LA FILOSOFIA DEL RINASCIMENTO
LA FILOSOFIA DEL RINASCIMENTO
LA FILOSOFIA DEL RINASCIMENTO
Definito da Machiavelli "secondo padre della platonica filosofia", egli riportò alla luce il pensiero e
l'opera di Platone grazie al sostegno di Cosimo de' Medici. L'interesse di Cosimo per la filosofia platonica
venne acceso da Giorgio Gemisto Pletone che nel De differentis contrapponeva all'autorità di Aristotele
un progetto di riforma della teologia all'insegna di platonismo e neoplatonismo. Egli delineò una
geologia che individuava in Zoroastro, antico profeta persiano, l'iniziatore di una religione filosofica
tramandata fino ai greci che troverebbe piena sistemazione in Platone. Questa genealogia sarebbe
depositaria di una prisca sapientia tramandata in forma esoterica affinchè potesse rilucere quando i
tempi fossero stati maturi portando ad un radicale rinnovamento della vita sociale. Influenzato dalla
rinascita del platonismo Ficino opererò sia come traduttore e critico dell'opera di Platone sia in veste di
autore di opere come il De Vita, vera e propria riscrittura del Simposio. Ficino era figlio di un medico,
sotto consilgio di Cosimo si dedicò allo studio del greco e operò da subito come traduttore: Corpus
Hermeticum e dieci dialoghi di Platone corredati di commento. Nel commento al Simposio e nel Libro
dell'amore egli rimeditò la filosofia di Platone alla luce del cristianesimo sostenendo che sarebbe Dio a
suscitare nell'animo umano l'amore che induce gli uomini a cercare di congiungersi con lui. Nella sua
opera egli distingue "Venere celeste" e "Venere volgare", queste corrispondono alle due potenze
dell'anima: quella che permette di conoscere e quella che consente di generare. Il desiderio di
contemplare e quello di riprodursi sono dunque forme d'amore distinte, entrambe oneste ma la prima
con dignità superiore. La contemplazione appartiene alla mente mentre la generazione al copro ed alla
materia, quest'ultima senza froma e tenebrosa come l'anima, è infatti dio ad infondere le forme nella
materia e ad illuminare l'anima con il desiderio di contemplare il bello, le forme caratterizzate da
equilibrio e grazia, e di tendere verso questo. Vista e udito sono sollecitati da suoni e immagini capaci di
indurre l'anima ad allontanarsi dalla materialità in direzione del bello, viceversa gli altri sensi. Bello e
buono sono associati e contrapposti e a brutto e turpe in una piena rispondenza tra estetica e morale.
Bellezza amore e diletto sono tre momenti di un unico movimento che inizia e si conclude in Dio. La
bellezza suscita il desiderio e attraverso esso conduce alla conoscenza. La realtà è dunque divisa tra un
piano superiore, accessibile con l'intelligenza e conoscibile con la mente, ed uno inferiore esprimibile
con i sensi. L'amore della Venere celeste ci spinge ad appagare il desiderio di amore e conoscenza che
conduce verso il divino, mentre quello della venere Volgare è anch'esso onesto perchè presiede alla
trasmissione della vita, questo amore è pero solo ombra del primo e non esisterebbe se Dio non avesse
introdotto la forma nella materia. Il desiderio suscitato dalla Venere volgare finirà poi per indurre ad un
amore che trascende la dimensione corporea. Ficino nega la consistenza ontologica del male e sostiene
invece la sua relatività: ciò che a noi ci appare come male è in realtà bene per Dio e i suoi scopi. La
tensione verso il divino non è mai appagata completamente a causa dell'insufficienza della materia
entro cui l'anima è imprigionata. Quest'ultima è definita da Ficino copula Mundi perchè capace di unire i
livelli diversi della realtà. Il percorso di ascesa viene scelto dagli esseri umani, che sono dotati di libero
aribitrio, spetta infatti agli uomini rispondere alle sollecitazioni divine elevandosi dai piani più bassi della
realtà. Nel Disputatio contra indicium astrologorum Ficino respinge ogni forma di determinismo astrale.
