane, cominciò ad investire tutti gli ambienti urbani. Al di fuori di città e borghi, fu il clero che svolse un ruolo fondamentale nel "risveglio nazionale" delle popolazioni slovene e croate (allora genericamente "slave"), maggioritarie nelle campagne. L'affermarsi delle nazionalità portò a una suddivisione della società in chiave nazionale, divisione che coincise approssimativamente con la precedente divisione fra centri urbani (prevalentemente costieri) e comunità rurali (prevalentemente dell'interno). Si vennero a creare le contrapposizioni nazionali: le tradizionali élite economiche e politiche, già culturalmente italiane, si riscoprirono tali anche su un piano di identificazione nazionale, seguite dal popolo. Dall'altra parte nacquero delle élite di sentimenti slavi, inizialmente formate dal clero, ma successivamente anche da nuovi borghesi, che si fecero portavoce delle rivendicazioni culturali e politiche slave, progressivamente coinvolgendo anche i pastori e contadini slavi. Le élite italiane cercarono di mantenere il tradizionale predominio poltico, economico e culturale, contrastando le ambizioni slave (favorite in questo da Vienna). Fu così che, specie a partire dal 1866, la contrapposizione nazionale caratterizzò la vita e la cultura dell'Istria, di Fiume e di Trieste. Tale contrapposizione fu la causa remota dei massacri delle foibe, ed è un fenomeno che ancor oggi è tipico di diverse zone ad etnia mista (come in Irlanda del Nord, nei Paesi Baschi o nell'ex Jugoslavia).

Lo scontro nazionale in Dalmazia

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Lo stesso argomento in dettaglio: Dalmati italiani, Croatizzazione e Partito Autonomista.
Antonio Bajamonti in una cartolina propagandistica dei primi del '900

«La nazionalità italiana in Dalmazia è una parola vuota di senso, trovata dall'interesse, dall'impostura.»

«Nessuna gioia, solo dolore e pianto, dà l'appartenere al partito italiano in Dalmazia. A noi, italiani della Dalmazia, non rimane che un solo diritto, quello di soffrire.»

In Dalmazia[13] il primo ideale di nazionalità si concretizzo nel concetto di una nazione dalmata, che racchiudeva in sé radici slave e romanze.

Col nascere del nazionalismo croato, questo ideale venne combattuto dal Partito del Popolo croato (Narodna stranka), che richiedeva l'unione fra Dalmazia e Croazia, negava l'esistenza stessa di una componente italiana in Dalmazia e invocava l'eliminazione dell'uso dell'italiano nella vita pubblica e la croatizzazione delle scuole. La Dalmazia veniva considerata integralmente croata fin dall'alto medioevo. Gli italiani venivano considerati una realtà estranea (come i pieds noirs in Algeria), frutto di "invasioni straniere" che avevano italianizzato parte della popolazione croata originaria.

In conseguenza della politica del Partito del Popolo, che conquistò gradualmente il potere, in Dalmazia si verificò una costante diminuzione della popolazione italiana, in un contesto di repressione che assunse anche tratti violenti[14]. Nel 1845 i censimenti austriaci registravano quasi il 20% di Italiani in Dalmazia, mentre nel 1910 erano ridotti a circa il 2,7%.

Tutto ciò spinse sempre più gli autonomisti ad identificare sé stessi come italiani, fino ad approdare all'irredentismo.

Dopo la nascita del Regno d'Italia, il sorgere dell'irredentismo italiano portò il governo asburgico, tanto in Dalmazia, quanto in Venezia Giulia, a favorire il nascente nazionalismo di sloveni[15] e croati, nazionalità ritenute più leali ed affidabili rispetto agli italiani[15][16]. Si intendeva così bilanciare non solo il potere delle ben organizzate comunità urbane italiane[17], ma anche l'espansionismo serbo[senza fonte], che mirava ad unificare tutti gli slavi del sud.

Grande Guerra e annessione all'Italia

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Nel 1915 l'Italia entrò nella Grande Guerra a fianco della Triplice Intesa, in base ai termini del Patto di Londra, che le assicuravano il possesso dell'intera Venezia Giulia e della Dalmazia settentrionale - incluse molte isole. La città di Fiume, invece, veniva espressamente assegnata quale principale sbocco marittimo di un eventuale futuro stato croato o del Regno d'Ungheria, se la Croazia avesse continuato ad essere un banato dello stato magiaro o della Duplice Monarchia[18].

