ANTROPOLOGIA CULTURALE
ANTROPOLOGIA CULTURALE
ANTROPOLOGIA CULTURALE
L’antropologia culturale studia tutti i tipi di popolazione e molti aspetti della esperienza umana.
L’antropologia culturale studia la storia dell’area geografica della popolazione, l’ambiente,
l’organizzazione familiare, il linguaggio, le modalità di tipo religioso, le forme artistiche, i
sistemi legati alla oralità e alla scrittura, la cultura materiale, ecc.
Antropologia culturale
L’antropologia si interessa alla variabilità delle idee, delle usanze cosiddette “tradizionali” nelle
società presenti e passate.
L’antropologia si interroga sull’uomo e sulla sua essenza (antropologia filosofica).
Quando parliamo di antropologia abbiamo a che fare con una nozione ampia, perfino vaga,
generica.
LA CULTURA
E. B. Tylor (1871)
La cultura o civiltà, intesa nel suo etnografico più amplio, è quell’insieme complesso che
include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capità
e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società.
- Il genoma umano (i geni presenti nel DNA) non contiene le informazioni necessarie per
fare adottare all’uomo determinati comportamenti che sono indispensabili invece per far
fronte al mondo circondante.
- L’uomo nasce nudo. L’uomo nasce incompleto.
- Il nostro codice genetico ci predispone a compiere una serie di operazioni complesse ma
non ci indica QUALI operazione dobbiamo cogliere.
Fabbricare certe cose e non altre, unirsi sessualmente con certi individui, pregare certe entità
piuttosto che altre dipenda da cosa ci è stato insegnato dal gruppo in cui siamo cresciuti. Ciò che
il nostro gruppo sa e conosce il frutto di una lunga storia di relazioni con l’ambiente e di
profonde interrelazioni tra essere umani.
Interessa studiare tutto quanto può essere definito come vincolo, imposizione della cultura.
OLISMO, approccio olistico dal greco olos, tutto. L’antropologia studia non solamente tutti i
tipi di popolazione ma anche molti aspetti dell’esperienza umana. Un antropologo può prendere
in esame la storia dell’area geografica di una popolazione, il suo ambiente, l’organizzazione
della vita familiari, i caratteri generali della lingua, i modelli di insediamento del gruppo, il
sistema politico, economico, la religione, i costumi, le esperienze religiose e artistiche.
L’etnografia si riferisce all’attività di ricerca condotta mediante prolungati periodi di
permanenza a diretto contatto con l’oggetto di studio.
Si riferisce alla produzione testuale. Con questo termino si indica uno studio specifico su una
determinata popolazione.
L’etnografia ha visto la luce con l’antropologia considerata “moderla”; l’antropologia non è nata
come etnografia ma come ricerca “a tavolino”.
Si considera Bronislaw Malonowski colui che iniziò l’antropologia all’etnografia. In Argonauti
del Pacifico Occidentale (1922) parlò esplicitamente di “osservazione partecipante”.
In realtà già De Gérardo (1800) esponente di spicco della Societé des Observateurs de
l’Homme aveva caldamente spinto i “ricercatori sull’uomo” ad andare sul campo.
Indagine Etnografica
Non è solamente descrittiva ma di propone di gettare soluzioni ai quesiti relativi alle relazioni
tra gli aspetti economici e politici del gruppo, riguardo all’adattamento dello stile di vita e alle
condizioni ambientali.
Esempio del tic e dell’ammiccamento dell’antropologo americano Clifford Geertz.
Metodo
L’antropologia culturale ha stilato pochissimi manuali di metodo. Perché?
Intervista strutturata, semi-strutturata, libera.
Questionari.
Tabelle.
Registrazioni audiovisive.
Campionatura di esemplari.
Tempo.
L’osservazione partecipante
L’antropologo vivendo per periodi relativamente lunghi a contratto con i membri della comunità
che studia entra nel loro mondo. Comincia a capire gesti che prima non comprendeva, a cogliere
il significato di una battuta di spirito, a capire quando e dove si può parlare e in che modo.
L’antropologo impara a mangiare come loro e comincia a vedere il mondo dal loro punto di
vista e a capire come i suoi ospiti vedono se stessi nel proprio mondo. Comincia a “mettersi nei
loro panni”.
Impregnarsi
È come se l’antropologo si impregnasse dei modi di fare e dell’ambiente entro cui si trova a
vivere senza per questo trasformarsi in un membro della società che studia.
Distacco e partecipazione: osservazione partecipante.
“Fare Etnografia”
Nel lavoro di campo l’antropologo lavora con gli informatori. Persone del luogo che vengono
scelte per la loro capacità di spiegare, raccontare. Sono “cerniere” tra l’antropologo e le
popolazioni che l’antropologo studia. L’antropologo culturale osserva i rituali, determina i
termini usati per la parentela, traccia i confini geografici del territorio, censisce le famiglie.
Per fare etnografia:
- Scrivere un diario
- Prendere appunti attraverso le “note di campo”.
“Fare etnografia è come tentare di leggere un manoscritto, straniero, sbiadito, pieno di ellissi, di
incongruenze, di emendamenti sospetti e di commenti tendenziosi, ma scritto non in
convenzionali caratteri alfabetici, bensì in fugaci esempi di comportamento conforme” (Geertz).
Cosa fanno gli antropologi? Dove studiano? Con quali modalità e tecniche?
Gli antropologi si sono da sempre occupati dello studio dei popoli a loro contemporanei ma
geograficamente lontani. Oggi non è più così.
Gli antropologi hanno da sempre studiato quelli che definivano “popoli primitivi”, “popoli
selvaggi”, perché nel periodo evoluzionista rappresentavano le fasi “arcaiche” della storia del
genere umano.
A partire da questo tipo di “oggetto” di studio è nata l’antropologia.
La conoscenza dell’altro
- Come poter conoscere l’altro
- Come poterlo descrivere
- Come poterlo classificare
- Come poterlo controllare
- Dal punto di vista culturale, sociale, politico, linguistico.
Di questo inizia a occupare la nascente disciplina: l’antropologia.
“Il suo [della Société] proposito è soprattutto quello di raccogliere molti fatti, di estendere e
moltiplicare le osservazioni, lasciando da parte tute quelle vane teorie, tutte quelle speculazioni
arrischiate le quali non servirebbero che ad avviluppare di nuove tenebre uno studio già di per
sé tanto oscuro. Essa si propone di osservare l’uomo sotto i suoi diversi aspetti fisici,
intellettuali e morali, avendo cura tuttavia di contenersi entro i limiti determinati. Per esempio,
l’osservazione dell’uomo fisico abbraccia l’anatomia e la fisiologia, la medicina e l’igiene: ma a
questo proposito la società non perderà mai di vista che il suo scopo è di non approfondire
queste diverse scienze se non in ciò che riguarda la storia naturale dell’uomo propriamente
detta. Questa particolare prospettiva aprirà ad essa le ricerche più nuove e più importanti, e avrà
il vantaggio di tenere distinti i lavori di questa società da quelli delle società speciali di
medicina e chirurgia”.
Conoscenza
La conoscenza perseguita dalla Société vuole essere completa sia da un punto di vista spaziale
che temporale. L’uomo deve essere osservato ed analizzato, in termini di indagini “positive”, al
fine di trovarne le origini e di tesserne le fila storiche che si possono ricavare dalla
comparazione. La Société raccoglie l’eredità del comparativismo settecentesco, sistematizzando
metodologicamente la possibilità di connettere dati archeologici e dati etnografici. È attraverso
questo fondamento epistemologico che la comparaison si definisce come il metodo principale
dello studio dell’uomo. Non è piú sufficiente una storia congretturale, simile a quella teorizzata
da Rousseau nel secondo Discours: si ricercano prove fattuali ed empiriche attraverso una
classificazione che permetta di definire una linea temporale in cui i popoli extraeuropei sono
considerati i rappresnetanti delle “prime epoche della storia”.
Degli uomini
Si voleva descrive ciò che appariva strano, ciòi che in apparenza sembrava così diverso.
Si voleva comprendere che lingue parlavano questi uomini “selvaggi”. Perché non portavano i
vestiti? In che cosa credevano? Come educavano i loro figli? Erano in grado di farlo? Come si
organizzavano politicamente, socialmente?
Il fare etnologia, l’osservare partecipando
L’etno-antropologia inaugura la sua pratica e convalida le sue ipotesi teoriche tramite la vista.
Senza tecnica d’osservazione, senza strategia dell’occhio, senza prammatica della facoltà visiva,
l’altro non può comparire né divenire oggetto di conoscenza. La conoscenza antropologica e
tuto il secolo XVI (i viaggiatori, gli esploratori, i missionari) ne rende testimonianza ed è per
essenza, basata sulla vista.
JOSEPH-MARIE DE GÉRANDO
Nel ripercorrere l’evoluzione della metodologia etnografica, si è soliti partire dagli scritti di
Joseph-Marie de Gérardo, intellettuale francese e membro della Société des Observateurs de
l’Homme e che pubblicò nel 1799 le Considérations sur les diverses méthodes à suivre dans
l’observation des peuples sauvages. Il destino di questo testo fu singolare perché, preparato
come prontuario per il Capitano Baudin e la sua équipe di partenza per un viaggio di
esplorazione nelle terre australi (1800-1803), da loro fu pressoché ignorato. Secondo Jean
Copans e Jean Jamin (1994) questo manuale rimase dimenticato dall’Accademia francese
posteriore (né Mauss nel 1947 né Griaule nel 1957 ne fanno menzione nei loro manuali)
segnando profondamente il destino dell’antropologia francese, che dovette attendere parecchi
anni per contributi metodologici sostanziali.
Antropologia e potere
Può essere utile pensare a come l’antropologia anglosassone tra il 1870 e il 1900 rappresentasse
realmente uno strumento non solo per comprendere, ma sopratutto per controllare i popoli
‘altri’, un indice della situazione socio-politica ed un termometro per misurare la competizione
imperialistica. Gli intellettuali che si dedicarono alle prime indagini di tipo etnografico nelle
ultime decadi del XIX secolo e durante le prime del XX sono da pensarsi come vere e proprie
‘cerniere’ tra una disciplina non ancora formata e l’antropologia accademicamente istituita.
L’antropologia evoluzionista
L’Inghiltera della regina Vittoria può essere considerata la culla dell’evoluzionismo e
dell’antropologia cosiddetta “moderna”. Durante questo periodo la Gran Bretagna si impadronì
dell’intera India, estese il proprio controllo su gran parte dell’Africa e disseminò le proprie
rappresentanze diplomatiche e stazioni commerciali in Medio Oriente, nel Sudest asiatico e
nell’America meridionale. L’Australia, la Nuova Zelanda, e gran parte dell’Oceania erano sotto
la corona britannica, mentre la sua forza militare le consentiva di fronteggiare l’espansionismo
della Russia zarista in Asia centrale e di dettare ordini all’impero cinese.
L’antropologia che si sviluppò nell’Inguilterra vittoriana era una “scienza ottimista”, Essa fu
chiamata la “scienza del riformatore” proprio ad indicare l’idea che l’antropologo con il suo
sapere, poteva fornire un contributo utile ad una umanità bisognosa di riforme sul piano sociale,
politico e cultura. Chi definiì l’antropologia “scienza del riformatore” fu Edward Burnett Tylor
considerati uno dei fondatori della disciplina.
Tylor e l’evoluzionismo
L’evoluzionismo unilineare si riteneva che vi fosse una linea di evoluzione dominante. Tutte le
società, secondo questa concezione dovevano passare attraverso stadi, gli stessi stadi. Poiché le
società progrediscono a velocità diverse, quelle che sono più lente rimarranno ad un livello
“inferiore” rispetto a quelle che progrediscono in maniera più rapida. Tutto questo porta
chiedersi che cosa significhi evolversi e progredire.
L’evoluzionismo
Le sopravvivenze: “Nonostante la progressiva affermazione del pensiero razionale le credenze e
i riti dei popoli superiori mostravano la sopravvivenza del vecchio nel cuore del nuovo. Le
modificazioni del vecchio per adattarsi al nuovo”. L’antropologia evoluzionista lavora su un
importante assunto, quello delle sopravvivenze.
Le sopravvivenze
“Quando con il tempo si è venuto a creare un cambiamento generale delle condizioni di vita di
un popolo, è comunque facile trovare molte cose che chiaramente non hanno la loro origine nel
nuovo stato di cose ma che sono semplicemente mantenute all’interno di esso. In forza di queste
sopravvivenze è possibile sostenere che quella cultura all’interno della quale esse possono
essere osservate deve essere derivata da uno stato culturale precedente in cui deve essere
rintracciato l’autentico luogo e l’autentico significa; di conseguenza questa serie di fatti deve
essere considerata come una vera e propria maniera per l’indagine storica” (Tylor).
La sopravvivenza era per esempio una credenza, una idea, una pratica, il cui significato era
perito per secoli, ma che poteva tuttavia continuare a sopravvivere “semplicemente perché era
esistito in precedenza”. La sopravvivenza era un fossile sociale, “una maniera per l’indagine
storica”. Risalire alla sopravvivenza voleva dire potere risalire all’epoca in cui quell’idea o
quella pratica (oggi sopravvissuta) aveva un significato e quindi significava potere comprendere
lo stadio di sviluppo culturale precedente a quello attuale.
Il metodo comparativo
Le culture e le società che l’Occidente incontrava sul proprio cammino erano delle realtà che
potevano e dovevano essere ridotte al senso di una storia coincidente con lo sviluppo
cumulativo della cultura del quale l’Occidente rappresentava il culmine. Proprio in quanto
esemplificazione di stadi della storia umana, queste culture e queste società primitive erano
sempre per l’antropologia, delle realtà a tutti gli effetti. Non erano semplici efflorescenze. Per
gli evoluzionisti l’antropologia si configurò come un “viaggio mentale” attraverso le culture.
Lo scopo era quello di tracciare tendenze, stadi, sequenze di sviluppo delle istituzioni e delle
idee che avevano caratterizzato la storia della cultura. Bisognava “attraversare” le culture altre.
La centralità della comparazione puo essere esplicita o implicita, enfatizzata o sfumata,
declinata in senso geografico o tipologico. Essa resta comunque la condizioni stessa del sapere
antropologico.
Nel 1861 pubblica “Das Mutterecht”, tradotto in modo improprio con l’espressione il
Matriarcato. L’opera aveva come sottotitolo, Ricerca sulla Ginecocrazia del mondo antico nei
suoi aspetti religiosi e giuridici. Bachofen sosteneva nella sua opera l’ipotesi, accreditata anche
dai suoi contemporanei McLennan e Morgan (entrambi antropologi con una formazione da
giuristi), di una originaria promiscuità sessuale e dunque di una priorità logica nel
riconoscimento della maternità. Il Matriarcato, dunque, indicava la fase successiva alla
promiscuità; il fatto che le matri venissero considerate le uniche genitrici avrebbe determinato
non solo l’organizzazione matrilineare ma anche la ginecocrazia.
Le tesi di Bachofen, che incontrarono l’approvazione di moltissimi marxisti, tra cui i primis
Engels, di fatto confondevano discendenza e gestione del potere e hanno generato proprio per
questo motivo molti equivoci. Per molto tempo si è continuato a confondere e ad usare in modo
indifferenziato matriarcato e matrilinearità, situazione quest’ultima in cui, seppure la
discendenza è femminile, il potere resta comunque maschile.
Se oggi è molto chiaro quanto il matriarcato non sia mai esistito è però interessante osservare,
come bene mette in evidenza Furio Jesi nella prefazione all’edizione italiana del 1981,
l’attitudine di Bachofen nei confronti del mito e del simbolo. Bachofen è in questo senso
scopritore e studioso attento dei miti sul matriarcato, miti che caratterizzano la cultura europea
ed extra-europea.
Ed è proprio su questo che credo valga la pena riflettere; Bachofen lavora sui miti e il mito per
lui non è tanto importante per la sua esistenza: non tanto per ciò che è quanto per la funzione
che svolge. Il mito per Bachofen “serve”, assolve a precisa necessità, è una rappresentazione
sociale, politica, economica. Il testo di Bachofen è rimasto per lungo tempo “un geroglifico”,
così ci dice Furio Jesu riprendendo una espressione dell’autore; testo illeggibile, le stesse fonti
utilizzate dall’autore non sono facilmente classificabili. Resta certo però che l’etnologo svizzero
lesse Joseph François Lafitau un missionario gesuita che pubblicò nel 17245 un’opera da molti
considerata un vero e proprio studio etnografico, Moeurs des sauvages Amériquains comparés
aux moeurs des premiers temps.