L'astrologia infatti, oltre a negare il libero arbitrio, attribuisce ai corpi celesti un potere che può essere
solo divino. Ficino venne anche ordinato sacerdote a dimostrazione della convergenza tra cristianesimo
e filosofia in cui egli credeva. Nella sua opera egli insiste anche sulla tesi dell'immortalità dell'anima:
quale senso avrebbe infatti la vita qual'ora fossero vani tutti i desideri, le ansie e le incombenze che
occupano la nostra mente e ostacolano la beatitudine ed il godimento che tutti ricerchiamo? In
Theologia Platonica de immortalitate animorum (1482) Ficino sostiene che l'uomo è il solo tra gli esseri
viventi a praticare la religione, l'unico ad anelare all'assoluto, proverebbe invano desiderio e speranza se
la sua anima fosse mortale. Dio ha fatto nascere il desiderio dando origine al sentimento religioso e ai
diversi culti che vestono un sentire comune a tutta l'umanità. Il primato tra le religioni spetta però al
cirstianesimo nel quale all'essere umano è attribuito un ruolo di medietas all'interno dell'ordine
naturale, questo poi è riuscito a diffondersi nonostante tutti gli ostacoli e i suoi principi coincidono con
quelli delle dottrine filosofiche che lo fronteggiarono: pia philosophia ovvero piena convergenza tra
teologia e filosofia, tra rivlezione e indagine razionale. Nel 1484 viene pubblicata la traduzione di tutti i
dialoghi platonici e più tardi saranno tradotti anche altri autori della tradizione quali Plotino, Porfirio e
Giamblico. Ficino crede infatti che la lettura diretta delle opere sia condizione necessaria all'esercizio
della filosofia, egli sostiene dunque l'importanza di un connubbio tra filologia e filosofia. Nel De Vita
Ficino torna sulle questioni astrologiche respingendo ogni forma di determinismo e però non negando
l'influenza degli astri sulla vita degli uomini: questi contribuiscono a porre le condizioni affinchè certi
accadimenti possano verificarsi. La sua medietas però permette all'uomo di conoscere le trame di forze
e di inserirsi consapevolmente in esse. Ciò fa il sapiente che conosce l'astrologia, egli agisce come un
bravo medico che sa quando è il momento opportuno per somministrare un farmaco. La realtà naturale
è dunque un sistema integrato di forze che costituiscono una trama di influenze reciproche. In definitiva
telogia, filosofia e medicina sono discipline intimamente legate e chi le eserctia accompagna gli uomini
verso ciò che è bene per loro, sia esso il bene dell'anima o del corpo.
Nato vicino Treviri da genitori benestanti. Si traferì a Padova per terminare gli studi in belle arti. Gli
interessi di Cusano erano però rivolti principlamente a filosofia e teologia. Nel 1432 viene ordinato
sacerdote e inviato al Concilio di Basilea, qui propose di concedere agli hussiti, seguaci del boemo Ian
Hus, la comunione così da comporre le tensioni e giungere ad una pace. In questa occasione scrive il De
concordantia catholica (1433) qui Cusano introduce i concetti di complicatio ed explicatio: complicata e
inconoscibile è l'unità, principio dal quale deriva e al quale tende il molteplice, la sua esplicazione. Alla
luce di questi princpi è analizzata la relazione tra la Chiesa, cattolica e universale, effige dell'unità divina
e l'umanità, plurale explixatio di quell'unità al quale deve essere ricondotta attraverso il consenso.
