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Raja Yoga

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Il Raja Yoga, adattamento di Rāja Yoga (devanagari: राजयोग; lett.: "Yoga Regale"[1]), è il nome con cui è nota la dottrina dello Yoga classico, originariamente esposta negli Yoga Sūtra, opera attribuita al filosofo indiano Patañjali (I - V sec. e.v.).[2][3]

Gli Yoga Sūtra sono attribuiti al filosofo Patañjali, personaggio tradizionalmente collocato nel II sec. a.e.v. ma più probabilmente vissuto fra il II e il V secolo della nostra era. Oltre tale indeterminazione, ciò che appare invece certo è che lo Yoga esposto in quest'opera è la codifica di pratiche ben anteriori:[2] il termine yoga compare infatti già nelle Upaniṣad col suo significato qui specifico: "unione"[4].[5] A Patañjali va però senz'altro il merito di aver dato un suo posto certo nell'ambito della filosofia indiana a quella che era una tradizione di carattere mistico.[6] Fra le darśana ortodosse dell'induismo, cioè quelle dottrine teologico-filosofiche che sono ufficialmente riconosciute come significativamente rappresentative del mondo hindu, lo Yoga classico, o Yoga Darśana, è il "punto di vista"[7] del Rāja Yoga di Patañjali insieme ai suoi numerosi commentari.

Gli Yoga Sūtra consistono di 196 sūtra, concise e significative frasi concepite per essere memorizzate con facilità, come era costume nelle tradizioni hindu, essendo quello orale il mezzo principale per condividere e tramandare il sapere. L'opera è divisa in quattro sezioni denominate pāda: Samādhi Pāda (la "congiunzione"); Sādhana Pāda (la "realizzazione"); Vibhūti Pāda (i "poteri"); Kaivalya Pāda (la "separazione"):

Lo stesso argomento in dettaglio: Yoga Sūtra.

Dopo aver definito lo Yoga e discusso del samādhi, ultimo stadio del percorso yogico, nel secondo pāda Patañjali presenta l'aspetto pratico della disciplina introducendo il Kriyā Yoga (lo "Yoga dell'azione") e l'Aṣṭāṅga Yoga (lo "Yoga delle otto membra"). Nel terzo pāda egli prosegue con la descrizione dell'Aṣṭāṅga Yoga, elencando i cosiddetti "poteri extra-normali" che è possibile conseguire con la pratica dello Yoga. Tali poteri, egli chiarisce, non devono però distogliere lo yogin dalla realizzazione, dalla meta finale, che resta sempre quella della liberazione (il mokṣa) dal ciclo delle rinascite (il saṃsāra). Tale meta è possibile soltanto col samādhi, quello stadio in cui la coscienza (citta) è pacificata, in uno stato sovrarazionale, dove essenza e conoscenza si trovano in uno stato di "congiunzione". Nell'ultimo pāda Patañjali dà una veste filosofica alla pratica finora presentata coniugandola con la dottrina del Sāṃkhya: il samādhi consente finalmente di riconoscere la "separazione" fra spirito (puruṣa) e materia (prakṛti).[8][9]

Il Kriyā Yoga di Patañjali

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Patañjali definisce il Kriyā Yoga come quell'aspetto dello Yoga che favorisce la via verso il samādhi,[10] cioè verso il cammino[11] descritto negli otto stadi dello Aṣṭāṅga Yoga. Così nel primo sūtra del secondo pāda:

(SA)

«tapaḥ svādhyāya Īśvarapraṇidhānāni kriyāyogaḥ»

(IT)

«Il desiderio ardente nella pratica, lo studio di se stessi e delle sacre scritture, l'arrendersi a Dio sono le azioni dello Yoga.»