Henry Lewis Morgan, nacque ad Aurora, in una riserva Indiana dello Stato di New York nel
1818. Come molti antropologi vittoriani, aveva avuto una formazione giuridica. Fu avvocato per
un certo periodo ma poi divenne consigliere giuridico di una compagnia ferroviaria. Fece parte
di una società segreta chiamata Gordian Knot che, nata sulla base di un interesse sulla Grecia
classica, si trasformò nel “Gran Order of the Iroquois”. Tra il 1859 e il 1862 compì numerosi
viaggi nel Kansas e nel Nebraska. Nel 1879 fu nominato presidente dell’American Association
for the Advancement of Science. Tra le sue opere principali, System of Consanguinity and
Affinity of the Human Family (1870); The Ancient Society (1877).
Secondo l’opinione di Pearce, fu proprio l’opera di Morgan, The League of the Ho-de’-no-sau-
nee, Iroquois (1851), a segnare una cesura netta nella percezione dell’universo indiano. Con la
sua pubblicazione del 1851, l’America iniziava una ricerca ed una preservazione sistematica e
metodica di tutto ciò che riguardava gli indiani nel Nord America.
Irochesi
Al tempo dei primi arrivi dei coloni europei, avvenuti nella prima metà del XVII secolo circa, il
territorio irochese comprendeva parte dell’attuale sud del Canada e parte del nordest degli Stati
Uniti. Questo territorio, che si estendeva in lunghezza per circa cinquecento chilometri dalla
valle del Mohawk a est fin quasi alle cascate del Niagara a ovest, rappresentava simbolicamente
una “lunga casa” invisibile, che a sua volta si rifaceva alla tipica abitazione irochese consistente
in una costruzione di legno la cui lunghezza poteva raggiungere fino i sessanta metri ed era in
grado di ospitare diverse famiglie.
Gli indiani che andavano “protetti”
L’idea del “savagism” sembrava andare via via svanendo, perché gli stessi indiani stavano
scomparendo rapidamente; essi divennero creature da proteggere, da studiare e da cristallizzare;
l’Indiano era ora il beniamino delle agenzie filantropiche, prezioso campione per le ricerche
etnologiche e protagonista di romanzi dozzinali; ma l’Indiano, come mostreranno proprio le
ricerche di alcuni antropologi, divennero anche validi collaboratori sul campo, scrittori di testi –
antropologoci e non – personaggi chiave nella evoluzione del pensiero antropologico.
Morgan, in questo senso, fu realmente il primo antropologo che compì una descrizione
sistematica dell’organizzazione sociale e culturale di una specifica popolazione, gli Irochesi. In
Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family (1871) egli descrisse le società
indiane attraverso due nozioni fondamentali ed apparentemente inconciliabili, quella di
“sistema” e quella di “progresso”. Morgan elaborò il concetto di “plan”, inteso come progetto,
disegno, schema; una concezione che era ben radicata negli Stati Uniti, luogo in cui la
costruzione dello Stato era stata programmata con cura, disegnata ad hoc, progettata nel
dettaglio.
Antropologia evoluzionista
Negli antropoloci evoluzionisti rimase infatti una specie di schizofrenia professionale, forse
voluta dagli stessi studiosi che ebbero esperienze dirette di osservazione sul campo. Questo
atteggiamento può stupire se considerato in relazione ad una temperie culturale così “positiva”,
così fiduciosa nella dimensiose empirico-applicativa della conoscenza e dei princìpi
dell’osservazione quale fu appunto l’evoluzionismo ottocentesco.
Opere di Morgan
- La lega deli Irochesi (1851)
- Sistemi di consanguineità e affinità della Famiglia umana (1871)
- La Società antica (1877)
I Musei
Anche i musei erano istituzioni che avrebbero potuto incrementare la potenza e l’unione della
nazione americana; gli americani avevano come esemplare modello quel “tempio nazionale ed
imperiale” che era il British Museum, fondato nel 1759. Il museo antropologico, così come si
sviluppò nella seconda metà del secolo XIX, portava con sé alcuni presupposti fondamentali:
l’ordine, la classificazione ed il comparativismo; l’esposizione dell’inferiorità degli altri e l’idea
che attraverso la cultura materiale, “the work of their hands” si sarebbe potuta ricostruire la
storia intellettuale di un popolo.
Quando Otis Mason prese le redini della sezione antropologica del National Museum,
l’antropologia si esponeva come una ‘scienza’ profondamente vincolata alle istituzioni, capace
di classificare ed ordinare; non si presentava come una disciplina esplorativa ed aperta, ma
determinata a contenere e cristallizzare l’alterità. Mason, che aveva avuto una formazione
storico-filosofica, mantenne la classificazione come metodologia portante del museo;
pazientemente cercava analogie e distinzioni tra i diversi oggetti.
Colui che tentò di fare ordine in tale marasma metodologico e disciplinare fu certamente Franz
Boas. Il fare ordine, come vedremo, lo portò a prendere posizioni abbastanza nette riguardo tali
tipologie narrative, ma certamente aprì il cammino per un loro utilizzo più oculato.
Boas era nato a Minden nella Vestfalia nel 1858, da una famiglia di ebrei tedeschi. Il clima
intellettuale della Germania della metà del secolo XIX era peculiare. Boas venne nutrito, ma
soprattutto si fece nutrire da tale atmosfera; di essa recepì ogni sfumatura, cogliendone la
ricchezza umanistica in tutte le sue possibili declinazioni. Come sottolinea Alexander Lesser nel
suo prezioso ritratto biografico, Boas, sin dai primi anni di vita e poi negli anni del ginnasio,
ebbe una solida educazione alle scienze naturali che lo formarono come ricercatore attento alle
molteplici implicazioni bio-etiche dell’antropologia.
La formazione di Boas fu contrassegnata dalla presenza di personaggi con competenze
scientifiche tra loro profondamente diverse: Adolf Bastian (1826-1905) e Rudolf Virchow
(1821-1902), rispettivamente l’etnologo ed il patologo più conosciuti in Germania, furono
compagni con i quali egli condivise anni di studio e ricerca. Di Virchow in particolare Boas ci
lascia una testimonianza esemplificativa per potere comprendere il suo più grande cruccio
scientifico: trovare una sorta di ‘compromesso conoscitivo’ tra le leggi generali della fisica e le
descrizioni dei fenomeni individuali propri delle scienze storiche.
Boas e il suo maestro, Rudolph Virchow
Boas conobbe Virchow nell’inverno del 1882 in un incontro tenutosi alla Berlin
Anthropological Society; come Boas, Virchow era “metodologicamente conservatore,
istituzionalmente attivo e politicamente liberale”; Virchow, come Boas, trovava la sua ragione
per la ricerca ed una costante vocazione per lo studio perché a guidarlo era “the ice-cold flame
of the passion for seeking the truth for truth’s sake” (Boas, 1945). Ciò che accomuna i diversi
ritratti biografici dell’antropologo tedesco è proprio la volontà di ricordare un uomo ed un
intellettuale che, nonostante il suo carisma e l’effettiva rivoluzione sul metodo e sui principi
della conoscenza antropologica, mai tentò “di rendere commestibile la verità” (Lowie, 1966).
Una volta preso il dottorato, Boas compì il suo primo viaggio di ricerca nelle terre artiche di
Baffin; siamo negli anni 1833-1884. Questo viaggio, che ebbe la durata di quindici mesi, fu per
Boas la sua iniziazione al campo, ai problemi etici e metodologici che tale esperienza
comportava e, anche se ancora gli obiettivi non erano propriamente antropologici, dai suoi
resoconti possiamo facilmente intuire quali saranno i suoi futuri interessi: la cultura materiale, i
miti, l’ecologia del territorio, la linguistica. Ciò che colpisce da questa prima esperienza è la sua
propensione al lavoro sul campo, la sua attenzione alla vita quotidiana, al corso delle stagioni.
Boas visse nei villaggi Eskimo e con gli abitanti del territorio condivise il cammino, costruì le
case, con loro viaggiò sulla slitta anche quando il ghiaccio era disagevole e la neve morbida e
profonda ostruiva il cammino; ne conobbe l’ospitalità quando il suo aiutante si congelò i piedi;
con loro condivise i pasti ed iniziò a comprendere la vita spirituale: il giovane Boas era stato
iniziato all’antropologia.
Fu in questi anni che cominciò a maturare l’idea di lasciare la Germania, anche se
concretamente la sua immigrazione avvenne nel 1887.
Isola di Baffin
L’Isola di Baffin, detta anche Terra di Baffin, appartenente al Territorio canadese del Nunavut, è
la maggior isola dell’Arcipelago artico canadese, e la quinta maggiore isola per estensione nel
mondo.
A nord-est è separata dalla Groenlandia dalla baia di Baffin e dallo stretto di Davis. A sud lo
stretto di Hudson la separa dalla penisola di Ungava del Labrador. A ovest il canale di Foxe la
separa dall’isola di Southampton. A ovest si affaccia sul bacino di Foxe che con lo stretto di
Fury e Hecla la separano dalla peninsola di Melville. A ovest si affaccia sul golfo di Boothia e
sul Prince Regent Inlet. A nord si affaccia sul Lancaster Sound che la separa dell’isola di Devon.
L’sola è montuosa ed è in gran parte ricoperta di ghiacci. Nella parte meridionale dell’isola
scorre il fiume Soper.
L’isola è attraversata dalla Cordigliera Artica, la principale catena montuosa delle terre
settentrionali del Canada.
Il diario epistolare
Oltre 480 pagine redatte in tedesco. Boas immaginò di continuare a comunicare con la fidanzata
a cui indirizzò lettere con non spedì mai. Il diario era un modo per poi “ricordare” la sua
esperienza.
Produsse mappe originali con oltre 900 toponimi indigeni, un accurato censimento, raccolse
oggetti, vocaboli, reperti geologici e botanici e finanche zoologici.
La missione boasiana
Produsse esiti scientifici considerevoli: redazioni di mappe originali che contenevano oltre 900
toponimi indigeni, stesura di un accurato censimento della popolazione, raccolta di oggetti
etnografici, vocaboli, reperti geologici, botanici e finanche zoologici.
Partito come studioso solitario, Boas aveva fatto ritorno indossando gli abiti dell’eroe scientifico
che aveva inaugurato un modello inedito nel campo delle esplorazioni scientifiche basato
sull’indagine, non di équipe, ma ravvicinata e prolngata in un’area circonscritta territorialmente.
Boas, 1884
Se un europeo, viaggiando in slitta, entra in un igloo eschimese, da lui ci si attende che lasci ai
padroni di casa caffè e pane. D’altra parte, gli eschimesi devono fornire tutta la carne, mentre le
donne devono mantenere i vestiti dei nuovi arrivati in ordine. Gli eschimesi sono di per sé
ospitali, tuttavia si attendono di ricevere qualcosa dagli europei. Essi sono disposti a condividere
volentieri la loro casa, il loro cibo con un estraneo che non sia in grado di dare nulla, e
addirittura rifiutano di prendere tutto ciò che viene offerto loro se pensano che l’ospite non ne
abbia per sé.
Frustrazione
Il tempo che scorre, la vita quotidiana, l’impazienza nel voler raggiungere i risultati sperati. Il
tempo che scorre e che manca, l’angoscia di vedersi sfuggire di mano il controllo della ricerca si
accompagnano a momento di esaltazione e di momenti di euforia.
Tra il 1885-86, Boas fu assistente di Bastian a Berlino, al Royal Ethnological Museum; in questi
anni comprende l’importanza della raccolta degli oggetti e delle opere d’arte; intuì e fece
propria l’impostazione che Adolf Bastian e Theodor Waitz davano a tali collezioni: era
necessario raccogliere quanti più oggetti possibili per potere testimoniare il ciclo di vita di tutte
quelle popolazioni che velocemente venivano coinvolte nei processi di acculturazione. Ogni
Volk, ogni popolo, possedeva peculiarità culturali, che quotidianamente venivano minacciate
dall’espansione coloniale: il compito del ricercatore era proprio quello di comprendere la
singolare peculiarità di ogni manufatto, di quel manufatto che poteva essere stato pensato e
costruito prima del fatale incontro con la cultura occidentale.
Da questa prima e giovanile esperienza Boas maturò un’attitudine tutta particolare nei confronti
della “memoria culturale”: ciò che doveva essere conservato nei musei erano tutte quelle
situazioni culturali che potevano testimoniare la cultura prima del contatto con gli Europei.
Certamente Boas era consapevole dei delicati e profondi processi di acculturazione che queste
popolazioni stavano attraversando, ma lasciò negli interstizi delle lettere ai familiari la
testimonianza del contatto, del cambiamento, della metamorfosi.
Fu nel 1885 che Boas conobbe un gruppo di Bella Coola, nativi della costa nord-occidentale
canadese; erano giunti a Berlino per una esposizione etnografica organizzata dall’esploratore ed
etnologo Johannan Adrian Jacobsen.
La British Columbia fu il luogo dove Boas tornò moltissime altre volte; fu il ‘suo campò e fu
qui, proprio nel 1887, che per la prima volta assistette alla ceremonia di scambio e distribuzione
conosciuta con il nome di potlatch, stabilitosi definitivamente negli Stati Uniti, tra il 1887 e il
1894, condusse numerosi soggiorni sul campo che furono finanziati sia dal BAE che dalla
British Associtaion for the Advancement of Science. La prima occupazione di Boas negli Stati
Uniti fu quella di assistente editore alla rivista Science dove lavorò prevalentemente su fonti di
carattere geografico; questi furono anche gli anni della riorganizzazione dell’American
Ethnological Society che era stata fondata nel 1842 da Albert Gallatin, dell’istituzionalizzazione
dell’American Folk-Lore Society (1888) ed in cui l’American Anthropological Association
(1889) venne completamente riorganizzata. Iniziò presto la sua vita accademica in territorio
americano; dal 1889 al 1892 insegnò presso il Dipartimento di Psicologia della Clarck
University.
Nel 1895 fu curatore del Museum of Natural History e nel 1896 ebbe il suo primo insegnamento
(antropologia fisica) alla Columbia University, istituzione che lasciò solo poco prima da morire.
Quando Boas giunse negli Stati Uniti molti erano i cambiamenti che stavano investendo
l’antropologia americana; Boas contribuì in maniera decisiva a rendere tali trasformazioni
durature. Le sue critiche furono rivolte agli eccesi e alle generalizzazioni evoluzioniste ma,
nonostante questo, Boas si pose sempre in una linea di continuità e non di sterile competizione
con l’antropologia e gli antropologi che l’avevano preceduto.
Il lavoro di Boas
Come sottolinea Melville J.Herskovits (1953), la Jesup Expedition proprio per la sua
impostazione metodologica, influenzò profondamente il pensiero antropologico successivo e
rese esplicita la necessità del lavoro di campo: erano questi gli anni in cui anche in Europa le
medesime esigenze emergevano fra coloro che facevano ricerche allo Stretto di Torres.
L’impegno di Boas come teorico in cerca di risposte concrete sul campo continuò sino alla sua
morte, nel 1942; la sua ultima spedizione tra i Kwakiutl avvenne nell’inverno del 1930, quando
aveva compiuto settantadue anni.
Il contributo di Boas rispetto alla istituzionalizzazione dell’antropologia fu profondo come il
suo impegno concreto sul campo. L’antropologia che da Boas in poi venne insegnata nelle
accademie statunitensi era il risultato di quattro sub-discipline: l’antropologia fisica,
l’archeologia, l’etnologia e la linguistica; questo modello e programma di studi antropologici
attraversò le diverse istituzioni accademiche americane in cui lavorarono i primi suoi allievi,
Alfred Kroeber a Berkeley, Frank Speak all’Università della Pennsylvania, George Amos
Dorsey e Fay-Cooper a Chicago, Edward Sapir ad Ottawa.
L’critica all’evoluzionismo
Il lavoro di Boas
Boas, infatti, non si diede pena di completare e redigere una summa o un’analisi del materiale
raccolto e nessuno dei suoi allievi si prese la responsabilità di ordinare e sistematizzare tale
mole di dati; come evidenzia Codere, vi fu una sorta di “unscholarly dipping” (1966, XIX) che
ha reso oggi ancora più complessa l’interpretazione di questi materiali etnografici. Vero è che
Boas, oltre a raccogliere quello che lui stesso chiamava “raw material”, scrisse “oltre ad una
mezza dozzina di libri e pubblicò più di 700 articoli”. Arnold Krupat, nella difficoltà di
rinvenire un filo rosso nel pensiero dell’antropologo tedesco, individua una figura retorica
esemplificativa per descrivere l’intero assunto boasiano: è nel tropo della “catacresi” che egli
trova un modo per descrivere l’intero percorso scientifico di Franz Boas.