Potere papale ed imperiale trovano dunque il loro fondamento nel consenso dei sudditi. Il tema della
concordanza religiosa è ripreso nel De pace fidei, una delle opere più mature e scritta nel 1453 in
concomitanza con la caduta di Costantinopoli. Qui Cusano immagina che siano chiamati a discutere
dinnanzi l'Onnipotente diciassette sapienti tra cui i rappresentati delle tre religioni del Libro ed
esponenti di diverse tradizioni del sapere: greca, italica e indiana. Ciascuno di loro si ritrova a dialogare
con il Verbo, che è a un tempo intelletto divino e grazie alla cui forza gli è permesso riconoscere la
parzialità delle proprie conoscenze e di ricondurre a unità tutto ciò che gli appare diviso, contradditorio,
irrisolto e molteplice. Dio rimane nella sua essenza incomprensibile agli uomini e le diverse confessioni
altro non sono che congetture: tentativi approssimati di esprimere l'ineffabile verità divina, si tratta di
riflessi parziali dell'inesauribile alterità di Dio che abbracia e comprende il molteplice riconducendolo a
unità attraverso i nessi profondi che initimamente legano la realtà apparentemente divisa. In ciascuna
religione riluce un raggio dell'unica fede che anima tutti gli uomini verso la ricerca di Dio e il frutto di
questa fede non possono che essere il riconoscimento reciproco e la pace. Cusano affronta poi la
questione trinitaria, egli infatti reputa la Trinità espressione della struttura triadica della realtà che trova
in Cristo il centro mediatore tra uomo e natura: per suo tramite è infatti possibile all'uomo conoscere sè
stesso e intuire la profonda unità naturale a cui egli stesso è legato. Ciò legittima il primato del
cristianesimo sulle altre religioni. Di ritrono dal concilio di Basilea scrisse il De docta ignorantia (1440)
qui Cusano discute delle possibilità dell'umana conoscenza: la verità è inattingibile alla mente umana,
costretta ad apprendere riconducendo l'ignoto al noto tramite comparazioni e porporzioni. É impossibile
giungere a Dio, la verità, poichè è impossibile stabilire una proporzione tra finito e infinito. Non è
dunque la conoscenza che bisogna desiderare ma la dotta ignoranza e preso atto del carattere
congetturale del sapere umano bisogna spongersi in una ricerca esausta per formare congetture via via
più precise. Il massimo coincide con il minimo in virtù della coincidentia oppositorum: massimamente
grande e massimamente piccolo coincidono perchè entrmabi sono costituiscono il livello massimo di una
quantità, ciò li rende entrambi iconoscibili alla mente umana. Questi sono tra loro opposti ma
coincidenti nella superiore unità divina. Cusano distingue poi tra ragione e intelletto, la prima infatti si
esercità in virtù delle opposizioni che il secondo riesce intuitivamente a superare cogliendone la
coincidenza. La ragione permette di conoscere quel livello di realtà che è a essa possibile comprendere
innanzitutto facendo ricorso agli strumenti logici della matematica per giungere a una conoscenza vera
seppur imperfetta, l'intelletto è il lume della ragione grazie al quale l'uomo è elevato da Dio per suo
dono e invitato a rivolgersi a Lui, a cercarlo e a distogliersi dagli enti materiali. L'incarnazione pone Cristo
Dio al centro del processo di explicatio e individua l'umanità come punto medio della creazione poichè
in essa coincidono il grado minimo possibile delle intelligenze e il grado massimo delle crature animali.
Sul piano teologico il Padre rappresenta l'unità, il Figlio l'uguaglianza e lo Spirito Santo la connessione.
Quest'ultimo è concepito come ciò che spinge tutte le cose verso un'amorevole unità in modo che si
costruisca un solo universo. Ogni ente è dunque complicato perchè partecipa all'unità del tutto ed
esplicato perchè questa è articolata in opposizioni. L'universo è esplicazione dell'infinità di Dio che riceve
ed espirme nel tempo e in modo determinato, non in modo assoluto. É infinito nel senso di "senza fine"
e dunque imperfetto in quanto diminuzione di Dio che è immutabile, assoluto, finito in quanto atto (non
ha potenzialità inespresse), pienamente uno, uguale e connesso. Ciò che esiste è soggetto a mutamento
e non tutto è ugualemente possibile, ma solo ciò che può concretizzarsi effettivamente esiste. Dio invece
non ha possibilitè inesepresse. Il mutamento implica il movimento, anche la Terra, che non occupa il
centro dell'universo si muove, l'assenza di movimento coinciderebbe infatti con il minimo assoluto del
movimento che però è inconoscibile per mancanza di termini di proporzione e non può darsi sul piano
della explicatio. La mente umana lavora replicando quella divina e come il mondo reale ha origine da
quest'ultima così le congetture hanno origine dalla prima. Cusano nel De Deo abscondito distingue tra
cristiani, che onorano la verità assoluta e però inconoscibile, e gentili che trattano l'unità e dio come enti
dei quali è possibile formarsi un conceto e ai quali si possa attribuire un nome. Nel De filiatione Dei
(1445) Cusano afferma che anche la visione che l'anima ha di Dio dopo la morte è parziale e adeguata
alle capacità di ciscuno. Gli intelletti partecipano quindi della superiortè superiorità divina per quanto
possono. Tutti cercano l'Uno concependoli in modi diversi. Nel De idiota (1450) Cusano mette in scena
una discussione tra un uomo pieno di studi che ha ricavato il sapere dall'osservazione della natura con la
forza del proprio ingengo e un sapiente formatosi sui libri e confidente nel princpio di autorità.