Al termine della guerra, il regio esercito occupò i territori previsti dal trattato, cosa che provocò le reazioni opposte delle diverse etnie, con gli italiani che acclamarono alla "redenzione" delle loro terre, e gli slavi che guardavano con ostilità e preoccupazione i nuovi arrivati. La contrapposizione nazionale subì un nuovo e forte inasprimento. Successivamente, la definizione dei confini fra l'Italia e il nuovo stato jugoslavo, fu oggetto di una lunga ed aspra contesa diplomatica, che trasformò il contrasto nazionale in una contrapposizione fra stati sovrani, che coinvolse vasti strati dell'opinione pubblica esasperandone ulteriormente i sentimenti. Forti tensioni suscitò in particolare la questione di Fiume, che fu rivendicata all'Italia sulla base dello stesso principio di autodeterminazione che aveva fatto assegnare al regno jugoslavo le terre dalmate, già promesse all'Italia.

La questione dei confini fu infine risolta coi trattati di Saint Germain e di Rapallo.

Cartina della Dalmazia e della Venezia Giulia coi confini previsti dal Trattato di Londra e quelli invece effettivamente ottenuti dall'Italia

L'Italia ottenne solo parte di ciò che le era stato promesso a Londra.

In base alla dottrina Wilson, le fu infatti negata la Dalmazia (dove ottenne solo la città di Zara e alcune isole).

Col trattato di Rapallo Fiume venne eretta a stato libero, per poi essere annessa all'Italia nel 1924 (con l'esclusione di Sussak/Porto Barros).

I territori annessi erano abitati da circa 480.000 slavi (sloveni e croati).

Il dopoguerra e il "fascismo di confine"

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Nel 1919-20 (il "biennio rosso"), l'Italia fu attraversata da un'ondata di tensioni sociali, che coinvolsero anche la Venezia Giulia, dove scoppiarono proteste e agitazioni. Contemporaneamente, l'ostilità slava (e soprattutto slovena) alla riunificazione della Venezia Giulia all'Italia, già palesata con il boicottaggio nei confronti dei civili italiani di ritorno dai campi di concentramento di Wagna e Tapiosuly, si esprimeva con l'accumulo di armi provenienti dal confinante Regno dei Serbi, Croati e Sloveni e con attentati. Queste tensioni, sommate alle preesistenti tensioni nazionali e allo spandersi del cosiddetto "mito della vittoria mutilata", furono fertile terreno per lo sviluppo, in regione, del movimento fascista, che qui assunse particolari connotati (il "fascismo di confine").

Varie furono le azioni violente compiute dagli squadristi fascisti, spesso con il tacito appoggio delle autorità, che li sfruttarono per sedare i disordini: i fascisti si presentarono infatti come i tutori dell'italianità e del mantentimento dell'ordine nazionale e sociale della Venezia Giulia. Il fascismo fu considerato risolutivo da parte di chi temeva la crescita del movimento socialista e di chi voleva risolvere drasticamente il "problema slavo".

L'Hotel Balkan sede del Narodni Dom dopo l'incendio (1920)

Fra gli episodi violenti, il più noto fu l'incendio del Narodni dom ("Casa nazionale slovena") di Trieste, compiuto da squadristi a seguito dell'assassinio da parte di uno sloveno del cuoco o cameriere italiano Giovanni Nini nel corso di una manifestazione antijugoslava provocata dall'assassinio a Spalato di due militari della Regia Marina (tenente Gulli e motorista Rossi) sbarcati disarmati per sedare un tumulto sui moli[19]. Tale incidente assunse a posteriori un forte significato simbolico, venendo ricordato come l'inizio dell'oppressione italiana contro gli slavi.

Violenze per molti versi simili furono compiute anche contro le minoranze (incluse quelle italiane) rimaste sotto l'amministrazione jugoslava (si vedano, ad esempio, gli incidenti di Spalato e la domenica di sangue di Marburgo).

L'italianizzazione fascista

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Lo stesso argomento in dettaglio: Italianizzazione (fascismo).
Province della Venezia Giulia dal febbraio 1924, dopo l'annessione di Fiume(elencate dall'alto verso il basso): Gorizia, Trieste, Fiume, Pola.

«Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. [...] I confini dell'Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani»

La situazione degli slavi si deteriorò con l'avvento al potere del fascismo, nel 1922. Fu gradualmente introdotta in tutta Italia una politica di assimilazione delle minoranze etniche e nazionali, che comportò l'italianizzazione di nomi e toponimi, la chiusura delle scuole slovene e croate, il divieto dell'uso della lingua straniera in pubblico, ecc. Simili politiche di assimilazione forzata erano all'epoca assai comuni in Europa, venendo applicate, fra gli altri, anche da paesi come la Francia[21], o il Regno Unito, oltre che dalla stessa Jugoslavia nei confronti soprattutto delle proprie minoranze tedesche, ungheresi e albanesi[22]. La politica di "bonifica etnica" avviata dal fascismo fu tuttavia particolarmente pesante, in quanto l'intolleranza nazionale, talora venata di vero e proprio razzismo, venne affiancata e coadiuvata dalle misure repressive tipiche di un regime totalitario[23].

L'azione del governo fascista annullò l'autonomia culturale e linguistica di cui le popolazioni slave avevano goduto durante la dominazione asburgica e esasperò i sentimenti di inimicizia nei confronti dell'Italia.

Le società segrete irredentiste slave, preesistenti allo scoppio della Grande Guerra, si fusero in gruppi più grandi a carattere nazionalista, come la Borba e il TIGR, che si resero responsabili di numerosi attacchi a militari, civili e infrastrutture italiane. Alcuni elementi di queste società segrete furono catturati dalla polizia italiana e condannati a morte dal Tribunale speciale per la difesa dello stato.

L'invasione della Jugoslavia

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Lo stesso argomento in dettaglio: Operazione 25.

Nell'aprile del 1941 l'Italia partecipò all'attacco dell'Asse contro la Jugoslavia, la quale, dopo la resa dell'esercito, avvenuta il giorno 17[24], e l'inizio della politica di occupazione, fu smembrata e parte dei suoi territori furono annessi agli stati invasori.

Divisione della Jugoslavia dopo la sua invasione da parte delle Potenze dell'Asse. In verde l'area costituente la Provincia di Lubiana, l'area accorpata alla Provincia di Fiume e le aree costituenti il Governatorato di Dalmazia

A seguito del trattato di Roma l'Italia annesse parte della Slovenia, parte della Banovina di Croazia nord-occidentale (che venne accorpata alla Provincia di Fiume), parte della Dalmazia e le Bocche di Cattaro (che andarono a costituire il Governatorato di Dalmazia), divenendo militarmente responsabile della zona che comprendeva la fascia costiera, ed il relativo entroterra, della ex-Jugoslavia.

In Slovenia fu costituita la Provincia di Lubiana, dove, a fini politici ed in contrapposizione con i tedeschi, si progettò, senza successo, di instaurare un'amministrazione rispettosa delle peculiarità locali[25]. Nelle aree della Banovina di Croazia annesse al Regno d'Italia fu invece instaurata fin dall'inizio una politica di italianizzazione forzata, che incontrò una decisa resistenza da parte della popolazione a maggioranza croata.

La Croazia fu dichiarata indipendente col nome di Stato Indipendente di Croazia, il cui governo fu affidato al partito ultranazionalista degli ustascia, con a capo Ante Pavelić.

La nascita della resistenza jugoslava

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Lo stesso argomento in dettaglio: Resistenza jugoslava.

La resa dell'esercito jugoslavo non fermò i combattimenti ed in tutto il paese crebbe un'intensa attività di resistenza che proseguì fino al termine della guerra e che vide da un lato la contrapposizione tra eserciti invasori e collaborazionisti e dall'altro la lotta fra le diverse fazioni etniche e politiche.

Repressione, conflitti etnici e crimini contro i civili

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Durante tutta la durata del conflitto vennero perpetrate da tutte le parti in causa numerosi crimini di guerra[26].

