ANTROPOLOGIA CULTURALE

Scarica in formato docx, pdf o txt
Scarica in formato docx, pdf o txt
Sei sulla pagina 1di 80

ANTROPOLOGIA CULTURALE

Disciplina il cui ambito di studio è l’anthropos, l’uomo nella sua globalità.


Antropologia è il discorso sull’uomo.
Gli antropologi tentano di rispondere a diverse domande sull’anthropos.
Studiano quando, dove e con quali modalità l’uomo è comparso sulla terra e si è evoluto.
Studiano come si sono prodotte le varietà fisiche presenti nelle moderne popolazioni
(antropologia fisica; antropologia molecolare; genetica delle popolazioni).
Quando parliamo di antropologia culturale dobbiamo pensare ad una disciplina molto vasta e
comprensiva di molti aspetti [antropologia politica, economica, della parentela, religiosa,
linguistica, giuridica...].

L’antropologia culturale studia tutti i tipi di popolazione e molti aspetti della esperienza umana.
L’antropologia culturale studia la storia dell’area geografica della popolazione, l’ambiente,
l’organizzazione familiare, il linguaggio, le modalità di tipo religioso, le forme artistiche, i
sistemi legati alla oralità e alla scrittura, la cultura materiale, ecc.

L’antropologia Molecolare è lo studio della filogenesi della specie umana.


Antropologia molecolare usa le tecniche e le metodologie della genetica molecolare per
rispondere a domande di tipo antropologico quali:
- Quale è l’evoluzione genetica degli umani e delle scimmie?
- Dove si sono sviluppati prima gli esseri umani?
- Quale il ruolo delle migrazioni e della mescolanza nelle popolazioni attuali e in quelle
più antiche?

Antropologia culturale
L’antropologia si interessa alla variabilità delle idee, delle usanze cosiddette “tradizionali” nelle
società presenti e passate.
L’antropologia si interroga sull’uomo e sulla sua essenza (antropologia filosofica).
Quando parliamo di antropologia abbiamo a che fare con una nozione ampia, perfino vaga,
generica.

LA CULTURA

La cultura è un compresso di idee, simboli, di comportamenti e di disposizioni storicamente


tramandati, acquisti, selezionati e largamente condivisi da un certo numero di individuo, con cui
questi ultimi si accostano al mondo, in senso pratico e intellettuale.
Tutte le attività umane sono il frutto di “cultura”. Anche le manifestazioni che possono apparire
come “strane”, “aberranti”. Il cannibalismo, la stregoneria, i sacrifici umani.
La cultura si manifesta come qualcosa di specifico ma è un dato universale.

E. B. Tylor (1871)

La cultura o civiltà, intesa nel suo etnografico più amplio, è quell’insieme complesso che
include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capità
e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società.

Clifford Geertz, Interpretazione di culture (1973)


Come si è evoluta la specie homo? p. 90.
Che ruolo ha la cultura nella formazione dell’uomo? p. 94.

La “natura” della cultura

- Il genoma umano (i geni presenti nel DNA) non contiene le informazioni necessarie per
fare adottare all’uomo determinati comportamenti che sono indispensabili invece per far
fronte al mondo circondante.
- L’uomo nasce nudo. L’uomo nasce incompleto.
- Il nostro codice genetico ci predispone a compiere una serie di operazioni complesse ma
non ci indica QUALI operazione dobbiamo cogliere.

Fabbricare certe cose e non altre, unirsi sessualmente con certi individui, pregare certe entità
piuttosto che altre dipenda da cosa ci è stato insegnato dal gruppo in cui siamo cresciuti. Ciò che
il nostro gruppo sa e conosce il frutto di una lunga storia di relazioni con l’ambiente e di
profonde interrelazioni tra essere umani.
Interessa studiare tutto quanto può essere definito come vincolo, imposizione della cultura.

Cultura come vincolo


Secondo Emile Durkheim, padre della scuola sociologica francese, le norme della cultura sono
coercitive, hanno la forza e il potere di ‘costringerci’, di ‘controllarci’ e l’uomo altro non può
fare che accettare tali norme, tali regole, tali imposizioni.

Cultura come scelta


Gli uomini sono certamente guidati e vincolati nelle loro scelte. Per vivere in mezzo ai loro
simili è necessario adottare codici di comportamento adeguati e che siano riconoscibili e quindi
condivisi da altri. Questo non significa che non scelgano. Gli esseri umano elaborano preferenze
e idiosincrasie, rifiutano e accettano gli elementi della propria cultura. A sua volta la cultura
sceglie e rifiuta elemento dal mondo esterno.

I modelli della cultura


Noi esseri umani seguiamo modelli di comportamento. Noi ci comportiamo, pensiamo,
sentiamo in un modo piuttosto che un altro perché seguiamo determinati modelli di
comportamento e pensieri. Cfr. Marcel Mauss, Le tecniche del corpo, 1934.
Questi modelli sono stati introiettati grazie all’educazione implicita o esplicita, diretta o
indiretta che noi riceviamo dal gruppo in cui cresciamo. Noi riceviamo dal gruppo modelli per
comportarci, modelli guida. Questi modelli variano secondo i diversi contesti.
I “modelli per” aiutano a rendere coerenti altri modelli di rappresentazione del mondo.
Linee guida che vincolano il comportamento.

La cultura... Sceglie, seleziona, tramanda, cambia e si evolve, è stratificata, è completa,


ecc.

ANTROPOLOGIA CULTURALE, SOCIALE, ETNOLOGIA, ETNOGRAFIA

OLISMO, approccio olistico dal greco olos, tutto. L’antropologia studia non solamente tutti i
tipi di popolazione ma anche molti aspetti dell’esperienza umana. Un antropologo può prendere
in esame la storia dell’area geografica di una popolazione, il suo ambiente, l’organizzazione
della vita familiari, i caratteri generali della lingua, i modelli di insediamento del gruppo, il
sistema politico, economico, la religione, i costumi, le esperienze religiose e artistiche.
L’etnografia si riferisce all’attività di ricerca condotta mediante prolungati periodi di
permanenza a diretto contatto con l’oggetto di studio.
Si riferisce alla produzione testuale. Con questo termino si indica uno studio specifico su una
determinata popolazione.
L’etnografia ha visto la luce con l’antropologia considerata “moderla”; l’antropologia non è nata
come etnografia ma come ricerca “a tavolino”.
Si considera Bronislaw Malonowski colui che iniziò l’antropologia all’etnografia. In Argonauti
del Pacifico Occidentale (1922) parlò esplicitamente di “osservazione partecipante”.
In realtà già De Gérardo (1800) esponente di spicco della Societé des Observateurs de
l’Homme aveva caldamente spinto i “ricercatori sull’uomo” ad andare sul campo.

La Societé des Observateur de l’Homme fu la prima società di carattere antropologico. Fu


fondata da Louis François Jauffret (1770-1850) e da altri intellettuali nel 1799. Aveva interessi
molto ampi, come scrisse Jauffret nel 1802, una classificazione delle razze, una antropologia
comparata dei costumi e delle tradizioni dei popoli, una topografia antropologica della Francia,
un museo di etnografia comparata, un dizionario delle lingue fino ad allora conosciute.

La ricerca prima dell’etnografia


Si stilavano questionari che venivano inviati a quelli che nel gergo di allora venivano
denominati men on the spot, europei che avevano mansioni diversificate ma che mantenevano
contatti più o meno sporadici con la gente del posto.

Senso di urgenza e paura della scomparsa dei “selvaggi”


Questa tipologia di raccolta e il senso di “urgenza” che lo accompagnava non conformò
solamente la modalità in cui i dati vennero catalogati, ma plasmò profondamente anche la
tipologia delle informazioni che venivano incorporate dalle diverse istituzioni. Tali questionari,
rigidamente costruiti, avevano cioè il compito di guidare, dirigere e controllare la modalità di
lavorare degli osservatori-compilatori.

Indagine Etnografica
Non è solamente descrittiva ma di propone di gettare soluzioni ai quesiti relativi alle relazioni
tra gli aspetti economici e politici del gruppo, riguardo all’adattamento dello stile di vita e alle
condizioni ambientali.
Esempio del tic e dell’ammiccamento dell’antropologo americano Clifford Geertz.

Margaret Mead (1901-1978)


Non si è preparati al campo. Sorpresa, entusiasmo, cautela.
“Quando mi dichiarai disposta a studiare la fanciulla adolescente e Boas accosentì che mi
recassi a svolgere questa ricerca a Samoa, per circa mezz’ora il professore mi diede alcune
istruzioni e mi disse che dovevo essere disposta ad avere l’aria di perdere il mio tempo
limitandomi a starmene seduta ora qua e ora là e ad ascoltare, ma che non dovevo assolutamente
sprecarlo facendo della etnografia, studiando cioè la cultura nel suo complesso” L’inverno delle
more, 1972.

Le letture, la preparazione teorica


Leggendo Freud, Lèvy-Bruhl e Piaget, ciascuno dei quali supponeva che i primitivi e i bambini
avessero molte cose in comune, mi ero interessata al problema di che cosa fossero i bambini
primitivi e se gli adulti privitivi assomigliassero, quanto a modo di pensare, ai nostri bambini.
Sembrava un problema ovvio, ma nessuno se lo era ancora posto.

La ricerca locale e globale


Una ricerca etnografica-antropologicanon mira a cogliere la cultura nella loro improbabile
interezza, come se queste fossero mosaici composti da tessere di varie forme e dimensioni la cui
completa disposizione sarà in grado di renderci comprensibile l’intera figura.
Gli antropologi studiano determinati aspetti di una cultura e per fare questo non possono
concentrarsi solamente sull’aspetto da loro prescelto come se tutti gli altri non dovessero
interessarlo.
Gli antropologi sono costretti a considerare un fenomeno in correlazione a tutti gli altri, o per lo
meno a molti altri e devono estendere la loro indagine alla dimensione globale.
Esempio della “povertà” e della malnutrizione e obesità.

La raccolta dei dati


Cosa significa per l’antropologo “raccogliere i dati”?
- Raccogliere miti e storie relative alla comunità in questione, registrazione di aneddoti,
proverbi, annotazione delle norme di comportamento che gli individui presentano
esplicitamente o come forma di racconto.
- Dati che provengono da informazioni precise riguardo a riti, ceremonie, credenze, uso
delle risorse.
- Dato che hanno diversa provenienza, frutto dell’osservazione e dell’ascolto.

Ciò che viene detto e ciò che si osserva


A partire dal confronto tra ciò che viene detto e che si ascolta e ciò che fanno le persone, il
ricercatore deve comprendere ciò che accade in una società e deve interpretare il conflitto
esistente tra ciò che pensano o dicono di pensare su di un deto argomento.
Ad. es.: Come bisogna educare i bambini? Come è bene comportarsi con i propri vicini? Chi è
meglio sposare? Come condurre onestamente un affare?

Metodo
L’antropologia culturale ha stilato pochissimi manuali di metodo. Perché?
Intervista strutturata, semi-strutturata, libera.
Questionari.
Tabelle.
Registrazioni audiovisive.
Campionatura di esemplari.
Tempo.

L’osservazione partecipante
L’antropologo vivendo per periodi relativamente lunghi a contratto con i membri della comunità
che studia entra nel loro mondo. Comincia a capire gesti che prima non comprendeva, a cogliere
il significato di una battuta di spirito, a capire quando e dove si può parlare e in che modo.
L’antropologo impara a mangiare come loro e comincia a vedere il mondo dal loro punto di
vista e a capire come i suoi ospiti vedono se stessi nel proprio mondo. Comincia a “mettersi nei
loro panni”.

Impregnarsi
È come se l’antropologo si impregnasse dei modi di fare e dell’ambiente entro cui si trova a
vivere senza per questo trasformarsi in un membro della società che studia.
Distacco e partecipazione: osservazione partecipante.

Etnografia: una operazione di scavo


Per gli antropologi “fare etnografia” non significa solo osservare, registrare, classificare
comportamenti e punti di vista e poi procedere all’elaborazione di modelli formali o
quantitativi.
Per gli antropologi “fare etnografia” significa scoprire, dietro i comportamenti e idee, altri
comportamenti e altre idee conessi con i primi che possono costituire una possibile spiegazione.
È un lavoro di scavo e di raccordo tra i comportamenti e le idee che va al di là delle pure
ricorrenze statistiche e che presuppone un dialogo, un vincolo, un legame di fiducia.

“Fare Etnografia”
Nel lavoro di campo l’antropologo lavora con gli informatori. Persone del luogo che vengono
scelte per la loro capacità di spiegare, raccontare. Sono “cerniere” tra l’antropologo e le
popolazioni che l’antropologo studia. L’antropologo culturale osserva i rituali, determina i
termini usati per la parentela, traccia i confini geografici del territorio, censisce le famiglie.
Per fare etnografia:
- Scrivere un diario
- Prendere appunti attraverso le “note di campo”.
“Fare etnografia è come tentare di leggere un manoscritto, straniero, sbiadito, pieno di ellissi, di
incongruenze, di emendamenti sospetti e di commenti tendenziosi, ma scritto non in
convenzionali caratteri alfabetici, bensì in fugaci esempi di comportamento conforme” (Geertz).

La scelta dei dati


Come l’antropologo sceglie quali sono i dati significativi? Perché sceglie alcuni dati e ne scarta
altri?
L’antropologo ha in mente una idea, una ipotesi, ha semplici curiosità.
Quando pensiamo di raccogliere dei dati, noi stiamo in realtà “intepretando delle
interpretazioni”.
Quello che i nostri interlocutori ci raccontano è un LORO modo di interpretare il mondo.

Cosa fanno gli antropologi? Dove studiano? Con quali modalità e tecniche?
Gli antropologi si sono da sempre occupati dello studio dei popoli a loro contemporanei ma
geograficamente lontani. Oggi non è più così.
Gli antropologi hanno da sempre studiato quelli che definivano “popoli primitivi”, “popoli
selvaggi”, perché nel periodo evoluzionista rappresentavano le fasi “arcaiche” della storia del
genere umano.
A partire da questo tipo di “oggetto” di studio è nata l’antropologia.

Come studiano gli “altri”?


Clifford Geertz dice che gli antropologi studiano “quello che gli altri pensano di stare facendo”.
In Antropologia Culturale vi è forte la tensione tra il pensare, il credere degli altri e il fare,
l’agire, il praticare.
L’antropologo studia le pratiche, le azioni, le abitudini.
Deve rendere quanto studia, familiare e comprensibile.

LA STORIA DELLA DISCIPLINA


Il primo scritto contente indicazioni metodologiche sistematiche inerenti le osservazioni di
uomini e società altre si deve a Joseph-Marie de Gérardo, saggista francese membro della
Société des Observateur de L’homme che nel 1799 pubblica Considerations sur les diverses
méthodes à suivre dans l’observations des peuples sauvages.

La Société des Observateurs de l’Homme


Fu la prima società di carattere antropologico. Fu fondata da Louis François Jauffret (1770-
1850) e da altri intellettuali nel 1799. Aveva interessi molto ampi, come scrisse Jauffret nel
1802, una classificazione delle razze, una antropologia comparata dei costumi e delle tradizioni
dei popoli, una topografia antropologica della Francia, un museo di etnografia comparata, un
dizionario delle lingue fino ad allora conosciute. La Società degli osservatori dell’uomo non
nacque dal nulla.
Quando Jauffret ed i suoi collegui le diedero vita, la letteratura sui selvaggi aveva già
dimensioni considerevoli e non solamente in Francia.

La conoscenza dell’altro
- Come poter conoscere l’altro
- Come poterlo descrivere
- Come poterlo classificare
- Come poterlo controllare
- Dal punto di vista culturale, sociale, politico, linguistico.
Di questo inizia a occupare la nascente disciplina: l’antropologia.

“Il suo [della Société] proposito è soprattutto quello di raccogliere molti fatti, di estendere e
moltiplicare le osservazioni, lasciando da parte tute quelle vane teorie, tutte quelle speculazioni
arrischiate le quali non servirebbero che ad avviluppare di nuove tenebre uno studio già di per
sé tanto oscuro. Essa si propone di osservare l’uomo sotto i suoi diversi aspetti fisici,
intellettuali e morali, avendo cura tuttavia di contenersi entro i limiti determinati. Per esempio,
l’osservazione dell’uomo fisico abbraccia l’anatomia e la fisiologia, la medicina e l’igiene: ma a
questo proposito la società non perderà mai di vista che il suo scopo è di non approfondire
queste diverse scienze se non in ciò che riguarda la storia naturale dell’uomo propriamente
detta. Questa particolare prospettiva aprirà ad essa le ricerche più nuove e più importanti, e avrà
il vantaggio di tenere distinti i lavori di questa società da quelli delle società speciali di
medicina e chirurgia”.

Conoscenza
La conoscenza perseguita dalla Société vuole essere completa sia da un punto di vista spaziale
che temporale. L’uomo deve essere osservato ed analizzato, in termini di indagini “positive”, al
fine di trovarne le origini e di tesserne le fila storiche che si possono ricavare dalla
comparazione. La Société raccoglie l’eredità del comparativismo settecentesco, sistematizzando
metodologicamente la possibilità di connettere dati archeologici e dati etnografici. È attraverso
questo fondamento epistemologico che la comparaison si definisce come il metodo principale
dello studio dell’uomo. Non è piú sufficiente una storia congretturale, simile a quella teorizzata
da Rousseau nel secondo Discours: si ricercano prove fattuali ed empiriche attraverso una
classificazione che permetta di definire una linea temporale in cui i popoli extraeuropei sono
considerati i rappresnetanti delle “prime epoche della storia”.

JOSEPH FRANÇOIS LAFITAU (1681-1746)


Nel 1724 pubblica I Costumi dei selvaggi americani comparati con quelli dei tempi più antichi.
Questa opera rappresenta un incontro importante con la letteratura di viaggio e quella che aveva
le proprie radici nella polemica ideologia. Secondo M. De Certau essa rappresenta la prima
opera della nuova scienza, “l’etnologia”. Il gesuita francese si trattenne per alcuni anni tra gli
Uroni e gli Irochesi della zona dei grandi Laghi nordamericani, tra il Canada e gli Stati Uniti
attuali. In questa opera la metodologia di Lafitau è quella comparativa al fine di dimostrare che
presso tutti i popoli era presente l’idea di un essere superiore. La comparazione rimaneva con
l’antichità classica e preclassica.
Metodologia di tipo comparativo.
Nella sua opera Lafitau sosteneva collegamenti storici e culturali tra i nativi americani e le
popolazioni europee dell’antichità pre-classica, ma soprattutto fu Lafitau che aveva indentificato
una “ginecocrazia” o “impero delle donne” presso le popolazioni Irochesi, presso gli Uroni e
presso i Lici; qui il gesuita intravede un sistema origiriamente matriarcale e matrilineare in cui
le “Matrone” esercitano la “principale autorità” (genealogica e politica) e in cui gli uomini
hanno il potere soltanto “per via di procura”. Ovunque è la madre che si mostra nella donna;
essa ha il dominio della deliberazione politica, del nome familiare, dei figli o del matrimonio,
cioè del simbolico come anche del quotidiano, della vita insomma.

Degli uomini
Si voleva descrive ciò che appariva strano, ciòi che in apparenza sembrava così diverso.
Si voleva comprendere che lingue parlavano questi uomini “selvaggi”. Perché non portavano i
vestiti? In che cosa credevano? Come educavano i loro figli? Erano in grado di farlo? Come si
organizzavano politicamente, socialmente?
Il fare etnologia, l’osservare partecipando
L’etno-antropologia inaugura la sua pratica e convalida le sue ipotesi teoriche tramite la vista.
Senza tecnica d’osservazione, senza strategia dell’occhio, senza prammatica della facoltà visiva,
l’altro non può comparire né divenire oggetto di conoscenza. La conoscenza antropologica e
tuto il secolo XVI (i viaggiatori, gli esploratori, i missionari) ne rende testimonianza ed è per
essenza, basata sulla vista.

JOSEPH-MARIE DE GÉRANDO
Nel ripercorrere l’evoluzione della metodologia etnografica, si è soliti partire dagli scritti di
Joseph-Marie de Gérardo, intellettuale francese e membro della Société des Observateurs de
l’Homme e che pubblicò nel 1799 le Considérations sur les diverses méthodes à suivre dans
l’observation des peuples sauvages. Il destino di questo testo fu singolare perché, preparato
come prontuario per il Capitano Baudin e la sua équipe di partenza per un viaggio di
esplorazione nelle terre australi (1800-1803), da loro fu pressoché ignorato. Secondo Jean
Copans e Jean Jamin (1994) questo manuale rimase dimenticato dall’Accademia francese
posteriore (né Mauss nel 1947 né Griaule nel 1957 ne fanno menzione nei loro manuali)
segnando profondamente il destino dell’antropologia francese, che dovette attendere parecchi
anni per contributi metodologici sostanziali.

Ci si prepara a conoscere gli altri. Come? Con quali modalità?