Quest'ultimo è incapace di vedere come stanno le cose perchè il suo sguardo è velato dall'autorità.
Dunque idiota è in realtà colui che riesce davvero a comprendere quel tanto di verità attingibile agli
uomini. L'Idiota si compone di quattro libri, uno di questi è il De mente dove Cusano prova a conciliare
platonismo e aristotelismo sostenendo che la mente umana conosce attribeundo nomi a ciò che
esperisce e formando così concetti: nulla è nella ragione che prima non sia stato nel senso. Esistono poi
forme perfette che precedono, sul piano dell'essere, le forme sensibili. La mente non estrae
passivamente i concetti dalle esperienze sensibili, bensì crea le nozioni imitando l'azione creativa di Dio
e partecipando di essa. Anche i numeri, come i concetti, non corrispondono agli enti reali, ma sono
nozioni attraverso le quali elaboriamo congetture. Nel De posset (1460) Cusano discute la natura della
materia erroneamente assimilata ad un principio eterno ed increato che è condizione di possibilità
affinchè il mondo sia creato. Se così fosse la materia sarebbe in atto e dunque, come Dio, sarebbe tutto
ciò che può essere e non potrebbe divenire costituendo di fatto un principio altro e indipendente da Dio.
A tali equivoci conduce la mente umana che non può fare a meno di produrre qualcosa da qualcosa ed è
dunque indotta a ritenere che la materia preesista alla forma, ma la mente divina è onnipotente e non
ha necessità che qualcosa preceda la sua opera creatrice. Cusano muore a Todi nel 1464, per sua
volontà il suo Cuore è conservato nella cappella dello spizio di San Niccolò a Cusa dove nel 1440
concluse la stesura del De docta ignorantia.
Michel Eyquem nasce nel 1533 nella terra vicino Montaigne, dalla quale ha preso il nome con cui è
divenuto celebre. Da giovanissimo ebbe modo ci compiere i suoi primi studi affiancato da un precettore
che si esprimeva unicamente in latino, questa occasione gli permise di apprendere la lingua alla
perfezione. Studiò successivamente diritto e a ventunanni già venne impiegato come consigliere nel
parlamento di Bordeaux. I parlamenti francesi erano corti di giustizia nei quali erano discusse le cause in
ultimo appello e veniva vagliata la legittimità delle leggi. Com'erano tenuti fare tutti i magistrati giurò
fedeltà al cattolicesimo ed in questa fase, tra il 1558 ed il 1559 ebbe occasione di fare conoscenza con
Étienne de La Boètie. L'opera più nota di quest'ultimo è il Discorso sulla servitù volontaria. Qui La Boètie
identifica monarchia e tirannide, entrambe sono basate sul potere di uno sui molti, che nega la naturale
libertà degli esseri umani e si giova dell'obbedienza di chi gli è sottoposto. Solo se volontaria può però
esistere la servitù e nessun tiranno potrebbe dominare se nessuno eseguisse i suoi ordini. Il vero
fondamento della tirannide risiede in una cattiva educazione e in un'attitudine alla servitù percepita
come naturale. La tirannide prospera giovandosi dell'ignoranza della popolazione, gratificata e asservita
con spettacoli, feste e giochi. I tiranni godono della complicità di quanti, servendoli, ottengono vantaggi
e privilegi, piccoli tiranni a loro volta nei confornti di chi gli è sottoposto. Montaigne scrive di non aver
inserito tra i suoi Saggi il DIscorso di La Boètie perchè già stato pubblicato da quanti si proposero di
cambiare e turbare l'attuale regime senza preoccuparsi di migliorarlo. La prima pubblicazione di
Monatigne risale 1569: si tratta della traduzione francese della Theologia naturalis sive Liber
creaturarum di Rymond Sebond, il testo intende dimostrare la piena convergenza tra natura, ragione e
religione cattolica. A questo testo poi Montagine dedicherà forse il più celebre tra i suoi saggi: Apologia
di Raymond Sebond in cui il filosofo francese entra nel merito delle controversie religiose del suo tempo
spiegando come essere nati in altri luoghi ed educati in altro modo, avrebbe reso i cristiani europei
fedeli di un'altra religione ed è dunque irragionevole ogni tentativo di voler primeggiare sugli altri anche
con la violenza. Nonostante questa prospettive che vede l'appartenenza ad una religione come un
fattore culturale però Montaigne respinge decisamente l'ateismo definendolo una prospettiva contro
natura e quasi mostruosa. La ragione umana è infatti limitata, l'uomo poco conosce e ancor meno
controlla ciò che è decisivo per la sua vita, nonostante sia presuntuoso e quindi convinto del contrario.