Dunque, per il filosofo il Kriyā Yoga non è una disciplina a sé, una branca dello Yoga come in seguito sarà inteso da altre scuole e filosofi: egli elenca semplicemente quegli atti (kriyā, lett.: "azione"), quelle condizioni cioè necessarie alla via dello Yoga: la pratica, la conoscenza, la devozione. Sebbene egli non usi i termini karma (l'azione e i suoi effetti), bhakti (la devozione), jñāna (la conoscenza spirituale), questi tre aspetti in seguito, presso altri pensatori [12], daranno luogo, così come per il Kriyā Yoga, a tre branche dello Yoga: Karma Yoga, Bhakti Yoga, Jñāna Yoga.[13]

Īśvara è generalmente reso con "Signore"[14], volendo così indicare la rappresentazione personale del divino: è questo il termine che Patañjali adopera, e non fa così riferimento a nessun deva in particolare. D'altronde, come egli stesso esplicitamente chiarisce nel primo pāda, Īśvara è da intendersi, più che un dio, come un sommo spirito (puruṣa), un maestro ideale,[15] insomma un modello dello yogin la cui figura può essere di ausilio nel cammino verso la realizzazione. Si tratta quindi di un ruolo non centrale, che Patañjali non riprenderà più nel corso dell'opera.[16]

Aṣṭāṅga Yoga: gli otto stadi

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Gli stadi (āṅga, lett.: membra[17]) in cui Patañjali architetta la via dello Yoga sono elencati nel ventinovesimo sūtra del secondo pāda:

(SA)

«yama niyama āsana prāṇāyāma pratyāhāra dhāraṇā dhyāna samādhayaḥ aṣṭāu aṅgāni»

(IT)

«Le regole morali (yama), le osservanze (niyama), le posizioni (āsana), il controllo del respiro (prāṇāyāma), il ritirare i sensi verso la loro origine (pratyāhāra), la concentrazione (dhāraṇā), la meditazione (dhyāna), e l'assorbimento della coscienza nel sé (samādhi) sono gli otto elementi che costituiscono lo yoga.»

Riassumendo, il filosofo così prosegue elencando via via i vari stadi e i relativi elementi:

1. Yama: astinenze; astensioni; freni; proibizioni; regole di comportamento. Queste sono:

  • Ahimsa: non violenza; pacifismo;
La violenza cui qui si fa riferimento non è soltanto quella fisica ma anche quella verbale. Patañjali aggiunge (in II.35) che la non-violenza induce anche gli altri a essere altrettanto;[9]
  • Satya: sincerità; genuinità;
  • Asteya: non rubare; temperanza;
  • Brahmācarya: continenza; castità;
Il termine è generalmente reso con "castità", letteralmente vuol invece significare "seguace del Brahman" con riferimento al primo degli stadi della vita di un hindu che segue il percorso canonico di realizzazione spirituale. Tale stadio prevede, tra altre cose, la castità e lo studio dei Veda. Patañjali sostiene in II.38 che tale astinenza dona vigore;
  • Aparigraha: non avidità; moderazione; rinuncia;
In II.37 l'autore commenta affermando che la rinuncia a impossessarci di ciò che non è nostro fa sì che ci giungano ben altre ricchezze;[9]

2. Niyama: osservanze; discipline. Queste sono:

  • Śauca: pulizia; purezza;
L'autore fa esplicito riferimento alla pulizia del corpo;[18]
  • Saṅtoṣa: appagamento; contentezza; soddisfazione;
Saṅtoṣa è da intendesi come "sapersi accontentare";[9]
  • Tapas: autodisciplina; fervore mistico; ardore; ascetismo;
Il significato etimologico del termine tapas è "calore", e in senso figurato sta a indicare l'austerità religiosa.[19] Questo concetto risale già al vedismo, dove tapas era inteso come quel "calore" sviluppato internamente nell'impegno ascetico, un "calore magico" in grado di creare e dare la vita.[20] Nelle successive Upaniṣad il tapas è invece interpretato come il "fuoco interiore" che corrisponde e sostituisce il fuoco reale del sacrificio vedico (lo yajña): col tapas si compie adesso un sacrificio tutto intimo, è una interiorizzazione del rituale vedico nel quale a essere offerte sono le funzioni fisiologiche anziché le libagioni, prime fra tutte la respirazione.[21] Si intravede qui il quarto stadio dello Yoga di Patañjali, il prāṇāyāma, il controllo della respirazione, respirazione intesa come funzione corporea densa di significati cosmici.[22]
  • Svādhyāya: studio; applicazione;
Studio è qui da intendersi quello delle scritture sacre, la recitazione dei Veda;[9][23]
  • Īśvara praṇidhāna: abbandono al Signore;
Īśvara, il Signore, non è né un Dio creatore né un Dio che intervenga a giudicare o sostenere lo yogin nel suo percorso, sarà soltanto successivamente, con il diffondersi delle correnti devozionali, che la figura di Dio nello Yoga classico assumerà un ruolo più decisivo, all'insega dell devozione emotiva, la bhakti;[24]