In Francia istituisce la Société, ma anche l’ambiente culturale americano, d’altro canto, aveva
già impostato il proprio paradigma teorico a partire dall’Ottocento con le prime etnografie sugli
indiani d’America (Bieder, 1986), mentre l’antropologia britannica iniziava a lavorare
alacremente alle diverse edizioni delle Notes and Queries.
In Europa e negli Stati Uniti si creano organi dello stato in grado di “conservare” la conoscenza.

NOTES AND QUERIES ON ANTHROPOLOGY.


Pubblicazione della sezione antropologica della British Association for the Advancement of
Science a uso di viaggiatori, funzionari e amministratori coloniali nella quale, a partire dal 1874
trovano spazio questioni metodologiche come i questionari e le istruzioni per la raccolta di dati
etnografici sul terreno. L’ultima edizione è del 1951.
Come era avvenuto per la documentazione della cultura indiana d’America, anche per le altre
popolazioni del globo esisteva la medesima urgenza: raccogliere maggiori informazioni
possibili su popolazioni che apparivano in via di estinzione. In questo senso la forma di
conoscenza attraverso il questionario poteva sembrare la più adatta: si ricevevano moltissimi
dati in un tempo relativamente breve ed in aree tra loro anche molto distanti.
Tali questionari erano inviati a quelli che nel gergo di allora venivano denominati men on the
spot, europei che avevano mansioni diversificate ma che mantenevano contatti più o meno
sporadici con la gente del posto. Come sottolinea Jacob W. Gruber, questa tipologia di raccolta e
il senso di “urgenza” che lo accompagnava non conformò solamente la modalità in cui i dati
vennero catalogati, ma plasmò profondamente anche la tipologia delle informazioni che
venivano incorporate dalle diverse istituzioni.
Le Notes and Queries in questo senso possono considerarsi come una elaborazione mai
sistematizzata, da parte dell’accademia britannica, di un manuale per quegli etnografici in
procinto di partire.
Il testo del 1874 era suddiviso in tre sezioni: costituzione dell’uomo (antropologia fisica);
Cultura (questa suddivisa a sua volta in settantacinque parti, (storia, archeologia, legge, costumi,
tabù, ecc.).
La seconda edizione delle Notes and Queries è del 1892, la terza del 1899 e l’ultima del 1951.
Ciò che accomunava l’Europa e gli Stati Univi nel loro frastagliato ed incostante percorso
metodologico, era l’ammissione dell’incompletezza degli ‘strumenti dell’antropologo’. In questi
anni a cavallo tra Otto e Novecento si aveva la consapevolezza che la ricerca di campo insieme
alla compilazione di questionari dovevano essere incrementati da una documentazione di tipo
storico.

Antropologia nasce come sapere pluridisciplinare


L’antropologia agli albori del 1900 si presentava come un sapere profondamente
pluridisciplinare dovuto anche alla eclettica formazione di questi primi antropologi di
professione: uomini come Alfred Cort Haddon, William Halse Rivers e Charles Gabruel
Seligman si erano formati sullo studio delle scienze naturale ed impostarono in maniera del tutto
innovativa le questioni di carattere metodologico. Come ebbe a dire Urry, essi fecero da ponte
tra le idee del diciottesimo secolo ed il bisogno di una nuova era (Urry, 1993).

Antropologia e potere
Può essere utile pensare a come l’antropologia anglosassone tra il 1870 e il 1900 rappresentasse
realmente uno strumento non solo per comprendere, ma sopratutto per controllare i popoli
‘altri’, un indice della situazione socio-politica ed un termometro per misurare la competizione
imperialistica. Gli intellettuali che si dedicarono alle prime indagini di tipo etnografico nelle
ultime decadi del XIX secolo e durante le prime del XX sono da pensarsi come vere e proprie
‘cerniere’ tra una disciplina non ancora formata e l’antropologia accademicamente istituita.

L’oggetto dell’antropologia evoluzionista: i “primitivi”


In questa fase formativa delle scienze sociali, il termine acquisisce due connotazioni che, pur se
complementari e spesso presenti contemporaneamente nel pensiero di molti autori,
corrispondono a due modalità diverse in cui il concetto svolge un ruolo determinante nello
sviluppo delle teorie antropologiche di quel periodo. Da un lato, infatti, “primitivo” viene a
identificarsi con l’idea di originario, primordialmente, anteriore in senso temporale, rimandando
ad immagini archetipiche; dall’altro si individua con questo termine ciò che è semplice, che
costituisce la forma più elementare in cui un fenomeno si può presentare. La teoria
dell’evoluzionismo permette di combinare insieme questi due significati in un unico paradigma
interpretativo: l’evoluzione di ogni aspetto della realtà, dalle specie viventi all’universo e alla
civiltà umana, procede, come insisteva Herbert Spencer, dal semplice al complesso,
dall’omogeneo all’eterogeneo.

I “primitivi”, i “barbari”, i “selvaggi”, gli “altri”


Gli indiani, come sottolineò Harvey Pearce, erano il “grado zero dell’umanità” (Pearce, 1988).
Tale “primitivismo radicale” coincideva però con una astrazione pressoché totale del suo
oggetto. Come sottolineano Pearce (1988) e Robert F. Berkhofer (1978), l’Indiano era un ‘tipo’,
era il selvaggio, una generica categoria interpretativa che lo privò della sua invidualità e lo
trasformò in un ‘simbolo’, elemento materiale rappresentativo di una entità astratta. Gli indiani
divennero il prototipo ideale del primitivo: non si parlava di una singola popolazione, di una
“tribù” appunto, ma di una intera cultura; la concettualizzazione e rappresentazione dello
specimen culturale avveniva in base a ciò che gli mancava, mentr per la sua descrizione era
necessaria una valutazione di tipo morale.

L’antropologia evoluzionista
L’Inghiltera della regina Vittoria può essere considerata la culla dell’evoluzionismo e
dell’antropologia cosiddetta “moderna”. Durante questo periodo la Gran Bretagna si impadronì
dell’intera India, estese il proprio controllo su gran parte dell’Africa e disseminò le proprie
rappresentanze diplomatiche e stazioni commerciali in Medio Oriente, nel Sudest asiatico e
nell’America meridionale. L’Australia, la Nuova Zelanda, e gran parte dell’Oceania erano sotto
la corona britannica, mentre la sua forza militare le consentiva di fronteggiare l’espansionismo
della Russia zarista in Asia centrale e di dettare ordini all’impero cinese.
L’antropologia che si sviluppò nell’Inguilterra vittoriana era una “scienza ottimista”, Essa fu
chiamata la “scienza del riformatore” proprio ad indicare l’idea che l’antropologo con il suo
sapere, poteva fornire un contributo utile ad una umanità bisognosa di riforme sul piano sociale,
politico e cultura. Chi definiì l’antropologia “scienza del riformatore” fu Edward Burnett Tylor
considerati uno dei fondatori della disciplina.

EDWARD BURNETT TYLOR (1832-1917)


Antropologo inglese, nasce il 2 ottobre 1932 a Londra, Inghilterra. Edward segue le orme del
fratello Aldred e frequenta la scuola a Tottenham, ma quando ciascuno ha raggiunto l’età di 16,
vengono portati fuori dalla scuola, nel mondo del lavoro per l’azienda di famiglia. Dopo aver
trascorso sette anni dietro una scrivania presso la ditta, la salute di Edward cominciò a
deteriorarsi e per migliorare la sua salute i genitori lo spinsero a viaggare. Nel 1855 si recò in
Messico.
Nel 1933, Tylor divenne il capo del Museo Universitario di Oxford e fu un professore di
Antropologia dal 1896 fino al 1909.

Tylor e l’evoluzionismo
L’evoluzionismo unilineare si riteneva che vi fosse una linea di evoluzione dominante. Tutte le
società, secondo questa concezione dovevano passare attraverso stadi, gli stessi stadi. Poiché le
società progrediscono a velocità diverse, quelle che sono più lente rimarranno ad un livello
“inferiore” rispetto a quelle che progrediscono in maniera più rapida. Tutto questo porta
chiedersi che cosa significhi evolversi e progredire.

L’evoluzionismo
Le sopravvivenze: “Nonostante la progressiva affermazione del pensiero razionale le credenze e
i riti dei popoli superiori mostravano la sopravvivenza del vecchio nel cuore del nuovo. Le
modificazioni del vecchio per adattarsi al nuovo”. L’antropologia evoluzionista lavora su un
importante assunto, quello delle sopravvivenze.

Le sopravvivenze
“Quando con il tempo si è venuto a creare un cambiamento generale delle condizioni di vita di
un popolo, è comunque facile trovare molte cose che chiaramente non hanno la loro origine nel
nuovo stato di cose ma che sono semplicemente mantenute all’interno di esso. In forza di queste
sopravvivenze è possibile sostenere che quella cultura all’interno della quale esse possono
essere osservate deve essere derivata da uno stato culturale precedente in cui deve essere
rintracciato l’autentico luogo e l’autentico significa; di conseguenza questa serie di fatti deve
essere considerata come una vera e propria maniera per l’indagine storica” (Tylor).
La sopravvivenza era per esempio una credenza, una idea, una pratica, il cui significato era
perito per secoli, ma che poteva tuttavia continuare a sopravvivere “semplicemente perché era
esistito in precedenza”. La sopravvivenza era un fossile sociale, “una maniera per l’indagine
storica”. Risalire alla sopravvivenza voleva dire potere risalire all’epoca in cui quell’idea o
quella pratica (oggi sopravvissuta) aveva un significato e quindi significava potere comprendere
lo stadio di sviluppo culturale precedente a quello attuale.

Il metodo comparativo
Le culture e le società che l’Occidente incontrava sul proprio cammino erano delle realtà che
potevano e dovevano essere ridotte al senso di una storia coincidente con lo sviluppo
cumulativo della cultura del quale l’Occidente rappresentava il culmine. Proprio in quanto
esemplificazione di stadi della storia umana, queste culture e queste società primitive erano
sempre per l’antropologia, delle realtà a tutti gli effetti. Non erano semplici efflorescenze. Per
gli evoluzionisti l’antropologia si configurò come un “viaggio mentale” attraverso le culture.
Lo scopo era quello di tracciare tendenze, stadi, sequenze di sviluppo delle istituzioni e delle
idee che avevano caratterizzato la storia della cultura. Bisognava “attraversare” le culture altre.
La centralità della comparazione puo essere esplicita o implicita, enfatizzata o sfumata,
declinata in senso geografico o tipologico. Essa resta comunque la condizioni stessa del sapere
antropologico.

ADOLF BASTIAN BACHOFEN

Nel 1861 pubblica “Das Mutterecht”, tradotto in modo improprio con l’espressione il
Matriarcato. L’opera aveva come sottotitolo, Ricerca sulla Ginecocrazia del mondo antico nei
suoi aspetti religiosi e giuridici. Bachofen sosteneva nella sua opera l’ipotesi, accreditata anche
dai suoi contemporanei McLennan e Morgan (entrambi antropologi con una formazione da
giuristi), di una originaria promiscuità sessuale e dunque di una priorità logica nel
riconoscimento della maternità. Il Matriarcato, dunque, indicava la fase successiva alla
promiscuità; il fatto che le matri venissero considerate le uniche genitrici avrebbe determinato
non solo l’organizzazione matrilineare ma anche la ginecocrazia.
Le tesi di Bachofen, che incontrarono l’approvazione di moltissimi marxisti, tra cui i primis
Engels, di fatto confondevano discendenza e gestione del potere e hanno generato proprio per
questo motivo molti equivoci. Per molto tempo si è continuato a confondere e ad usare in modo
indifferenziato matriarcato e matrilinearità, situazione quest’ultima in cui, seppure la
discendenza è femminile, il potere resta comunque maschile.
Se oggi è molto chiaro quanto il matriarcato non sia mai esistito è però interessante osservare,
come bene mette in evidenza Furio Jesi nella prefazione all’edizione italiana del 1981,
l’attitudine di Bachofen nei confronti del mito e del simbolo. Bachofen è in questo senso
scopritore e studioso attento dei miti sul matriarcato, miti che caratterizzano la cultura europea
ed extra-europea.
Ed è proprio su questo che credo valga la pena riflettere; Bachofen lavora sui miti e il mito per
lui non è tanto importante per la sua esistenza: non tanto per ciò che è quanto per la funzione
che svolge. Il mito per Bachofen “serve”, assolve a precisa necessità, è una rappresentazione
sociale, politica, economica. Il testo di Bachofen è rimasto per lungo tempo “un geroglifico”,
così ci dice Furio Jesu riprendendo una espressione dell’autore; testo illeggibile, le stesse fonti
utilizzate dall’autore non sono facilmente classificabili. Resta certo però che l’etnologo svizzero
lesse Joseph François Lafitau un missionario gesuita che pubblicò nel 17245 un’opera da molti
considerata un vero e proprio studio etnografico, Moeurs des sauvages Amériquains comparés
aux moeurs des premiers temps.

JAMES G. FRAZER (1854-1941)


La sua opera più famosa è il Ramo d’oro. Studio sulla magia e sulla religione che uscì nella sua
prima versione nel 1890. Frazer si poneva in una prospettiva simile a quella di Tyñor nella sua
ricostruzione del pensiero religioso (animismo). Frazer avanzava l’ipotesi secondo cui magia,
religione e scienza avrebbero costituito altrettante tappe nello sviluppo intellettuale dell’uomo.
Frazer sosteneva che la pratica della magia, intesa come tentativo da parte dell’uomo di
controllare la natura, fosse una fase di sviluppo umano caratterizzata dall’ignoranza, dalla
confusione rispetto ai rapporti casuali che dominavano nel mondo l’esperienza oggettiva.
In un secondo momento alcuni uomini avrebbero pensato di accattivarsi il favore delle potenze
della natura: lasceva così la religione e con essa la figura del sacerdote, mediatore tra l’uomo e
la divinità. Quando gli uomini si accorsero che nulla gli dei potevano nella risoluzione dei
problemi umani, ebbe inizio l’ultima e più recente fase ed epoca della storia: quella
contrassegnata dalla osservazione dei fenomeni naturali e dalla ricerca delle leggi che ne
regolano i rapporti. Si apriva così la possibilità di conoscere secondo modalità di tipo
scientifico, la natura e dominarla.
Nell’opera di Franzer ritroviamo molti modi teorico-ideologoci caratteristici dell’età
dell’evoluzionismo vittoriano: la storia vista come una successione di fasi o stadi; la lenta
risoluzione di una fase precedente in quella successiva; l’idea di un progresso da una fase
all’altra; la possibilità di considerare come sopravvivenza qualunque elemento culturale che,
appartenendo ad una fase anteriore, era tuttavia presenta in una fase successiva.

WILLIAM ROBERTSON SMITH (1846-1894)


Scozzese, professore di ebraico. Propone una critica storica della Bibbia. A differenza di quasi
tutti gli antropologi evoluzionisti egli fece ricerca di campo in Egitto e Palestina. In Conferenze
sulla religione dei semiti raccolse una serie di studi dedicati al rapporto tra società e religione tra
gli antichi ebrei e gli arabi peislamici. Qui egli espose la sua idea sulla natura sociale del
fenomeno religioso. Accettava la antropologia evoluzionista pur partendo da presupposti molti
diversi.
Robertson Smith si concentrò sulla dimensione sociale. Per lui il dato primario di ogni
esperienza religiosa sono i riti ed i simboli ad essa correlati. Tali riti e tali simboli sono condivisi
dai membri di una determinata società i quali, nascendo in una comunità li trovano già presenti
e attivi. La dimensione collettiva, pubblica e sociale del fenomeno religioso si manifestava negli
atti di devozione che coinvolgevano l’intera società, cioè nei riti comunitari.

La nascita dell’antropologia americana


L’antropologia e tutto quanto poteva rientrare, per analogie e somiglianze, in questo grande
“magma disciplinare”, a Washington erano dispersi tra diverse istituzioni, la Smithsonian
ovviamente, ma anche il Bureau of Indian Affairs, il Carnegie Institute e il National Museum.
L’esigenza di riunire un sapere antropologico propriamente detto trovò in parte risposte nella
fondazione del Bureau of Ethnologist che nacque come organo della Smithsonian, siano
nell’anno 1879.

Gli Stati Uniti creano organismo di ricerca


Esistevano molti organismi statali che volevano farsi carico del lavoro di etnologi, archeologi,
linguistici, frenologi, naturalisti.
Gli Stati Uniti che dovevano formarsi come nazione cercano negli indiani l’origine della
nazione americana. Vi era ambiguità in questa operazione ma a livello “esterno” e di facciata
tali organismi funzionavano bene.

La nascita dell’antropologia americana


John Wesley Powell (1834-1942), naturalista e poi geologo, fu il fondatore DEL BUREU OF
AMERICAN ETHOLOGIST. Anche intorno al Bureu gravitarono intellettuali e dilettanti con
competenze diverse; per Powell geologia ed etnologia erano saperi inscindibili. Ma lo sviluppo
e il lavoro del Bureau of American Ethnologist (BAE) deve essere compreso soprattutto in
relazione al cambiamento di ruolo che ebbe il governo federale rispetto alla scienza ed al
contributo che essa avrebbe potuto dare alla vita del cittadino americano. Il Governo americano
in questo periodo rappresentava uno dei massimi finanziatori delle ricerche scientifiche; con
l’impulso ad apparire un governo democratico, lo Stato voleva divenire patrono e maggiore
mecenate degli intellettuali americani (Daniels, 1967, 1703-1704).

L’antropologia americana e la mappatura del nord-America


Il suo obiettivo era quello di descrivere la cultura aborigena prima che essa scomparisse
completamente e nel modo più corretto possibile. Il BAE era nato proprio per rispondere
all’urgenza della questione indiana ma a poco a poco, quando questa emergenza divienne meno
pressante, esso perse il suo ruolo e soprattutto non seguì l’evoluzione dell’antropologia, così
come essa si sviluppò nelle diverse istituzioni accademiche statunitensi (Darnell, 1998).

HENRY LEWIS MORGAN (1818-1881)

Henry Lewis Morgan, nacque ad Aurora, in una riserva Indiana dello Stato di New York nel
1818. Come molti antropologi vittoriani, aveva avuto una formazione giuridica. Fu avvocato per
un certo periodo ma poi divenne consigliere giuridico di una compagnia ferroviaria. Fece parte
di una società segreta chiamata Gordian Knot che, nata sulla base di un interesse sulla Grecia
classica, si trasformò nel “Gran Order of the Iroquois”. Tra il 1859 e il 1862 compì numerosi
viaggi nel Kansas e nel Nebraska. Nel 1879 fu nominato presidente dell’American Association
for the Advancement of Science. Tra le sue opere principali, System of Consanguinity and
Affinity of the Human Family (1870); The Ancient Society (1877).
Secondo l’opinione di Pearce, fu proprio l’opera di Morgan, The League of the Ho-de’-no-sau-
nee, Iroquois (1851), a segnare una cesura netta nella percezione dell’universo indiano. Con la
sua pubblicazione del 1851, l’America iniziava una ricerca ed una preservazione sistematica e
metodica di tutto ciò che riguardava gli indiani nel Nord America.

Irochesi
Al tempo dei primi arrivi dei coloni europei, avvenuti nella prima metà del XVII secolo circa, il
territorio irochese comprendeva parte dell’attuale sud del Canada e parte del nordest degli Stati
Uniti. Questo territorio, che si estendeva in lunghezza per circa cinquecento chilometri dalla
valle del Mohawk a est fin quasi alle cascate del Niagara a ovest, rappresentava simbolicamente
una “lunga casa” invisibile, che a sua volta si rifaceva alla tipica abitazione irochese consistente
in una costruzione di legno la cui lunghezza poteva raggiungere fino i sessanta metri ed era in
grado di ospitare diverse famiglie.
Gli indiani che andavano “protetti”
L’idea del “savagism” sembrava andare via via svanendo, perché gli stessi indiani stavano
scomparendo rapidamente; essi divennero creature da proteggere, da studiare e da cristallizzare;
l’Indiano era ora il beniamino delle agenzie filantropiche, prezioso campione per le ricerche
etnologiche e protagonista di romanzi dozzinali; ma l’Indiano, come mostreranno proprio le
ricerche di alcuni antropologi, divennero anche validi collaboratori sul campo, scrittori di testi –
antropologoci e non – personaggi chiave nella evoluzione del pensiero antropologico.

Morgan, in questo senso, fu realmente il primo antropologo che compì una descrizione
sistematica dell’organizzazione sociale e culturale di una specifica popolazione, gli Irochesi. In
Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family (1871) egli descrisse le società
indiane attraverso due nozioni fondamentali ed apparentemente inconciliabili, quella di
“sistema” e quella di “progresso”. Morgan elaborò il concetto di “plan”, inteso come progetto,
disegno, schema; una concezione che era ben radicata negli Stati Uniti, luogo in cui la
costruzione dello Stato era stata programmata con cura, disegnata ad hoc, progettata nel
dettaglio.