Il metodo di Boas
Boas non scrisse un testo sistematico riguardo al metodo, ma prima con il suo articolo del 1895,
The Limitations of the Comparative Method of Anthropology e poi con il suo saggio sul metodo
del 1920, The Method of Ethnology, si espresse senza ambiguità rispetto a quale fosse la sua
posizione teorico-metodologica: l’oggetto dell’investigazione etno-antropologica consisteva nel
cercare i processi che avevano generato determinati stadi dello sviluppo culturale. I costumi e le
credenze non erano l’obiettivo ultimo della ricerca: era necessario comprenderne la loro
formazione, conoscerne la storia del loro sviluppo.
Solo uno studio dettagliato dei costumi e delle credenze, in relazione con la totalità della cultura
ed in connessione con la loro distribuzione geografica fra le tribù vicine, poteva portare ad un
risultato ottimale rispetto alla conoscenza delle cause storiche di un determinato costume e dei
processi psicologici determinati. Ma questa operazione poteva ottenere risultati soddisfacenti
solo se compiuta su un’area geografica ben determinata e definita e applicando una
comparazione limitata e non a vasto raggio.
I dati di Boas
Dati grezzi, non trattati, non rielaborati, trasmessi dal testimone e non ritoccati da alcuno. Erano
solamente tali tipologie di fonti che avrebbero potuto permettere una soluzione, per lo meno
formale, al complicato problema della classificazione. Per Boas, infatti, il dilemma più profondo
non era tanto cosa raccogliere sul campo; egli riteneva necessaria una riflessione preliminare
sulle modalità con cui tale operazione di accumulo di fatti veniva compiuta; il problema più
serio per l’antropologo risiedeva nel metodo con cui i fatti venivano raccolti e quindi piu
classificati e trasformati in dati. Egli aveva compreso che non solo non esistevano
classificazioni di tipo universale, ma erano profondamente distinte le tassonomie da cultura a
cultura; molte classificazioni potevano essere non consapevoli, inconsce ed anche per questo era
certamente consigliabile raccogliere fatti di prima mano, di “prima fonte”.
Il Potlatch
Tra il 1894 e il 1895 Boas lavorò con gli indiani Kwakiutl nella costa Nord Occidentale del
Pacifico. Frutto di tale ricerca è l’opera intitolata L’organizzazione sociale e le società segrete
tra gli indiani Kwakiutl (1897). Potlatch è il nome che viene comunemente assegnato ad un
insieme di pratiche rituali diffuse tra le popolazioni indiani stanziate sulla Costa della Columbia
Britannica e sull’isola di Vancouver. Si trattava di rituali di ostentazione che prevedevano la
distribuzione di grandi quantità di beni considerati di prestigio.
Attraverso il potlatch individui dello stesso status sociale si sfidavano in una gara distruttiva allo
scopo di affermare pubblicamente il proprio rango e di abbassare quello di qualche rivale o di
riacquistarlo nel caso si fosse perduto. Oggni si tende a considerare il potlatch come un
meccanismo attraverso il quale venivano sottratti dal processo produttivo bene che, se immessi
nuovamente, avrebbero provocato una alterazione del sistema e introdotto elementi perturbatori
nelle dinamiche di potere.
Per i Kwakitl il potlatch costituiva una pratica rituale per mezzo della quale il sistema non
veniva alterato. Boas descrisse il potlatch in termini di investimento, ventida, interessi, capitale
e lo interpretò come una pratica connessa all’acquisto del prestigio che poteva derivare ad un
individuo per il fatto di avere distribuito o distrutto più beni dei suoi rivali e di averlo superato
“in generosità”.
Le attenzioni di Boas
E ancora, la concezione della cultura come processo storico in equilibrio costante tra tradizione
e innovazione ed in cui la popolazione nativa non era da considerarsi come mero “oggetto” di
studio. L’antropologia americana matrice boasina fece di molti testimoni linguisti ed antropologi
preparati; infine, gli antropologi, soprattutto gli allievi diretti di Boas, si presero tutto il tempo
che reputarono necessario per le loro ricerche di campo; molti di loro lavorarono con le
medesime popolazioni per venti, anche venticinque anni.
Boas e la psicologia
Per Boas il compito dell’etnologia, quello fondamentale, era quello di determinare i processi
psicologici che operavano nello sviluppo dei fenomeni culturali.
Le dinamiche della vita culturale per Boas possono essere colte sulla base delle reazioni
dell’individuo nei confronti della cultura nella quale vive e dell’influenza sulla società.
I processi psicologici
Per Boas i processi ossia la rappresentazione che gli agenti di una data cultura si facevano della
propria esistenza sociale divenivano “la realtà oggettiva”, ultima, della vita sociale stessa per cui
il criterio che permetteva di qualificare come valida una qualunque inchiesta etnografica
risiedeva nel grado maggiore o minore di fedeltà con la quale l’etnologo sapeva cogliere la
realtà sociale. Nella rappresentazione che essa si facevano i membri della popolazione studiata.
L’eredità di Boas
Sia George Stocking (1976) che Regna Darnell (1999) hanno riflettuto sulla portata del
‘paradigma’ boasiano e soprattutto hanno cercato di comprendere le modalità delle sue distinte
articolazioni. Stocking a più riprese ha sottolineato quanto egli fosse “profondamente
conservatore”; non possiamo negare il fatto che Boas fu davvero devotamente conservatore, ma
non si può non tenere in considerazione quanto la tradizione che egli costituì si conformava su
alcuni assunti che dischiusero la disciplina a panorami profondamente comparati e
consapevolmente interdisciplinari.
Le attenzioni di Boas
L’attenzione per il linguaggio, inaugurata nel 1911 con l’Handbook of American Indian
Languages, la volontà di studiare la cultura come un sistema di simboli incorporati nella mente
degli individui; l’importanta data ai testi dei nativi, da loro scritti, raccontati, trasmessi; la
necessità quindi di lavorare con testimoni scelti, che potessero rendere accessibili non solamente
i dati, ma anche la modalità in cui essi venivano organizzandosi; uno studio sistematico sul
concetto di oralità come una delle forme distintive del pensiero simbolico;
E ancora, la concezione della cultura come processo storico in equilibrio costante tra tradizione
ed innovazione ed in cui la popolazione nativa non era da considerarsi come mero ‘oggetto’ di
studio. L’antropologia americana di matrice boasiana fece di molti testimoni linguistici ed
antropologi preparati; infine gli antropologi, soprattutto gli allievi diretti di Boas, si presero tutto
il tempo che reputarono necessario per le loro ricerche di campo; molti di loro lavorarono con le
medesime popolazioni per venti, anche venticinque anni.
Alfred Kroeber fu “il primo degli allievi di Boas a ricevere il dottorato”. Egli fu proprio un
allievo che dal ‘padre’ intellettuale ereditò alcuni “fenotipi” che rielaborò in maniera abbastanza
inusuale e diversa in periodi distinti della sua carriera scientifica. Kroeber proveniva da una
famiglia tedesca; il padre, protestante di idee liberali, emigrò negli Stati Uniti all’età di dieci
anni. Come sottolineano Buckley e Wolf, l’ambiente di Kroeber era costituito dalla élite
Detschamerikanish intellettuale ed artistica di Manhattan delle fine del secolo diciannovesimo.
La sua prima lingua era il tedesco e fu nutrito quella ricca tradizione dell’Europa settentrionale
che vedeva nelle arti (in special modo nella letteratura) e nelle scienze naturali il fondamento
della conoscenza.
Prima di dedicarsi all’antropologia Kroeber fu entomologo. Uno dei suoi primi lavori scientifici
fu in collaborazione con Carl Alsberg; e, mentre Alsberg si convertiva alla fisica, Kroeber si
definiva, con sempre maggior convinzione, storico naturale e umanista. Entrato alla Columbia
nel 1892 si laureò nel 1896 in letteratura. In quell’anno, nel 1896, Boas entrò alla Columbia: da
quel momento Kroeber si dedicò all’antropologia e mai l’abbandonò. La sua tesi di dottorato
aveva per tema il simbolismo decorativo degli Arapaho. Nel 1900, su raccomandazione di Boas,
intraprese un lavoro per l’Accademia delle Scienze di San Francisco (doveva curare la
collezione di artefatti degli indiani californiani nel Museo dell’Accademia delle Scienze).
Questo incarico, le cui responsabilità erano giudicate da Kroeber non particolarmente pesanti, lo
portarono in California, a nord di San Francisco fino alle foci del fuimo Klamath, dove incontrò
gli indiani Yurok. Negli anni successivi divenne uno dei membri più influenti del Dipartamenti
di Antropologia di Berkeley; lavorò con Frederic Ward Putnam, con cui nel 1903 iniziò una
ricerca etnografica e archeologica nella California: il suo obiettivo era quello di setacciare
l’intero stato della California; voleva raccogliere e poi catalogare il materiale linguistico e più in
generale ‘culturali’ dei nativi californiani. Kroeber fu un conoscitore attento della cultura e del
linguaggio degli Indiani della California. Arrivò all’antropologia attraverso la linguistica ed in
tutta la sua carriera di antropologo mantenne un forte interesse per lo studio del linguaggio.
Kroeber si differenziò dal suo maestro per il tentativo di proporre una teorizzazione abbastanza
sistematica di alcuni assunti derivatigli dalla sua esperienza di campo. In particolare, Kroeber
viene ricordato per l’elaborazione di quello che definì “superorganico”; questo concetto,
originalmente pensato da Herbert Spencer ed Émile Durkheim, fu rielaborato da Kroeber
nell’anno 1917. Secondo Kroeber l’ordine dei fenomeni culturali era autonomo rispetto ai
fenomi biologici e la storia non era determinata dall’azione di singoli individui, ma da regolarità
culturali.
Il Superoganico, 1917
In questo saggio Krober affermava la discontinuità assoluta tra il livello dei fenomeni culturali e
quelli di altri fenomeni come, ad esempio, quelli biologici e psicologici. Per Kroeber l’oggetto
dell’antropologia coincideva con la cultura intesa nell’accezione tyloriana del termine, cioè
come insieme complesso. La tesi centrale della teoria di Kroeber è che l’ordine dei fenomeni
culturali è di natura superorganica, irriducibile all’ordine dei fenomeni biologici.
I fenomeni culturali, anziché situarsi in una relazione di continuità con i fenomeni biologici
sono provvisti di una esistenza di tipo autonomo. In questo senso essi sono spiegabili solo sulla
base di fenomeni culturali. Vi era una discontinuità di tipo qualitativo secondo Kroeber tra il
livello dei fenomeni biologici e quelli culturali. Tale discontinuità permetteva a Kroeber di
criticare il darwinismo sociale (che ipotizzava continuità tra l’ordine biologico e quello sociale).
Il carattere di autonomia che Kroeber attribuisce ai fenomeni e ai processi culturali viene
portato alle estreme conseguenze con l’immagine di una cultura non determinata dall’operare
storico dell’individuo. In questa prospettiva, lo studio dei processi culturali doveva consistere
nel tentativo di comprendere i fenomeni appartenenti alla sfera della cultura nella loro assoluta
autonomia ed indipendenza rispetto all’azione individuale che era invece strettamente
subordinata alla modalità dello sviluppo culturale.
In primis è bene ricordare che il distacco dalle teorie evoluzioniste in Kroeber si tradusse in una
differenziazione netta tra ciò che egli definì sviluppo culturale da una parte ed evoluzione
organica dall’altra; non si trattava di una differenziazione quantitativa ma piuttosto qualitativa.
L’ipotesi prima che sottostava alla teorica del superorganico di Kroeber era proprio
l’impossibilità di spiegare l’eredità biologica attraverso l’accumulazione e la variazione
culturale. Per sostenere tali affermazioni Kroeber arrivò ad affermare che lo sviluppo culturale
era proprio della civiltà, del luogo in cui si vivono e si esperiscono fenomeni sociali.
Natura e cultura per Kroeber sono universi completamente separati.
La storia di Ishi
Per Kroeber la cultura era un insieme di fattori, illustrata da individui come Ishi, che
rimanevano comunque al di fuori di essa in una sorta di “static balance”. Ed è proprio
quell’equilibrio statico, che accomunerà l’antropologo americano a molti antropologi del suo
tempo alla ricerca di assunti umani, culturali e sociali, legittimi oggetti di investigazione
scientifica e, per questo, irriducibili alla personalità individuale.
Difficile e compresa integrazione tra cultura e individuo.
Ishi fu trovato il 29 agosto dell’anno 1911 ad Oroville, nel recinto di un macello; era uno degli
ultimi sopravvisuti degli Yahi, indiani della California settentrionale. Fu affidato a Kroeber e a
Thomas Talbot Waterman, anch’egli antropologo dell’Università della California e che da alcuni
anni si occupava proprio della cultura degli Yahi. Ishi, questo il nome che egli diede Kroeber (in
yahi uomo), visse l’ultimo periodo della sua vita nel museo di Antropologia di San Francismo
stringendo una forte e profonda amicizia sia con Kroeber che con Waterman.
Fu la seconda mogli di Kroeber, Theodora, che decise di scriverne la storia di vita. Questa
testimonianza permette di comprendere quanto complessi e stratificati fossero i rapporti tra gli
antropologi ed i loro interlocutori, ma non solo, essa riesce a far luce sull’atteggiamento che
l’antrpologo americano ebbe nei confronti dell’impegno etico dell’antropologia. Questo
avvenimento, che segnò in maniera profonda la vita intellettuale di Kroeber, venne da lui
definito: “una piccola storia di fatti penosi”. Non solamente era complesso prendere posizioni
(nel suo Handbook Kroeber decise di non testimoniare delle violente dispersioni e disgregazioni
delle popolazioni native californiane), ma per Kroeber il posizionarsi politicamente non
rientrava tra le competenze dell’antropologo.
Erik Wolf che ripercorre la biografia di Kroeber sottolinea come la morte di Ishi segnò in
maniera profonda l’intera vita dell’antropologo.
La storia di Ishi e degli stermini compiuti sugli indiani d’America doveva restare, per
l’antropologo, una questione culturale e non rientrare nell’ambito della morale o dell’etica.
Così, il Museo di Antropologia di San Francisco, dove vissero gli antropologi Kroeber,
Waterman, l’infermiere Saxton Pope e il collaboratore Llwellyn L. Loud, si trasformò in un vero
e proprio laboratorio, ove testare, scomporre e dissezionare l’ultimo esemplare di una cultura.
La vicenda di Ishi, la sua vita vissuta nel Museo di Antropologia, insieme alla morte per
tuberculosi, sebbene sicuramente la più conosciuta, fu solo una tra le migliaria dovute a malattie
o violenza che, tra il 1769 e il 1911, aveva ridotto la popolazione indigena californiana da
trecentomila a meno di ventimila. Kroeber aveva perfettamente compresso il valore della
testimonianza di Ishi; ma non solo, il suo atteggiamento dimostra l’attitudine ambivalente che
questa generazione di antropologi aveva nei confronti degli indiani.
In un articolo apparto su un periodico del tempo, egli descriveva Ishi come una delle distinte
tappe evolutive attraverso cui i nostri antenati erano passati. Siamo nell’anno 1912 e, nonostante
si confutassero le teorie razziali, ancora si riteneva esistesse una profonda frattura spazio-
temporale tra indiani e americani.
La vita di Ishi divenne inscindibile dalla rappresentazione della propria cultura che egli
riproduceva nel museo. Tutto ciò ha provato una sua ragione di essere anche perché c’era
qualcuno che li andava a guardare e dava loro un senso attraverso la pratica dell’osservazione
stessa. Gesti semplici, a lui abituali come la costruzione di frecce, la pesca con l’arpione,
l’accensione del fuoco, avevano una funzione pratica quando Ishi viveva ancora tra la sua terra
a tra la sua gente in quanto erano essenziali alla sua sopravvivenza.
La critica a Morgan
Sistemi classificatori di relazione, 1909.
La distinzione operata da Morgan per Kroeber è arbitraria ed etnocentrica. I sistemi parentela
esistenti infatti rivelano possedere entrambe le caratteristiche, di essere strutturati, cioè, sulla
base di principi tanto descrittivi quanto classificatori. Nella lingua inglese, ci dice Kroeber con
il termine cousin, cugino, vengono designati sia i cugini da parte di padre che quelli da parte di
madre senza che si tenesse conto del grado di prossimità effettivo né del sesso dell’individuo
designato. Per Kroeber ciò costituiva una prova del fatto che il principio classificatorio non
fosse esclusivo dei sistemi primitivi.