3. Āsana: posizione fisica; postura;

Mentre yama e niyama sono norme da osservare quotidianamente e possono essere intese come necessario corollario al percorso yogico propriamente inteso, quest'ultimo comincia invece con l'āsana. Patañjali menziona il termine soltanto in II.46, parlando genericamente di una qualsiasi posizione che risulti stabile e dia soddisfazione, comodità. Lo storico delle religioni rumeno Mircea Eliade mette in evidenza che l'importanza dell'āsana sta nell'immobilità del corpo: si tratta di una "concentrazione" del corpo in un'unica postura, con similitudine a quanto poi si farà con la dhāraṇā, concentrazione del pensiero su un unico oggetto;[24]

4. Prāṇāyāma: controllo della respirazione e del flusso vitale;

Il termine è composto da prāṇa e āyāma, che sta per "allungamento", "espansione", mentre il primo è generalmente reso con "respiro vitale".[25] Patañjali prosegue distinguendo un prāṇāyāma che segue i tre movimenti del respiro (inspirazione, sospensione, espirazione, prolungati e delicati), e uno che li trascende, senza sforzo, non consapevole.[9] Il Prāṇāyāma sta alla respirazione come l'āsana sta al corpo: si "immobilizza" la respirazione nel senso di renderla regolare e controllata, cioè non instabile come è nell'ordinarietà.[24] È sottinteso in questo stadio il nesso fra respirazione e vita, fra respirazione e coscienza. Così Mircea Eliade:

«Ritmando la propria respirazione e rallentandola, lo yogin può "penetrare", cioè provare sperimentalmente e in piena lucidità, determinati stati di coscienza. [...] Il prāṇāyāma è, potremmo dire, una attenzione diretta sulla vita organica, una coscienza mediante l'azione, un ingresso calmo e lucido nell'essenza stessa della vita.»

Il significato di prāṇāyāma va dunque oltre il semplice ritmare la respirazione. Patañjali usa infatti un termine specifico, prāṇa[26], generalmente tradotto con "forza, energia vitale",[27] "respiro vitale", uno dei componenti del "corpo yogico" (o "corpo sottile"), quel corpo non fisico che lo yogin delle tradizioni tantriche immagina e ritiene quindi di avere coesistente col corpo grossolano. Nel corpo yogico il prāṇa svolge la funzione corrispondente a quella del respiro nel corpo fisico. Nella cultura vedica il prāṇa era il respiro dell'Uomo Cosmico, il Puruṣa.[27] Dunque il prāṇāyāma non è soltanto la regolazione della respirazione, quanto piuttosto la gestione del prāṇa.[28]

5. Pratyāhāra: ritrazione dei sensi dagli oggetti; astrazione dal mondo; isolamento sensoriale;

Pratyāhāra è il ritirarsi in sé stessi nel senso di distaccarsi dalla realtà esterna.[9] Tale ritrazione non deve essere intesa come isolamento nel senso di porre una barriera fra sé e il mondo, ma come un cambiamento di stato nella percezione: si passa da uno stadio in cui le funzioni sensoriali sono dominate dai rispettivi oggetti dei sensi, a uno stadio in cui i sensi ne sono affrancati per permettere una conoscenza altra, quella che deriva dalla propria coscienza (citta);[29]

6. Dhāraṇā: concentrazione;

La "concentrazione" è definita come «fissare la coscienza (citta) su qualcosa».[30] Il termine deriva dalla radice dhr-: "tener stretto".[24] Patañjali non specifica su cosa convenga fissare l'attenzione, egli usa il termine deśa: "punto", "regione", "posto, "parte";[31]

7. Dhyāna: meditazione; contemplazione profonda;

Il passo successivo è quello della "contemplazione", o "meditazione": quietata la coscienza con l'esercizio della concentrazione, si giunge a uno stadio nel quale pur essendo vigile la consapevolezza, quest'ultima è ininterrotta, stabile e profonda.[9] Il termine è spesso tradotto con "meditazione", ma non si tratta qui della meditazione comunemente intesa, né di una forma di rimuginazione interiore: il dhyāna è contraddistinto da uno stato di coerente lucidità;[24]

8. Samādhi: congiunzione con l'oggetto della meditazione; assorbimento della coscienza nel sé; enstasi;

Patañjali così definisce il samādhi:

«Quando l'oggetto della meditazione assorbe chi medita, e appare come soggetto, si perde la consapevolezza di se stessi. È il samādhi

Dunque nel samādhi la distinzione fra soggetto e oggetto si dissolve del tutto.[9] Lo yogin recupera così uno stato primordiale della coscienza, antecedente alla differenziazione fra soggetto e oggetti della conoscenza, sperimentando una beatitudine e una libertà assolutamente piene, quali è possibile attribuire soltanto all'Essere Supremo.[24]
Il filosofo distingue due momenti prima del compimento del percorso esposto:
  • Samprajñāta samādhi: samādhi con sostegno; samādhi consapevole;
Il termine, samprajñāta vuol letteralmente significare "con oggetto della consapevolezza".[2] Tale samādhi è caratterizzato da quattro componenti:[32] assorbimento nel pensiero analitico (vitarka), assorbimento nel pensiero sintetico (vicāra), sperimentazione della beatitudine (ānanda), coscienza dell'unità con sé stesso (asmitā);[9]
  • Asamprajñāta samādhi: samādhi senza sostegno; samādhi non cosciente.
Il termine non è invero usato da Patañjali[33] ma dai suoi commentatori: il filosofo lo definisce soltanto come un "andare verso la quiete" (virāma paratyaya), nel senso che le funzioni mentali, ancora attive nel samprajñāta samādhi, adesso sono in via di dissoluzione.[9]
Quando anche queste funzioni hanno terminato di esercitare del tutto la loro influenza, si è nel:
  • Nirbīja samādhi: samādhi senza seme;
Tale stadio è quello finale, il samādhi propriamente inteso, nel quale è abbandonata anche quella forma di percezione differente che lo yogin ha sperimentato precedentemente, iniziata col pratyāhāra e proseguita fino alle forme compiute di samādhi consapevoli, dette sabīja samādhi, cioè samādhi "con seme".[34] Nel percorso verso il samādhi la coscienza (il citta) si è prima liberata dall'influsso degli oggetti dei sensi, quindi ha sperimentato una percezione via via più profonda e pura, ma comunque influenzata dalle funzioni mentali, sia consapevoli[35] sia inconsapevoli[36], infine ha abbandonato anche questo influsso per sperimentare una nuova conoscenza[37]; dissolta[38] anche questa, la coscienza si è completamente liberata da tutto ciò che la rendeva preda di agitazioni[39].

Raja Yoga e Haṭha Yoga

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Spesso il Raja Yoga è contrapposto allo Haṭha Yoga, yoga descritto in testi molto più recenti[40] e basato principalmente su prāṇāyāma (il controllo della respirazione) e āsana (l'esercizio delle posture). Se dunque quest'ultimo può considerarsi una disciplina fisica basata su un approccio dinamico, il Raja Yoga è allora una disciplina mentale, all'insegna della staticità. Nello stesso Haṭhayoga Pradīpikā l'autore, Svātmārāma, afferma che lo Haṭha Yoga è disciplina preparatoria a forme spirituali più elevate.[3]

  1. ^ Lo storico delle religioni britannico Gavin Flood rende rāja con "migliore"; tuttavia il significato letterale del termine è "sovrano": cfr.: rAja, spokensanskrit.de.
  2. ^ a b c Flood 2006, pp. 131-132.
  3. ^ a b Feuerstein 2001, p. 291.
  4. ^ Dalla radice yuj-: "legare", "aggiogare", "unire".
  5. ^ Feuerstein 2001, pp. 415-416.
  6. ^ Eliade 2010, p. 23.
  7. ^ Darśana vuol letteralmente significare "punto di vista", "visione"; in senso lato quindi "dottrina", "modello".
  8. ^ Eliade 2010.
  9. ^ a b c d e f g h i j k Iyengar 2010.
  10. ^ Yoga Sūtra, II.2.
  11. ^ Sādhana è appunto traducibile con "mezzo", "strumento", "realizzazione", "cammino".
  12. ^ Nonché moderni divulgatori, non si sa con quanta competenza.
  13. ^ Iyengar 2010, pp. 118-119.
  14. ^ Vedi Izvara, spokensanskrit.de: "Dio", "Signore", "Essere supremo", eccetera.
  15. ^ Yoga Sūtra, I.23-26.
  16. ^ Fatta eccezione dei sūtra II.32 e II.45 ove però l'autore ribadisce il medesimo concetto già in I.23: l'abbandono al Signore (Īśvara praṇidhāna).
  17. ^ Vedi aGga, spokensanskrit.de.
  18. ^ Vedi II.40.
  19. ^ Vedi Monier-Williams Sanskrit-English Dictionary: T Archiviato il 6 agosto 2020 in Internet Archive..
  20. ^ Gli inni della Ṛgveda Saṃhitā, stante al testo, furono visti dai veggenti (i ṛṣi) perché prodotti dal loro stesso fervore mentre erano in contemplazione. Cfr. Roberto Calasso, L'ardore, Adelphi, 2010, p. 134.
  21. ^