I sistemi classificatori e descrittivi avenano un “plan”


Morgan, elaborando la concezione di “sistema classificatorio” e “descrittivo”, affermò che
entrambi contenevano un “plan”, un disegno, un progetto. Anche il sistema classificatorio, che
confondeva terminologicamente i parente in linea diretta da quelli in linea collaterale, non era
arbitrario o dettato da ignoranza, ma possedeva una logica interna e non solo: esso era un
sistema interculturale “che travalicava non soltanto i confini locali delle società, ma anche i
confini linguistici delle aree culturali”.

Morgan e la ricerca sul campo


Morgan, come sottolineano gli studi più recenti sulle antropologie amerindie, fu un instancabile
ricercatore sul campo; la stessa opera del 1851, The League of the Ho-de’-no-sau-nee, Iroquois,
viene considerata un lavoro congiunto di Morgan e del suo testimone privilegiato Ely Samuel
Parker; ma possiamo andare ancora oltre ed affermare che molti degli scritti – a tutt’oggi inediti
– di Ely Samuel Parker mostrano una sorta di “anti-antropologia”, una antropologia “nativa”
che resisteva alle prime forme di multiculturalismo ed a qualsiasi metamorfosi degli studi demo-
etno-antropologici. Nonostante il livello di consapevolezza etica fosse profondo sia
nell’antropologo che nel suo testimone, è incontestabile che vi fosse un atteggiamento
abbastanza comune nei confronti di tutto ciò che concerneva il lato umano della ricerca di
campo.

Antropologia evoluzionista
Negli antropoloci evoluzionisti rimase infatti una specie di schizofrenia professionale, forse
voluta dagli stessi studiosi che ebbero esperienze dirette di osservazione sul campo. Questo
atteggiamento può stupire se considerato in relazione ad una temperie culturale così “positiva”,
così fiduciosa nella dimensiose empirico-applicativa della conoscenza e dei princìpi
dell’osservazione quale fu appunto l’evoluzionismo ottocentesco.

Opere di Morgan
- La lega deli Irochesi (1851)
- Sistemi di consanguineità e affinità della Famiglia umana (1871)
- La Società antica (1877)

Il retroterra culturale americano


Quando Boas arriva in America in primo luogo il BAE era una istituzione che organizzava le
ricerche, non una fonte per gli altri intellettuali né per i dilettanti; ciò significava che le
collaborazioni esterne, con coloro che non facevano parte integrante dell’istituzione, erano
occasionali e sporadiche. In secondo luogo il retroterra culturale di coloro che collaborarono
con il BAE non era quello di professionisti ma di persone in grado di fare ricerca di campo, di
portare a casa materiale integro, ‘vergine’, ‘intatto’.
In questo senso, e sarà proprio tale lo spirito della rivista che si iniziò a pubblicare a partire dal
1888, American Anthropologist, non era tanto la letteratura già esistente che si rielaborava,
perché ciò che doveva emergere era lo spirito della nuova disciplina, la ricerca sul campo; essa
sola avrebbe potuto permettere l’elaborazione di un “plan”, di un progetto, di un modello. Il
terzo punto, infine, strettamente connesso all’idea di progetto, riguardò l’organizzazione dei
musei antropologici.

I Musei
Anche i musei erano istituzioni che avrebbero potuto incrementare la potenza e l’unione della
nazione americana; gli americani avevano come esemplare modello quel “tempio nazionale ed
imperiale” che era il British Museum, fondato nel 1759. Il museo antropologico, così come si
sviluppò nella seconda metà del secolo XIX, portava con sé alcuni presupposti fondamentali:
l’ordine, la classificazione ed il comparativismo; l’esposizione dell’inferiorità degli altri e l’idea
che attraverso la cultura materiale, “the work of their hands” si sarebbe potuta ricostruire la
storia intellettuale di un popolo.
Quando Otis Mason prese le redini della sezione antropologica del National Museum,
l’antropologia si esponeva come una ‘scienza’ profondamente vincolata alle istituzioni, capace
di classificare ed ordinare; non si presentava come una disciplina esplorativa ed aperta, ma
determinata a contenere e cristallizzare l’alterità. Mason, che aveva avuto una formazione
storico-filosofica, mantenne la classificazione come metodologia portante del museo;
pazientemente cercava analogie e distinzioni tra i diversi oggetti.

FRANZ BOAS (1856-1942)

Colui che tentò di fare ordine in tale marasma metodologico e disciplinare fu certamente Franz
Boas. Il fare ordine, come vedremo, lo portò a prendere posizioni abbastanza nette riguardo tali
tipologie narrative, ma certamente aprì il cammino per un loro utilizzo più oculato.
Boas era nato a Minden nella Vestfalia nel 1858, da una famiglia di ebrei tedeschi. Il clima
intellettuale della Germania della metà del secolo XIX era peculiare. Boas venne nutrito, ma
soprattutto si fece nutrire da tale atmosfera; di essa recepì ogni sfumatura, cogliendone la
ricchezza umanistica in tutte le sue possibili declinazioni. Come sottolinea Alexander Lesser nel
suo prezioso ritratto biografico, Boas, sin dai primi anni di vita e poi negli anni del ginnasio,
ebbe una solida educazione alle scienze naturali che lo formarono come ricercatore attento alle
molteplici implicazioni bio-etiche dell’antropologia.
La formazione di Boas fu contrassegnata dalla presenza di personaggi con competenze
scientifiche tra loro profondamente diverse: Adolf Bastian (1826-1905) e Rudolf Virchow
(1821-1902), rispettivamente l’etnologo ed il patologo più conosciuti in Germania, furono
compagni con i quali egli condivise anni di studio e ricerca. Di Virchow in particolare Boas ci
lascia una testimonianza esemplificativa per potere comprendere il suo più grande cruccio
scientifico: trovare una sorta di ‘compromesso conoscitivo’ tra le leggi generali della fisica e le
descrizioni dei fenomeni individuali propri delle scienze storiche.
Boas e il suo maestro, Rudolph Virchow
Boas conobbe Virchow nell’inverno del 1882 in un incontro tenutosi alla Berlin
Anthropological Society; come Boas, Virchow era “metodologicamente conservatore,
istituzionalmente attivo e politicamente liberale”; Virchow, come Boas, trovava la sua ragione
per la ricerca ed una costante vocazione per lo studio perché a guidarlo era “the ice-cold flame
of the passion for seeking the truth for truth’s sake” (Boas, 1945). Ciò che accomuna i diversi
ritratti biografici dell’antropologo tedesco è proprio la volontà di ricordare un uomo ed un
intellettuale che, nonostante il suo carisma e l’effettiva rivoluzione sul metodo e sui principi
della conoscenza antropologica, mai tentò “di rendere commestibile la verità” (Lowie, 1966).

Una volta preso il dottorato, Boas compì il suo primo viaggio di ricerca nelle terre artiche di
Baffin; siamo negli anni 1833-1884. Questo viaggio, che ebbe la durata di quindici mesi, fu per
Boas la sua iniziazione al campo, ai problemi etici e metodologici che tale esperienza
comportava e, anche se ancora gli obiettivi non erano propriamente antropologici, dai suoi
resoconti possiamo facilmente intuire quali saranno i suoi futuri interessi: la cultura materiale, i
miti, l’ecologia del territorio, la linguistica. Ciò che colpisce da questa prima esperienza è la sua
propensione al lavoro sul campo, la sua attenzione alla vita quotidiana, al corso delle stagioni.
Boas visse nei villaggi Eskimo e con gli abitanti del territorio condivise il cammino, costruì le
case, con loro viaggiò sulla slitta anche quando il ghiaccio era disagevole e la neve morbida e
profonda ostruiva il cammino; ne conobbe l’ospitalità quando il suo aiutante si congelò i piedi;
con loro condivise i pasti ed iniziò a comprendere la vita spirituale: il giovane Boas era stato
iniziato all’antropologia.
Fu in questi anni che cominciò a maturare l’idea di lasciare la Germania, anche se
concretamente la sua immigrazione avvenne nel 1887.

Isola di Baffin
L’Isola di Baffin, detta anche Terra di Baffin, appartenente al Territorio canadese del Nunavut, è
la maggior isola dell’Arcipelago artico canadese, e la quinta maggiore isola per estensione nel
mondo.
A nord-est è separata dalla Groenlandia dalla baia di Baffin e dallo stretto di Davis. A sud lo
stretto di Hudson la separa dalla penisola di Ungava del Labrador. A ovest il canale di Foxe la
separa dall’isola di Southampton. A ovest si affaccia sul bacino di Foxe che con lo stretto di
Fury e Hecla la separano dalla peninsola di Melville. A ovest si affaccia sul golfo di Boothia e
sul Prince Regent Inlet. A nord si affaccia sul Lancaster Sound che la separa dell’isola di Devon.
L’sola è montuosa ed è in gran parte ricoperta di ghiacci. Nella parte meridionale dell’isola
scorre il fiume Soper.
L’isola è attraversata dalla Cordigliera Artica, la principale catena montuosa delle terre
settentrionali del Canada.

Il diario-quaderno di Franz Boas


Diari scritti in tedesco.
Diari che descrivono il progresso del suo lavoro di campo.
Taccuini dove Boas prende note delle spese, degli incontri con gli indigeni, in cui parla
dell’evoluzione del suo lavoro, dove prende nota di tutto quello che doveva fare.
Annotava piccoli eventi e grandi scoperte.
Era il luogo dove storicizzare la sua esperienza.
La esperienza di campo diventa una professione.
Autocensura e disciplina.
Disciplina delle emozioni.

I diari dell’antropologo sono


Strumenti di lavoro
Testimonianza storica del lavoro di campo
Storia del lavoro di campo
Diari personali
Diari di viaggio
Riflessione sul proprio lavoro

Il diario epistolare
Oltre 480 pagine redatte in tedesco. Boas immaginò di continuare a comunicare con la fidanzata
a cui indirizzò lettere con non spedì mai. Il diario era un modo per poi “ricordare” la sua
esperienza.
Produsse mappe originali con oltre 900 toponimi indigeni, un accurato censimento, raccolse
oggetti, vocaboli, reperti geologici e botanici e finanche zoologici.

Boas all’isola di Baffin


Boas nel corso della sua permanenza artica e dietro richiesta del padre, fu accompagnato da
Wilhelm un giovane suo coetaneo che in patria era inserviente della famiglia e al quale Boas
impose la redazione di un diario e da Signa, un inuit che aveva conosciuto presso la stazione
baleniera scozzese assoldato come suo collaboratore.

Viaggio alle terre di Baffin


Una fase di grande impatto emotivo, una fase di un più complesso e graduale ciclo di sviluppo
che si poneva in continuità con i suoi maggiori interessi maturati precedentemente in fisica e poi
in geografia.

La missione boasiana
Produsse esiti scientifici considerevoli: redazioni di mappe originali che contenevano oltre 900
toponimi indigeni, stesura di un accurato censimento della popolazione, raccolta di oggetti
etnografici, vocaboli, reperti geologici, botanici e finanche zoologici.
Partito come studioso solitario, Boas aveva fatto ritorno indossando gli abiti dell’eroe scientifico
che aveva inaugurato un modello inedito nel campo delle esplorazioni scientifiche basato
sull’indagine, non di équipe, ma ravvicinata e prolngata in un’area circonscritta territorialmente.

“An Eskimo among Eskimo”


1883.
Non è possibile avere provviste sufficienti per diversi mesi nel freddo nord, dal momento che
sarebbero troppo pesanti da trasportare, di conseguenza non c’è altra alternativa che vivere
come un eschimese tra gli eschimesi, da cacciare e pescare con loro, di seguire i loro costumi e,
in breve, di adattarsi completamente ai loro modi.
Vivendo con loro, coprendosi con i loro abiti, Boas gradualmente penetrò dal di dentro nella
cultura Inuit.
Frustrazioni della vita quotidiana, impazienza di voler raggiungere risultati scientifici e validi. Il
tempo che manda e l’angoscia di vedersi sfuggire di mano il controllo della situazione e di
dover fare ritorno a mani vuote.

Boas, 1884
Se un europeo, viaggiando in slitta, entra in un igloo eschimese, da lui ci si attende che lasci ai
padroni di casa caffè e pane. D’altra parte, gli eschimesi devono fornire tutta la carne, mentre le
donne devono mantenere i vestiti dei nuovi arrivati in ordine. Gli eschimesi sono di per sé
ospitali, tuttavia si attendono di ricevere qualcosa dagli europei. Essi sono disposti a condividere
volentieri la loro casa, il loro cibo con un estraneo che non sia in grado di dare nulla, e
addirittura rifiutano di prendere tutto ciò che viene offerto loro se pensano che l’ospite non ne
abbia per sé.

Frustrazione
Il tempo che scorre, la vita quotidiana, l’impazienza nel voler raggiungere i risultati sperati. Il
tempo che scorre e che manca, l’angoscia di vedersi sfuggire di mano il controllo della ricerca si
accompagnano a momento di esaltazione e di momenti di euforia.

Tra il 1885-86, Boas fu assistente di Bastian a Berlino, al Royal Ethnological Museum; in questi
anni comprende l’importanza della raccolta degli oggetti e delle opere d’arte; intuì e fece
propria l’impostazione che Adolf Bastian e Theodor Waitz davano a tali collezioni: era
necessario raccogliere quanti più oggetti possibili per potere testimoniare il ciclo di vita di tutte
quelle popolazioni che velocemente venivano coinvolte nei processi di acculturazione. Ogni
Volk, ogni popolo, possedeva peculiarità culturali, che quotidianamente venivano minacciate
dall’espansione coloniale: il compito del ricercatore era proprio quello di comprendere la
singolare peculiarità di ogni manufatto, di quel manufatto che poteva essere stato pensato e
costruito prima del fatale incontro con la cultura occidentale.
Da questa prima e giovanile esperienza Boas maturò un’attitudine tutta particolare nei confronti
della “memoria culturale”: ciò che doveva essere conservato nei musei erano tutte quelle
situazioni culturali che potevano testimoniare la cultura prima del contatto con gli Europei.
Certamente Boas era consapevole dei delicati e profondi processi di acculturazione che queste
popolazioni stavano attraversando, ma lasciò negli interstizi delle lettere ai familiari la
testimonianza del contatto, del cambiamento, della metamorfosi.
Fu nel 1885 che Boas conobbe un gruppo di Bella Coola, nativi della costa nord-occidentale
canadese; erano giunti a Berlino per una esposizione etnografica organizzata dall’esploratore ed
etnologo Johannan Adrian Jacobsen.
La British Columbia fu il luogo dove Boas tornò moltissime altre volte; fu il ‘suo campò e fu
qui, proprio nel 1887, che per la prima volta assistette alla ceremonia di scambio e distribuzione
conosciuta con il nome di potlatch, stabilitosi definitivamente negli Stati Uniti, tra il 1887 e il
1894, condusse numerosi soggiorni sul campo che furono finanziati sia dal BAE che dalla
British Associtaion for the Advancement of Science. La prima occupazione di Boas negli Stati
Uniti fu quella di assistente editore alla rivista Science dove lavorò prevalentemente su fonti di
carattere geografico; questi furono anche gli anni della riorganizzazione dell’American
Ethnological Society che era stata fondata nel 1842 da Albert Gallatin, dell’istituzionalizzazione
dell’American Folk-Lore Society (1888) ed in cui l’American Anthropological Association
(1889) venne completamente riorganizzata. Iniziò presto la sua vita accademica in territorio
americano; dal 1889 al 1892 insegnò presso il Dipartimento di Psicologia della Clarck
University.
Nel 1895 fu curatore del Museum of Natural History e nel 1896 ebbe il suo primo insegnamento
(antropologia fisica) alla Columbia University, istituzione che lasciò solo poco prima da morire.
Quando Boas giunse negli Stati Uniti molti erano i cambiamenti che stavano investendo
l’antropologia americana; Boas contribuì in maniera decisiva a rendere tali trasformazioni
durature. Le sue critiche furono rivolte agli eccesi e alle generalizzazioni evoluzioniste ma,
nonostante questo, Boas si pose sempre in una linea di continuità e non di sterile competizione
con l’antropologia e gli antropologi che l’avevano preceduto.

L’Handbook of American Indian Languages


In questo censo è interessante osservare come egli riuscì a lavorare con organismi come il BAE
coinvolgendo contemporaneamente anche altre istituzioni universitarie; l’Handbook of
American Indian Languages fu un esempio ben riuscito di tali collaborazioni accademiche e no;
per un certo periodo il BAE finanziò le ricerche della Columbia e l’Handbook of American
Indian Languages da Boas era una di quelle titaniche imprese a cui il Bureu aveva da sempre
aspirato.

North Jesup Expedition 1897-1900


Tra il 1888 e 1894 Boas era riuscito ad accumulare ben dodici mesi di permanenza nella costa
nord-occidentale del Canada; ma l’esperienza che segnò in maniera decisiva la sua modalità di
condurre ricerche di campo fu la North Jesup Expedition (Siberia, Alaska e costa
nordoccidentale del Canada) che egli diresse tra il 1897 e il 1900. Tale spedizione etnografica
venne finanziata da Morris Jesul, l’allora direttore del Museum of Natural History; la ricerca
coinvolse bel quattordici ricercatori e aveva come scopo lo studio del presente e del passato
delle tribù della costa del nord del Pacifico nelle sue relazioni con le popolazioni asiatiche;
geograficamente il territorio che venne attraversato fu molto esteso anche se ben circoscritto.
L’oggetto di studio di tale spedizione appare essere chiaramente “individuale”; venivano presi in
considerazione elementi singoli inserti in precisi contesti storici e culturali. Negli anni in cui
diresse la spedizione Boas cercò di rendere chiari i presupposti metodologici che avrebbero
guidato tale ricerca: non si poteva pensare di speculare su leggi e teorie generali se prima non si
fosse condotta una seria, costante e duratura ricerca di campo, raccolto ogni tipologia di
materiali e manufatti e soprattutto lavorato sui testi.

Il lavoro di Boas
Come sottolinea Melville J.Herskovits (1953), la Jesup Expedition proprio per la sua
impostazione metodologica, influenzò profondamente il pensiero antropologico successivo e
rese esplicita la necessità del lavoro di campo: erano questi gli anni in cui anche in Europa le
medesime esigenze emergevano fra coloro che facevano ricerche allo Stretto di Torres.
L’impegno di Boas come teorico in cerca di risposte concrete sul campo continuò sino alla sua
morte, nel 1942; la sua ultima spedizione tra i Kwakiutl avvenne nell’inverno del 1930, quando
aveva compiuto settantadue anni.
Il contributo di Boas rispetto alla istituzionalizzazione dell’antropologia fu profondo come il
suo impegno concreto sul campo. L’antropologia che da Boas in poi venne insegnata nelle
accademie statunitensi era il risultato di quattro sub-discipline: l’antropologia fisica,
l’archeologia, l’etnologia e la linguistica; questo modello e programma di studi antropologici
attraversò le diverse istituzioni accademiche americane in cui lavorarono i primi suoi allievi,
Alfred Kroeber a Berkeley, Frank Speak all’Università della Pennsylvania, George Amos
Dorsey e Fay-Cooper a Chicago, Edward Sapir ad Ottawa.

L’critica all’evoluzionismo

I limiti del metodo comparativo, 1896.


Rottura decisiva con la tradizione antropologica dominante. Qui Boas enuncia i principi del suo
metodo storico. Boas nega qualsiasi valore allo sforzo di costruire una storia sistematica
uniforme dell’evoluzione della cultura. Egli respinge l’assunto secondo cui tratti culturali simili
osservabili presso popoli distanti tra loro sarebbero apparsi indipendentemente senza alcuna
origine comune. Per Boas sostenere tale ipotesi significava sostenere che gli stessi fenomeni
culturali fossero dovuti sempre alle stesse cause.
Boas produsse una serie di esempi che dimostravano che era possibile dimostrare l’origine
differnete ed il loro diverso significato che fenomeni culturali simili potevano avere in contesti
diversi. L’obiettivo fondamentale per Boas consisteva nella conoscenza delle cause storiche che
avevano determinato la forma di specifici tratti culturali propri di una certa popolazione. Per
Boas una tale conoscenza diveniva possibile solo qualora l’indagine fosse stata circonscritta ai
costumi nella loro relazione complessiva della tribù che li pratica in correlazione con la ricerca
della loro distribuzione geografica tra tribù limitrofe.
Lo storicismo di Boas
Questo tipo di approccio avrebbe consentito a Boas di determinare con considerevole
accuratezza le cause storiche che hanno portato alla formazione di un determinato costume e ai
processi psicologici che operavano durante il loro sviluppo. Questi principi erano alla base del
metodo storico o particolarismo storico.

Il lavoro di Boas
Boas, infatti, non si diede pena di completare e redigere una summa o un’analisi del materiale
raccolto e nessuno dei suoi allievi si prese la responsabilità di ordinare e sistematizzare tale
mole di dati; come evidenzia Codere, vi fu una sorta di “unscholarly dipping” (1966, XIX) che
ha reso oggi ancora più complessa l’interpretazione di questi materiali etnografici. Vero è che
Boas, oltre a raccogliere quello che lui stesso chiamava “raw material”, scrisse “oltre ad una
mezza dozzina di libri e pubblicò più di 700 articoli”. Arnold Krupat, nella difficoltà di
rinvenire un filo rosso nel pensiero dell’antropologo tedesco, individua una figura retorica
esemplificativa per descrivere l’intero assunto boasiano: è nel tropo della “catacresi” che egli
trova un modo per descrivere l’intero percorso scientifico di Franz Boas.