La critica di Kroeber non teneva conto di due essenziali fattori: Morgan era consapevole del
fatto che anche i sistemi di tipo descrittivo possiedono termini per mezzo dei quali vengono
designati individui con i quali esiste una relazione di genere differente. Il termine cugino
designa una serie di individui in relazione collaterale. Per Morgan la differenza tra sistemi
classificatori e descrittivi risiedeva proprio nella tendenza che hanno questi ultimi di designare
con gli stessi termini i parenti consanguinei in linea diretta quanto i parenti consanguinei in
linea collaterale.
L’importanza di questo saggio consiste nel nell’aver lasciato intendere che i termini di parentela
non possono essere considerate solo in riferimento alle azioni sociali, le quali sarebbero poi il
riflesso delle pratiche matrimoniali.
I termini di parentela possono essere associati anche a domini semantici diversi da quello
parentale come quando usiamo i termini “padre”, “zio” in riferimento a individui che non ci
sono parenti in senso stretto.
Nel nominare i “parenti” gli individui tengono conto di alcuni criteri che si riflettono
nell’impiego di certi termini e non di altri.
Area culturale
Area geografica nella quale erano presenti determinati tratti.
Elementi culturali quali per esempio una credenza, una danza, una istituzione matrimoniale, una
tecnica di pittura.
La cultura era considerata come una somma complessiva dei suoi tratti. L’obiettivo era quello di
determinare la distribuzione di tali tratti culturali. La distribuzione veniva pensata come
conseguenza di processi di diffusione di questi tratti.
Mentre in precedenza l’esposizione dei reperti museali rispettava l’idea tipica
dell’evoluzionismo secondo cui era possibile stabilire un criterio assoluto di complessità
crescente indipendentemente dal luogo di provenienza di determinate categorie di oggetti
(lance, scudi, vesallame) ora l’esigenza era quella di rendere intelligibili al pubblico le
somiglianze e le differenze tra i reperti provenienti dalle diverse culture comprese entro il
territorio degli Stati Uniti.
Le aree culturali
Sono modelli che ci aiutano a capire come possiamo studiare le Americhe nel loro complesso.
Comprendere come si sono formati gruppi con caratteristiche simili ma famiglie linguistiche
differenti.
Sono modelli e come tali non vanno pensati siano l’esatto specchio della realtà.
Sono quindi strumenti per farci capire come gli antropologi si sono accostati allo studio del
continente americano da un punto di vista antropologico.
Ogni studioso ha proposto un suo modello che spesso non coincide con quello elaborato da altri
studiosi.
Area culturale per Kroeber
Area geografica in cui una cultura stabilisce una serie di elementi che si riflettono nelle culture
circostanti. In questo senso gli elementi che si riflettono nelle culture circostanti diminuiscono il
loro livello di “densità” del tratto, il quale è misurabile contando come uno di quei modelli
raggiunge la linea di confine dell’area dove subentra un altro modello.
Kroeber cercava anche una correlazione tra area culturale e lingua.
Utilizza il termine diffusione.
Kroeber si era chiesto se le popolazione della California fossero una estensione meridionale
della più vasta area culturale del nord-ovest ma poi a poco a poco confuta questa idea. Ci dice
che la distribuzione di un’area culturale può darci indizi rispetto alle relazioni storiche tra
gruppi di un’area.
Area culturale come accumulazione storica di tratti che, come il linguaggio, modellano gli
sviluppi e la crescita di una definita area culturale.
Kroeber riconosce 84 aree culturali in nord-america (Nel 1931 nel saggio “Cultural and Natural
areas of Native NorthAmerica).
Perché gli YUROK erano il centro, il fulcro della cultura del nord-ovest della California?
1) Era la popolazione più numerosa (2.500 persone).
2) Erano numerosi perché si erano stabiliti vicino al fiume Klamath.
3) La presenza in quel luogo del legno rosso faceva di loro i più abili fabbricanti di canoe.
4) Avevano le cerimonie religiose più consistenti in termini di potenza rituale.
5) La zona era ecologicamente favorevole.
Le aree culturali
I modelli culturali di base sono legati ai tratti culturali i quali hanno assunto una definita e
coerente struttura e che funzionano con successo e che possono acquistare peso e consistenza.
Quando Kroeber parla di “massa culturale” vuole enfatizzare il modello statistico per la
definizione delle aree culturali.
Gli elementi della cultura formano modelli attraverso i quali le culture possono essere
classificate ma gli elementi della cultura per Kroeber formano anche “masse” che possono
essere misurate per la loro intensità che può essere quindi statisticamente determinata nei
termini o della singola massa oppure dei totali contenuti.
Nella scrittura delle donne antropologhe c’è una attenzione molto grande sulla scrittura.
C’è un elemento che caraterizza la vita di Ruth Benedit, ed è che lei arriva nel mondo della
antropologia tardi, dopo aversi sviluppato come poetissa. La vita di Ruth Benedit è stata
costelata da due presenze importanti: quella di Margared Mead e quella di Edward Sapir – un
linguista –.
Il 1919 rivoluziona la sua vita perche segue due corsi: uno di sociologia e un altro di sociologia
e antropologia con Clews Parsons, una feminista incallita, e da quanto Ruth Benedit comincia il
corso con loro, decide di butarse sulla antropologia. Lo decide tardi però, negli anni 20. Questi
anni avevano un clima intellettuale molto poco favorevole alle donne che volevano fare carriera,
e che volevano abbandonare il suo ruolo come donna di casa.
Nel 1921 iniziò a frequentare i corsi alla Columbia University. Il 1922 è un anno molto
importante per la antropologia perché escono due testi fondamentali. Una volta laureata, Ruth
Benedit comincia a divenne insegnante al Barnard College, scuola femminile.
Margaret Mead ed Edward Sapir li accomunava la passione per la letteratura, la poesia, la
psicologia e la psicoanalisi. Negli anni 20 entrano nella antropologia americana i la psicologia e
la psicoanalisi, che sono discipline perfette per lo studio dell’individuo. Tutta la antropologia
americana partiva dall’individuo per poi arrivare allo studio delle culture. Non faceva come alla
antropologia francese, che non si interessava per l’individuo.
Era il lavoro congiunto tra la poesia e l’antropologia, quello che avrebbe portato una possibile
comprensione del vivere e del pensare umano. Quindi, attenzione alla scrittura di Ruth Benedit,
e allo studio dell’individuo.
Erano anche gli anni dove comincia a lavorare Sigmund Freud.
Nasce quella che viene chiamata la “scuola di cultura e personalità” di cui Mead e Benedict
furono le maggiori esponenti, nella volontà di trovare un equilibrio tra ciò che veniva
interpretato come comportamento di gruppo e le sue variazioni individuali; tale bilanciamento,
secondo questi antropologi, poteva raggiungersi solamente restituendo alle dinamiche culturali
la loro dimensione individuale.
Margaret Mead studiava per esempio quale erano i comportamenti delle adolescenti dopo la
prima mestruazione.
Il secondo punto interessante della scuola di cultura e personalità è una attenzione alla scrittura.
Cliford Geertz dice che Ruth Benedict incarna lo scrittore e l’autore. Era un autore che proprio
con questa scrittura così pulita e chiara, dava autorrealità a quello che scriveva, ma era anche
scrittrice, perché il suo testo di 1934 diventa proprio un Best Seller. Ruth Benedict, secondo
Cliford Geertz, incarna il perfetto scrittore e autore – non scrive scrittrice o autrice, perché dice
che la sua forma de scrivere poteva paragonarsi pure a uno scrittore maschio –.
L’altro punto interessante è che questo modo di scrivere antropologia e questa attenzioni così
forte alla scrittura, porta all’antropologia fuori dalla accademia.
La volontà era appunto quella di buttare fuori la antropologia al di là del linguaggio
accademico.
Se molti antropologi compirono tale exis, attraverso la scrittura dei diari, per Benedict questo
percorso avvenne attraverso la ricerca di un linguaggio; con il perfezionamento del linguaggio,
Benedict poteva migliorare le tecniche di ricerca e di investigazione e riuscire a far fronte alla
sua situazione personale come dona, come moglie, come antropologa che voleva affermarsi
nella sua professione.
In questo senso l’antropologia di Ruth Benedict può rappresentare un unicum; il suo stile era
asciutto, rigoroso ma al contempo profondamente evocativo; rimase sempre attenta alla
presentazione del materiale, alla qualità delle fronti e degli informatori, al valore formale della
trascrizione e alla precisione delle traduzioni.
Ruth Benedict iniciò a lavorare sul campo nel 1924 con gli indiani Zuñi, poi con i Cochiti, i
Pima e gli Apache Mescalero.
L’altro punto centrale dalla antropologia di Ruth Benedict è che queste donne lavoravano
sempre su un doppio registro. Prima di tutto, facevano molta fatica a fare carriera, e quindi
molte dovevano trovare un modo diverso per guadagnare soldi, perché non venivano pagate per
fare lavoro di campo, come molto spesso succedeva con gli uomini. Allora molte di queste
donne avevano oppure la fortuna di aver un marito che li permettessero di fare questo lavoro,
oppure non si spostavano e dovevano muoversi tra il mondo della antropologia e altri lavori. Il
fatto che in realtà non entravano nella università do la libertà di scrivere testi che non
rispondevano ai paradigmi propri della accademica. Quindi scrivono molti testi che per noi sono
adesso moderni, anche se a quel punto non furono ben viste da dentro della accademia.
La letteratura dice che erano donne che avevano quasi un “doppio talento”.
Ruth Benedict le interessava capire che tipo de memoria storica avevano gli indigeni per
raccontare i miti. A Benedict interessava lo stilo in cui un mito veniva narrato; allora li
interessava il linguaggio. La storia per lei rappresentava la cornice. Noi lo dobbiamo legare al
fatto che molti di questi primi antropologi sul campo erano attenti a lingue in via di estinzione,
quindi in realtà, quando questi antropologi andavano sul campo con questi enormi magnetofoni,
era interessante per loro vedere che tipo de linguaggio usavano, a che livello arrivava la
conoscenza linguistica.
Avevamo visto anche che si lavorava con la psicologia e con la psicoanalisi.
Cultura e personalità
Si volevano comprendere le relazioni sistematiche tra le caratteristiche universali della mente
umana. Con Benedict siamo appunto nelle prime decade delle 1900. Dobbiamo fare un appunto,
perché questa scuola di cultura e personalità che studiava lo individuo e cercava se c’erano delle
relazioni sistematiche nella caratteristica della mente umana, è un punto centrale.
C’erano altri autori che si facevano la stessa domanda però che hanno dato risposte molti
diversi. Per esempio, Lévy-Bruhl, intellettuale francese che proprio in quegli anni, senza fare
lavoro de campo, scriveva saggi sulla mente indigena.
Claude Lévi-Strauss se faceva anche la domanda su qual è la struttura fondamentale della mente
dei primitivi?
C’erano tutta una serie di intellettuale che, di maniera diversa, se facevano la stessa domanda:
Come funzionava la mente di queste popolazioni allora venite come primitive?
Si capiva che c’erano delle caratteristiche universali nella mente umana; si possono tracciare
nelle diverse culture? Il lavoro etnografico sul campo, mi aiuta oppure no in questo
tracciamento? Queste erano le domande che si facevano questi studiosi, chi lavorava sul campo,
come Ruth Benedict, chi lavora pochissimo sul campo come Lévi-Strauss.
Che leggevano Bead e Benedict? Leggevano Freud, la psicologia della Gestalt, ecc. Quindi si
nutrivano di un determinato tipo di testi su questi temi. Il concetto di personalità, per loro due,
aveva diversi acezioni, però partivano dal comune presupposto che esso avrebbe dovuto
indicare le caratteristiche durature di un individuo che potevano essere comprese e dedotte dai
modelli del suo comportamento.
Lavoravano su temi come la agresività, la paura, la vergogna.
Ruth Benedict
Con il perfezionamento del linguaggio, Benedict poteva migliorare le tecniche di ricerca e di
investigazione e riuscir a far fronte alla sua situazione personale come donna, come moglie,
come antropologa che voleva affermarsi nella sua professione.
In questo senso l’antropologia di Ruth Benedict può rappresentare un unicum, il suo stile era
asciutto, rigoroso ma al contempo profondamente evocativo; rimase sempre attenta alla
presentazione del materiale, alla qualità delle fonti e degli informatori, al valore formale della
trascrizione e alla precisione delle traduzioni. Ma Anne Singleton riusciva però a scorgere
poeticità, bellezza e sapienza espositiva nei racconti e nei miti che raccoglieva.
Configurazionismo
Il termine si riferisce all’idea secondo cui ogni cultura costituirebbe il prodotto dell’interazione
di più modelli culturali o configurazioni appunto.
Per Benedict la cultura è una configurazione, un modello, all’interno della quale interagiscono
una serie di elementi diversi che producono modelli che poi interagiscono con il comportamento
umano. Quello che interessava a Mead e Benedict era capire come l’individuo se adattava a
questo modello culturale; era come se Margaret e Benedict pensavano che ci fosse un modello
di base, principale, che caratterizzava quella singola cultura. E a Benedict le interessava sapere
come l’individuo rispondeva individualmente a quel modelo specifico culturale.
Nel suo testo del 1934, cioè Modelli di Cultura, compara 4 tipi di società, utilizzando un
linguaggio che lei riprende dalla filosofia di Nietzsche. Infatti, ci parla da modello apollineo, e
modello dionisiaco, di modello paranoico e di modello megalomane.
Rapporto individuo/cultura/psicologia
Fu proprio a partire dagli anni Venti del Novecento che l’antropologia cominciò ad interrogarsi
sui rapporti tra individuo e cultura da un punto di vista “psicologico”.
Se vi furono infatti alcuni antropologi che si posero in una linea di completa continuità con le
teorie freudiane, molti fra coloro che percorsero il sentiero freudiano “depurato del suo
determinismo storico”.
In tale senso gli studi di “cultura e personalità” si svilupparono secondo diverse tendenze che
sono rintracciabili rispettivamente negli approcci denominati “configurazionisti”, “studi sul
carattere nazionale”, “studi sulla personalità di base e modale” e “studi transculturali”. Si
volevano comprendere le relazioni sistematiche tra le caratteristiche universali della mente
umana; si desiderava capire se tali relazioni potessero essere descritte e tracciate nelle specifiche
culture, infine si voleva indagare delle modalità di rappresentazione individuale di tali relazioni
e sulle loro peculiarità. Al termine cultura, baluardo dell’antropologia boasiana, venne accostato
quello di “personalità”; ma quale era il significato di tale termine per gli antropologi?
Che elementi avrebbe dovuto veicolare? Ma soprattutto quali i riferimenti teorici di questi
antropologi? Il concetto di personalità per Benedict, Mead e Sapir ebbe distinte accezioni. Si
partiva però dal comune presupposto che esso dovesse indicare le caratteristiche durature di un
individuo che potevano essere comprese e dedotte dai modelli del suo comportamento; tali
caratteristiche furono individuate come tratti (distintive regolarità comportamentali), come
carattere (disposizioni interpersonali) o come modalità organizzative (modalità in cui venivano
integrati l’esperienza di un individuo e il suo comportamento). È proprio in tal senso che
l’antropologia di Ruth Benedict è esemplificativa; come sottolinea acutamente Margaret
Caffrey, fu negli anni Trenta che emerse nel pensiero di Benedict la volontà di creare una
“psicologia” della cultura; le diverse istanze che caratterizzarono il pensiero di Benedict
rivelano la molteplicità dei percorsi attraverso cui la psicoanalisi e l’antropologia influenzarono
l’antropologia.
Benedict diede un contributo profondo all’interno del paradigma antropologico, in specifico
nello sviluppo degli studi di “cultura e personalità”; essa riformulò il concetto di cultura con gli
strumenti della psicoanalisi e ridiscusse i concetti di uomo, donna, anormalità e malattia
mentale. In questo senso il suo percorso intellettuale rivela sia la complessa influenza che la
psicologia e la psicoanalisi ebbero sulle discipline antropologiche, ma anche e soprattutto
l’incorporazione simultanea da parte degli antropologi di due paradigmi disciplinari distinti.
Ruth Benedict, Edward Sapir, Gregory Bateson e Reo Fortune sono tutti antropologi che
conformarono il pensiero scientifico di Margaret Mead.
È la primera antropologa che fa lavoro di campo fuori da America.
Cominciano a emegere nuovi problemi, come quel che veniva chiamato “la appropiazione
culturale”.
Siamo negli anni Trenta del Novecento: negli Stati Uniti si estendevano i confini disciplinari;
l’”embracive approach” che l’antropologia boasiana aveva applicato in maniera solidamente
conservativa, e che vedeva l’Antropologia come disciplina compiutamente realizzata nelle sue
declinazione dell’antropologia fisica, dell’archeologia, della linguistica e dell’antropologia
culturale, trovava modalità alternative di esistenza sia nelle diversi sedi in cui ora tale disciplina
veniva insegnata, sia nell’allargamento dei confini, dei territori etnograficamente percorribili.