Convinti di godere di un ruolo privilegiato nel creato, gli esseri umani non si rendono conto di quanto gli
animali possano superarli in merito a una felice condizione di vita. Il nostro sapere è limitato e incerto e
ben poca cosa se paragonato a quanto ignoriamo, Montaigne suggerisce dunque di attenersi alla virtù
dell'obbedienza, contrapposta all'attegiamento presuntuoso e orgoglioso di chi rifiuta di seguire la via
consueta perchè convinto di possedere quella verità che è invece inattingibile alle forze umane. É
impossibile trovare il fondamento inconcusso e permanente del nostro sapere, verità e inganni
penetrano in noi attraverso i sensi che sono "principio e fine della conoscenza umana". Dobbiamo
rivolgere lo sguardo al nostro modo di conoscere e di vivere per trovare quel tanto di felicità possibile,
senza seguire vane chimere ma sapendo cosa anima i nostri dubbi e le nostre inquietudini per
dimostrare quanto siano vani. É il caso del timore della morte: "noi stoltamente temiamo una specie di
morte, laddove ne abbiamo già passate e ne passiamo tante altre". Molte volte ha incontrato la morte
chi abbia vissuto a lungo: morto è il bambino, l'adolescente, il giovane e l'uomo maturo che è stato, non
c'è motivo di temere quanto già si dovrebbe conoscere. "Il giorno di ieri muore in quello di oggi", tutto
muta, si rinnova e cambia. Gli stessi argomenti ricorrono nel saggio Filosofare è imparare a morire in cui
Montagne specifica che insegnare agli uomini a morire insegnerebbe loro anche a vivere insistendo sulla
mutevolezza che regola la natura e che spinge a considerare la morte un cambiamento tra innumerevoli,
questa accompagna ogni giorno della nostra vita: durante la vita si è tutti morenti. La prima edizione dei
Saggi appare nel 1580, scritti in francese, questi innaugurano un nuovo genere letterario. Il titolo Essais
è infatti traducibile con "prove" e deriva dal verbo essayer che significa "provare", "saggiare". Montaigne
prende in esame alcuni temi morali senza però impegnarsi in un'analisi puntuale di dottrine religiose e
filosofiche, ma facendo rifericmento a episodi, personaggie vicende esemplari trae considerazioni,
osservazioni e riflessioni puramente soggettive. A essere descritto nei saggi, fin nelle minuzioe della
quotidianità non è solo l'indivduo Montaigne, ma anche quel sapere umanistico, irenistico e pacifista,
che era andato diffondendosi fino a connotare buona parte della vita culturale europa e che ora era
minacciato dalla barbarie caratteristica della seconda metà del XVI secolo. I riferimenti a personaggi ed
episodi hanno la funzione di lenti attraverso le quali mettere a fuoco una realtà che sfugge alla
comprensione. Più che lenti tali esempi finiscono per diventare specchi deformati che non permettono
di stabilire regole di carattere generale ma piuttosto moltiplicano le prospettive dalle quali esaminare le
cose. Al tema della consuetudine Montaigne dedica il saggio Della consuetudine e del non cambiar
facilmente una legge acquisita. Questo si apre con notazioni di carattere pedagogico in cui viene
raccomandato di estirpare fin dalla prima infanzia inganni e prepotenze in quanto segni di una tendenza
alla quale i piccoli non devono abituarsi, i giochi dei bimbi vanno infatti considerati come le loro azioni
più serie. La forza dell'abitudine è tale da far risultare ragionevole anche l'usanza più bizzarra e ci
convince che ciò che è abituale sia anche razionale, con la conseguenza qualsiasi rottura del corso
abituale delle cose viene considerata un fenomeno estraneo all'ordine razionale della realtà. Tanto è