Il metodo di Boas
Boas non scrisse un testo sistematico riguardo al metodo, ma prima con il suo articolo del 1895,
The Limitations of the Comparative Method of Anthropology e poi con il suo saggio sul metodo
del 1920, The Method of Ethnology, si espresse senza ambiguità rispetto a quale fosse la sua
posizione teorico-metodologica: l’oggetto dell’investigazione etno-antropologica consisteva nel
cercare i processi che avevano generato determinati stadi dello sviluppo culturale. I costumi e le
credenze non erano l’obiettivo ultimo della ricerca: era necessario comprenderne la loro
formazione, conoscerne la storia del loro sviluppo.
Solo uno studio dettagliato dei costumi e delle credenze, in relazione con la totalità della cultura
ed in connessione con la loro distribuzione geografica fra le tribù vicine, poteva portare ad un
risultato ottimale rispetto alla conoscenza delle cause storiche di un determinato costume e dei
processi psicologici determinati. Ma questa operazione poteva ottenere risultati soddisfacenti
solo se compiuta su un’area geografica ben determinata e definita e applicando una
comparazione limitata e non a vasto raggio.

Boas, gli informatori e i testi


I testi che Boas raccoglieva venivano trascritti e tradotti interlinearmente insieme
all’informatore o ad altre persone che padroneggiavano la lingua nativa ed una lingua franca. Il
testo per Boas rappresentava lo strumento ideale in grado di carpire “the peculiar customs and
character of people”. Esso costituiva un modo per comprendere le “idee” e gli “interessi” delle
popolazioni native; nei testi erano enfatizzati.
Boas deponeva nell’informatore una profonda fiducia; egli riteneva altresì di esser in grado di
valutare quando una traduzione era ‘letterale’, ‘diretta’, o ‘vicino alla lingua originale’. Ma,
anche se con la generazione di Boas era più difficile trovare quelle “embroideries” che
violavano ogni riferimento al testo originale, Tedlock sottolinea come anche gli etnografi
boasiani, sicuramente più scrupolosi e precisi di coloro che li avevano preceduti, smussavano
incorrettezze, eliminavano imperfezioni grammaticali e lessicali dovute alla scarsa padronanza
dell’inglese di alcuni informatori. Ma che tipo di testi raccoglieva Boas?

I dati di Boas
Dati grezzi, non trattati, non rielaborati, trasmessi dal testimone e non ritoccati da alcuno. Erano
solamente tali tipologie di fonti che avrebbero potuto permettere una soluzione, per lo meno
formale, al complicato problema della classificazione. Per Boas, infatti, il dilemma più profondo
non era tanto cosa raccogliere sul campo; egli riteneva necessaria una riflessione preliminare
sulle modalità con cui tale operazione di accumulo di fatti veniva compiuta; il problema più
serio per l’antropologo risiedeva nel metodo con cui i fatti venivano raccolti e quindi piu
classificati e trasformati in dati. Egli aveva compreso che non solo non esistevano
classificazioni di tipo universale, ma erano profondamente distinte le tassonomie da cultura a
cultura; molte classificazioni potevano essere non consapevoli, inconsce ed anche per questo era
certamente consigliabile raccogliere fatti di prima mano, di “prima fonte”.

Il Potlatch
Tra il 1894 e il 1895 Boas lavorò con gli indiani Kwakiutl nella costa Nord Occidentale del
Pacifico. Frutto di tale ricerca è l’opera intitolata L’organizzazione sociale e le società segrete
tra gli indiani Kwakiutl (1897). Potlatch è il nome che viene comunemente assegnato ad un
insieme di pratiche rituali diffuse tra le popolazioni indiani stanziate sulla Costa della Columbia
Britannica e sull’isola di Vancouver. Si trattava di rituali di ostentazione che prevedevano la
distribuzione di grandi quantità di beni considerati di prestigio.
Attraverso il potlatch individui dello stesso status sociale si sfidavano in una gara distruttiva allo
scopo di affermare pubblicamente il proprio rango e di abbassare quello di qualche rivale o di
riacquistarlo nel caso si fosse perduto. Oggni si tende a considerare il potlatch come un
meccanismo attraverso il quale venivano sottratti dal processo produttivo bene che, se immessi
nuovamente, avrebbero provocato una alterazione del sistema e introdotto elementi perturbatori
nelle dinamiche di potere.
Per i Kwakitl il potlatch costituiva una pratica rituale per mezzo della quale il sistema non
veniva alterato. Boas descrisse il potlatch in termini di investimento, ventida, interessi, capitale
e lo interpretò come una pratica connessa all’acquisto del prestigio che poteva derivare ad un
individuo per il fatto di avere distribuito o distrutto più beni dei suoi rivali e di averlo superato
“in generosità”.

Boas e la sua scuola: antropologia orientata verso la persona


In questo senso si può sottolineare come la tradizione americana che Boas altro non fece che
istituzionalizzare fu, come bene sottolineò Regna Darnell, “person-focused” e privilegiò senza
dubbio la raccolta di storie di vita. Boas curò il rapporto con ognuno dei suoi informatori e
scelse con attenzione i singoli testimoni che potevano fornirgli proprio quei dati e quei testi
grezzi di cui necessitava. Inoltre, abbiamo a nostra disposizione una serie di testimonianze che
ci fanno comprendere quanto il lavoro di campo fosse soprattutto una questione di mediazioni e
rapporti interpersonali. Come infatti sottolineano Ronald ed Evelyn Rohner, Boas, prima di
conoscere il suo informatore più prezioso non poté partecipare attivamente alla vita degli indiani
Kwakiutl, ma dovette soggiornare in pensioni, o altri pubblici alloggi lontani dalle popolazioni
che egli desiderava studiare. Dalla vita sul campo di Boas, una volta conosciuto George Hunt,
abbiamo notizie proprio dagli indiani che lo conobbero.

Le attenzioni di Boas
E ancora, la concezione della cultura come processo storico in equilibrio costante tra tradizione
e innovazione ed in cui la popolazione nativa non era da considerarsi come mero “oggetto” di
studio. L’antropologia americana matrice boasina fece di molti testimoni linguisti ed antropologi
preparati; infine, gli antropologi, soprattutto gli allievi diretti di Boas, si presero tutto il tempo
che reputarono necessario per le loro ricerche di campo; molti di loro lavorarono con le
medesime popolazioni per venti, anche venticinque anni.

Boas e la psicologia
Per Boas il compito dell’etnologia, quello fondamentale, era quello di determinare i processi
psicologici che operavano nello sviluppo dei fenomeni culturali.
Le dinamiche della vita culturale per Boas possono essere colte sulla base delle reazioni
dell’individuo nei confronti della cultura nella quale vive e dell’influenza sulla società.

Come studiare la cultura attraverso l’individuo?


Per Boas è uno sforzo vano e inutile ricercare leggi sociologiche senza prestare attenzione a ciò
che dovrebbe chiamarsi psicologia sociale o più esattamente l’antropologo è chiamato a
comprendere come un individuo reagisce alla cultura.
Come reagisce un individuo ai modelli che la cultura impone? Ai dispositivi che si incorporano?

I processi psicologici
Per Boas i processi ossia la rappresentazione che gli agenti di una data cultura si facevano della
propria esistenza sociale divenivano “la realtà oggettiva”, ultima, della vita sociale stessa per cui
il criterio che permetteva di qualificare come valida una qualunque inchiesta etnografica
risiedeva nel grado maggiore o minore di fedeltà con la quale l’etnologo sapeva cogliere la
realtà sociale. Nella rappresentazione che essa si facevano i membri della popolazione studiata.

Gli allievi di Boas


La prima metà del Novecento rappresentò un momento molto particolare anche per
l’antropologia americana. Boas aveva formato una serie di studiosi che sarebbero poi divenuti
specialisti, soprattutto delle culture amerindie; egli aveva già pubblicato quelle opere che
avrebbero contraddistinto il pensiero antropologico cosiddetto “moderno”. In questo senso il
pensiero scientifico di Boas, la sua volontà di scrivere la storia della disciplina americana, la
creazione delle basi istituzionali della ricerca antropologica, e la determinazione verso una
critica costruttiva all’evoluzionismo, ebbero realmente una portata rivoluzionaria. Fu per questo
molto complesso articolare il pensiero che egli desiderava lasciare come eredità perché il
contesto intorno a lui velocemente mutava ed il suo paradigma poteva, in fretta, divenire
imperfetto.

L’eredità di Boas
Sia George Stocking (1976) che Regna Darnell (1999) hanno riflettuto sulla portata del
‘paradigma’ boasiano e soprattutto hanno cercato di comprendere le modalità delle sue distinte
articolazioni. Stocking a più riprese ha sottolineato quanto egli fosse “profondamente
conservatore”; non possiamo negare il fatto che Boas fu davvero devotamente conservatore, ma
non si può non tenere in considerazione quanto la tradizione che egli costituì si conformava su
alcuni assunti che dischiusero la disciplina a panorami profondamente comparati e
consapevolmente interdisciplinari.

Le attenzioni di Boas
L’attenzione per il linguaggio, inaugurata nel 1911 con l’Handbook of American Indian
Languages, la volontà di studiare la cultura come un sistema di simboli incorporati nella mente
degli individui; l’importanta data ai testi dei nativi, da loro scritti, raccontati, trasmessi; la
necessità quindi di lavorare con testimoni scelti, che potessero rendere accessibili non solamente
i dati, ma anche la modalità in cui essi venivano organizzandosi; uno studio sistematico sul
concetto di oralità come una delle forme distintive del pensiero simbolico;
E ancora, la concezione della cultura come processo storico in equilibrio costante tra tradizione
ed innovazione ed in cui la popolazione nativa non era da considerarsi come mero ‘oggetto’ di
studio. L’antropologia americana di matrice boasiana fece di molti testimoni linguistici ed
antropologi preparati; infine gli antropologi, soprattutto gli allievi diretti di Boas, si presero tutto
il tempo che reputarono necessario per le loro ricerche di campo; molti di loro lavorarono con le
medesime popolazioni per venti, anche venticinque anni.

Gli allievi/e di Boas


Se tali furono effettivamente alcune fra le principali coordinate del paradigma boasiano, quali le
modalità di trasmissione e quali quelle di ricezione? Stocking, nella difficoltà di inquadrare la
gestione dell’eredità del pensiero boasiano sia da un punto di vista scientifico che umano, e
osservando come appaia oggettivamente riduttivo parlare di una “scuola”, paragona
l’antropologo tedesco insieme a tutti i suoi allievi e alle sue allieve ad una famiglia allargata,
ricordando proprio le parole di uno dei suoi alunni più conosciuto, Alfred Kroeber. Per Kroeber,
Boas fu realmente “a true patriach”, mentre soprattutto alcune sue allieve solevano chiamarlo
“Papa Franz”.

ALFRED KROEBER (1976-1960)

Alfred Kroeber fu “il primo degli allievi di Boas a ricevere il dottorato”. Egli fu proprio un
allievo che dal ‘padre’ intellettuale ereditò alcuni “fenotipi” che rielaborò in maniera abbastanza
inusuale e diversa in periodi distinti della sua carriera scientifica. Kroeber proveniva da una
famiglia tedesca; il padre, protestante di idee liberali, emigrò negli Stati Uniti all’età di dieci
anni. Come sottolineano Buckley e Wolf, l’ambiente di Kroeber era costituito dalla élite
Detschamerikanish intellettuale ed artistica di Manhattan delle fine del secolo diciannovesimo.
La sua prima lingua era il tedesco e fu nutrito quella ricca tradizione dell’Europa settentrionale
che vedeva nelle arti (in special modo nella letteratura) e nelle scienze naturali il fondamento
della conoscenza.
Prima di dedicarsi all’antropologia Kroeber fu entomologo. Uno dei suoi primi lavori scientifici
fu in collaborazione con Carl Alsberg; e, mentre Alsberg si convertiva alla fisica, Kroeber si
definiva, con sempre maggior convinzione, storico naturale e umanista. Entrato alla Columbia
nel 1892 si laureò nel 1896 in letteratura. In quell’anno, nel 1896, Boas entrò alla Columbia: da
quel momento Kroeber si dedicò all’antropologia e mai l’abbandonò. La sua tesi di dottorato
aveva per tema il simbolismo decorativo degli Arapaho. Nel 1900, su raccomandazione di Boas,
intraprese un lavoro per l’Accademia delle Scienze di San Francisco (doveva curare la
collezione di artefatti degli indiani californiani nel Museo dell’Accademia delle Scienze).
Questo incarico, le cui responsabilità erano giudicate da Kroeber non particolarmente pesanti, lo
portarono in California, a nord di San Francisco fino alle foci del fuimo Klamath, dove incontrò
gli indiani Yurok. Negli anni successivi divenne uno dei membri più influenti del Dipartamenti
di Antropologia di Berkeley; lavorò con Frederic Ward Putnam, con cui nel 1903 iniziò una
ricerca etnografica e archeologica nella California: il suo obiettivo era quello di setacciare
l’intero stato della California; voleva raccogliere e poi catalogare il materiale linguistico e più in
generale ‘culturali’ dei nativi californiani. Kroeber fu un conoscitore attento della cultura e del
linguaggio degli Indiani della California. Arrivò all’antropologia attraverso la linguistica ed in
tutta la sua carriera di antropologo mantenne un forte interesse per lo studio del linguaggio.
Kroeber si differenziò dal suo maestro per il tentativo di proporre una teorizzazione abbastanza
sistematica di alcuni assunti derivatigli dalla sua esperienza di campo. In particolare, Kroeber
viene ricordato per l’elaborazione di quello che definì “superorganico”; questo concetto,
originalmente pensato da Herbert Spencer ed Émile Durkheim, fu rielaborato da Kroeber
nell’anno 1917. Secondo Kroeber l’ordine dei fenomeni culturali era autonomo rispetto ai
fenomi biologici e la storia non era determinata dall’azione di singoli individui, ma da regolarità
culturali.

Il Superoganico, 1917
In questo saggio Krober affermava la discontinuità assoluta tra il livello dei fenomeni culturali e
quelli di altri fenomeni come, ad esempio, quelli biologici e psicologici. Per Kroeber l’oggetto
dell’antropologia coincideva con la cultura intesa nell’accezione tyloriana del termine, cioè
come insieme complesso. La tesi centrale della teoria di Kroeber è che l’ordine dei fenomeni
culturali è di natura superorganica, irriducibile all’ordine dei fenomeni biologici.
I fenomeni culturali, anziché situarsi in una relazione di continuità con i fenomeni biologici
sono provvisti di una esistenza di tipo autonomo. In questo senso essi sono spiegabili solo sulla
base di fenomeni culturali. Vi era una discontinuità di tipo qualitativo secondo Kroeber tra il
livello dei fenomeni biologici e quelli culturali. Tale discontinuità permetteva a Kroeber di
criticare il darwinismo sociale (che ipotizzava continuità tra l’ordine biologico e quello sociale).
Il carattere di autonomia che Kroeber attribuisce ai fenomeni e ai processi culturali viene
portato alle estreme conseguenze con l’immagine di una cultura non determinata dall’operare
storico dell’individuo. In questa prospettiva, lo studio dei processi culturali doveva consistere
nel tentativo di comprendere i fenomeni appartenenti alla sfera della cultura nella loro assoluta
autonomia ed indipendenza rispetto all’azione individuale che era invece strettamente
subordinata alla modalità dello sviluppo culturale.
In primis è bene ricordare che il distacco dalle teorie evoluzioniste in Kroeber si tradusse in una
differenziazione netta tra ciò che egli definì sviluppo culturale da una parte ed evoluzione
organica dall’altra; non si trattava di una differenziazione quantitativa ma piuttosto qualitativa.
L’ipotesi prima che sottostava alla teorica del superorganico di Kroeber era proprio
l’impossibilità di spiegare l’eredità biologica attraverso l’accumulazione e la variazione
culturale. Per sostenere tali affermazioni Kroeber arrivò ad affermare che lo sviluppo culturale
era proprio della civiltà, del luogo in cui si vivono e si esperiscono fenomeni sociali.
Natura e cultura per Kroeber sono universi completamente separati.

Kroeber e “il dato umano”


In tutta la produzione accademica di Kroeber è chiaro come il dato etnografico fosse per lui
anonimo, impersonale e sovra-individuale; eppure, e questo è senza dubbio un elemento che
accumunerà molti esponenti dell’antropologia americana, egli si era reso perfettamente conto
del valore della narrazione etnografica, del ruolo dell’autore, delle problematiche temporali che
questi resoconti facevano emergere, del peculiare apporto di ogni singolo informatore. Questa
apparente schizofrenia diviene evidente se si pensa al rapporto che egli ebbe con Ishi, uno dei
suoi più importanti informatore.

La storia di Ishi
Per Kroeber la cultura era un insieme di fattori, illustrata da individui come Ishi, che
rimanevano comunque al di fuori di essa in una sorta di “static balance”. Ed è proprio
quell’equilibrio statico, che accomunerà l’antropologo americano a molti antropologi del suo
tempo alla ricerca di assunti umani, culturali e sociali, legittimi oggetti di investigazione
scientifica e, per questo, irriducibili alla personalità individuale.
Difficile e compresa integrazione tra cultura e individuo.

Ishi fu trovato il 29 agosto dell’anno 1911 ad Oroville, nel recinto di un macello; era uno degli
ultimi sopravvisuti degli Yahi, indiani della California settentrionale. Fu affidato a Kroeber e a
Thomas Talbot Waterman, anch’egli antropologo dell’Università della California e che da alcuni
anni si occupava proprio della cultura degli Yahi. Ishi, questo il nome che egli diede Kroeber (in
yahi uomo), visse l’ultimo periodo della sua vita nel museo di Antropologia di San Francismo
stringendo una forte e profonda amicizia sia con Kroeber che con Waterman.
Fu la seconda mogli di Kroeber, Theodora, che decise di scriverne la storia di vita. Questa
testimonianza permette di comprendere quanto complessi e stratificati fossero i rapporti tra gli
antropologi ed i loro interlocutori, ma non solo, essa riesce a far luce sull’atteggiamento che
l’antrpologo americano ebbe nei confronti dell’impegno etico dell’antropologia. Questo
avvenimento, che segnò in maniera profonda la vita intellettuale di Kroeber, venne da lui
definito: “una piccola storia di fatti penosi”. Non solamente era complesso prendere posizioni
(nel suo Handbook Kroeber decise di non testimoniare delle violente dispersioni e disgregazioni
delle popolazioni native californiane), ma per Kroeber il posizionarsi politicamente non
rientrava tra le competenze dell’antropologo.
Erik Wolf che ripercorre la biografia di Kroeber sottolinea come la morte di Ishi segnò in
maniera profonda l’intera vita dell’antropologo.
La storia di Ishi e degli stermini compiuti sugli indiani d’America doveva restare, per
l’antropologo, una questione culturale e non rientrare nell’ambito della morale o dell’etica.
Così, il Museo di Antropologia di San Francisco, dove vissero gli antropologi Kroeber,
Waterman, l’infermiere Saxton Pope e il collaboratore Llwellyn L. Loud, si trasformò in un vero
e proprio laboratorio, ove testare, scomporre e dissezionare l’ultimo esemplare di una cultura.

La vicenda di Ishi, la sua vita vissuta nel Museo di Antropologia, insieme alla morte per
tuberculosi, sebbene sicuramente la più conosciuta, fu solo una tra le migliaria dovute a malattie
o violenza che, tra il 1769 e il 1911, aveva ridotto la popolazione indigena californiana da
trecentomila a meno di ventimila. Kroeber aveva perfettamente compresso il valore della
testimonianza di Ishi; ma non solo, il suo atteggiamento dimostra l’attitudine ambivalente che
questa generazione di antropologi aveva nei confronti degli indiani.

In un articolo apparto su un periodico del tempo, egli descriveva Ishi come una delle distinte
tappe evolutive attraverso cui i nostri antenati erano passati. Siamo nell’anno 1912 e, nonostante
si confutassero le teorie razziali, ancora si riteneva esistesse una profonda frattura spazio-
temporale tra indiani e americani.

Partecipazione in vivo/trasformazione in vitro


Ishi divenne un vero e proprio “reperto vivente”. Nel museo lavorava come aiutante, era egli
stesso parte dei fossili che vi si esponevano, mostrando al contempo un qualche cosa che era già
scomparso. Ishi si esibiva nella fabbricazione di punte di frecce e di lance, strofinava tavolette
di legno per mostrare come si otteneva il fuoco. L’episodio di Ishi diviene la rappresentazione
evidente della intrinseca ambivalenza di una disciplina come l’antropologia in “cui
l’oggetto/soggetto osservabile è una cultura in vivo che la dialettica e la prassi etnologica
vogliono restituire tramutata in cultura in vitro”.