Velocemente si era passati dallo studio della diffusione di tratti culturali, all’analisi dei processi
di acculturazioni; furono questi gli anni in cui anche l’anima più umanistica e “popolare”
dell’antropologia riuscì ad affiorare. Ruth Benedict, Margaret Mead, Edward Sapir e Gregory
Bateson furono intellettuali che coltivarono l’aspetto dell’umanesimo insito solamente negli
interstizi: l’etnografia così come si esprimeva nella sua elaborazione teoretica dell’antropologia
culturale era una disciplina che poteva essere realizzata e pensata proprio attraverso
quell’umanesimo che intimamente le apparteneva e questo non per forza a scapito
dell’autorevolezza scientifica della disciplina.
Si inizia a capire che l’antropologia doveva anche lavorare su quei primi processi sincrotici e di
acculturazioni.
Margaret Bead incontrò Ruth Benedict nel 1922 – anno in quel escono Argonauts of the Western
Pacific di Bonislaw Malinowski e The Andaman Islanders di Alfred Reginald Radcliffe-Brown,
due testi importantissimi –. Per noi la antropologia di Margaret Bread è molto importante
appunto perché racconta pure la storia della antropologia de quel periodo. Margaret Bread fu
realmente un personaggio chiave, una testimone oculare attenta e scrupulosa del clima
intellettuale dell’America delle prime decadi del Novecento.
Non soltanto lasciò una serie di documenti biografici ed autobiografici però anche lavoro di
campo, di testimonianza. Margaret Mead, infatti, non solamente ci lasciò una serie di documenti
biografici ed autobiografici: pubblicò nel 1972, Blackberry Winter, la sua autobiografia e nel
1977 le sue lettere dal campo, Letters from the Field che coprono il periodo che va dal 1925 fino
al 1975; ma, come disse Clifford Geertz, in quanto “allieva, amica, collega e fedele custode
della eredità della Benedict, ne stilò un accurato ritratto biografico ripercorrendone i principali
momenti scientifici e personali sia con l’opera del 1959, An Anthropology at work, a dieci anni
dalla morte sia con una biografia più tradizionale edita nel 1974.
Lavora a
- Samoa in Oceania tra gli anni 1925 e 1926.
- Stati Uniti, con le popolazioni native americane. Studiò con gli indiani Omaha a partire
da 1929.
- Nuova Guinea, tra la popolazione Arapesh (con Reo Fortune, 1931), Mundugumor
(1932), Ciambuli (con Reo Fortune, 1933), Manus (con Reo Fortune, tra 1928 e 1929).
- Bali (1936-1938 e 1939)
A Bateson appariva cruciale trovare una nuova metodologia di lavoro, aveva necessità di
sperimentare nuove tecniche di ricerca per mostrare in maniera intelligibile quanto aveva
osservato. Fu decisivo per Bateson l’incontro con Margaret Mead. Bateson mentre lavorava con
lei si dedicò prevalentemente alla fotografia e “ciò è forse indicativo della fondamentale
diffidenza maturata per la scrittura sistematica, analitica e descrittiva delle scienze umane”.
Bateson e Mead furono una coppia che sul campo riuscì ad essere pienamente complementare e
non competitiva, che capitalizzò l’esigenza profonda della Mead di professionalizzare la sua
missione etnografica e quella di Bateson di liberarsi dai vincoli accademici e professionali.
Nell’edizione del testo Balinese Character curato e scritto da entrambi nel 1942, la fotografia
venne esplorata da Mead e Bateson come strumento di indagine in grado di cogliere gli aspetti
emotivi che tendevano a sfuggire alla descrizione verbale.
La popolarizzazione dell’antropologia
La sua attività di popolarizzazione dell’antropologia fu messa a punto a vari livelli e in distinte
occasioni ma si concentrò, come scrisse Rhoda Métraux che la accompagnò in questa sua
attività dal 1963 al 1979, come giornalista su Redbook un settimanale femminile molto
popolare.
Mead sfruttò televisione, radio e giornali per diffondere le sue idee riguardo la razza, il
matrimonio, il genere, il sesso, … concetti che approfondiva nelle sue ricerche di campo ma che
fu in grado di fare filtrare e decantare per i “non addetti ai lavori”. Insomma, Margaret Mead,
come fece Benedict attraverso i suoi due testi più famosi, aveva compreso che si poteva fare
anche la storia della disciplina antropologica in maniera trasversale e che, come donna, poteva
usare strumenti molto accattivanti proprio con le donne: l’antropologia era una disciplina che
poteva contribuire a de-costruire stereotipi e pregiudizi, che doveva impegnarsi eticamente. I
suoi intenti, come dirà Rhoda Métraux ad inizio del suo schizzo biografico erano “diretti, chiari,
intellegibili”.
Celebrazioni e condanne
Le celebrazioni e le condanne di Margaret Mead come donna, come scienziata sociale e
antropologa, riguardarono la sua irrequieta sessualità e una condotta anticonvenzione, sempre
mediata da un rapporto privilegiato con organismi istituizonali (americani ma non solo) e con
l’accademia i cui ambienti frequentò attraverso Ruth Benedict di cui fu “allieva, amica, collega
e infine custode (proprietaria sarebbe il termine più adatto) della sua reputazione”. Così Clifford
Geertz iniziava un brillante saggio di rilettura dell’opera di Benedict non dimenticandosi
comunque, poche pagine più aventi, di liquidare frettolosamente la prosa della sua allieva
prediletta: lo stile di Mead, a detta di Geertz, era “sciolto e estemporaneo, pronto a dire
diciassette cose in una sola volta ed a seguire a meraviglia ciò che le passa per la testa,
scarabocchi casuali”. Ma sono nulla i brevi commenti di Geertz rispetto al più esclatante
episodio etnografico che riguardò Mead ovvero la ricerca/inchiesta di Derek Freeman:
l’antropologo australiano diede alle stampe nel 1983 Margaret Mead and Samoa. The making
and unmaking of an anthropological myth.
Il progetto
“Nel periodo che va dal 1928 al 1936 fummo entrambi separatamente impegnati nello sforzo di
tradurre quegli aspetti della cultura mai registrati con successo dagli scienziati, sebbene spesso
afferrati dagli artisti, in una forma di comunicazione sufficientemente chiara e non equivoca da
soddisfare i criterio di una ricerca scientifica”.
Questo obiettivo fu realizzato proprio attraverso la fotografia, attraverso la comparazione
sistematica di 25.000 fotografie che ritraevano i vari momenti della vita sociale e culturale dei
balinesi.
“in questa monografia noi tentiamo un nuovo metodo atto a stabilire l’intangibile relazione che
intercorre tra diversi tipi di comportamenti culturalmente standardizzati, ponendo fianco a
fianco fotografie reciprocamente rilevanti”.
Fino all’antropologia di Margaret Mead gli antropologi (donne e uomini) hanno faticato a
prendere in considerazione questo tema.
L’incapacità a recepire l’importanza del genere e perfino a riscontrarlo nei processi del sociale
non dipende (non tanto) dalla preparazione, dall’intelligenza o dal talento dei singoli studiosi,
ma dalle modalità in cui questo tema si presenta o, meglio, si nasconde all’analisi apparendo
sotto le mentite spoglie della natura.
L’antropologia e le donne
Il campo non è un territorio neutro e le donne antropologhe di questo si accorgono molto presto.
Le donne vennero considerate coloro che ponevano l’attenzione sugli aspetti emozionali.
Questo venne esplicitato anche dalla scienziata Evelyn Fox Keller che scrisse nel 1985 che la
scienza era stata da sempre identificata con la razionalità, oggettività, con l’idea di
consapevolezza e con una mancanza di fiducia nei confronti di tutto quanto riguardava le
emozioni. Le donne sono state identificate con l’idea di irrazionalità, soggettività, erotismo,
emozioni, mentre gli uomini erano i veri ricercatori e scienziati; coloro che avrebbero potuto
rendere l’antropologia una scienza. Non solo vennero posti limiti invalicabili per le donne in
accademia ma il sapere venne suddiviso in categorie femminili e maschili; c’erano argomenti e
temi propriamente maschili ed altri femminili.
L’antropologia aveva bisogno delle donne? Sì, perché erano delle abilissime ricercatrici di
campo. L’antropologia non poteva permettersi il lusso di escludere le donne anche se il sapere
che esse avrebbero portato alla disciplina non avrebbe certamente rispettato i canoni e
paradigmi necessari alla nascente scienza antropologica. La necessità delle donne creò allora un
vero dilemma. Il bisogno di donne fa dell’antropologia una scienza sospetta durante il periodo
di professionalizzazione della disciplina (prime decadi del Novecento) quando l’antropologia
deve affermarsi come scienza e non come un luogo per “dilettanti”. Poteva l’antropologia
affermarsi ed essere accettata come scienza se necessitava delle donne?
Come le altre scienze sociali fu dominata dalla presenza maschile e fu orientata dagli uomini.
L’accademia assunse che i ricercatori uomini fossero i modelli per la ricerca. Le donne per
lunghi anni hanno sofferto dello stereotipo di essere troppo deboli, delicate, emozionali, non
competitive e comunque impegnate nella cura dei figli. Marie Wormington per descrivere il suo
rapporto con il direttore del museo di Storia Naturale di Denver scriveva nel 1985: “Lui non
poteva pensare che ci fosse posto per una donna o addirittura per una archeologa nel museo… io
ho sempre pubblicato i miei lavori con le mie iniziali H. M. Wormington. Il direttore del Museo
non avrebbe mai letto un libro scritto da una donna”.
La storia
Ci sono testimonianze di grandi uomini, Morgan, Spencer, Tylor, Boas, Kroeber, Lévi-Strauss,
Sapir, Linton, Lowie, Kardiner, Durkheim, Malinowski, Radcliffe-Brown, White, Steward,
Evans-Pritchard, Geertz, Redfield, Lewis e grandi donne, Benedict e Mead. Lo stesso schema è
in tutti i testi di antropologia di tutto il mondo. Non sappiamo praticamente nulla delle donne,
né di quelle americane né tantomeno di quelle europee.
La storia della scienza e la storia dell’antropologia è la storia di certe idee di alcuni individui, è
la storia solamente di un certo tipo di individui.
Le donne e l’accademia
Le donne che hanno provato ad intraprendere una carriera accademica sono state considerate
come devianti o discordanti. Le donne sono state sempre considerate come coloro che dovevano
occupare posti di poco rilevo perché:
- Non prendevano sé stesse sul serio quanto invece erano in grado di fare gli uomini.
- Ad un certo punto avrebbero interrotto la loro carriera per fare bambini.
- Non avevano bisogno di denaro perché avevano al fianco uomini che potevano
prendersi cura di loro e quindi mantenerle.
- Non avevano ambizioni e nemmeno abilità.
- Per natura erano “passive”.
Zora Neale Hurston è stata una illustre scrittrice, artista, antropologa e folklorista statunitense
operante nella prima metà del Novecento, nota soprattutto per aver fatto parte del movimento
culturale della Harlem Renaissance. Zora nacque il sette gennaio 1891, a Notasulga, in
Alabama, sesta di otto figli. Il padre, John Hurston, era un reverendo battista, agricoltore e
carpentiere mentre la madre Lucy Ann Potts era un’insegnante. La famiglia Hurston si trasferì a
Eatonville, in Florida, una delle prime città abitate esclusivamente da afroamericani, quando
Zora aveva tre anni. Per tutta la vita Zora considerò Eatonville la sua reale città natale, scrive
infatti nella sua autobiografia:
“I was born in a Negro town. […] Eatonville, Florida, is, and was at the time of my birth, a
pure Negro town – charter, mayor, council, town marshal and all. It was not the first Negro
community in America, buti t was the first to be incorporated, the first attempt at organized self-
goverment on the part of Negroes in America” (Hurston, 1996, p.1).
La vita
Gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza a Eatonville, ricchissima dal punto di vista della
tradizione folkloristica, permisero a Zora di crescere con ardente orgoglio razziale, oltre che con
il dono per la narrazione di storie, senso dell’umorismo e ironia. L’infanzia serena di Zora subì
però un brusco arresto nel 1904 quando la madre, a cui era molto legata, morì per malattia. La
giovane aveva solo tredici anni. Questo evento cambiò drasticamente la vita di Zora.
Morgan Academy
Tra il 1917 e il 1918 frequentò la Morgan Academy di Baltimora, dove riuscì a completare
l’istruzione superiore. Per potersi iscrivere si attribuì un’età anagrafica di dieci anni inferiore
rispetto a quella reale, cosa che avrebbe continuato a fare per tutti gli anni successivi. Tra il
1918 e il 1919 frequentò i corsi in preparazione all’ammissione per la Howard University, a
Washington DC, da sempre aperta a tutti senza distinzione di razza e genere, “the capstone of
Negro education in the world. […] It is to the negro what Harvard is to the white” (Hurston,
1996, p.129). qui, nel 1924, Zora si laureò. Gli anni alla Howard furono particolarmente
produttivi per Hurston, che firmò proprio in questo periodo le sue prime pubblicazioni.
Harlem Renaissance
Mentre Zora seguiva i corsi alla Barnard frequentava anche una realtà culturale diametralmente
opposta: Harlem, con i suoi circoli di giovani scrittori e artisti neri. Nel 1925, l’anno in cui
Hurston arrivò a New York, il movimento definito Harlem Renaissance era al suo picco:
attraverso lo sviluppo di tutte le forme d’arte e delle scienze sociali, artisti e intellettuali
afroamericani rifiutarono di limitarsi ad imitare lo stile degli europei e dei bianchi d’America,
ma esaltarono invece la dignità e la creatività nera.
I maintain that I have been a Negro three times – a Negro baby, a Negro girl and a Negro
woman. Still, if you hace received no clear cut impression of that the Negro in America is like,
then you are in the same place with me. There is no The Negro here. Our lives are so
diversified, internal attitudes so varied, appearances and capacities so different, that there is no
possible classification so catholic that i twill cover us all, except My people! My people!
(Hurston, 1996, p.192).
I mentori di Hurston
La carriera artistica e professionale di Zora fu segnata dagli incontri che fece furante il suo
percorso. Due esperienze, in particolare, influirono fortemente sulla sua formazione
intellettuale: l’adesione ai circoli letterari della Harlem Renaissance e l’istruzione antropologica
alla Barnard University, con Franz Boas, uno dei più importanti studiosi della disciplina di quel
periodo. Degna di essere menzionata all’interno di questo panorama multidimensionale che
condizionò il laboro di Zora è, infine, Mrs. Rufus Osgood Mason; ricca mecenate bianca che
finanziò diverse ricerche dell’autrice stessa.
Alain Locke
Locke sostenne quindi artisti, scrittori e musicisti afroamericani incoraggiandoli a guardare
all’Africa come ad una fonte d’ispirazione per le loro opera, stimolandoli a rappresentare
soggetti di quel continenti e afroamericani, ad attingere dal loro passato per le loro creazioni. Il
suo prodotto artistico più importante fu, probabilmente, The New Negro (1925), un’antologia di
narrativa, poesia e saggi di carattere sociale e politico di autori africani ed afroamericani.
L’antrologia auspicava, in ultima istanza, una reale uguaglianza tra neri e bianchi, che ponesse
le sue fondamenta sulla fiducia in sé stessi da parte dei neri e sulla consapevolezza politica.
Il pensiero artistico e intellettuale di Locke e il suo ruolo di leader culturale fecero quindi sì che
molti giovani, tra cui Zora stessa, lo considerassero un mentore. Riportando le parole di
Hemenway, il curatore della biografia letteraria dell’autrice, Hernández scrive che: Hurston
thought of [Locke] as a mother hen… she also sought his approval. Locke somitimes dispproved
of Zora…[and] altough he respected her talent, he was not hesitant to offer counsel.
Al di là delle sue idee teoriche il grande merito di Boas fu anche quello di aver avvicinato
numerose donne all’antropologia, oltre alle note Ruth Benedict e Margaret Mead. Tuttavia,
oscurate da queste grandi e prorompenti personalità, marginalizzate per questioni di genere dal
mondo scientifico delle accademie, queste brillanti antropologhe, tra cui Zora stessa, sono
rimaste nascoste ai lati della storia ufficiale della disciplina.