Vista del campo di concentramento di Arbe usato per l'internamento della popolazione civile slovena

Nella Provincia di Lubiana, fallito il tentativo di instaurare un regime di occupazione morbido, emerse presto un movimento resistenziale: la conseguente repressione italiana fu dura ed in molti casi furono commessi crimini di guerra con devastazioni di villaggi e rappresaglie contro la popolazione civile. Le sanguinose rappresaglie attuate dal Regio Esercito italiano, per reprimere le azioni di guerriglia partigiana aumentarono il risentimento della popolazione slava nei confronti degli italiani.

«Si procede ad arresti, ad incendi [. . .] fucilazioni in massa fatte a casaccio e incendi dei paesi fatti per il solo gusto di distruggere [. . .] La frase »gli italiani sono diventati peggiori dei tedeschi«, che si sente mormorare dappertutto, compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi»

A scopo repressivo, numerosi civili sloveni furono deportati nei campi di concentramento di Arbe e di Gonars[28].

Nei territori annessi, accorpati alla Provincia di Fiume ed al Governatorato della Dalmazia, fu avviata una politica di italianizzazione forzata del territorio e della popolazione. In tutto il Quarnero e la Dalmazia, sia italiana che croata, si innescò dalla fine del 1941 una crudele guerriglia, contrastata da una repressione che raggiunse livelli di massacro dopo l'estate 1942.

«. . . Si informano le popolazioni dei territori annessi che con provvedimento odierno sono stati internati i componenti delle suddette famiglie, sono state rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20 componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia contro gli atti criminali da parte dei ribelli che turbano le laboriose popolazioni di questi territori . . .»

Nello Stato Indipendente di Croazia, il regime ustascia scatenò una feroce pulizia etnica nei confronti dei serbi, nonché di zingari ed ebrei, simboleggiata dall'istituzione del campo di concentramento di Jasenovac, e contro il regime e gli occupanti presero le armi i partigiani di Tito, plurietnici e comunisti, ed i cetnici, nazionalisti monarchici a prevalenza serba.[29], i quali perpetrarono a loro volta crimini contro la popolazione civile croata che appoggiava il regime ustascia e si combatterono reciprocamente. A causa dell'annessione della Dalmazia costiera al Regno d'Italia, cominciarono inoltre a crescere le tensioni tra il regime ustascia e le forze d'occupazione italiane; venne perciò a formarsi, a partire dal 1942, un'alleanza tattica tra le forze italiane ed i vari gruppi cetnici: gli italiani incorporarono i cetnici nella Milizia volontaria anticomunista (MVAC) per combattere la resistenza titoista, provocando fortissime tensioni con il regime ustascia[senza fonte].

Dopo la guerra la Jugoslavia chiese di giudicare i presunti responsabili di questi massacri (come il generale Mario Roatta), ma l'Italia negò la loro estradizione grazie ad alcune amnistie[30]