Lavorare con le vite


L’incontro con Ishi, la testimonianza lasciati dalla moglie Theodora, la stessa vita che questo
yahi trascorse nel museo, diventano la esemplificazione di quanto fosse complicato lavorare con
le vite, espungere le vite dei dati, presentare fatti socialmente e culturalmente “puliti”. Se era
certo che Kroeber aveva compreso la natura sociale dell’antropologia era anche vero che nella
stessa cultura diveniva complesso incanalare armonicamente l’esperienza etnografica. Perché, a
ben pensarci, le operazioni compiute da Kroeber e dalla moglie furono profondamente
complementari: l’uni aveva massimizzato a scienza, l’antra individualizzato in finzione.

La vita di Ishi divenne inscindibile dalla rappresentazione della propria cultura che egli
riproduceva nel museo. Tutto ciò ha provato una sua ragione di essere anche perché c’era
qualcuno che li andava a guardare e dava loro un senso attraverso la pratica dell’osservazione
stessa. Gesti semplici, a lui abituali come la costruzione di frecce, la pesca con l’arpione,
l’accensione del fuoco, avevano una funzione pratica quando Ishi viveva ancora tra la sua terra
a tra la sua gente in quanto erano essenziali alla sua sopravvivenza.

La critica a Morgan
Sistemi classificatori di relazione, 1909.
La distinzione operata da Morgan per Kroeber è arbitraria ed etnocentrica. I sistemi parentela
esistenti infatti rivelano possedere entrambe le caratteristiche, di essere strutturati, cioè, sulla
base di principi tanto descrittivi quanto classificatori. Nella lingua inglese, ci dice Kroeber con
il termine cousin, cugino, vengono designati sia i cugini da parte di padre che quelli da parte di
madre senza che si tenesse conto del grado di prossimità effettivo né del sesso dell’individuo
designato. Per Kroeber ciò costituiva una prova del fatto che il principio classificatorio non
fosse esclusivo dei sistemi primitivi.
La critica di Kroeber non teneva conto di due essenziali fattori: Morgan era consapevole del
fatto che anche i sistemi di tipo descrittivo possiedono termini per mezzo dei quali vengono
designati individui con i quali esiste una relazione di genere differente. Il termine cugino
designa una serie di individui in relazione collaterale. Per Morgan la differenza tra sistemi
classificatori e descrittivi risiedeva proprio nella tendenza che hanno questi ultimi di designare
con gli stessi termini i parenti consanguinei in linea diretta quanto i parenti consanguinei in
linea collaterale.

La confutazione delle teorie di Morgan era conseguente di un modo radicalmente differente di


concepire la natura stessa dei rapporti di parentela.
Mentre per Mortan questi ultimi esprimevano la natura dei rapporti e delle istituzioni sociali, per
Kroeber essi riflettevano la psicologia veicolata dal linguaggio dei soggetti culturali. Per
Kroeber i termini di parentela, al pari dell’economia, dell’arte o della letteratura, poteva essere
considerato un particolare aspetto della cultura, in questo caso il linguaggio.
Psicologia significava il complesso delle attitudini, nel modo di sentire che in ogni cultura
vengono elaborati nei confronti dei propri “parenti”.
In sintonia con la concezione boasiana di cultura come insieme delle attitudini (mentali e quindi
psicologiche) degli individui, i termini di parentela venivano considerati da Kroeber come
espressioni di ciò che al par dell’economia, dell’arte e della letteratura, poteva essere
considerato un particolare aspetto della cultura stessa e in questo caso al linguaggio.

Gli otto principi che Kroeber elenca nella critica a Morgan


- La generazione: tutti i sistemi distinguono tra ego e suo padre/madre, lo zio dal cugino,
la nonna dalla madre, la madre dalla sorella.
- Il sesso: tutti i sistemi distinguono il sesso del parente. Alcuni sistemi limitano la
distinzione ad alcuni individui.
- La distinzione tra consanguinei e affini. I sistemi separano i parenti acquisiti da quelli
consanguinei.
- Distinzione tra consanguinei in linea diretta da consanguinei in linea collaterale.
- La biforcazione i parenti del lato paterno e quelli del lato materno sono distinti con
termini diversi.
- L’età relativa (fratello maggiore/fratello minore).
- Il sesso del parente attraverso cui passa la relazione.
- Condizione del parente cui si fa riferimento.

L’importanza di questo saggio consiste nel nell’aver lasciato intendere che i termini di parentela
non possono essere considerate solo in riferimento alle azioni sociali, le quali sarebbero poi il
riflesso delle pratiche matrimoniali.
I termini di parentela possono essere associati anche a domini semantici diversi da quello
parentale come quando usiamo i termini “padre”, “zio” in riferimento a individui che non ci
sono parenti in senso stretto.
Nel nominare i “parenti” gli individui tengono conto di alcuni criteri che si riflettono
nell’impiego di certi termini e non di altri.

La terminologia della parentela


- Differenze tra persone della stessa generazione o generazioni diverse.
- Differenze tra parenti in linea diretta e collaterale.
- Differenza d’età nell’ambito della stessa generazione.
- Il sesso del parente.
- Il sesso di colui che parla.
- Il sesso dell’individuo attraverso il quale passa la relazione di parentela tra chi parla e
colui che parla.
- La condizione di vita attraverso cui passa la relazione tra chi parla e colui di cui si parla.

Il diffusionismo negli Stati Uniti


Mentre Boas lavorava sul particolarismo storico e cioè studiava le culture nelle loro specificità
individuali (aveva in realtà lavorato in una larga area culturale), si costituì negli ambienti
antropologici statunitensi un indirizzo di ricerca che poneva al centro della propria attenzione la
distribuzione geografica delle culture indiane, i loro contatti e i loro prestiti reciproci sul piano
della cultura materiale, dell’organizzazione sociale e della vita religiosa.

Area culturale
Area geografica nella quale erano presenti determinati tratti.
Elementi culturali quali per esempio una credenza, una danza, una istituzione matrimoniale, una
tecnica di pittura.
La cultura era considerata come una somma complessiva dei suoi tratti. L’obiettivo era quello di
determinare la distribuzione di tali tratti culturali. La distribuzione veniva pensata come
conseguenza di processi di diffusione di questi tratti.
Mentre in precedenza l’esposizione dei reperti museali rispettava l’idea tipica
dell’evoluzionismo secondo cui era possibile stabilire un criterio assoluto di complessità
crescente indipendentemente dal luogo di provenienza di determinate categorie di oggetti
(lance, scudi, vesallame) ora l’esigenza era quella di rendere intelligibili al pubblico le
somiglianze e le differenze tra i reperti provenienti dalle diverse culture comprese entro il
territorio degli Stati Uniti.

Ethno-geographic area. Aree culturali


In antropologia sono aree geografiche contigue in cui le società possono condividere tratti
comuni.
Delineate nel XX secolo le aree culturali rimangono una delle più utili cornici teoriche-
metodologiche per la descrizione e l’analisi delle culture.

Gli antropologi elaborarono elenchi di tratti culturali ovvero caratteristiche specifiche di


un particolare gruppo, per esempio un certo rituale o un certo stile musicale per poi
determinare quale forza di diffusione quel tratto culturale avesse avuto nelle società vicine.
Un’area culturale era dunque definita dai limiti entro i quali si svolgeva il prestito ovvero la
diffusione di un particolare tratto culturale o insieme di tratti. Che cosa significa questo? Che il
prestito permetteva alla società di saltare certi stadi evolutivi e quindi qualsiasi classificazione
in sati universali perdeva significato. Le società secondo questo schema sono permanentemente
aperte al prestito culturale. I confini delle aree non sono impermeabili né fissi.

Le aree culturali
Sono modelli che ci aiutano a capire come possiamo studiare le Americhe nel loro complesso.
Comprendere come si sono formati gruppi con caratteristiche simili ma famiglie linguistiche
differenti.
Sono modelli e come tali non vanno pensati siano l’esatto specchio della realtà.
Sono quindi strumenti per farci capire come gli antropologi si sono accostati allo studio del
continente americano da un punto di vista antropologico.
Ogni studioso ha proposto un suo modello che spesso non coincide con quello elaborato da altri
studiosi.
Area culturale per Kroeber
Area geografica in cui una cultura stabilisce una serie di elementi che si riflettono nelle culture
circostanti. In questo senso gli elementi che si riflettono nelle culture circostanti diminuiscono il
loro livello di “densità” del tratto, il quale è misurabile contando come uno di quei modelli
raggiunge la linea di confine dell’area dove subentra un altro modello.
Kroeber cercava anche una correlazione tra area culturale e lingua.
Utilizza il termine diffusione.
Kroeber si era chiesto se le popolazione della California fossero una estensione meridionale
della più vasta area culturale del nord-ovest ma poi a poco a poco confuta questa idea. Ci dice
che la distribuzione di un’area culturale può darci indizi rispetto alle relazioni storiche tra
gruppi di un’area.
Area culturale come accumulazione storica di tratti che, come il linguaggio, modellano gli
sviluppi e la crescita di una definita area culturale.
Kroeber riconosce 84 aree culturali in nord-america (Nel 1931 nel saggio “Cultural and Natural
areas of Native NorthAmerica).
Perché gli YUROK erano il centro, il fulcro della cultura del nord-ovest della California?
1) Era la popolazione più numerosa (2.500 persone).
2) Erano numerosi perché si erano stabiliti vicino al fiume Klamath.
3) La presenza in quel luogo del legno rosso faceva di loro i più abili fabbricanti di canoe.
4) Avevano le cerimonie religiose più consistenti in termini di potenza rituale.
5) La zona era ecologicamente favorevole.

Climax per Kroeber


Kroeber misurava l’intensità. Una qualità misurabile in termini di quantità di contenuti culturali
ammassati insieme con un giudizio di grado rispetto alla complessità sistemica che hanno
integrato. Non solo irradiano la loro intensità ma assorbono e massimizzano le culture minori
che le circondano. La cultura come quella degli Yurok è tipizzata dalla sua totale integrazione.
Così Kroeber dice che da 1 a 7 gli Yirok stanno al livello 3, a metà della mezza via tra piccole
bande di raccoglitori del Gran Bacino, le altre civilizzazioni urbane dei Maya dello Yucatan.
Prevalente progressivismo che ha come punto di riferimento la cultura occidentale da cui
Kroeber proviene.

Le aree culturali
I modelli culturali di base sono legati ai tratti culturali i quali hanno assunto una definita e
coerente struttura e che funzionano con successo e che possono acquistare peso e consistenza.
Quando Kroeber parla di “massa culturale” vuole enfatizzare il modello statistico per la
definizione delle aree culturali.
Gli elementi della cultura formano modelli attraverso i quali le culture possono essere
classificate ma gli elementi della cultura per Kroeber formano anche “masse” che possono
essere misurate per la loro intensità che può essere quindi statisticamente determinata nei
termini o della singola massa oppure dei totali contenuti.

Possiamo misurare la cultura?


Da cosa è formata la cultura?  Da elementi tangibili e intangibili. Da pensieri, emozioni,
creatività, oggetti, parole, azioni, legami (parentali), istituzioni (politiche-economiche), da
corpi.
Kroeber era convinto che fosse possibile misurare la cultura attraverso l’individualizzazione
della sua massa. Come fosse una legge della fisica.

Apriremo un grande capitolo sulle antropologhe donne.


Boas ebbe il merito di formare moltissime antropologhe. Ricordiamo le più note: Ruth Benedict,
Margaret Mead, Zora Neale Hurston, Ruth Bunzel. Le vite di queste donne e le tematiche che
affrontarono nelle loro opere ci dicono oggi che l’antropologia delle donne nasce proprio con
Franz Boas e con la sua scuola. Dobbiamo sottolineare la loro capacità di lavorare su un doppio
registro. Da un lato compirono le loro ricerche sul terreno, così come venivano portate aventi
dai loro colleghi uomini, ma contemporaneamente chi con la poesia (Ruth Benedict) chi con el
teatro (Zora Neale Hurston) chi con il giornalismo (Margaret Mead) riuscirono a fare emergere
la loro voce femminile con modalità per quegli anni inattese in una disciplina come quella
antropologica che doveva lavorare sui paradigmi del discorso scientifico e che doveva
canonizzarsi a disciplina.
Questi antropologi – Kroeber e Boas – se chiedono se fosse un modo più intelligente per
studiare le aree culturali. L’esigenza era quella di rendere intelligibili al pubblico le somiglianze
e le differenze tra i reperti provenienti dalle diverse culture comprese entro il territorio degli
Stati Uniti.
Ruth Benedict e molte donne che lavoravano negli Stati Uniti lo facevano nell’area del
southwest. Coloro che si occuparono delle aree culturale furono soprattutto Alfred Kroeber,
Clark Wissler e Paul Kirchhoff.
Le aree culturali sono fondamentalmente dei modeli che agli antropologi hanno aiutato a
studiare l’America nel loro complesso. Comprendere come si sono formati gruppi con
caratteristiche simile ma famiglie linguistiche differenti.
La cosa interessante di questo periodo era che in realtà, si pensava di poter misurare la densità
culturale del tratto. Antropologi come Alfred Kroeber pensava che la cultura si potesse misurare
oggettivamente. Kroeber studiava le popolazioni californiane, e gli Wiyots. Questi possedevano
una densità di tratti culturali che è maggiori degli Yurok, le Haruks, gli Hupas e gli Tolowas.
Perché i Wiyots erano per Kroeber il centro culturale della california?
- Erano i più numerosi, perché si avevano messo a vivere in una posizione strategica,
vicino al fiume.
- Vicino al fiume c`èra un particolare tipo di legno rosso che era perfetto per la
costruzioni delle canoe. – Economicamente più forti, perché con queste canoe potevano
girare il fiume comercialmente –.
- La zona era ecologicamente favorabile.
Si pensava dunque di poter misurare la cultura.
Kroeber parla proprio di climax delle culture. Climax è proprio una figura retorica che consiste
nella posibilità di scrivere una frase in cui un concetto diventa sempre più intenso. Kroeber era
convinto che la cultura poteva essere misurata.
Chiudiamo adesso il discorso di Alfred Kroeber e parliamo di Ruth Fulton Benedith.

RUTH FULTON BENEDIT (1887-1948)

Nella scrittura delle donne antropologhe c’è una attenzione molto grande sulla scrittura.
C’è un elemento che caraterizza la vita di Ruth Benedit, ed è che lei arriva nel mondo della
antropologia tardi, dopo aversi sviluppato come poetissa. La vita di Ruth Benedit è stata
costelata da due presenze importanti: quella di Margared Mead e quella di Edward Sapir – un
linguista –.
Il 1919 rivoluziona la sua vita perche segue due corsi: uno di sociologia e un altro di sociologia
e antropologia con Clews Parsons, una feminista incallita, e da quanto Ruth Benedit comincia il
corso con loro, decide di butarse sulla antropologia. Lo decide tardi però, negli anni 20. Questi
anni avevano un clima intellettuale molto poco favorevole alle donne che volevano fare carriera,
e che volevano abbandonare il suo ruolo come donna di casa.
Nel 1921 iniziò a frequentare i corsi alla Columbia University. Il 1922 è un anno molto
importante per la antropologia perché escono due testi fondamentali. Una volta laureata, Ruth
Benedit comincia a divenne insegnante al Barnard College, scuola femminile.
Margaret Mead ed Edward Sapir li accomunava la passione per la letteratura, la poesia, la
psicologia e la psicoanalisi. Negli anni 20 entrano nella antropologia americana i la psicologia e
la psicoanalisi, che sono discipline perfette per lo studio dell’individuo. Tutta la antropologia
americana partiva dall’individuo per poi arrivare allo studio delle culture. Non faceva come alla
antropologia francese, che non si interessava per l’individuo.
Era il lavoro congiunto tra la poesia e l’antropologia, quello che avrebbe portato una possibile
comprensione del vivere e del pensare umano. Quindi, attenzione alla scrittura di Ruth Benedit,
e allo studio dell’individuo.
Erano anche gli anni dove comincia a lavorare Sigmund Freud.

Nasce quella che viene chiamata la “scuola di cultura e personalità” di cui Mead e Benedict
furono le maggiori esponenti, nella volontà di trovare un equilibrio tra ciò che veniva
interpretato come comportamento di gruppo e le sue variazioni individuali; tale bilanciamento,
secondo questi antropologi, poteva raggiungersi solamente restituendo alle dinamiche culturali
la loro dimensione individuale.
Margaret Mead studiava per esempio quale erano i comportamenti delle adolescenti dopo la
prima mestruazione.
Il secondo punto interessante della scuola di cultura e personalità è una attenzione alla scrittura.
Cliford Geertz dice che Ruth Benedict incarna lo scrittore e l’autore. Era un autore che proprio
con questa scrittura così pulita e chiara, dava autorrealità a quello che scriveva, ma era anche
scrittrice, perché il suo testo di 1934 diventa proprio un Best Seller. Ruth Benedict, secondo
Cliford Geertz, incarna il perfetto scrittore e autore – non scrive scrittrice o autrice, perché dice
che la sua forma de scrivere poteva paragonarsi pure a uno scrittore maschio –.
L’altro punto interessante è che questo modo di scrivere antropologia e questa attenzioni così
forte alla scrittura, porta all’antropologia fuori dalla accademia.
La volontà era appunto quella di buttare fuori la antropologia al di là del linguaggio
accademico.

Se molti antropologi compirono tale exis, attraverso la scrittura dei diari, per Benedict questo
percorso avvenne attraverso la ricerca di un linguaggio; con il perfezionamento del linguaggio,
Benedict poteva migliorare le tecniche di ricerca e di investigazione e riuscire a far fronte alla
sua situazione personale come dona, come moglie, come antropologa che voleva affermarsi
nella sua professione.
In questo senso l’antropologia di Ruth Benedict può rappresentare un unicum; il suo stile era
asciutto, rigoroso ma al contempo profondamente evocativo; rimase sempre attenta alla
presentazione del materiale, alla qualità delle fronti e degli informatori, al valore formale della
trascrizione e alla precisione delle traduzioni.
Ruth Benedict iniciò a lavorare sul campo nel 1924 con gli indiani Zuñi, poi con i Cochiti, i
Pima e gli Apache Mescalero.
L’altro punto centrale dalla antropologia di Ruth Benedict è che queste donne lavoravano
sempre su un doppio registro. Prima di tutto, facevano molta fatica a fare carriera, e quindi
molte dovevano trovare un modo diverso per guadagnare soldi, perché non venivano pagate per
fare lavoro di campo, come molto spesso succedeva con gli uomini. Allora molte di queste
donne avevano oppure la fortuna di aver un marito che li permettessero di fare questo lavoro,
oppure non si spostavano e dovevano muoversi tra il mondo della antropologia e altri lavori. Il
fatto che in realtà non entravano nella università do la libertà di scrivere testi che non
rispondevano ai paradigmi propri della accademica. Quindi scrivono molti testi che per noi sono
adesso moderni, anche se a quel punto non furono ben viste da dentro della accademia.
La letteratura dice che erano donne che avevano quasi un “doppio talento”.
Ruth Benedict le interessava capire che tipo de memoria storica avevano gli indigeni per
raccontare i miti. A Benedict interessava lo stilo in cui un mito veniva narrato; allora li
interessava il linguaggio. La storia per lei rappresentava la cornice. Noi lo dobbiamo legare al
fatto che molti di questi primi antropologi sul campo erano attenti a lingue in via di estinzione,
quindi in realtà, quando questi antropologi andavano sul campo con questi enormi magnetofoni,
era interessante per loro vedere che tipo de linguaggio usavano, a che livello arrivava la
conoscenza linguistica.
Avevamo visto anche che si lavorava con la psicologia e con la psicoanalisi.

Cultura e personalità
Si volevano comprendere le relazioni sistematiche tra le caratteristiche universali della mente
umana. Con Benedict siamo appunto nelle prime decade delle 1900. Dobbiamo fare un appunto,
perché questa scuola di cultura e personalità che studiava lo individuo e cercava se c’erano delle
relazioni sistematiche nella caratteristica della mente umana, è un punto centrale.
C’erano altri autori che si facevano la stessa domanda però che hanno dato risposte molti
diversi. Per esempio, Lévy-Bruhl, intellettuale francese che proprio in quegli anni, senza fare
lavoro de campo, scriveva saggi sulla mente indigena.
Claude Lévi-Strauss se faceva anche la domanda su qual è la struttura fondamentale della mente
dei primitivi?
C’erano tutta una serie di intellettuale che, di maniera diversa, se facevano la stessa domanda:
Come funzionava la mente di queste popolazioni allora venite come primitive?
Si capiva che c’erano delle caratteristiche universali nella mente umana; si possono tracciare
nelle diverse culture? Il lavoro etnografico sul campo, mi aiuta oppure no in questo
tracciamento? Queste erano le domande che si facevano questi studiosi, chi lavorava sul campo,
come Ruth Benedict, chi lavora pochissimo sul campo come Lévi-Strauss.

Che leggevano Bead e Benedict? Leggevano Freud, la psicologia della Gestalt, ecc. Quindi si
nutrivano di un determinato tipo di testi su questi temi. Il concetto di personalità, per loro due,
aveva diversi acezioni, però partivano dal comune presupposto che esso avrebbe dovuto
indicare le caratteristiche durature di un individuo che potevano essere comprese e dedotte dai
modelli del suo comportamento.
Lavoravano su temi come la agresività, la paura, la vergogna.