Il rapporto della Hurston con Boas è argomento particolarmente dibattuto, nonostante la stessa
dipinga, nella sua biografia, un’immagine dell’illustre antropologo che rivela una grande
ammirazione nei suoi confronti. Scrive infatti: He [Boas] is idolized by everybody who takes his
orders. We all call him Papa, too. Away from is office, Dr. Boas is full of youth and fun, and
abhors dull, stodgy arguments. As is well known, Dr. Franz Boas is the greatest Anthropologist
alive.
Se le idee di Boas e la sua spinta a dedicarsi allo studio del folklore afroamericano, come forma
culturale complessa degla di studio e registrazione, furono decisive nel percorso della Hurston,
non mancarono però elementi problematici.
Come fa notare Walkers, l’approccio paternalistico che Boas utilizzava con le sue studentesse
(che non a caso lo chiamavano Papa Franz) portò a queste ultime ad essere sempre associate
all’idea di “figlie”. Questo termine porta con sé l’idea di dipendenza, sottomissione e stabilisce
un rapporto di tipo gerarchico, che implica inferiorità rispetto alla figura paterna. Questa visione
depotenzia anche notevolmente la capacità creativa delle allieve stesse, mero “recipiente” delle
idee del maestro. Riprendendo parte della corrispondenza tra Boas e la Hurston, Meisenhelder
arriva addirittura a colpevolizzare Boas per “dictating the focus of her reseach and treating her
as an aid or informant rather than a researcher in her own righ”.
La riflessione francese sulle società primitive si sviluppò tardivamente rispetto a quanto era
avvenuto in Gran Bretagna ma anche negli Stati Uniti. La riflessione francese sulle culture e
sulle società primitive deriva dalla sociologia. Disciplina quest’ultima che ha le sue radici nella
filosofia positiva di Auguste Comte. Comte aveva focalizzato la sua attenzione su temi della
normatività sociale, ossia dell’ordine sociale come frutto di una possibile applicazione di
un sapere positivo che fosse allo stesso tempo conoscenza e strumento di gestione della
società sulla base di criteri di natura tecnico-scientifica.
ÉMILE DURKHEIM
Durkheim allievo dello stico-antichista Numa Fustel de Coulanges e del filosofo Emile
Boutroux si laureò in filosofia, fu la guida di quella che venne definita la “Scuola di sociologia”,
destinata ad influenzare la riflessione francese sia un campo sociologico che etno-antropologico.
Il primo punto interessante per Durkheim fu il suo concetto do coscienza collettiva che elaborò
nel suo testo di 1893, La divisione del lavoro sociale.
La coscienza collettiva
Rappresenta l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri di una
stessa società.
Il concetto di coscienza collettiva per Durkheim rinviava ad una entità sociale sovra-individuale,
indipendente dalle coscienze singole e dotata di una logica di sviluppo autonomo. In questo
senso egli potè pensare alla società come un qualche cosa di unitario e coeso.
Pensiamo al superorganico di Kroeber.
Leggi generali
La sociologia per Durkheim era quella disciplina che poteva prendere in esame il numero più
alto possibile di società per giungere alla conoscenza di leggi generali. Pensiamo a ciò che
abbiamo detto di Franz Boas.
Solidarietà meccanica
Il comportamento era imposto da regola collettive che gravavano sull’intera comunità concepita
come un tutto inscindibile.
In questa idea sonno annidati tutti i principali pregiudizi, errori e incomprensioni nei riguardi
dei popoli esotici che hanno contribuito a creare l’immagine stereotipata del “primitivo”: tutti
identici come cellule di un unico tessuto, tutti nudi e tutti ugualmente e immediatamente
sottomessi alla pressione del gruppo e della struttura sociale che è ovunque la stessa, il clan.
Privi di individualità psichica e si pensieri personali, privi di sentimenti complessi e
differenziati, completamente dipendenti dal gruppo, dal clan, dalle sue forze e dai suoi bisogni.
Da Frazer, 1910.
Lo studio degli aborigeni australiano è di incalcolabile importanza perché sembra che nelle loro
forme arcaiche di società e di modi di pensare noi tocchiamo il più remoto passato, lo stadio più
rudimentale della vita umana che attualmente è dato di osservare sulla terra. Nell’opera di
Spencer e Gillen noi troviamo per la prima volta un resoconto completo e autentico su selvaggi
interamente primitivi che vivono nello stadio totemico, praticamente non toccati dall’influenza
europea. La sua importanza come documento della storia umana non può pertanto essere
sottovalutato. Fra le grandi estensioni di terra e di contenenti nel mondo, l’Australia è insieme la
più piccola e la più solata e quindi la sua flora e la sua fauna sono in generale di tipo meno
sviluppato che altrove.
Per lo stesso motivo, gli aborigeni australiani sono rimasti nel complesso e fino ai nostri giorni,
in uno stato più primitivo.
Identità collettiva
L’emblema e il totem rendono manifesta l’identità del clan e l’unità dei suoi membri. Durante i
riti collettivi gli appartenenti al clan si riuniscono ed esprimono in questo modo il loro senso di
identità collettiva. La venerazione rivolta al simbolo del clan rivela in tal modo la percezione di
una esistenza di una realtà diversa e superiore al singolo individuo, ossia la sua partecipazione
ad una collettività. Nell’animale/totem questi popoli venerano il proprio clan, la società stessa di
cui fanno parte.
Totemismo
Il termine totem deriva dall’espressione OTOTEMAN che nella lingua di alcuni gruppi di nativi
del Nord-America, significa qualche cosa come “egli fa parte della mia parentela”. Siccome
questa espressione era applicata anche ad una specie animale avente lo stesso nome del gruppo
(di solito un gruppo di discendenza esogamico o un clan) i primi studiosi di antropologia
parlarono di totemismo ritenendo che tutto quanto potesse segnalare l’uso di termini di animali
o piante in relazione agli esseri umani o a gruppi di essi, dovesse essere considerato una forma
di religione primitiva, anzi la forma più primitiva di religione.
Questa idea venne confrontata dal fato che alcuno gruppi di nativi nord-americani e tra loro
quelli della regione prospiciente la costa settentrionale del Pacifico, erigevano pali, chiamati
anch’essi totem, con incise le figure dei loro animali mitici (corvo, castoro, balena). Questa
religione totemica avrebbe avuto il fondamento del culto dell’antenato eponimo, portante cioè lo
stesso nome del gruppo, e un atteggiamento rituale nei confronti di tutto ciò che fosse associato
ad esso mediante il nome.
Totemismo e Lévi-Strauss
In realtà ciò che noi chiamiamo totemismo comprende un complesso di fatti tra loro
estremamente eterogenei. In uno studio del 1962 Lévi-Strauss dimostrò che quello che gli
antropologi avevano ritenuto essere una forma di religione altro non era che un modo di
classificare i gruppi e gli individui basato sul repertorio della specie animali e vegetali. Ciò non
toglieva il fatto che le relazioni simboliche tra esseri umani e specie animali o vegetali
costituisca un elemento centrale nella cosmologia e nelle religioni di molte culture con
importanti riflessi sul plano rituale.
LUCIEN LÉVI-BRUHL
La mentalità primitiva
1910, Psiche e società primitiva
Lévy-Bruhl vuole cercare di elaborare una teoria generale sulla mentalità primitiva. Criticò la
tradizione inglese dell’evoluzionismo. Le rappresentazioni collettive erano per Lévy-Bruhl
“comuni ad un dato gruppo sociale e trasmissibili di generazione in generazione”, erano
rappresentazioni che si imponevano agli individui attraverso la pratica sociale e che costituivano
perciò modelli sociali di atteggiamenti mentali erano insomma veri e propri fatti sociali.
Egli pensava che questi fatti sociali fossero già dati all’interno di un contesto che era già dato
la società.
“Per quanto lontano si possa risalire, per quanto possano essere primitive le società prese in
considerazione, noi incontriamo sempre spiriti socializzati, se così si può dire, presi già da una
moltitudine di rappresentazioni collettive che gli sono state trasmesse dalla tradizione e la cui
origine si perde nella notte dei tempi”,
I fatti primitivi sono da ricondursi ad un identico meccanismo mentale ma questo meccanismo
non è quello di uno spirito umano naturalisticamente determinato ma quello di uno spirito
collettivo di ordine sociale.
Mentalità prelogica
Tale relazione partecipava a ciò che determina la natura prelogica di questo tipo di mentalità. Il
concetto di prelogico non designa in Lévy-Bruhl una forma di pensiero “meno evoluta” di
quella designata da termine logico.
Prelogico per Lévy-Bruhl significa a-scientifico, a-critico, e non implica né una anteriorità di
tipo temporale, nello sviluppo delle facoltà mentali, né tantomeno una natura irrazionale. Il
concetto di prelogico indica una differenza di tipo qualitativo.
Rappresentazioni
Non bisogna considerare solo la rappresentazione come fenomeno meramente intellettuale ma
come fenomeno in cui intervengono, oltre ad elementi intellettuali, elementi emozionali ed
elementi motori. Tra questi elementi vi è indifferenziazione. In virtù di questa indifferenziazione
tra elementi emozionali, motori ed intellettuali si parla di mistico, di aspetto mistico.
La morte
La comunità avverte la morte come una minaccia alla propria coesione. La comunità dopo un
evento di morte deve ristabilire un equilibrio che la scomparsa dell’individuo ha alterato e per
questo si ricorre ai rituali funebri.
La morte viene studiata da Hertz come transizione, come un passaggio da una condizione ad
un’altra.
I riti di passaggio
Tre fasi del rito di passaggio così come li elaborò e rappresentò Van Gennep.
1. Fase di separazione (riti preliminari)
2. Fase di margine (riti liminari)
3. Fase di aggregazione (riti post-liminari).
La fase liminare
Van Gennep considera questa fase la più delicata perché essa consente di ridurre l’aspetto
traumatico del distacco da una determinata categoria sociale e del passaggio ad un’altra in cui si
acquisisce il nuovo status. È la fase più “fragile” sul piano sociale e sul piano delle forze
ambigue che possono sprigionarsi dall’ambiguità dello status in cui è coinvolto l’iniziando.
Dare-ricevere-ricambiare
Erano tre regole che stavano alla base del fenomeno del dono: Dare-ricevere-ricambiare. Era
attraverso questo complesso di regole che si strutturava il principio della reciprocità. Mauss
riconduceva questo principio e il suo carattere obbligatorio ad una “qualità intrinseca” degli
oggetti scambiati, una qualità che li assimilava alla persona che li aveva posseduti e che
permaneva in essi anche dopo che erano passati nelle mani di altre persone.
Hau
Mauss in questa interpretazione fu profondamente influenziato dalla lettura della etnografia
polinesiana e dalla teoria dello HAU presente tra i Maori della Nuova Zelanda.
Secondo i Maori lo Hau sarebbe proprio “lo spirito della cosa donata” ciò che pone colui che
riceve il dono nella posizione di “debito” nei confronti del donatore e lo obbliga quindi a
ricambiare per restaurare un equilibrio tra forze.
Le tecniche del corpo (1934) Testo di una conferenza tenuta da M. Mauss di fronte ad un
uditorio di psicologi pubblicata nel 1936.
Le tecniche del corpo sono i modi con cui gli uomini nelle diverse società si servono del proprio
corpo per uniformarsi alla tradizione.
La tecnica è un atto tradizionale efficace.
Il corpo è il primo ed il più naturale degli strumenti, ed è utilizzato seguendo norme e regole la
cui natura non è esclusivamente biologica o fisiologica ma sociologica.
Il corpo
L’ambito del corpo ha stentato a farsi strada anche dopo Mauss poiché, pacificamente
considerato come rappresentante dalla natura, è sempre stato ritenuto l’ultimo baluardo contro i
processi culturali e sociali. Siamo sempre stati convinti che a governare il corpo fossero la
biologia e l’inconscio. Solo con Durkheim ci siamo accorti che è dalla società che ci
pervengono le categorie attraverso le quali noi ordiniamo il mondo. Mauss, in sostanza, de-
naturalizza il corpo e lo strappa dal suo essere meramente biologico.
Mimesi
Mimesi, imitazione: mediante l’imitazione degli altri membri del corpo sociale, si apprende
socialmente ciò che è sociale. Il carattere implicito di tale processo fa sì che gli individui lo
vivano come se fosse naturale. Le tecniche del corpo sono culturalmente determinate e
socialmente apprese. Qualsiasi azione porta l’impronta dell’apprendimento: di educazione ed
imitazione. Gli atti che si vede compiere con successo, da parte di persone che esercitano
autorità, vengono imitati nelle sequenze di cui si compongono.
Di solito si imitano gli atti, con esito positivo, compiuti da persone che esercitano una certa
autorità.
Il corpo sociale
Il sociale si fa natura, il collettivo si fa individuale. Il corpo collettivo vive nei corpi individuali.
È nelle tecniche del corpo che noi troviamo il naturale modo di vivere il corpo, ma è una
modalità appresa.
Il corpo è il terreno individuale su cui la società scrive il sapere attraverso l’educazione,
attraverso la mimesi. Nel corpo i discorsi sociali si fanno abitudine, natura. Non esiste un modo
naturale per utilizzarlo; tutto è riconducibile al sociale, cioè ai processi di educazione e ai
sistemi simbolici che li organizzano. Tuttavia, noi arriviamo a vivere come natura e naturale ciò
che invece è arbitrario. La differenza tra l’atto tradizionale della religione, o un atto morale e
l’atto tradizionale della tecnica sta nel fatto che l’autore lo viva e lo senta come un atto di ordine
fisico e meccanico.
Sacro e profano
Fu soprattutto E. Durkheim seguito da alcuni suoi allievi a privilegiare questa opposizione per
determinare la religione nei suoi diversi aspetti. Secondo Durkheim l’aspetto peculiare del
fenomeno religioso è il fatto che esso presuppone sempre una divisione dell’universo in due
sfere: il sacro e il profano. Tali ambiti della realtà si escludono reciprocamente, ma possono in
particolare circostanze, comunicare fra loro. Le credenze religiose sono rappresentazioni
collettive che esprimono la natura delle cose sacre e i rapporti che esse hanno tra loro e con le
cose profane.
Il sacro e il profano
È ciò che sottoposto a divieti, a tabù, ciò che non può essere raggiunto dal profano senza che
questo causi reazioni o sia giudicato trasgressivo. Il sacro è totalmente altro, superiore e
separato.
“Quando un certo numero di cose sacre presenta al proprio interno rapporti di coordinamento e
subordinazione, in modo da formare un sistema di una certa unità che però non rientra a sua
volta in un altro sistema del genere, l’insieme delle credenze e dei riti corrispondenti costituisce
la religione”.
Il sacro e il profano
Sono ambiti dotati di autonomia. Non si possono accostare e sovrapporre, se non a precise
condizioni o in precise prospettive. Il sacro però non avrebbe efficacia se non si giungesse nella
sfera della vita ordinaria. Il contatto tra sacro e quotidiano deve essere controllato. Devono
esserci mediazioni. Ogni cultura ha elaborato forme legittime di intermediari o di specialisti, di
uomini preposti che collegano gli uomini con il divino.
La Missione Dakar-Gibuti
Nel 1931 il Parlamento francese finanziò la missione Dakar-Gibuti. La missione durò circa due
anni dalla primavera 1931 fino all’inverno del 1933 e si concluse come un enorme successo
scientifico e di pubblico.
L’etnologia intesa come studio delle società “primitive” sul campo veniva consacrata
definitivamente grazie all’intraprendenza dei nuovi etnologi e a Marcel Mauss.
Le maschere
Gli antropologi non hanno studiato tanto le maschere come prodotto artistico ma il loro utilizzo
rituale, la relazione tra maschere e cosmologia e patrimonio mitologico. Compaiono
frequentemente nei rituali di iniziazione e nei riti funebri dove rappresentano gli antenati o
esseri spirituali. In alcuni casi la maschera ha lo scopo di ricollegare la ceremonia rituale con il
tempo mitico delle origini dove ebbe luogo un avvenimento che ha determinato la formazione
dell’universo e della società nella sua forma attuale. Le maschere vanno analizzate nel loro
contesto e all’interno del complesso simbolico e cerimoniale di cui fanno parte.
Il costume, la danza, il gesto. L’uso di un particolare strumento musicale che rappresenta la voce
degli spiriti (tamburo, fluato), sono tutti elementi che vanno tenuti in considerazione per
comprendere l’utilizzo delle maschere. Le maschere sono circondate da prescrizioni rituali:
possono essere utilizzate solo in determinate circostanze e in particolar modo quando sono
connesse con rituali iniziatici maschili, devono essere tenute lontane dal contatto o dalla vista
delle donne e bambini non iniziati.