  1. ^ Pupo 1996: «...dietro l'apparente caoticità delle situazioni e degli interventi sembra possibile discernere con una certa chiarezza le spinte fondamentali dell'onda di violenza politica che spazza la regione, fino a ricostruire le linee essenziali di una proposta interpretativa generale, che certo andrà vagliata ed integrata alla luce dei nuovi apporti documentari, ma i cui connotati di fondo appaiono già delineati in maniera sufficientemente nitida.»
  2. ^ Pupo, Spazzali, p. XI
  3. ^ Pupo, Spazzali, p. X, 110: «A tutt'oggi, nonostante esse [N.d.R.: le tesi militanti] abbiano dimostrato tutta la loro fragilità sul piano scientifico, continuano a essere largamente diffuse, anche perché si prestano a un uso politico che non è mai venuto meno…»
  4. ^ Raoul Pupo, "Il lungo esodo", BUR, 2005, ISBN 88-17-00949-0, pp. 17-24.
  5. ^ Pupo, Spazzali, p. 218: «Il forzato abbandono da parte degli italiani dell'Istria,di Fiume e di Zara costituisce infatti un aspetto particolare ed emblematico di un fenomeno più generale, che travolse nel vecchio continente milioni di individui, legato all'affermarsi degli stati nazionali in territori nazionalmente misti, che distrusse in larga misure le realtà plurilinguistiche e multiculturali esistenti in buona parte dell'Europa centrale.»
  6. ^ Pupo, pp.17-18
  7. ^ (monarchie o, in qualche caso, oligarchie)
  8. ^ "L'Adriatico orientale e la sterile ricerca delle nazionalità delle persone" di Kristijan Knez; [[La Voce del Popolo (quotidiano di Fiume)]] del 2/10/2002, su xoomer.alice.it, Consultato il 10 luglio 2009. Wikilink compreso nell'URL del titolo (aiuto) «... è privo di significato parlare di sloveni, croati e italiani lungo l'Adriatico orientale almeno sino al XIX secolo. Poiché il termine nazionalità è improponibile per un lungo periodo, è più corretto parlare di aree culturali e linguistiche, perciò possiamo parlare di dalmati romanzi, dalmati slavi, di istriani romanzi e slavi.» «Nel lunghissimo periodo che va dall'alto Medioevo sino alla seconda metà del XIX secolo è corretto parlare di zone linguistico-culturali piuttosto che nazionali. Pensiamo soltanto a quella massa di morlacchi e valacchi (...) che sino al periodo su accennato si definivano soltanto dalmati. Sino a questo periodo non esiste affatto la concezione di stato nazionale, e come ha dimostrato lo storico Federico Chabod, nell'età moderna i sudditi erano legati soltanto alla figura del sovrano e se esisteva un patriottismo, questo era rivolto soltanto alla città d'appartenenza.»
  9. ^ Sul conflitto fra italiani e slavi a Trieste si veda: Tullia Catalan, I conflitti nazionali fra italiani e slavi alla fine dell'impero asburgico, scheda in Pupo, Spazzali, p. 25-39
  10. ^ Sul conflitto nazionale fra italiani e slavi nella regione istriana, si consultino i seguenti link (sito del "Centro Di Documentazione della Cultura Giuliana Istriana Fiumana Dalmata"):[2][3][4]
  11. ^ AA.VV., "Istria nel tempo", Centro Ricerche Storiche di Rovigno, 2006, cap. V, par. 3,4
  12. ^ Cartoline storiche di Istria, Quarnaro e Dalmazia (contiene un commento critico del testo citato), su istriadalmaziacards.com, Consultato il 10 luglio 2009.
  13. ^ Sul conflitto nazionale fra italiani e croati in Dalmazia, si consultino i seguenti link (sito del "Centro Di Documentazione della Cultura Giuliana Istriana Fiumana Dalmata"): [5][6]
  14. ^ Raimondo Deranez, Particolari del martirio della Dalmazia, Stab.Tipografico dell'ORDINE, Ancona, 1919
  15. ^ a b Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena, Relazioni italo-slovene 1880-1956, "Capitolo 1980-1918", Capodistria, 2000
  16. ^ L.Monzali, Italiani di Dalmazia (...), cit. p. 69
  17. ^ Pupo, Spazzali, p. 38
  18. ^ Si vedano la voce Trattato di Londra e il testo integrale del trattato su Wikisource
  19. ^ Attilio Tamaro, Venti anni di storia, Editrice Tiber, Roma, 1953, pp. 79:"Mentre si svolgeva l'imponente comizio e Francesco Giunta, segretario del fascio, parlava, uno slavo uccise un fascista, che s'era intromesso per salvare un ufficiale da quello aggredito
  20. ^ Storia d'Italia nel periodo fascista Di Luigi Salvatorelli, Giovanni Mira; Pubblicato da G. Einaudi, 1956
  21. ^ Fabio Ratto Trabucco, Il regime linguistico e la tutela delle minoranze in Francia, su "Il politico (Rivista italiana di scienze politiche)", Anno 2005, Volume 70)