Ruth Benedict
Con il perfezionamento del linguaggio, Benedict poteva migliorare le tecniche di ricerca e di
investigazione e riuscir a far fronte alla sua situazione personale come donna, come moglie,
come antropologa che voleva affermarsi nella sua professione.
In questo senso l’antropologia di Ruth Benedict può rappresentare un unicum, il suo stile era
asciutto, rigoroso ma al contempo profondamente evocativo; rimase sempre attenta alla
presentazione del materiale, alla qualità delle fonti e degli informatori, al valore formale della
trascrizione e alla precisione delle traduzioni. Ma Anne Singleton riusciva però a scorgere
poeticità, bellezza e sapienza espositiva nei racconti e nei miti che raccoglieva.

1948, The Anthropologist and the Humanities


“Per oltre un decennio gli antropologi sono stati d’accordo sul valore della storia di vita, per
alcuni si trattava dello strumento essenziale per lo studio della cultura. Molte storie di vita sono
state raccolte, molte più di quelle pubblicate. Poco tuttavia, si è fatto, perfino con quelle
pubblicate e i ricercatori di campo che le hanno raccolte, nella maggior parte dei casi, si sono
limitati ad estrarre nelle loro monografie sull’argomento, passaggi su matrimoni […] Se
desideriamo che le storie di vita che abbiamo raccolto abbiano un peso nella teoria e nella
conoscenza antropologica, abbiamo una sola scelta: dobbiamo studiare ed essere in grado di
studiarle secondo la migliore scienza umanistica. Nessuna delle scienze sociali, nemmeno la
psicologia possiede modelli adeguati per questo tipo di studio. Le scienze umane sì. Se
dobbiamo usare le storie di vita per qualcosa di più che semplici elementi di etnologia,
dobbiamo accettare di portare avanti un lavoro che è stato tradizionalmente eseguito dai grandi
umanisti”.
Tutta la scuola americana lavora con gli individui attraverso i resoconti biografici.
Anche in questo senso va compresa la nascita di quella che venne definita la “scuola di cultura e
personalità”, nella volontà di trovare un equilibrio tra ciò che veniva interpretato come il
comportamento di gruppo e le sue variazioni individuali; tale accordo, secondo questi
antropologi, poteva raggiungersi solamente restituendo alle dinamiche culturali la loro
dimensione individuale.

Configurazionismo
Il termine si riferisce all’idea secondo cui ogni cultura costituirebbe il prodotto dell’interazione
di più modelli culturali o configurazioni appunto.
Per Benedict la cultura è una configurazione, un modello, all’interno della quale interagiscono
una serie di elementi diversi che producono modelli che poi interagiscono con il comportamento
umano. Quello che interessava a Mead e Benedict era capire come l’individuo se adattava a
questo modello culturale; era come se Margaret e Benedict pensavano che ci fosse un modello
di base, principale, che caratterizzava quella singola cultura. E a Benedict le interessava sapere
come l’individuo rispondeva individualmente a quel modelo specifico culturale.
Nel suo testo del 1934, cioè Modelli di Cultura, compara 4 tipi di società, utilizzando un
linguaggio che lei riprende dalla filosofia di Nietzsche. Infatti, ci parla da modello apollineo, e
modello dionisiaco, di modello paranoico e di modello megalomane.

Rapporto individuo/cultura/psicologia
Fu proprio a partire dagli anni Venti del Novecento che l’antropologia cominciò ad interrogarsi
sui rapporti tra individuo e cultura da un punto di vista “psicologico”.
Se vi furono infatti alcuni antropologi che si posero in una linea di completa continuità con le
teorie freudiane, molti fra coloro che percorsero il sentiero freudiano “depurato del suo
determinismo storico”.
In tale senso gli studi di “cultura e personalità” si svilupparono secondo diverse tendenze che
sono rintracciabili rispettivamente negli approcci denominati “configurazionisti”, “studi sul
carattere nazionale”, “studi sulla personalità di base e modale” e “studi transculturali”. Si
volevano comprendere le relazioni sistematiche tra le caratteristiche universali della mente
umana; si desiderava capire se tali relazioni potessero essere descritte e tracciate nelle specifiche
culture, infine si voleva indagare delle modalità di rappresentazione individuale di tali relazioni
e sulle loro peculiarità. Al termine cultura, baluardo dell’antropologia boasiana, venne accostato
quello di “personalità”; ma quale era il significato di tale termine per gli antropologi?
Che elementi avrebbe dovuto veicolare? Ma soprattutto quali i riferimenti teorici di questi
antropologi? Il concetto di personalità per Benedict, Mead e Sapir ebbe distinte accezioni. Si
partiva però dal comune presupposto che esso dovesse indicare le caratteristiche durature di un
individuo che potevano essere comprese e dedotte dai modelli del suo comportamento; tali
caratteristiche furono individuate come tratti (distintive regolarità comportamentali), come
carattere (disposizioni interpersonali) o come modalità organizzative (modalità in cui venivano
integrati l’esperienza di un individuo e il suo comportamento). È proprio in tal senso che
l’antropologia di Ruth Benedict è esemplificativa; come sottolinea acutamente Margaret
Caffrey, fu negli anni Trenta che emerse nel pensiero di Benedict la volontà di creare una
“psicologia” della cultura; le diverse istanze che caratterizzarono il pensiero di Benedict
rivelano la molteplicità dei percorsi attraverso cui la psicoanalisi e l’antropologia influenzarono
l’antropologia.
Benedict diede un contributo profondo all’interno del paradigma antropologico, in specifico
nello sviluppo degli studi di “cultura e personalità”; essa riformulò il concetto di cultura con gli
strumenti della psicoanalisi e ridiscusse i concetti di uomo, donna, anormalità e malattia
mentale. In questo senso il suo percorso intellettuale rivela sia la complessa influenza che la
psicologia e la psicoanalisi ebbero sulle discipline antropologiche, ma anche e soprattutto
l’incorporazione simultanea da parte degli antropologi di due paradigmi disciplinari distinti.

Modelli di Cultura – Patterns of Culture –, 1934.


Benedict compara quattro tipi di società e utilizzando nozioni di tipo psicologico parla di
“modello culturale medio”.
INDIANI ZUNI, apollinei. Fermo controllo delle emozioni attraverso ceremonie pubbliche.
Interiorizzazione dei sentimenti.
INDIANI DELLE PIANURE, dionisiaci. Estremizzazione dei sentimenti e delle passioni
specialmente nei confronti dei momenti di competizione e guerra.
DOBU della Melanesia. Paranoici. Sospettosi e caratterizzati da invidie reciproche.
INDIANI KWAKIUTL. Megalomani. Li caratterizzava una frenesia distruttiva che potevano
“sfogare” durante le ceremonie rituali dal potlatch.

Il concetto dello spirito guardiano, 1923.


Benedict fu una grande raccoglitrice di miti delle popolazioni Zuño e Cochiti; era un’etnografa
scrupolosa e aveva particolare cura della raccolta di miti perché in essi, attraverso la
comprensione delle loro modalità narrative ed espositive, essa riusciva a scorgere memorie,
ricordi, sentimenti, evocazioni appunto.
La sostanza del mito per Ruth Benedict era anche nello stile, nella modalità in cui esso veniva
narrato, nella sintassi e nel linguaggio; la storia che esso conteneva diveniva quasi secondaria o,
meglio, rappresentava la cornice, ma non arrivava a coincidere con la sostanza; gli uomini non
era solo ciò che raccontavano, la loro essenza stava nella postura espositiva del narrare, del
rievocare. Benedict non raccolse storie di vita e autobiografie ma si espresse in modo molto
preciso su tali tipologie narrative.
Lo spirito guardiano in molte culture nord-americana era una entità sovrannaturale che assisteva
l’individuo nelle sue imprese di caccia o di guerra e che si rivelava attraverso una visione.
Benedict esaminò la distribuzione di questa credenza in relazione ai tratti culturali presenti nelle
diverse culture e arrivò a dire che questa credenza assume una sfumatura “psicologica”
differente da una società all’altra. Ogni società aveva una propria modellizzazione dello Spirito
Guardiano.
Il lavoro fu ispirato da Boas che in quegli anni si era interessato allo studio della trasmissione
dei tratti culturali e alla loro modificazione in contesti culturali differenti.
Alcune culture, specialmente quelle dell’America indigena ritengono che il successo o la
realizzazione personale di ciascun individuo siano possibili sono se questi ottiene la
benevolenza e la protezione di uno “spirito guardiano” che si manifesta attraverso il sogno
oppure attraverso la visione in molti casi ottenuta dopo un lungo rituale di purificazione. In
molte culture le danze e le cerimonie mascherate sono una rappresentazione proprio del mondo
degli spiriti attraverso cui queste entità sono rese visibili in forme simili a quelle umane ma
generalmente con attributi mostruosi e terribili.

MARGARET MEAD (1901-1978)

Alcune fra le opere di Margaret Mead


- Coming of Age in Samoa: A Psycological Study of Primitive Youth for Western
Civilization, 1928 (trad.it. L’adolescenza in Samoa, 1954).
- Growing up in New Guinea, 1930.
- Sex and Temperament in Three Primitive Societies, 1935 (trad.it. Sesso e temperamento
in tre società primitive, 1963).
- Male and Female: A Study of the Sexes in a Changing World, 1949 (trad.it. Maschio e
femmina, 1962).
- Con Martha Wolfenstein Childhood in Contemporary Cultures, 1955 (trad.it. Il mondo
del bambino in collaborazione, 1963).
- New lives for old: Cultural Transformation-Manus, 1956 (trad.it. Crescita di una
comunità primitiva: trasformazioni culturali a Manus, 1962).
- Con Gregory Bateson, Balinese Character. A Photografic Analysis, 1942).
- Con Baldwin J., A rap on race, 1971 (Dibattito sulla razza, 1973).
- An Anthropology at Work. Writing of Ruth Benedict, 1959.
- Blackberry Winter. My Earlier Years, 1972.
- Letters from the field 1925-1975, 2001 [1977].
- Ruth Benedict, 1974.

Ruth Benedict, Edward Sapir, Gregory Bateson e Reo Fortune sono tutti antropologi che
conformarono il pensiero scientifico di Margaret Mead.
È la primera antropologa che fa lavoro di campo fuori da America.
Cominciano a emegere nuovi problemi, come quel che veniva chiamato “la appropiazione
culturale”.
Siamo negli anni Trenta del Novecento: negli Stati Uniti si estendevano i confini disciplinari;
l’”embracive approach” che l’antropologia boasiana aveva applicato in maniera solidamente
conservativa, e che vedeva l’Antropologia come disciplina compiutamente realizzata nelle sue
declinazione dell’antropologia fisica, dell’archeologia, della linguistica e dell’antropologia
culturale, trovava modalità alternative di esistenza sia nelle diversi sedi in cui ora tale disciplina
veniva insegnata, sia nell’allargamento dei confini, dei territori etnograficamente percorribili.
Velocemente si era passati dallo studio della diffusione di tratti culturali, all’analisi dei processi
di acculturazioni; furono questi gli anni in cui anche l’anima più umanistica e “popolare”
dell’antropologia riuscì ad affiorare. Ruth Benedict, Margaret Mead, Edward Sapir e Gregory
Bateson furono intellettuali che coltivarono l’aspetto dell’umanesimo insito solamente negli
interstizi: l’etnografia così come si esprimeva nella sua elaborazione teoretica dell’antropologia
culturale era una disciplina che poteva essere realizzata e pensata proprio attraverso
quell’umanesimo che intimamente le apparteneva e questo non per forza a scapito
dell’autorevolezza scientifica della disciplina.
Si inizia a capire che l’antropologia doveva anche lavorare su quei primi processi sincrotici e di
acculturazioni.
Margaret Bead incontrò Ruth Benedict nel 1922 – anno in quel escono Argonauts of the Western
Pacific di Bonislaw Malinowski e The Andaman Islanders di Alfred Reginald Radcliffe-Brown,
due testi importantissimi –. Per noi la antropologia di Margaret Bread è molto importante
appunto perché racconta pure la storia della antropologia de quel periodo. Margaret Bread fu
realmente un personaggio chiave, una testimone oculare attenta e scrupulosa del clima
intellettuale dell’America delle prime decadi del Novecento.
Non soltanto lasciò una serie di documenti biografici ed autobiografici però anche lavoro di
campo, di testimonianza. Margaret Mead, infatti, non solamente ci lasciò una serie di documenti
biografici ed autobiografici: pubblicò nel 1972, Blackberry Winter, la sua autobiografia e nel
1977 le sue lettere dal campo, Letters from the Field che coprono il periodo che va dal 1925 fino
al 1975; ma, come disse Clifford Geertz, in quanto “allieva, amica, collega e fedele custode
della eredità della Benedict, ne stilò un accurato ritratto biografico ripercorrendone i principali
momenti scientifici e personali sia con l’opera del 1959, An Anthropology at work, a dieci anni
dalla morte sia con una biografia più tradizionale edita nel 1974.

Scrittura femminile: scrittura di testimonianza


Il lavoro della Mead nella sua volontà di essere la depositaria degli scritti e dell’opera della sua
timida e risoluta maestra, ci aiuta a comprendere quanto sia peculiare in queste donne il valore
della scrittura femminile, una scrittura che poteva accostarsi certamente a quella maschile,
oggettivizzante e scientista, ma una scrittura che voleva altresì discostarsi e prendere le distanze
da essa sia nella forma che nelle tematiche che venivano trattate.
Allo stesso tempo l’opera della Mead è centrale per osservare quanto queste donne ponessero la
loro esperienza al servizio della collettività o come professionali/esperte lavoratrici di campo o
come talenti al servizio dei mezzi di comunicazione nella volontà di creare una geneaologia tra
donne scienziate/antropologhe.

Lavora a
- Samoa in Oceania tra gli anni 1925 e 1926.
- Stati Uniti, con le popolazioni native americane. Studiò con gli indiani Omaha a partire
da 1929.
- Nuova Guinea, tra la popolazione Arapesh (con Reo Fortune, 1931), Mundugumor
(1932), Ciambuli (con Reo Fortune, 1933), Manus (con Reo Fortune, tra 1928 e 1929).
- Bali (1936-1938 e 1939)

Tre punti importanti nella vita di Margaret:


1- Condivisione di intenti con Fortune-Bateson-Benedict. Con ognuno di questi
intellettuali lavorerà su temi specifici. Soprattutto con Fortune, che era psicologo;
lavora tra psicologia e antropologia sul campo con lui. Con Bateson lavora sulla
fotografia e antropologia, e con Benedict soprattutto sui modelli di comportamento.
2- La popolarizzazione dell’antropologia. È importante perché è stato l’obiettivo delle
maggiori critiche. Ciò che caratterizza gran parte del lavoro di Margaret è una critica
femminista feroce.
3- Ci lascia una grande testimonianza sul suo metodo di campo attraverso le lettere di
campo e la sua autobiografia. In realtà lei quando comincia a scrivere le lettere non
aveva idea che farebbe una discusione sul metodo etnografico.
“Quando ho cominciato a scrivere queste lettere non avevo idea di cosa volesse dire una
discussione sul metodo. Volevo solo rendere intelligibile a me, alla mia famiglia e ai
miei cari cosa significasse l’esperienza che stavo iniziando”. Mancanza di una
discussione sul metodo. Le lettere sono una modalità artigianale per iniziare una
riflessione metodologica.

Margaret Mead e Reo Fortune


Il primo punto riguarda la sua vita personale: suoi compagni di vita e di ricerca furono Reo
Fortune, Gregory Bateson e Ruth Benedict; con ognuno riuscì a portare aventi un discorso
scientifico-intellettuale peculiare. Con Reo Fortune sviluppò un lavoro interdisciplinare di
psicologia clinica; lavorò con le tecniche psicoanalitiche, le teore dell’apprendimento, la
psicologia clinica appunto, tanto che Weston la Barre denominò l’approccio di Margaret Mead
una sorta di “social cynosure”: uno studio socio-culturale che poneva al centro dell’interesse il
concetto di persona e di tutto ciò che faceva della persona un essere “culturalmente costruito”;
diremmo oggi, citando Francesco Remotti, che Margaret Mead analizzò in maniera metodica e
accurata tutto ciò che aveva a che fare con l’antropo-poiesi e la gineco-poiesi (il “farsi”
culturale e sociali degli uomini e delle donne).
Quando si conobbero e si sposarono Mead e Bateson avevano già realizzato le proprie ricerche
di campo. Mead era divenuta famosa per le sue ricerche a Samoa (1926-28) e in Nuova Guinea
(1930) e Bateson aveva completato sempre in Nuova Guinea il suo studio sul rituale di
travestimento degli Iatmul, il Naven, che venne pubblicato nel 1936.

A Bateson appariva cruciale trovare una nuova metodologia di lavoro, aveva necessità di
sperimentare nuove tecniche di ricerca per mostrare in maniera intelligibile quanto aveva
osservato. Fu decisivo per Bateson l’incontro con Margaret Mead. Bateson mentre lavorava con
lei si dedicò prevalentemente alla fotografia e “ciò è forse indicativo della fondamentale
diffidenza maturata per la scrittura sistematica, analitica e descrittiva delle scienze umane”.
Bateson e Mead furono una coppia che sul campo riuscì ad essere pienamente complementare e
non competitiva, che capitalizzò l’esigenza profonda della Mead di professionalizzare la sua
missione etnografica e quella di Bateson di liberarsi dai vincoli accademici e professionali.
Nell’edizione del testo Balinese Character curato e scritto da entrambi nel 1942, la fotografia
venne esplorata da Mead e Bateson come strumento di indagine in grado di cogliere gli aspetti
emotivi che tendevano a sfuggire alla descrizione verbale.

Sul campo si facevano esperimenti


È chiaro come sia Mead che Batesson avessero trovato nella fotografia spunti epistemologici e
metodologici particolarmente interessanti per mettere a punto alcune riflessioni. Di fronte
all’apparecchio fotografico il personaggio assume l’atteggiamento rituale richiesto dal suo
statos e “si mette in scena deliberatamente con l’obiettivo, svelandosi ad esso”.
Bateson con Margaret Mead fece ricerca di campo a Bali per ben due anni a partire dal 1936;
erano entrambi alla ricerca di una serie di dispositivi che potessero portare alla luce ciò che non
riuscivano a compiere con la scrittura, supporto imperfetto, poco preciso e non all’altezza di
tutte le variabili che il lavoro di campo presupponeva. Si resero conto, più i soggiorni si
facevano intensi e prolungati, che vi erano alcuni elementi che sfuggivano alle “scienze dure”,
ma che anche le scienze sociali con fatica riuscivano a cogliere nel loro percorso di
osservazione. In questo senso iniziano una serie di esperimenti sul campo: non solamente si
lavorava sui test psicologici, ma si sperimentava l’antropologia visuale, il teatro, l’arte.

Margaret Mead e Ruth Benedict


Infine, nella vita della Mead fu sempre presente Ruth Benedict, compagna per un periodo ma
soprattutto amica con cui condivise la sua intera vita di antropologa ed intellettuale e di cui
Mead decise di divenire la biografa ufficiale: Mead e Benedict furono intellettuali che fecero del
lavoro di campo quel luogo in cui osservazione ed esperimento riuscirono ad intrecciarsi in
maniera profonda, così profonda da avere la volontà di lasciarne tracce per gli altri. Non è un
caso che di queste donne possiamo oggi pensare di potere ricostruire la genesi delle loro
intuizioni attraverso gli scritti di carattere autobiografico.
In tutta la produzione e nella cornice teorica di Mead è presente ed esplicitamente riconosciuto
il “modello culturale” di Benedict. L’uniformità dei comportamenti e le caratteristiche che il
modello produce (“le personalità sociali” i tipi di personalità istituzionalizzati e standardizzati)
fu la traccia su cui Mead impostò il suo lavoro. È a partire dal modello che ciascuna società
prevedeva per ognuno dei due sessi, che femmine e maschi, imparavano ad essere donne e
uomini, con “proprie e specifiche doti naturali”.
La presenza di un paradigma di normatività sessuale rendeva esplicito come la differenza non
risiedesse in qualità naturali ma nelle convenzioni sociali.

La popolarizzazione dell’antropologia
La sua attività di popolarizzazione dell’antropologia fu messa a punto a vari livelli e in distinte
occasioni ma si concentrò, come scrisse Rhoda Métraux che la accompagnò in questa sua
attività dal 1963 al 1979, come giornalista su Redbook un settimanale femminile molto
popolare.
Mead sfruttò televisione, radio e giornali per diffondere le sue idee riguardo la razza, il
matrimonio, il genere, il sesso, … concetti che approfondiva nelle sue ricerche di campo ma che
fu in grado di fare filtrare e decantare per i “non addetti ai lavori”. Insomma, Margaret Mead,
come fece Benedict attraverso i suoi due testi più famosi, aveva compreso che si poteva fare
anche la storia della disciplina antropologica in maniera trasversale e che, come donna, poteva
usare strumenti molto accattivanti proprio con le donne: l’antropologia era una disciplina che
poteva contribuire a de-costruire stereotipi e pregiudizi, che doveva impegnarsi eticamente. I
suoi intenti, come dirà Rhoda Métraux ad inizio del suo schizzo biografico erano “diretti, chiari,
intellegibili”.