La maschera veniva utilizzata per i rituali di iniziazione maschile. Ogni ragazzo zuñi veniva
iniziato alla società koko che era la società degli uomini adulti. L’iniziazione avveniva durante
due riti distanziati nel tempo: al primo partecipavano i ragazzi dai cinque ai sette anni, al rito
finale i ragazzi di età superiore ai dieci anni. Durante la prima notte dei riti, i membri del
sodalizio dell’entità suprema prendevano la maschera e dopo la mezzanotte si andavano a
vestire alle White Rocks.
Maschera. Impersonificazione
Gli studi condotti sulle popolazioni Zuño sono interessanti perché ci dicono che gli operatori
sacrali dell’iniziazione diventano individui in grado di operare nel rito solo al momento stesso
del rito, nell’atto di indossare la maschera e proprio perché indossano la maschera. Era, cioè, la
maschera a realizzare la loro figura di operatori sacrali. Tolta la maschera perdevano anche la
funzione e la funzione di operatore sacrale.
Ogni maschera individua, dunque, una categoria di pensiero per la quale erano messi in
relazione:
- Determinati ruoli rituali.
- Determinati gruppi sociali.
- La realtà su cui si poteva influire mediante l’uso di quella data maschera.
Certe maschere, tra cui quelle utilizzate per l’iniziazione Ko’tikili si tramandavano da tempi
antichi, di generazione in generazione, custodite da gruppi specifici. Queste maschere si deciva
fossero state consegnate agli Zuñi all’epoca stessa del mito: esse erano tra gli oggetti più sacri,
si doveva maneggiarle solo in modi stabiliti e si dovevano dipingere solo nello stesso modo.
Alle maschere si rivolgevano preghiere si offriva cibo ad ogni pasto. Era la donna della casa in
cui la maschera era custodita a portarle il cibo. Sancire la sacralità delle maschere significava
sancire l’assoluta validità e la necessità dei ruoli rituali e del fatto che essi fossero rivestiti da
individui che appartenevano a gruppi precisi.
Ruolo dell’informatore
Nell’opera di Griaule l’informatore non viene occultato, anzi è un protagonista attivo nel
processo etnografico ed un interprete originale della propria cultura. Il merito del racconto di
Griaule è quello di rendere ineludibile la parte dell’incontro etnografico che in genere rimane in
ombra: il lato indigeno della storia.
Griaule ed il suo informatore sono infatti legati da una interazione dialogica la quale fa
emergere una particolare rappresentazione della cultura intesa come complesso sistema di
conoscenze.
Dio d’acqua, 1948. Ricerca sul campo tra i Dogon del Mali
È fondamentale nell’etnografia di Griaule il ruolo dell’informatore che è il protagonista della
sua più importante etnografia. Griaule ed Ogotemmeli sono legati da una interazione dialogica
che fa emergere una particolare rappresentazione della cultura, intesa come complesso sistema
di conoscenze che possono venire svelate e comunicate attraverso la parola. Nel rapporto tra
Griaule ed il suo informatore vi è una continua e costante ri-negoziazione dei ruoli. Se abbiamo
detto che per Griaule l’intervista era paragonabile all’operazione del detective allora si può
arrivare a dire che siamo di fronte ad una vera e propria operazione strategica “dove il paziente
indigeno sarà una sorta di malato, di colpevole, di candidato che risponde alle domande del
medico, del giudice, dell’esaminatore”.
Griaule e Ogotemmeli
Rapporto complesso e ambiguo.
La loro relazione è infatti una drammatizzazione dei rispettivi ruoli, un esibire certe verità ed un
coprirne altre. Una reciproca “manipolazione”, “rinegoziazione dei ruoli” una vera e propria
lotta con l’uso di presupposizioni, disgressioni, dissimulazioni, atti di meta-comunicazione.
La dimensione indigena
Secondo quando leggiamo nel suo testo di metodo, è la visione indigena quella che deve
emergere nella monografia. La filosofia implicita che essi hanno elaborato rappresentandosi in
maniera sistematica i loro rapporti sociali e la loro cultura. Ma a differenza di quanto veniva
detto da Malinowski, per Griaule il ricercatore non doveva spogliarsi della propria cultura e
della propria personalità; per Griaule “è più onesto e chiaro, ed anche più abile, accettare il
ruolo di straniero”. Per Griaule la ricerca non deve rivolgersi tanto alle manifestazioni esteriori
della realtà sociale quanto piuttosto ai sistemi simbolici e mitologici che soli permettono di
cogliere il senso della realtà.
I tempi
- Tempo del mito, tempo in cui si svolgono gli avvenimenti mitici narrati da Ogotemmeli.
- Tempo dei colloqui, durata delle conversazioni tra Griaule e Ogotemmeli.
- Tempo naturale e sociale dei Dogon scandito dalla vita agricola e commerciale, rituale.
- Tempo della ricerca durante il quale è stata osservata e studiata la cultura dogon.
- Tempo della scrittura, tempo in cui si è rielaborato il testo.
LÉVI-STRAUSS 1908-2009
Lingua e cultura
“Non ci siamo abbastanza resi conto che lingua e cultura sono due modalità parallele di una
attività più fondamentale: alludo qui a quell’ospite presente fra noi, benché nessuno si sia
sognato di inviarlo alle nostre discussioni: lo spirito umano” (Antropologia Strutturale, 1966).
Dietro questa parola di antica origine filosofica, tipicamente francese, si cela quello che Lévi-
Strauss ritiene essere il principale obiettivo della ricerca antropologica: scoprire le leggi del
funzionamento della mente umana che consentano di comprendere ad un tempo l’unitarietà del
genere umano e la molteplicità delle sue manifestazioni concrete.
Gli antropologi del linguaggio si servono del lavoro dei grammatici che si occupano della lingua
come sistema astratto di regole per combinare fra loro elementi distinti ma privi di significato
(fonemi/ si pensi ai mitemi di Lévi-Strauss) le quali a loro volta si combinano per dare vita e
unità di livello superiore (le parole, le frasi, gli enunziati). Considerano dunque la lingua come
un sistema di regole astratto. Come la linguistica strutturale il lavoro dei grammatici non è
capire il ruolo che forme e contenuti linguistici esercitano nella vita delle persone come
individui o collettività, ma scoprire le proprietà universali della mente umana implicate delle
proprietà formali dei sistemi linguistici.
Lo strutturalismo
La linguistica per gli strutturalisti si impone come modello allo studio dei fenomeni sociali in
quanto, unica tra le scienze è riuscita a raggiungere un considerevole grado di formalizzazione e
di rigore metodologico, che le avvicina in qualche modo e per molti aspetti alle scienze della
natura.
L’antropologia strutturale di Lévi-Strauss ha un preciso “statuto”: il dominio della cultura, come
quello della lingua, è riconducibile ad un ordine a patto di abbandonare il piano della realtà
empirica e superficiale per cogliere quelle realtà oggettive che ne stanno alla base, le leggi
universali che reggono l’attività inconscia dello spirito.
In antropologia lo strutturalismo non si interessa solamente alla struttura sociale ma alle
strutture delle idee. Lévi-Strauss è interessato alla struttura ideali in due sensi: 1. Nel senso che
vuole indagare le strutture della mente. 2. Nel senso che vuole indagare le strutture della mente
delle persone con cui l’etnografo lavora.
Lo spirito umano
Quello che Lévi-Strauss postula con la nozione di “spirito umano” è probabilmente l’esistenza
di un dispositivo mentale comune a tutta l’umanità, che è al tempo stesso individuale e
collettivo, che trova il suo fondamento nelle proprietà funzionali del cervello ma che si
manifesta empiricamente soprattutto nelle creazioni sociali e culturali, nelle formazioni
collettive, nell’esplicarsi di meccanismi comuni.
Parlare dell’universalità dello spirito vuole dire:
1. Postulare una identità formale delle culture, dei riti, dei miti al di là della diversità molto
grande dei contenuti.
2. Postulare il carattere finito delle possibilità logiche.
3. Affermare l’anteriorità logica sul funzionale.
Atomo di parentela
Si compone di quattro individui: la madre, il padre, il figlio e il fratello della madre. È
quest’ultimo che risulta detenere sempre sul figlio della sorella e su quest’ultima una autorità
inversamente proporzionale a quella esercitata dal padre nei confronti del figlio e della moglie.
Infatti, più i rapporti tra padre e figlio e tra marito e moglie sono improntati sull’affetto,
maggiore sarà l’autorità dello zio materno sul figlio di sua sorella e su quest’ultima. Al
contrario, quanto maggiore è l’autorità del padre sul figlio e sulla moglie, tanto più affettuosi
saranno i rapporti tra zio da un lato e nipote e sorella del primo dall’altro.
Le società mostrano una diversa gradualità nell’articolazione dei rapporti tra gli individui
costituenti l’atomo di parentela, il quale resta comunque il riflesso primario del principio
esogamico. Considerare l’atono di parentela come l’elemento irreducibile della parentela
medesima, significa non solamente rendere ragione dello “zio materno” nel sistema di molte
società “matrilineari”, ma anche conferire diversamente da altri autori, all’alleanza
matrimoniale (o affinità) un ruolo più importante di quello della discendenza nel processo di
costruzione delle strutture parentali.
La regola dell’incesto
Tale elemento è universale, è una regola presente in tutte le società perché nessuna società
potrebbe costituirsi senza questa norma costitutiva e determinante. La proibizione dell’incesto,
pur essendo un fattore universale, conserva la sua qualità di regola sociale, di istituzione creata
dagli uomini, variabile nelle sue forme e nelle sue concrete applicazioni da un gruppo sociale
all’altro. Mentre in un luogo vi sono regole molto definite ed ampie, dove un gran numero di
categorie parentali vengono escluse dalla possibilità di stringere un legame matrimoniale,
altrove le regole sono diverse, più vaghe, meno vincolati, circoscritte alla sfera della famiglia
nucleare e dei parenti ravvicinati.
La regola dell’incesto assume un valore paradigmatico: la sua universalità ne rivela la stretta
connessione con la natura umana, con ciò che definisce la collocazione dell’uomo nel quadro
delle altre specie animali, mentre la sua variabilità nelle diverse tradizioni locali ne mostra
l’aspetto artificiale, provvisorio, modificabile, la sua appartenenza al campo della cultura.
La reciprocità
Costituisce veramente un principio fondamentale di costituzione della stessa possibilità di un
ordine sociale. Non è la società che fonda e determina la reciprocità fra i suoi membri, piuttosto
è la regola della reciprocità che apre la strada alla possibilità di costruire un sistema di regole
sociali perché rende possibili le diverse modalità di scambio.
L’ipotesi di Lévi-Strauss
La connessione tra sistemi di relazioni sociali e sistema di rappresentazioni mentali è oggetto
dell’attenzioni di Lévi-Strauss fin dai tempi del suo viaggio in Brasile. Questa indagine per
Lévi-Strauss deve raggiungere un livello più profondo, un livello che trascenda le riflessioni
coscienti dei soggetti e pervenga a cogliere la dimensione inconscia del fenomeno. Le
rappresentazioni coscienti dei nativi per Lévi-Strauss sono fenomeni di superficie che spesso
dissimulano e deformano la realtà.
Il modello
Il modello serve a Lévi-Strauss a cogliere, mediante una costruzione schematica, la struttura di
un sistema altrimenti impenetrabile. All’esperienza vissuta Lévi-Strauss sostituisce
l’esperimento sui modelli, cioè una serie di operazioni condotte non sui fatti ma su mere
relazioni logiche. La scienza sociale di Lévi-Strauss si edifica sulla base del rifiuto del vissuto,
del concreto, del particolare, del contingente, dell’evento, allo scopo di cogliere una realtà vera
ma che è sempre nascosta.
I modelli
I modelli sono le finzioni nel senso che sono delle costruzioni che servono a “vedere come”, a
rappresentare in maniera sintetica ed astratta una serie di rapporti tra elementi che l’antropologia
ritiene di poter descrivere nel loro aspetto dinamico. Ma come altri tipi di finzione, i modelli
non sono da intendersi come un semplice mezzo per cogliere la realtà in maniera schematica.
Essi fanno parte della stessa teoria e la orientano in base alla loro specifica natura.
I modelli producono gli oggetti di riflessione e di discorso. I modelli producono oggetti per il
discorso antropologico. I modelli non sono dei semplici schemi per vedere meglio gli oggetti
che esistono “fuori di noi”, ma sono delle entità rappresentazionali che creano gli oggetti, che li
costruiscono per farceli vedere meglio.
In antropologia il termine modello serve a designare tanto uno strumento quanto un oggetto di
indagine. Il termine modello non designa solamente il frutto di un lavoro teorico
dell’antropologo. Sono detti modelli anche:
- Le enunciazioni dei nativi concernenti una serie di comportamenti pratici o ideali
ritenuti dai nativi stessi come “normali” della propria cultura e società.
- I loro comportamenti effettivi, i quali possono essere di natura esplicita o implicita.
Lévi-Strauss e il mito
Nel 1952-53 L-S tenne un corso all’Ecole Pratique des Hautes Etudes sulla mitologia
americana. L-S inizia ad analizzare i miti che la scuola boasiana aveva raccolto. L-S vuole
rinnovare in modo radicale l’approccio all’interno campo di studio sui miti rinunciando alle
proposte dei funzionalisti (Malinowski) e alle soluzioni particolaristiche e circostanziate
dell’antropologia boasiana.
“Quando un sistema mitologico lascia un posto importante ad un certo personaggio, poniamo
ad una nonna malevola, ci spiegheranno che, in quella data società, le nonne hanno un
atteggiamento ostile nei confronti dei loro nipotini; la mitologia sarà considerata come un
riflesso della struttura sociale, dei rapporti sociali. E se l’osservazione contraddice l’ipotesi, si
insinuerà subito che l’obiettivo specifico del mito consiste nell’offrire un diversivo a sentimenti
reali ma rimossi. Qualunque sia la situazione reale, una dialettica che ha sempre la soluzione
in tasca, troverà pur modo di arrivare al significato”.
Il mito e il linguaggio
Ogni variante del racconto mitico, ogni versione, illustra l’applicazione di una particolare
operazione logica, o di più operazioni di questo genere. Il mito per L-S va collocato all’interno
di una particolare categoria di fenomeni linguistici. “Il mito è simultaneamente nel linguaggio e
al di là del linguaggio”. Il mito, pur essendo costituito da enunciato linguistici e facendo quindi
parte del discorso, si distingue per alcuni caratteri peculiari.
I mitemi
Il temine mitema si riferisce all’analisi dei meccanismi che regolano la produzione e
trasformazione delle diverse varianti di un racconto mitico. Il mitema non è una unità linguistica
isolabile e identificabile ma viene messo in luce solamente attraverso l’analisi delle
combinazioni e trasformazioni dei racconti mitici, rivelandosi come elemento ricorrente. Le
unità costitutive del mitema non sono entità in cui si possa definire il senso, piuttosto sono unità
prive di significazione propria, ma che assumono significati solo quando vengano poste in
relazione di opposizione e trasformazione le une con le altre.
Un segmento narrativo o un elemento pertinente all’interno dalla sequenza del racconto non
assumono alcun significato al di fuori del sistema in cui compaiono e al di fuori dei rapporti di
trasformazione che uniscono i diversi racconti mitici gli uni agli altri.
“Se i miti hanno un senso, questo senso non può consistere negli elementi isolati che entrano
nella loro composizione, ma nella maniera in cui tali elementi sono combinati”.
Contesto geografico
I luoghi geografici sono reali. La narrazione inizia nella valle dello Skeena quando le due donne
lasciano i loro villaggi, uno a monte e uno a valle e si incontrano a metà strada. Dopo la morte
della madre, la giovane donna e il figlioletto si stabiliscono nel villaggio nativo di costei (cioè
quello di suo padre dove sua madre aveva vissuto dal matrimonio fino alla morte di costei): il
villaggio è a valle. Da qui inizia la visita al cielo, alla morte della madre Asdiwal prosegue il
suo viaggio verso valle, cioè verso ovest. Quando Asdiwal parte con la moglie e con i cognati
per il Nass, a pesca del pesce candela, si dirige prima verso l’estuario dello Skeena e poi verso il
mare e si arresta nella città capitale dei Tsimshian.
Contesto economico
Tutto inizia con un periodo di carestia invernale, come se conoscevano gli indigeni nel periodo
da metà dicembre a metà gennaio; è il periodo dell’arrivo del salmone e prima del pesce-
candela. Queste variazioni stagionali vanno di pari passo con le altre differenze non meno reali
che nel mito sono evidenziati ed in particolare quelle tra cacciatori di terra (Asdiwal) e
cacciatori di mare (la gente degli Abeti che vivono a valle dell’estuario e poi gli abitanti di
Dolphin Island).