  22. ^ Sull'assimilazione della minoranza tedesca in Slovenia si veda Harald Heppner (Hrsg.), Slowenen und Deutsche im gemeinsamen Raum: neue Forschungen zu einem komplexen Thema. Tagung der Südostdeutschen Historischen Kommission (Maribor), September 2001, Oldenbourg, München 2002. Per la situazione dei tedeschi del Gottschee: Sito sui tedeschi del Gottschee (Slovenia). Sulle politiche di assimilazione cui furono soggetti gli ungheresi della Vojvodina, si veda, ad esempio: Károly Szilágyi, Good Neighbors or Bad Neighbors? Hungarians and Serbs during the centuries, Budapest 1999. Per la situazione della minoranza albanese, Robert Elsie, Kosovo: in the heart of the powder keg, Columbia University Press, New York 1997.
  23. ^ Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena; Periodo 1918 - 1941. Consultato il 1 settembre 2010
  24. ^ L'atto di resa fu firmato a Belgrado alla presenza del Ministro degli esteri Aleksandar Cincar-Marković e del generale Janković in rappresentanza della Jugoslavia, del generale Maximilian von Weichs per la Germania e del colonnello Bonfatti per l'Italia. V. Salmaggi e Pallavisini, La seconda guerra mondiale, Mondadori, 1989, pag. 119.
  25. ^ Regio decreto-legge del 3 maggio 1941, n. 291 (istituzione della Provincia di Lubiana: "ART. 2- Con decreti reali (...) saranno stabiliti gli ordinamenti della provincia di Lubiana, la quale, avendo una popolazione compattamente slovena, avrà un ordinamento autonomo con riguardo alle caratteristiche etniche della popolazione, alla posizione geografica del territorio e alle speciali esigenze locali"
  26. ^ Diari di guerra: Il diario di Renzo Pagliani, bersagliere nel battaglione "Zara", su digilander.libero.it. URL consultato il 10 novembre 2009.
  27. ^ Angelo del Boca, Italiani, brava gente?, pagina 236, Vicenza 2005, ISBN 88-545-0013-5
  28. ^ Alessandra Kersevan, Un campo di concentramento fascista. Gonars 1942-1943, Kappa VU, Udine, 2003 e Idem, Breve storia del confine orientale nel Novecento, in Giuseppe Aragno (a cura di), Fascismo e foibe. Ideologia e pratica della violenza nei Balcani, La Città del Sole, Napoli, 2008
  29. ^ L'Italia in guerra e il Governatorato di Dalmazia, su arcipelagoadriatico.it, Centro Di Documentazione Della Cultura Giuliana Istriana Fiumana Dalmata, 2007. URL consultato il 10 novembre 2009.
  30. ^ Fondo Gasparotto presso Fondazione ISEC (Istituto per la Storia dell'Età Contemporanea, Sesto S.Giovanni, Mi); War Crimes Commission ONU, Crowcass (Central register of war criminals and security sospects) presso Wiener Library, Londra rintracciato dalla storica Caterina Abbati; BBC, Fascist legacy, Londra 1990. (video documentario) di Ken Kirby, curato dallo storico Michael Palumbo; Filippo Focardi e Lutz Klinkhammer (a cura di), La questione dei "criminali di guerra" italiani e una Commissione di inchiesta dimenticata, in Contemporanea, a. IV, n.3, luglio 2001, pp. 497-528; Mimmo Franzinelli, Salvate quei generali! Ad ogni costo e La memoria censurata, in Millenovecento n. 3 gennaio 2003, pp. 112-120: Nicola Tranfaglia, Come nasce la repubblica. Documenti CIA e italiani 1943/1947, Bompiani, Milano 2004. Documenti custoditi nel Fondo Affari Politici del Ministero degli Affari Esteri italiano, in particolare il Telespresso N. 1506 del Ministero degli Affari Esteri, Direzione Generale Affari Politici, VIII, datato Roma, 28 Ottobre 1946, indirizzato al Ministero della Guerra, Gabinetto e al Ministero della Giustizia, Gabinetto, Oggetto: Criminali di guerra Italiani richiesti dalla Jugoslavia, firmato da Pietro Nenni, e il Pro Memoria allegato al documento, in cui si legge testualmente: “La Legazione di Jugoslavia ha presentato al Ministero degli Affari Esteri una serie di Note Verbali in data 16,18,27 e 30 dicembre 1947, con le quali, in applicazione all'Art. 45 del Trattato di Pace, richiede la consegni di 27 presunti criminali di guerra italiani, specificando per ciascuno di essi vari capi d'accusa”. Interessante è anche la nota n. 10599.7./15.2 della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Gabinetto, datata Roma, 16 febbraio 1948 e firmata dal Sottosegretario di Stato Giulio Andreotti, a cui è acclusa copia conforme della lettera protocollata Segr. Pol. 875, datata Roma, 20 agosto 1949, inviata all'Ammiraglio Franco Zannoni, Capo Gabinetto Ministero della Difesa