forte il potere dell'abitudine che le popolazioni che sono riuscite a liberarsi da un tiranno correranno da
un nuovo sovrano e non cercheranno di istituire una repubblica. Imparare che ciò appare mostruoso agli
occhi degli altri può essere normale porta a relativizare le proprie convinzioni. Non pare esistere, per
Montaigne, alcun criterio per distinguere ciò che è proprio della natura da ciò che si è acquisito per
abitudine. La forza della consuetudine è tale che per far rispettare i percetti morali è sufficiente fare
appello all'uso e alla tradizione. L'uomo assennato deve essere moderato e dunque conformarsi all'uso
comune mantenendosi libero nell'intimo. Sono questi i tratti di un conservatorismo ispirato ad una cauta
prudenza: gli intenti rivoluzionari sono spregievoli per i loro effetti dannosi: è pericoloso alterare le
abitudini perchè non hanno alcun fondamento se non l'abitudine stessa. Bisogna assumere un
atteggiamento di sospensione del giudizio e conformarsi a quanto permette di vivere in pace. É la
moderazione la virtà alla quale bisogna attenersi, ancor più per quanto concerne le cose divine,
inattingibili gli uomini. Non mancano osservazioni di Monatigne circa il modo di esercizio del governo: a
proposito della spesa pubblica, biasima i sovrani che sperperano il denaro pubblico che dovrebbe invece
essere speso a vantaggio di chi è governato, il sovrano infatti non possiede nulla di proprio e deve anche
sè stesso agli altri. Anche il nuovo mondo è oggetto dei discorsi di Montaigne e viene descritto come un
mondo fanciullo il cui sviluppo naturale è stato interrotto dagli europei che hanno imposto ai nativi la
propria cultura. Egli non ritiene i nativi inferiori nè alle popolazioni classiche nè agli europei moderni e
ciò sarebbe attestato dalla magnificenza delle loro costruzioni. La conquista del nuovo mondo sarebbe
dovuta avvenire all'insegna di una fratellanza di spirito, accompagnando i popoli nuovi a imparare
quanto in Europa già si conosce. In seno a questo idbattito si aggiunsero poi varie voci: qulla di Tommaso
Campanella, che sosteneva la discendenza dei nativi di abramo e condannava dunque le modalità di
conquista messe in atto dagli europei che sarebbero così venuti meno alla loro missione provvidenziale,
quella di ricondurre ad unità il genere umano facendosi carico dell'educazione dei nativi. Giordano
Bruno non sostiene invece la loro discendenza da Adamo, egli li ritiene però figli di quell'unico principio
primo che tutto vivifica e perciò ugualemnte degni di rispetto, anche per lui gli europei avrebbero
dovuto indurre i nativi ad accoglierli volontariamente in virtù della loro superiore perfezione. Nel saggio
De cannibali, scritto sulla base di informazioni raccontate a Montaigne da un uomo di ritorno dal nuovo
mondo, gli abitanti del nuovo mondo vengono reputati tutt'altro che barbari, noi siamo infatti soliti a
considerare barbaro ciò che eusla dalla nostra consuetudine. Gli americani sono vicini alla natura, privi
di legge, commerci, alfabetizzazione, vivono in una sorta di condizione edenica. Sono anche
naturalmente buoni, dei virtuosi guerrieri ed anche il loro cibarsi dei nemici uccisi è visto da Montaigne
come inidice di questa virtù. Sono piuttosto gli europei in guerra tra loro e dedito alla conquista di nuove
terre a travestire di pietà religiosa la loro crudeltà. Persino la poligamia in uso tra i nativi offre a
Montaigne occasione per un radicale rovesciamento di prospettiva: il numero delle mogli è direttamente
proporzionale al valore del marito, così accadeva anche tra i patriarchi biblici.