Contesto sociologico
Non si tratta di un accurato quadro che documenta la vita indigena ma di una specie di
contrappunto che sembra talvolta essere in armonia con la realtà, talvolta sembra dipartirsi da
essa per poi ricongiungersi di nuovo.
La madre e la figlia erano state separate dal matrimonio di quest’ultima e da quel momento
ognuna delle due visse con il marito nel villaggio di lui. Possiamo quindi riconoscere una
società dove sebbene il sistema sia matrilineare la residenza è patrilocale in quanto la moglie si
stabilisce nel villaggio del marito; e in cui i bambini sebbene appartengano al clan materno sono
allevati nella casa paterna e non in quella dei parenti materni. Questa era la reale situazione tra
gli Tsimshian.
Nel mito la residenza patrilocale è abolita dalla carestia che libera le due donne dai rispettivi
obblighi e permette loro di incontrarsi a metà strada.
Lévi-Strauss lavora a questo punto con altre versioni del mito.
Come inizia L-S la sua analisi? Inizia con il racconto di una riunione di una madre con la figlia
che sono libere dai parenti acquisiti paterni, il racconto termina con la riunione di un padre con
un figlio libero dai parenti acquisiti materni. Inversione sociologica.
Contesto cosmologico
Se la sequenza iniziale e quella finale del mito costituiscono dal punto di vista sociologico una
coppia di opposizioni, lo stesso può essere vero da un punto di vista cosmologico, per i due
viaggi soprannaturali che interrompono il viaggio “reale” dell’eroe. Il primo dei due lo porta in
cielo alla casa del Sole che dapprima cerca di ucciderlo e poi lo riporta in vita. Il secondo
viaggio è in un regno sotterraneo. Il primo viaggio sbocca in un matrimonio matrilocale e che
testimonia il massimo scarto esogamico; tale matrimonio sarà rotto dalla infedeltà di Asdiwal
con una donna del proprio villaggio che può essere considerato il massimo scarto endogamico.
Altre opposizioni
La prima avventura di Asdiwal ci presenta una opposizione: quella cielo/terra che l’eroe è in
grado di superare grazie all’intervento del padre Hatsenas, l’uccello di buon augurio.
Quest’ultimo è una creatura del cielo atmosferico o medio e di conseguenza ben qualificato per
sostenere il ruolo di mediatore tra il terrestre. Asdiwal e il suo suocero sole. Asdiwal non riesce
a superare la sua natura terrestre a cui si abbandona due volte, la prima cedendo al fascino di
una compaesana e poi sentendo nostalgia per il suo villaggio.
Asdiwal
Proseguendo la sua avventura verso ovest, Asdiwal contrae un secondo matrimonio matrilocale
che genera un’altra opposizione, quella tra caccia di montagna (terra) e caccia di mare (acqua).
Tali opposizioni sono ugualmente insormontabili in quanto la natura terrestre di Asdiwal
prevede che sia abbandonato dalla moglie e dai cognati. Asdiwal contrae il suo matrimonio non
con rivieraschi ma con insulari e lo stesso conflitto si ripresenta. L’opposizione continua ad
essere insormontabile sebbene ad ogni stadio i termini si avvicinino.
La sua avventura può essere vista come una serie di mediazioni impossibili che sono ordinate in
scala discendente: alto e basso, acqua e terra, caccia di mare e caccia di montagna. L’analisi
precedente ci porta a distinguere tra due aspetti della costruzione del mito: le sequenze e gli
schemi. Le sequenze formano il contenuto apparente del mito; l’ordine cronologico in cui i fatti
accadono: l’incontro delle due donne, l’intervento del protettore soprannaturale, le spedizioni di
caccia e pesca, le dispute con i cognati. Le sequenze sono organizzate su piani di livelli
differenti, secondo schemi che esistono contemporaneamente e si sovrappongono. Proprio come
una melodia composta per più voci deve sottostare ad un duplice determinismo, primo quello
della sua linea melodica che è orizzontale e poi quello degli schemi contrappuntistici che sono
verticali.
L’insieme dei costumi di un popolo è contrassegnato sempre da uno stile; questo forma dei
sistemi. Sono persuaso che questi sistemi non esistano in numero illimitato e che le società
umane, come gli individui, nei loro giochi, nei loro sogni, nei loro deliri, non creano mai un
modo assoluto, ma si limitano a scegliere certe combinazioni in un repertorio ideale
agevolmente ricostruibile. Facendo l’inventario di tutti i costumi osservati, di tutti quelli
immaginati nei miti, di quelli evocati nei giochi dei fanciulli e degli adulti, dei sogni degli
individui sani e malati e dei comportamenti psicopatologici, si giungerebbe a comporre una
specie di quadro periodico come quello degli elementi chimici, in cui tutti gli elementi reali o
semplicemente possibili apparirebbero raggruppati in famiglie, e in cui avremmo più che da
riconoscere quelli che le società hanno effettivamente adottato.
Lévi-Strauss sostiene che “l’essere là” in maniera diretta e personale, se si pensa alla maggior
parte della recente antropologia inglese e americana, è fondamentalmente impossibile: o è una
frode bella e buona oppure è un fatuo autoinganno. La nozione di continuità tra esperienza
vissuta e la realtà oggettiva è falsa, come egli sostiene fin dall’inizio in Tristi Tropici, “Non c’è
continuità nel passaggio fra le due”. Per raggiungere il reale è necessario prima ripudiare il
vissuto, salvo reintegrarlo in seguito in una sintesi obiettiva, spoglia di ogni sentimentalismo.
La nostra missione consiste nel comprendere l’essere in rapporto a lui stesso e non in rapporto a
noi.
Avevo voluto andare fino all’estremo limite della vita selvaggia; non ero dunque soddisfatto,
ormai giunto fra questi benevoli indigeni che nessuno aveva mai visto prima di me e che
nessuno forse vedrà dopo? Alla fine di un viaggio esaltante avevo trovato i miei selvaggi. Ma
ahimé, essi lo erano troppo.
Essi erano là, vicini a me come una immagine in uno specchio; potevo toccarli ma non potevo
comprenderli.
Ricevevo nello stesso tempo la mia ricompensa e il mio castigo…
Giunto a decifrarli, essi si spogliano di ogni stranezza: avrei anche potuto non muovermi dal
mio villaggio. Oppure, come nel presente caso, la conservano e allora non mi serve a nulla
poiché non sono in grado di afferrarne il significato. Fra questi due estremi, quali casi ambigui
giustificano i motivi di cui noi antropologi viviamo?
Da questo turbamento che nei nostri lettori è causato da osservazioni elaborate quel tanto che
basta per essere intelligibili e tuttavia interrotte a mezza strada poiché svelano esseri simili a
coloro i quali quelle usanze sono normali, chi è veramente ingannato? Il lettore che crede in
noi, o noi stessi?
Il 7 aprile del 1884 nasceva a Cracovia Bronislaw Kasper Malinowski; il padre Lucjan era un
linguista che si era dedicato allo studio della lingua polacca e dei dialetti regionali. Fu il
fondatore della dialettologia polacca e uno dei più eminenti professori di filologia slava
all’Università di Cracovia. La famiglia Malinowski faceva parte dell’aristocrazia universitaria
polacca e il giovane Bronislaw fu un prodotto ben riuscito di questo raffinato ed esclusivo
milieu intellettuale. Tutta la vita di Malinowski fu segnata dalla sua saluta cagionevole che lo
portò a soggiornare nel Mediterraneo, in Nord Africa, alle isole Canarie e sulle Dolomiti e lo
costrinse a ricevere la sua educazione primaria prevalentemente a casa. Malinowski trascorse
l’adolescenza a Polonia, tra gli intellettuali di Cracovia e Zacopane, ridente località di montagna
e cenacolo per molti liberi pensatori polacchi.
A quel tempo la Polonia era suddivisa tra la Russia, l’Austria e la Prussia. Cracovia era sotto il
dominio dell’impero austriaco.
Alla Jagellonian University studiò fisica e matematica e si addottorò nel 1908 con una tesi dal
titolo “On the Principle of Economic of Thought”; suo mentore fu Stefan Pawlicki, storico della
filosofica che segnò in maniera particolare la formazione di Malinowski. Come sottolineano
molti fra coloro che hanno tentato una summa del retroterra culturale malinowskiano, furono
molteplici le istanze intellettuali che lo accompagnarono, che lo influenzarono e che
contribuirono a quella conformazione metodologica eclettica ed originale, viva in ognuna delle
sue opere. Dopo avere conseguito il dottorato, Malinowski si recò all’Università di Leipzig che
già suo padre aveva frequentato. Qui intraprese lo studio della Völkerpsychologie con Wilhelm
Wundt; la traduzione del testo di Wundt Elements of Folk Psycology era arrivata a Londra nel
1916 dopo avere influenzato sia Boas che Durkheim con la nozione di “coscienza collettiva”.
Malinowski fu in realtà colpito soprattutto dall’ipotesi di Wundt secondo cui le diverse
espressioni mentali, soprattutto nelle loro espressioni più “antiche”, erano fortemente
interconnesse e difficilmente separabili le une dalle altre.
In quegli stessi anni (1908-10) frequentò le lezioni dello storico ed economista Karl Bücher il
quale aveva pubblicato un libro sulla natura del lavoro tra i popoli “civili e quelli non
civilizzati”. Nel periodo vissuto in Polonia, Malinowski ebbe modo di avvicinarsi all’empirismo
radicale di Ernst Mach e alla fisica, alla psicologia e alla filosofia della scienza così come era
stata elaborata da Richard Avenarius, trovando modalità inattese di adesione e dissenso; non
meno fu intensa la comunanza intellettiva con Stanislaw Witkiewicz, che diverrà uno degli
artisti più noti in Polonia come scrittore, attore e pittore.
Nel 1910 Malinowski si allontana dalla Polonia per recarsi a Londra, alla London School of
Economics; qui lavorerà inizialmente con Edward Westermark, ma fu Charles Seligman il suo
patrono. Seguì i loro corsi che per lui furono profondamente formativi perché iniziò a conoscere
in maniera sistematica l’antropologia anglosassone in tutte le sue distinte conformazioni.
Il suo primo lavoro fu pubblicato nel 1913 e aveva come titolo Family among Australian
Aborigenes. Era un testo che non solo seguiva gli interessi psicologici ma che bene si inseriva
nel contesto antropologico europeo: in quegli stessi anni venivano pubblicati infatti i labori di
Durkheim e Alfred Reginald Radcliffe-Brown che prendevano in esame materiale australiano.
Malinowski tentava di seguire la linea di pensiero intrapresa da Westermarck, rivedendo la
nozione elaborata da Morgan sui “sistemi classificatori di parentela” e criticando i concetti di
“promiscuità primitiva” e “gruppi matrimoniali”. Fu il suo patrono che si preoccupò affinché
Malinowski un finanziamento per partire per il Sudan, riuscì ad ottenere una borsa di studio
come assistente di Marett che era in procinto di partire per l’Australia.
Il 12 settembre del 1914 Malinowski arrivò a Port Moresby; il primo mese, guidato e
monitorato da Atlee Hunt, segretario del Dipartimento degli affati esteri e Hubert Murray,
vicegovernatore di Papua dal 1908 al 1940, si dedicò alla linguistica e visitò alcuni villaggi
vicini.
Il “campo” di Malinowski
- Settembre 1914 – Marzo 1915 soggiorno tra i Mailu nell’isola di Toulon.
- Giugno 1915 – maggio 1916 primo soggiorno alle isole Trobriand.
- Ottobre 1917 – ottobre 1918 secondo soggiorno alle isole Trobriand.
- Nei lassi ti tempo che intercorsero tra i tre soggiorni, Malinowsk ritornò sempre in
Australia. Gli intervalli fra i soggiorni di campo ebbero per Malinowski un ruolo
fondamentale nell’economia del suo rapporto con il lavoro etnografico e con
l’evoluzione del sapere antropologico.
Malinowski è stato fatto oggetto di una specie di “culto” come antropologo sul campo. È stato
descritto come l’antropologo capace di particolari e misteriose qualità che lo avrebbero messo in
grado di cogliere “il punto di vista” del nativo, la vita delle popolazioni studiate “dall’interno.
Malinowski fu in effetti colui che diede il via alla pratica dell’osservazione partecipante
(termine che coniò lui stesso) una tecnica di inchiesta che consentiva ai ricercatori di entrare in
un rapporto empatico con i nativi. Osservare partecipando voleva dire cercare di prendere parte
il più possibile alla vita degli indigeni allo scopo di cogliere il loro punto di vista, la loro visione
del mondo.
I diari
- Il quotidiano
- Storia del campo
- Memoria, storia, ricordo, evocazione, testimonianza
- Impegno etico-politico dell’antropologo
- Linea di continuità tra lettere e monografie
Il ceremoniale kula
Questa forma di scambio o kula nella lingua delle Trobriand veniva definita da Malinowski
come un “fenomeno economico di notevole importanza teorica all’interno del suo circuito”.
Malinowski affrontò lo studio di questo fenomeno partendo dall’analisi di tutti gli elementi della
vita sociale connessi alla pratica del kula. Il kula risultava essere così un fenomeno complesso e
stratificato.
Il Kula
Tra le isole abitate dai gruppi partecipanti allo scambio, isole che per comodità possiamo
immaginare disposte su una circonferenza, circolavano due tipi di oggetti: collane di conchiglie
rosse (soulawa) e braccialetti di conchiglie bianche (mwali). Le prime circolavano solo in senso
orario e i secondi solo in senso contrario. Ciò dipendeva dal fatto che gli oggetti potevano essere
scambiati solo con gli oggetti dell’altra categoria: Soulawa contro mwali, mwali contro
soulawa.
Gli oggetti circolavano in continuazione restando nelle mani dei loro possessori per un periodo
limitato di tempo. Essi non uscivano mai dal circuito di scambio e venivano barattati nel corso
delle visite che gli abitanti delle diverse isole si scambiavano periodicamente. Tanto che i
preparativi per la partenza quanto gli scambi avvenivano secondo rituali precisi accompagnati
da pratiche magiche. Durante le visite gli scambi kula, considerati strettamente come
“cerimoniali” erano accompagnati da un commercio di tipo profano mediante il quale venivano
scambiati oggetti di un valore d’uso.
Olismo e funzionalismo
L’osservazione partecipante produsse sul piano teorico aspetti di grande importanza.
In primo luogo, la comparsa di una nuova concezione della cultura e della società come
complessi di fenomeni integrati reciprocamente e quindi non astraibili dal contesto dal contesto
generale entro il qual si manifestano abitualmente.
L’oggetto di studio
Divenne qualcosa che poteva essere colto da una prospettiva di tipo olistico e non settoriale.
Così inteso l’oggetto di studio risultava costituito da parti tra loro correlate in senso funzionale.
Anche se Malinowski non fornì mai un quadro complessivo della società e della cultura delle
Trobriand, in tutti i suoi lavori iniziali agisce l’idea della funzionalità dell’elemento singolo o
tratto culturale sia esso una istituzione, una credenza, una pratica per il mantenimento della
totalità.
Riflessioni
La prospettiva di Malinowski va anche considerata alla luce di uno sforzo mirante a mostrare
come il “selvaggio”, il “primitivo” fosse in grado di esprimere contro lo scetticismo allora
diffuso, un tipo di comportamento dotato di coerenza e ragionevolezza. L’influenza di fare
apparire i popoli primitivi sotto una nuova luce fu probabilmente all’origine della scelta stessa
da parte di Malinowski, di studiare lo scambio kula come principale oggetto delle sue ricerche.
Malinowski comprese lo scambio kula nella sua portata sociologica in senso generale; egli ne
comprese la funzione che esso assolveva nel rafforzare i rapporti tra gli individui e tra i gruppi.
Egli gli attribuì una importanza di tipo economico. In questo senso egli diede una
interpretazione economica ad un fenomeno che non era propriamente tale, se per economia si
intende il complesso di operazioni di produzione, distribuzione e scambio di beni.
Malinowski rigettava l’opinione di un comunismo primitivo e si rifiutava anche di vedere
nell’indigeno delle Trobriand l’incarnazione dell’homo economicus. Voleva descrivere il
“selvaggio” come essere ragionevole e questo lo portò a descrivere come “economico” un
fenomeno che propriamente non lo era.
Funzionalismo ristretto
Concezione della società e delle culture come complessi integrati e ad esso si affianca una
concezione particolare della cultura. Per Malinowski la cultura è un vasto apparato in parte
materiale in parte umano spirituale con cui l’uomo può venire a capo dei concreti specifici
problemi che gli stanno di fronte. La cultura è un apparato strumentale pensato da Malinowski
come una sorta di risposte dall’uomo per l’adattamento all’ambiente esterno.