Riflessione metodologica sempre presente in Margaret Mead: le lettere dal campo.


- Il quotidiano
- Storia del campo
- Memoria, storia, ricordo, evocazione, testimonianza
- Impegno etico-politico dell’antropologo
- Linea di continuità tra lettere e monografie

Le lettere dal campo e le note: la descrizione degli “esperimenti”


Il campo era per Mead un laboratorio a cielo aperto, un laboratorio che non era controllabile ma
in cui si potevano svolgere esperimenti controllati. Bisognava affrontare l’antonimia fra fini e
mezzi; si doveva trattare con un sistema quanto più possibile controllabile e privo di
perturbazioni. Se Ruth Benedict provò a tenere sotto controllo situazioni non controllabili
attraverso una ‘ginnastica della scrittura’ sempre più raffinata, sempre più decisa, sempre più
perfettamente concisa, come “arringhe di un avvocato”, Margaret Mead provò con un
monitoraggio quasi ossessivo delle sue note di campo e delle sue lettere.

Male & Female, 1949.


Quando nel 1949, Male and Female. A Study of the Sexes in a Changing World esce negli Stati
Uniti con l’editore William Morrow, Mead ha 48 anni; all’apice della sua carriera, con tre
matrimoni falliti alle spalle, pubblica alcuni dati che aveva presentato tre anni prima alla Jacob
Gimbel Lectures in Sex Psychology in California; si tratta di un’analisi comparata di “sette
popolazioni dei mari del Sud”, i samoani, i manus delle Isole dell’Ammiragliato, gli arapesh, i
cannibali mundugumor del fiume Yuat, la tribù lacustre dei ciambuli, i balinesi. Sarà l’ultimo
testo che Mead scriverà sul tema del genere e del sesso e sarà anche quello che attribuirà un
posto privilegiato per avere contribuito non tanto alla protesta femminista, ma cercamente (e
forse in maniera non consapevole) a un repentino e folgorante congelamento della “mistica della
femminilità”, così come scrisse Betty Friedman nel 1963.

Celebrazioni e condanne
Le celebrazioni e le condanne di Margaret Mead come donna, come scienziata sociale e
antropologa, riguardarono la sua irrequieta sessualità e una condotta anticonvenzione, sempre
mediata da un rapporto privilegiato con organismi istituizonali (americani ma non solo) e con
l’accademia i cui ambienti frequentò attraverso Ruth Benedict di cui fu “allieva, amica, collega
e infine custode (proprietaria sarebbe il termine più adatto) della sua reputazione”. Così Clifford
Geertz iniziava un brillante saggio di rilettura dell’opera di Benedict non dimenticandosi
comunque, poche pagine più aventi, di liquidare frettolosamente la prosa della sua allieva
prediletta: lo stile di Mead, a detta di Geertz, era “sciolto e estemporaneo, pronto a dire
diciassette cose in una sola volta ed a seguire a meraviglia ciò che le passa per la testa,
scarabocchi casuali”. Ma sono nulla i brevi commenti di Geertz rispetto al più esclatante
episodio etnografico che riguardò Mead ovvero la ricerca/inchiesta di Derek Freeman:
l’antropologo australiano diede alle stampe nel 1983 Margaret Mead and Samoa. The making
and unmaking of an anthropological myth.

Maschio e femmina, 1949.


Primo scopo del libro: spiegare più chiaramente in che modo la conoscenza del nostro sesso e i
rapporti con l’altro siano basati sulle differenze e sulle somiglianze dei corpi umani. Il nostro
corpo costituisce un soggetto complesso e difficile da trattare. Siamo troppo abituati a coprirlo,
a parlarne indirettamente, con termini convenzionali e metafore, e a nascondere perfino il sesso
dei neonati sotto nastri azzurri e rosa.
Secondo scopo del libro: “I problemi della società” prendo in esame non solo quanto ho studiato
io stessa delle culture dei mari del Sud, ma anche parte degli elementi a noi noti comuni a tutte
le società umane: come ognuna ha cercato di sviluppare il mito del lavoro, di legare uomini,
donne e bambini, di nutrire e allevare i fanciulli, di risolvere i problemi che sorgono quando gli
impulsi sessuali dell’individuo devono essere disciplinati da norme sociali.
Infine, il terzo scopo è quello di delineare “i due sessi nell’America contemporanea” svolgendo
un esame comparato dell’infanzie, del corteggiamento e del matrimonio negli Stati Uniti e in
altre società. Cerco di suggerire soluzioni che si permettano di utilizzare attitudini femminili
allo stesso modo di quelle maschili, sviluppando così forme di civiltà che possano sfruttare
maggiormente tutte le possibilità umane.

Come sono stati letti/studiati/interpretati i lavori della Mead?


- Critica femminista
- Antropologia dell’educazione
- Antropologia visuale
- Storia della scienza

ETHOS (Gregory Bateson)


L’ethos emerge in una molteplicità di fatti osservabili nella vita culturale, come ad esempio nel
portamento delle persone che camminano o si muovono, nello stile del loro atteggiamento
corporeo, durante il lavoro o durante le feste, le ceremonie, emerge dalle decorazioni del corpo,
nelle maschere e nelle danze con cui i riturali sono costruiti. L’ethos emerge in tutti quegli
aspetti della vita sociale che veicolano emozioni.
In questa bella intuizione di Bateson si atravede l’influenza che egli ebbe dalla scuola di Cultura
e Personalità. Attraverso la lettura di Ruth Benedict, Margaret Bead, Abram Kardiner.
Ma come coniugare l’approccio struttural-funzionalista la cui base metodologica consiste nel
mostrare stabilità, ordine e struttura, distanza con i nativi, con quell’esigenza così forte di
cogliere o presentare le caratteristiche intangibili e fluttuanti dell’ethos iatmul?
L’ethos, l’emotività e le sue declinazioni erano a quel tempo argomenti nuovi e anche
problematici per l’antropologia.

Nuove prospettive, sperimentazioni


A Bateson appariva cruciale trovare una nuova metodologia di lavoro, aveva necessità di
sperimentare nuove tecniche per mostrare quanto aveva osservato. Naven rappresenta il
tentativo di cogliere la dimensione emotiva della cultura e questo compito nel testo viene
affidato in parte alla fotografia. La prima edizione del libro è infatto corredata da un buon
numero di immagini che rappresentano scene vivaci della vita rituale e che sono corredate da
lunghe didascalie esplicative.
La fotografia viene esplorata come strumento di indagine in grado di cogliere gli aspetti emotivi
che tendono a sfuggire alla descrizione verbale “nelle condizioni sperimentali prodotte dal fatto
di inquadrare un individuo con la macchina fotografica, si osserva abbastanza normalmente un
fenomeno simile a quello che si vede in occasioni rituali”. Di fronte all’apparecchio fotografico
il personaggio assume l’atteggiamento rituale richiesto dal suo statuso e “si mete in scena”
deliberatamente con l’obiettivo, svelandosi ad esso. La fotografia e in particolare il ritratto,
assumono così nell’etnografia di Bateson, il valore di una sorta di chiave di acceso ad un aspetto
della cultura altrimenti destinato a rimanere oscuro. L’ethos con cui ciascuno dà forma al
proprio atteggiamento nei confronti degli altri, esprimendo il proprio status.

Balinese Character, 1942. Ricerca nel 1936-38 e 39


La ricerca fu finanziata dal comitato per lo studio della dementia precox, una patologia mentale
che poi fu classificata come schizofrenia.
L’importanza della trance e di comportamenti dissociativi nella cultura balinese suggetiva la
possibilità di uno studio trans-culturale di tale patologia. A questo ambito di interesse Bateson e
Mead aggiunsero altri temi intesi a ricostruire l’ethos nel suo complesos, così come emergeva
dall’educazione dei bambini, dei processi di inculturazione e delle problematiche di genere che
la Mead già aveva affrontato in altri contesti.

Il progetto
“Nel periodo che va dal 1928 al 1936 fummo entrambi separatamente impegnati nello sforzo di
tradurre quegli aspetti della cultura mai registrati con successo dagli scienziati, sebbene spesso
afferrati dagli artisti, in una forma di comunicazione sufficientemente chiara e non equivoca da
soddisfare i criterio di una ricerca scientifica”.
Questo obiettivo fu realizzato proprio attraverso la fotografia, attraverso la comparazione
sistematica di 25.000 fotografie che ritraevano i vari momenti della vita sociale e culturale dei
balinesi.
“in questa monografia noi tentiamo un nuovo metodo atto a stabilire l’intangibile relazione che
intercorre tra diversi tipi di comportamenti culturalmente standardizzati, ponendo fianco a
fianco fotografie reciprocamente rilevanti”.

Il team di lavoro: ricerca interdisciplinare


La ricerca fu il risultato di una maniera di lavorare insieme a vari esperti e locali.
Bali nel 1930 era una sorta di “paradiso” per gli occidentali disincantati e specialmente per gli
artisti. Bateson e Mead vi trovarono Walter Spies un musicista e pittore tedesco che aveva
scritto un teso sulla danza e il “dramma” tra i balinesi. Vi era inoltre Jane Belo e suo marito
musicista Colin McPhee. Belo conosceva già Margaret Mead dalla Columbia, era un
compositore e scriveva musica contemporanea.
Vi erano inoltre Katharane Mershon e Claire Holt. Una era danzatrice e viveva in California e
suo marito anche lui danzatore, ballerino e fotografo.
Ognuna di queste persone conosceva bene le tecniche della fotografia. Lavorano e si
confrontavano rispetto ad eventi che tutti studiavano da punti di vista diversi (cremazioni,
rituali).

Metodo del lavoro


Bateson e Mead avevano dovuto pensare ad una modalità di ricerca che potesse far fronte alla
mole di materiale che andavano raccogliendo.
“Running field notes” narrazione cronologica degli eventi. Il modello era quello della scrittura
teatrale. Il team chiamava queste note “scenario”. Vi erano informazioni sul contesto, un
sommario che titolava l’azione, una lista completa dei locali balinesi presenti, la tipologia di
fotografia che usava e i temi che venivano eseguiti. Erano chiamate “osservazione seccate”.
Le “running field notes” erano supportate da un diario giornaliero di campo in cui si annotavano
tutte le differenti attività che si svolgevano sul campo: fotografie, eventi osservati, nascite e
morti, malattie, lettere, visite. Tutto questo iniziò il 12 maggio 1936.
Come lavorarono con le fotografie
Le tavole di cui il volume è composto presentano ciascuna da cinque anove fotografie che gli
autori considerano come “dati grezzi”. L’interpretazione delle immagini e la presentazione delle
tesi serebbero emersi soltanto dalla scelta del campo fotografico e soprattutto dall’accostamento
delle foto sulla tavola “è il nostro primo passo per estrarre dai dati una qualche sorta di teoria. È
un metodo comparativo ma non statistico, a rete anziché lineare”.
Pensato per mostrare le interconnessioni tra vari comportamenti da cui a poco a poco prende
forma la cultura balinese.
Ragionare sulle fotografie permise a Bateson e Mead di connettere, interpretare e rappresentare
brandelli di atteggiamenti corporei, azioni rituali, gesti, abiti, segni. Che altro non sono se non le
vitali incarnazioni di quell’astrazione a cui ci riferiamo quando utilizziamo il concetto di
cultura.

Metodo del lavoro


Bateson e Mead oltre alla realizzazione di immagini fotografiche si dedicheranno, come si è
detto, a riprese cinematografiche. La cinepresa all’inizio si era pensato dovesse essere utilizzata
in maniera analoga alla fotocamera, per documentare situazioni in movimento o performance.
Solo dopo molti anni, negli anni Cinquanta Mead decise di editare il materiale cinematografico
realizzato con Bateson in una serie di sei brevi filmati. Mead montò i filmati, post-
sonorizzandoli e accompagnandoli da un commento esplicativo letto da lei stessa. Il commento
voleva fornire una interpretazione esplicita delle immagini montate secondo uno schema
semplice e lineare. Le immagini volevano essere trattate come materiale grezzo.
Bateson faceva le fotografie e filmava e Mead si occupava delle registrazioni verbali. Mead era
una sorta di direttore che istruiva Bateson su cosa filmare e fotografiare. Mead e Bateson,
anticipando la metodologia di tipo riflessiva, mostravano ai nativi i filmati che facevano.
Si adottarono criteri e procedure per far sì che l’intrusione della fotografia e dei filmati non
“contaminasse” il contesto di lavoro. La fotografia divenne un atto di routine e secondo Bateson
i locali nemmeno si accorgevano più del lavoro che si stava compiendo.
Nelle note di campo Bateson aveva adottato una sorta di abbreviazioni rispetto al fatto che il
nativo si mettese in posa, se il nativo era consapevole dello scatto. Notazioni sulla distanza del
soggetto dalla macchina e sulla qualità dell’immagine.
Il contesto secondo Jackinis era comunque “costruito”. Mead spesso chiedeva ai bambini di
mostrare certi comportamenti: per esempio il gattonare e in molti filmati i bambini si
mostravano mentre giocavano con bambole o altri giochi che venivano loro dati per osservare
che tipo di reazione potevano avere. L’avvenimento più conosciuto rispetto a questa attitudine
fu la preparazione di una danza rituale che poi venne chiamato “Trance and dance” la cui
performance fu filmata il 16 dicembre 1937.
Indipendentemente dal fatto che tale performance venne pagata, Jacnis sottolinea come questo
particolare rituale che fu filmato nel 1937 non rappresentava una antica forma di performance
rituale ma fu pensata e creata dai locali proprio durante il periodo di soggiorno di campo de
team e questo lo spiega molto bene Belo nel suo testo del 1960.

1972, L’inverno delle more


Nel 1972 Margaret Mead dà alle stampe la sua autobiografia, Blackberry Winter. Mead ha
settantun anni, alle spalle una vita intesa come donna e come scienziata; è madre di una figlia,
Catherine, il cui padre è Gregory Bateson, antropologo britannico conosciuto sul campo, in
Nuova Guinea, dove si era recata con il suo secondo marito, Reo Fortune, anch’esso
antropologo, ma neozelandese. Per gli studiosi di antropologia, gli scritti autobiografici
(autobiografie, lettere dal campo, diari e note di campo) sono uno strumento prezioso per
comprendere le modalità di creazione di una teoria, di un modello, di quel momento inteso ed
irrepetibile della scoperta etnografica; ognuno di questi documenti possiede le proprie
peculiarità e non è facile capire come gli antropologi li abbiano utilizzati sul campo e che
riletture ne siano state fatte una volta tornati a casa; sono dispositivi che sovente non vengono
condivisi, di cui si è gelosi, che rimangono privati (Sanjek 1990) perché caotici e disordinati,
perché il momento di riflessione, comprensione e creatività per uno scienziato rappresenta un
qualche cosa mai del tutto metabolizzato, con cui è molto complicato fare i conti in maniera
oggettiva.

Le omissioni compiute da Mead


Nella sua autobiografia Margaret Mead certamente ha manipolato e scelto cosa rendere
pubblico; più si procede con la lettura più è chiaro quanto attraverso questa operazione avvenga
una catarsi nel suo senso più pieno e letterale; Mead sceglie, taglia, separa, divide e poi cuce,
rammenda, ricompone. Profondo è il suo sforzo di riflessione critica. Per il lettore odierno una
delle più grandi difficoltà nel valutare l’autobiografia di Margaret Mead riguarda le numerose
biografie che sono state scritte su di lei, perché, come spesso accade, i dati e le fonti a
disposizioni sono molteplici e ogni biografo sceglie su cosa puntare l’attenzione; si instaura un
rapporto peculiare, intenso ed intrigante, quasi “simbiotico” con il proprio biografo e con le
vicende di quella vita che si indaga con minuzia.
Emergono delle analisi dettagliate e attende dei biografi le numerose omissioni compiute da
Mead e che riguardano soprattutto la sua vita personale; secondo Lapsey questa autobiografia
costituisce per Mead una autodifesa. Lutkehaus sottolinea che le due fotografie mancanti nella
autobiografia di Margaret Mead sono quelle di Edward Sapir e Ruth Benedict; fu la figlia Mary
Catherine Bateson che decise nel 1984 di rivelare al pubblico che sua madre e Ruth Benedict
furono amanti nel 1920; Benedict e Mead rimasero poi amiche e colleghe molto vicine fino alla
morte di Benedict avvenuta nel 1948. Mead ebbe anche una storia d’amore con Edward Sapir.
Secondo Lutkehaus quando nella sua autobiografia Mead scrisse che molte ragazze facevano
parte al Barnard college dell’Ash Can Cats si erano innamorato di uomini più grandi di loro,
faceva indirettamente riferimento alla sua esperienza con Sapir che aveva 17 anni più di lei.

Le tre parti dell’autobiografia


Ma, mentre per alcune donne ciò culminò in una profonda scissione tra ciò che erano come
professioniste e quanto potevano fare, essere o apparire come madri e mogli, per lei
l’antropologia divenne un modo di guardare il mondo, un habitus che non smise mai e che fece
di lei una persona completa. Mead costruisce la sua autobiografia in tre parti; la prima e l’ultima
sono incentrate sulla sua famiglia, sulla formazione al college e poi all’università, sul ruolo
della nonna paterna, Martha Ramsey Mead, che ebbe una parte fondamentale per il suo essere
donna e donna antropologa, e poi la maternità, la nascita della figlia e il momento in cui divenne
nonna. Un finale a “regola d’arte” che le permise di concludere il suo complicato lavoro di
ricucitura e rammendo riprendendo le fila di quanto le stava più a cuore come donna e
scienziata: il rapporto intergenerazionale, la continuità e le fratture delle tradizioni culturali,
l’educazione, l’importanza della famiglia. Quest’ultima rappresenta infatti la prima ed
incredibile esperienza di campo; un esercizio, quello della convivenza con i fratelli e le sorelle,
che la aiutò a riflettere sul particolare contesto culturale in cui visse per confrontarlo all’ambito
più generale e complessivo della società americana e che le fece maturare i suoi interessi per
l’educazione, l’adolescenza e i modelli familiari.

Da L’inverno delle more (1972):


“Ma mi chiesi allora, come me lo sono sempre chiesto, perché quella diversità? Pensando a noi
quattro fratelli, rimuginando i miei primi ricordi e gli aneddoti che si erano venuti formando
intorno a ciascun bambino, come avviene in tutte le famiglie articolare, cercai costantemente di
dare una formulazione precisa alle mie osservazioni. Il riflettere sui contrasti fra le mie sorelle
mi ha portato anche a pensare alle altre donne della famiglia di mia madre e al modo in cui,
una generazione dopo l’altra, coppie di sorelle sono state intime amiche. In questo esse
esemplificato una delle caratteristiche fondamentali dei rapporti di parentela americani. Le
sorelle mentre crescono tendono ad essere rivali tra loro e, da giovani madri, non fanno che
confrontare sempre, con un senso di emulazione, i loro figli. Ma una volta che questi sono
cresciuti, le sorelle si avvicinano spesso, da vecchie, diventano l’una compagna dell’altra.”
(Mead, 1977: 82-83).

La comprensione a partire da ciò che è più vicino


La capacità di comprensione dell’essere umano parte da quanto di più vicino si ha, la propria
famiglia, i fratelli, le sorelle, i genitori, i nonni fino a giungere a ciò che sembra più distante –
popolazioni diverse, lontane dello spazio, incomprensibili all’apparenza. Ciò che rappresenta
quanto di più profondo ed originale abbia saputo trasmettere Margaret Mead e quanto ogni
studioso di antropologia dovrebbe cercare di compiere.

Da, L’inverno delle more, 1972.


“Mi piace che le mie esperienze siano profondamente immerse in un contesto personale – le mie
esperienze di conoscenza della vita di un artista o dell’essere in compagnia di qualcuno che
amo mentre vedo (e più tardi ricordo) una particolare commedia, oppure ascolto una delle
opere che preferisco. Ma il legame con la mia esperienza personale – il mio sapere il giorno in
cui una poesia è stata scritta o il sogno che l’ha preceduta, il mio ricordo della stanza di una
delle nostre belle case dai soffitti alti, che Elisabeth ricrea in un quadro – tutto questo mi
procura un godimento estetico più grande” (Mead, 1977: 83).
“La nonna paterna, che abitò con noi da quando i miei genitori si sposarono fino alla sua
morte, avvenuta nel 1927, mentre studiavo le collezioni antropologiche dei musei tedeschi, fu la
persona che esercitò sulla mia vita l’influenza più decisiva. Diventò il mio modello quando, più
avanti negli anni, tentai di assumere il ruolo di genitore moderno, il quale non esige
l’obbedienza semplicemente per il fatto che è un genitore e deve essere in grado di farsi
obbedire quando è necessario. La nonna iniziò ad insegnare giovanissima, in un’epoca in cui
era insolito per una ragazza fare la maestra. Il suo maggiore interesse fu sempre rivolto ai
piccoli. Capì molte cose che perfino oggi vengono ammesse a mala pena in campo pedagogico.
Si rendeva pienamente conto delle differenze di sviluppo mentale fra ragazzi e ragazze e
considerava i maschi molto più vulnerabili e bisognosi di pazienza. Questo presupposto
informò i miei studi sul significato delle differenze tra i sessi” (Mead, 1977: 60-63).