    «Ecco ora la regola dell'autocontrollo come enunciata da Pratardana, il sacrificio del fuoco interiore, come è stato chiamato. Finché una persona parla, non può respirare. Perciò sacrifica il respiro alla parola. Inoltre, finché una persona respira, non può parlare. Perciò sacrifica la parola al respiro. Questi sono i due sacrifici infiniti, immortali: che si sia svegli o dormienti, si sacrifica in continuazione. Ora gli altri sacrifici hanno una fine, poiché essi sono fatti di opere. Conoscendo ciò, gli antichi non offrirono il sacrificio al fuoco.»

  22. ^ Eliade 2010, p. 113 e segg.
  23. ^ Vedi anche Monier-Williams Sanskrit-English Dictionary: S Archiviato il 7 maggio 2020 in Internet Archive.: repeating the Veda aloud: "ripetere gli inni dei Veda ad alta voce".
  24. ^ a b c d e f Eliade 2008, p. 67 e segg.
  25. ^ Vedi Monier-Williams Sanskrit-English Dictionary: P Archiviato il 7 maggio 2020 in Internet Archive..
  26. ^ "Respiro" corrisponde al termine śvāsa.
  27. ^ a b Feuerstein 2001, p. 274.
  28. ^ Così si esprime il mistico indiano Swami Vivekananda, esponente dell'Advaita Vedānta: «Il prāṇāyāma non è, come molti pensano, qualcosa che ha che fare con la respirazione, La respirazione è soltanto uno dei tanti metodi coi quali familiarizziamo col vero prāṇāyāma. Prāṇāyāma significa "controllo del prāṇa

    «Prânâyâma is not, as many think, something about breath; breath indeed has very little to do with it, if anything. Breathing is only one of the many exercises through which we get to the real Pranayama. Pranayama means the control of Prâna.»

  29. ^ Eliade 2010, pp. 76-77.
  30. ^ Vedi III.1.
  31. ^ Vedi Monier-Williams Sanskrit-English Dictionary: D Archiviato il 28 giugno 2020 in Internet Archive..
  32. ^ Yoga Sūtra, I.17.
  33. ^ Iyengar 2010, p. 84 e p.85.
  34. ^ Patañjali descrive vari aspetti o momenti del samādhi: i sabīja samādhi comprendono i samprajñāta samādhi più altri per i quali egli non adopera esplicitamente il termine samādhi.
  35. ^ Vitarka e vicāra, "pensiero analitico" e "pensiero sintetico".
  36. ^ Saṃskāra, "ricordi", cfr.: I.50.
  37. ^ Prajñābhyam, "conoscenza intuitiva": cfr. I.49.
  38. ^ Nirodhe, "sopprimere", cfr. I.51.
  39. ^ Vṛtti, "vortici", cfr.: I.2.
  40. ^ XV-XVII sec. circa.
  • Mircea Eliade, Lo Yoga. Immortalità e libertà, a cura di Furio Jesi, traduzione di Giorgio Pagliaro, BUR, 2010.
  • Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Vol. II, traduzione di Maria Anna Massimello e Giulio Schiavoni, BUR, 2008.
  • Georg Feuerstein, The Encyclopedia of Yoga and Tantra, Shambhala, 2001.
  • Gavin Flood, L'induismo, traduzione di Mimma Congedo, Einaudi, 2006.
  • B. K. S. Iyengar, Commento agli Yoga Sūtra di Patañjali, a cura di Gabriella Giubilaro, Giovanni Corbo, Agrippina Pakharukova, Edizioni Mediterranee, 2010.

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