IL GENERE: tema complesso

Fino all’antropologia di Margaret Mead gli antropologi (donne e uomini) hanno faticato a
prendere in considerazione questo tema.
L’incapacità a recepire l’importanza del genere e perfino a riscontrarlo nei processi del sociale
non dipende (non tanto) dalla preparazione, dall’intelligenza o dal talento dei singoli studiosi,
ma dalle modalità in cui questo tema si presenta o, meglio, si nasconde all’analisi apparendo
sotto le mentite spoglie della natura.

L’antropologia e le donne
Il campo non è un territorio neutro e le donne antropologhe di questo si accorgono molto presto.
Le donne vennero considerate coloro che ponevano l’attenzione sugli aspetti emozionali.
Questo venne esplicitato anche dalla scienziata Evelyn Fox Keller che scrisse nel 1985 che la
scienza era stata da sempre identificata con la razionalità, oggettività, con l’idea di
consapevolezza e con una mancanza di fiducia nei confronti di tutto quanto riguardava le
emozioni. Le donne sono state identificate con l’idea di irrazionalità, soggettività, erotismo,
emozioni, mentre gli uomini erano i veri ricercatori e scienziati; coloro che avrebbero potuto
rendere l’antropologia una scienza. Non solo vennero posti limiti invalicabili per le donne in
accademia ma il sapere venne suddiviso in categorie femminili e maschili; c’erano argomenti e
temi propriamente maschili ed altri femminili.

L’antropologia aveva bisogno delle donne? Sì, perché erano delle abilissime ricercatrici di
campo. L’antropologia non poteva permettersi il lusso di escludere le donne anche se il sapere
che esse avrebbero portato alla disciplina non avrebbe certamente rispettato i canoni e
paradigmi necessari alla nascente scienza antropologica. La necessità delle donne creò allora un
vero dilemma. Il bisogno di donne fa dell’antropologia una scienza sospetta durante il periodo
di professionalizzazione della disciplina (prime decadi del Novecento) quando l’antropologia
deve affermarsi come scienza e non come un luogo per “dilettanti”. Poteva l’antropologia
affermarsi ed essere accettata come scienza se necessitava delle donne?
Come le altre scienze sociali fu dominata dalla presenza maschile e fu orientata dagli uomini.
L’accademia assunse che i ricercatori uomini fossero i modelli per la ricerca. Le donne per
lunghi anni hanno sofferto dello stereotipo di essere troppo deboli, delicate, emozionali, non
competitive e comunque impegnate nella cura dei figli. Marie Wormington per descrivere il suo
rapporto con il direttore del museo di Storia Naturale di Denver scriveva nel 1985: “Lui non
poteva pensare che ci fosse posto per una donna o addirittura per una archeologa nel museo… io
ho sempre pubblicato i miei lavori con le mie iniziali H. M. Wormington. Il direttore del Museo
non avrebbe mai letto un libro scritto da una donna”.

I margini delle donne


Se le donne erano marginali nel mondo della scienza ma l’antropologia aveva necessità del
lavoro delle donne per svilupparsi come poteva essere presa seriamente l’antropologia e non
rimanere una scienza marginale?
Le donne furono limitate in maniera oggettiva.
A loro si lasciò lo spazio come raccoglitrici di dati e lavoratrici sul campo. Non si aveva
bisogno di loro come analiste, interpreti, principali ricercatrici nei progetti di ricerca,
professoresse nelle accademie. Si sviluppò una precisa divisione metodologica del lavoro. Vi
erano aree di ricerca maschili e femminili. Le donne, comunque, non si pensava fossero adatte
né portate per ‘i numeri’ e la ricerca quantitativa, la quale divenne prerogativa maschile.
Nell’antropologia fisica, per esempio, si richiedeva l’utilizzo della statistica o di numerazione
quantitative pochissime donne furono accettate in questo campo.

I messaggi che venivano dati alle donne antropologhe erano ambivalenti


La testimonianza delle donne che studiarono antropologia intorno agli anni Trenta e Quaranta
negli Stati Uniti è che i messaggi che ricevevano sulla reale possibilità di divenire antropologhe
erano ambivalenti. Non c’era sicurezza di poter trovare lavoro, e specialmente per le donne, il
periodo era quello della depressione. Molti professori potevano anche stimare l’attività delle
loro studentesse che si accingevano a fare il dottorato ma certamente i messaggi non spronavano
a continuare gli studi. In quel periodo vi erano anche poche donne che insegnavano antropologia
e vi erano alcuni antropologi che apertamente e pubblicamente a lezione disprezzano il lavoro
delle donne.

Difficoltà delle donne


Nel fare riconoscere il loro lavoro.
Perché sappiamo così poco del lavoro delle donne antropologhe?
Perché nessuno conosce l’incommensurabile del lavoro delle donne antropologhe che
lavorarono nel South West?
Perché queste donne non sono nella Storia dell’antropologia? Perché le donne non sono citate
nelle discussioni di carattere teorico? Perché, con le eccezioni di Benedict e Mead, le donne
antropologhe rimangono nascoste, nell’ombra, ai margini? È veramente una buona disciplina
per le donne l’antropologia?

Ragioni sistematiche e strutturali


Le strutture e le organizzazioni dei posti di lavoro nel campo dell’educazione hanno strutturato e
alimentato la marginalizzazione delle donne antropologhe e i loro possibili contribuiti creando
barriere che le donne hanno puntualmente incontrato. Le personalità individuali non possono
quindi spiegare le esperienze collettive di queste donne che lavorarono nel South West.

La storia
Ci sono testimonianze di grandi uomini, Morgan, Spencer, Tylor, Boas, Kroeber, Lévi-Strauss,
Sapir, Linton, Lowie, Kardiner, Durkheim, Malinowski, Radcliffe-Brown, White, Steward,
Evans-Pritchard, Geertz, Redfield, Lewis e grandi donne, Benedict e Mead. Lo stesso schema è
in tutti i testi di antropologia di tutto il mondo. Non sappiamo praticamente nulla delle donne,
né di quelle americane né tantomeno di quelle europee.
La storia della scienza e la storia dell’antropologia è la storia di certe idee di alcuni individui, è
la storia solamente di un certo tipo di individui.

Chi fa la storia? Come si giudica un lavoro scientifico?


Un professionista. E chi è un professionista? Chi lavora in una istituzione oppure chi occupa
certe posizioni nelle istituzioni.
Chi viene tenuto in conto rispetto ad una teoria e non chi sperimenta e raccoglie dati sul campo.
Chi viene citato e chi è conosciuto.
Il merito scientifico dovrebbe essere valutato indipendentemente dalle qualità personali e sociali
di un individuo.
Bisognerebbe mantenere neutralità emozionale rispetto ad una pubblicane scientifica.
La neutralità si misura valutando una ricerca in termini non personali.

Il merito scientifico non è mai stato “gender-free”


Ci sono stati individui che hanno controllato il lavoro scientifico e hanno controllato come tale
lavoro doveva essere valutato e in questo senso anche la Storia della disciplina era controllata e
monitorata.
La scienza, la antropologia, l’ambiente di lavoro, l’istituzione erano tutti ambienti dominati da
una classe media di uomini che controllava anche l’ambiente circostante.
Gli uomini hanno definito come si doveva apprendere e come fare la storia della disciplina,
hanno deciso le regole del sapere. Il tipico membro delle accademie in nord America e nel
dopoguerra era un uomo, bianco, di classe media. Libero dalle incombenze domestiche, con
responsabilità accademiche, con tempo per pensare e condurre ricerca e per trasmettere questa
conoscenza ai suoi alunni.

Le donne e l’accademia
Le donne che hanno provato ad intraprendere una carriera accademica sono state considerate
come devianti o discordanti. Le donne sono state sempre considerate come coloro che dovevano
occupare posti di poco rilevo perché:
- Non prendevano sé stesse sul serio quanto invece erano in grado di fare gli uomini.
- Ad un certo punto avrebbero interrotto la loro carriera per fare bambini.
- Non avevano bisogno di denaro perché avevano al fianco uomini che potevano
prendersi cura di loro e quindi mantenerle.
- Non avevano ambizioni e nemmeno abilità.
- Per natura erano “passive”.

ZORA NEALE HURSTON

Zora Neale Hurston è stata una illustre scrittrice, artista, antropologa e folklorista statunitense
operante nella prima metà del Novecento, nota soprattutto per aver fatto parte del movimento
culturale della Harlem Renaissance. Zora nacque il sette gennaio 1891, a Notasulga, in
Alabama, sesta di otto figli. Il padre, John Hurston, era un reverendo battista, agricoltore e
carpentiere mentre la madre Lucy Ann Potts era un’insegnante. La famiglia Hurston si trasferì a
Eatonville, in Florida, una delle prime città abitate esclusivamente da afroamericani, quando
Zora aveva tre anni. Per tutta la vita Zora considerò Eatonville la sua reale città natale, scrive
infatti nella sua autobiografia:
“I was born in a Negro town. […] Eatonville, Florida, is, and was at the time of my birth, a
pure Negro town – charter, mayor, council, town marshal and all. It was not the first Negro
community in America, buti t was the first to be incorporated, the first attempt at organized self-
goverment on the part of Negroes in America” (Hurston, 1996, p.1).

La vita
Gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza a Eatonville, ricchissima dal punto di vista della
tradizione folkloristica, permisero a Zora di crescere con ardente orgoglio razziale, oltre che con
il dono per la narrazione di storie, senso dell’umorismo e ironia. L’infanzia serena di Zora subì
però un brusco arresto nel 1904 quando la madre, a cui era molto legata, morì per malattia. La
giovane aveva solo tredici anni. Questo evento cambiò drasticamente la vita di Zora.

Morgan Academy
Tra il 1917 e il 1918 frequentò la Morgan Academy di Baltimora, dove riuscì a completare
l’istruzione superiore. Per potersi iscrivere si attribuì un’età anagrafica di dieci anni inferiore
rispetto a quella reale, cosa che avrebbe continuato a fare per tutti gli anni successivi. Tra il
1918 e il 1919 frequentò i corsi in preparazione all’ammissione per la Howard University, a
Washington DC, da sempre aperta a tutti senza distinzione di razza e genere, “the capstone of
Negro education in the world. […] It is to the negro what Harvard is to the white” (Hurston,
1996, p.129). qui, nel 1924, Zora si laureò. Gli anni alla Howard furono particolarmente
produttivi per Hurston, che firmò proprio in questo periodo le sue prime pubblicazioni.

Alain Locke e l’Harlem Renaissance


Trained by Boas in anthropological theory and methods, a part of the literary milieu of the
Harlem Renaissance and debates about its modernist qualifications, exposed to popular
discourses of the primitive, and immersed in African-American folk culture by personal history
and profession, Hurston was situated in a conflictual vortex of hierarchical discourses involving
race, artistry and cultural attainment. (Jacobs, 1997, p. 335).

Zora Neale Hurston (fatti della sua vita in modo cronologico):


- nacque il 15 gennaio 1891 a Notasulga (Alabama) da una coppia di ex schiavi.
- successivo trasferimento della famiglia ad Eatonville, dove restarono ino alla morte
della madre.
- 1904, si trasferì a Jacksonville con la sorella ed il fratello.
- 1917, riprese gli studi iscrivendosi alla Morgan Academy e conseguendo la maturità nel
1918.
- 1918, si iscrisse alla Howard University, dove si laureò nel 1920.
- 1921, Zora debuttò come scrittrice pubblicando la sua prima novella John Reddings
goes to the sea.
- 1922, le poesie Night, Journey’s End and Passion furono pubblicate in Negro World.
- 1924, pubblicò una seconda novella intitolata Drenched in Light.
- 1925, si trasferì definitivamente ad Harlem e si iscrisse al Barnard College  punto di
svolta.
- 1931, Charlote Osgood Mason terminò il contratto di finanziamento con Zora.
- 1934, pubblicazione novella Jonah’s Gourd Vine.
- 1935, pubblicazione Mules and Men, risultato della sua ricerca di campo condotta tra le
comunità africane del sud (tra le quali Eatonville).
- 1936, intraprese altre ricerche etnografiche ad Haiti ed in Jamaica.
- 1937, pubblicazione di Their Eyes Were Watching God, scritto durante il suo soggiorno
ad Haiti.
- 1938, pubblicazione di Tell My Horses.
- 1942, pubblicazione della sua autobiografia Dust Tracks On a Road.

Barnard College, lo racconta nella sua autobiografia del 1942.


La sua speranza fu ben risposta, dal momento che riuscì a ottenere una borsa di studio per il
Barnard ed essere qui accolta come prima studentessa nera. Nonostante questo Zora non si sentì
discriminata, piuttosto si rendeva conto di essere una figura inusuale all’interno dell’accademia,
tanto che disse di essere diventata la “Barnard’s sacred black cow” (Hurston, 1996, p. 139).
Incominciò a seguire i corsi di Arte, Economia ed Antropologia. La sua prima insegnante di
Antropologia fu Gladys Reichard, poi prese parte alle lezioni di Ruth Benedict e Franz Boas,
con il quale iniziò poi una stretta collaborazione.

Harlem Renaissance
Mentre Zora seguiva i corsi alla Barnard frequentava anche una realtà culturale diametralmente
opposta: Harlem, con i suoi circoli di giovani scrittori e artisti neri. Nel 1925, l’anno in cui
Hurston arrivò a New York, il movimento definito Harlem Renaissance era al suo picco:
attraverso lo sviluppo di tutte le forme d’arte e delle scienze sociali, artisti e intellettuali
afroamericani rifiutarono di limitarsi ad imitare lo stile degli europei e dei bianchi d’America,
ma esaltarono invece la dignità e la creatività nera.

I maintain that I have been a Negro three times – a Negro baby, a Negro girl and a Negro
woman. Still, if you hace received no clear cut impression of that the Negro in America is like,
then you are in the same place with me. There is no The Negro here. Our lives are so
diversified, internal attitudes so varied, appearances and capacities so different, that there is no
possible classification so catholic that i twill cover us all, except My people! My people!
(Hurston, 1996, p.192).

Dust Traks on a Road, 1942.


In seguito alla pubblicazione della sua autobiografia Dust Tracks on a Road (1942), la sua
carriera brillante subì una battuta d’arresto nel 1948, quando venne falsamente accusata di aver
molestato un bambino e per questo arrestata. Nel marzo 1949 venne rilasciata per infondatezza
dell’accusa, ma rimase comunque segnata indelebilmente dalla vicenda.
Dopo aver trascorso una decima di anni come giornalista freelance, supplente e cameriera in
Florida, morì il 28 gennaio 1960 al St. Lucie County Welfare Home per “hypertensive heart
disease”, dove era già stata ricoverata diverse volte per problemi di cuore. Venne seppellita in
una tomba senza nome nel cimitero di Heavenly Rest, Fort Pierce.

I mentori di Hurston
La carriera artistica e professionale di Zora fu segnata dagli incontri che fece furante il suo
percorso. Due esperienze, in particolare, influirono fortemente sulla sua formazione
intellettuale: l’adesione ai circoli letterari della Harlem Renaissance e l’istruzione antropologica
alla Barnard University, con Franz Boas, uno dei più importanti studiosi della disciplina di quel
periodo. Degna di essere menzionata all’interno di questo panorama multidimensionale che
condizionò il laboro di Zora è, infine, Mrs. Rufus Osgood Mason; ricca mecenate bianca che
finanziò diverse ricerche dell’autrice stessa.

Alain Locke e l’Harlem Renaissance


Arrivata a New York nel 1925, all’età di 34 anni, Zora Neale Hurston cominciò a frequentare il
vivace mondo culturale di Harlem. Erano proprio quelli gli anni in cui il movimento chiamato
Harlem Renaissance (o Rinascimento di Harlem) era all’apice dello sviluppo. Zora stessa
scriveva nella sua autobiografia che proprio quando “beginning to feel the urge to write, I
wanted to be in New York”, per prendere parte alla cosiddetta “Negro Renaissance”. L’Harlem
Renaissance è stato un movimento artistico e culturale sorto attorno agli Venti negli Stati Uniti,
ad opera della comunità afroamericana. Il centro del movimento fu appunto il quartiere Harlem
di New York e da lì si diffuse in tutti gli Stati Uniti.
Le radici dalla Renaissance sono da individuare nei cambiamenti avvenuti nella comunità nera
dopo l’abolizione della schiavitù, accelerati dalle conseguenze della Prima guerra mondiale e
dal grande mutamente sociale e culturale che l’America vide all’inizio del XX secolo, sotto
l’influenza dell’industrializzazione e dell’emergere di una nuova cultura di massa. Un altro
fattore determinante fu la grande migrazione degli afroamericani verso le grandi città del nord.
Attraverso lo sviluppo di diverse forme artistiche (letteratura, teatro, musica, poesia, arti visive,
etc.) e attraverso le scienze sociali (sociologia, antropologia, storiografia, ecc.) artisti e
intellettuali esplorarono l’esperienza storica degli afroamericani e la vita dei neri all’epoca, nelle
grandi città degli USA.
Prendendo le distanze dei valori morali vittoriani e dagli ideali borghesi che rafforzavano le
convinzioni razziste, l’obiettivo ultimo era esaltare la dignità e la creatività proprie dell’identità
nera. Rivendicando inoltre la libertà di espressione esaminarono il proprio ruolo di neri
americani, celebrando la cultura nera che era emersa dalla schiavitù e i loro legami culturali con
l’Africa. Mai dominato da una particolare scuola di pensiero, ma piuttosto caratterizzato da un
intenso dibattito, il movimento ha gettato le basi per lo sviluppo successivo della letteratura
afroamericana e nera in generale, smuovendo la coscienza ai letterati di tutto il mondo.
La figura centrale di questo movimento è ritenuta Alain Le Roy Locke, scrittore, educatore,
filosofo e mecenate statunitense. Così ce lo presenta Hernández: Locke sought to articulate the
aesthetic experience of black culture that had the potential to recreate an African American
culture. By widely disseminating African American art, Locke sought to increase racial self-
awareness in the black community.

Alain Locke
Locke sostenne quindi artisti, scrittori e musicisti afroamericani incoraggiandoli a guardare
all’Africa come ad una fonte d’ispirazione per le loro opera, stimolandoli a rappresentare
soggetti di quel continenti e afroamericani, ad attingere dal loro passato per le loro creazioni. Il
suo prodotto artistico più importante fu, probabilmente, The New Negro (1925), un’antologia di
narrativa, poesia e saggi di carattere sociale e politico di autori africani ed afroamericani.
L’antrologia auspicava, in ultima istanza, una reale uguaglianza tra neri e bianchi, che ponesse
le sue fondamenta sulla fiducia in sé stessi da parte dei neri e sulla consapevolezza politica.
Il pensiero artistico e intellettuale di Locke e il suo ruolo di leader culturale fecero quindi sì che
molti giovani, tra cui Zora stessa, lo considerassero un mentore. Riportando le parole di
Hemenway, il curatore della biografia letteraria dell’autrice, Hernández scrive che: Hurston
thought of [Locke] as a mother hen… she also sought his approval. Locke somitimes dispproved
of Zora…[and] altough he respected her talent, he was not hesitant to offer counsel.

La Barnard University e il rapporto controverso con Franz Boas


New York fu sorprendentemente ricca per Zora. Infatti, non solo questa si immerse nel vivo
della Harlem del tempo, ma grazie a una borsa di studio concessale da Annie Nathan Meyer
ebbe la possibilità di iscriversi, come prima studentessa nera, alla Barnard University, università
femminile affiliata alla Columbia dagli inizio del Novecento.
Come sottolinea anche Lamphere, il mondo della Barnard introdusse Zora in un ambiente molto
differente da quello di Harlem, quindi contemporaneamente ella “was a part of Harlem, with its
circle of young black writers and artist and Barnard with his students and faculty. She attended
“rent parties” in Harlem, participated in upscale dinners hosted by white patrons at New York
restaurants; and visited the homes of her Barnard classmates”.

Al Barnard, Zora scelse di frequentare il corso di Antropologia, inizialmente con Gladys


Reichard, poi con Franz Boas, che l’autrice stessa definisce come “the king of kings”.
Effettivamente, negli anni Venti, Boas era uno degli antropologi più conosciuti e
all’avanguardia. Antropologo di origini tedesche, naturalizzato poi negli U.S.A., Boas fu tra i
primi ad opporsi alle teorie evoluzioniste.

Al di là delle sue idee teoriche il grande merito di Boas fu anche quello di aver avvicinato
numerose donne all’antropologia, oltre alle note Ruth Benedict e Margaret Mead. Tuttavia,
oscurate da queste grandi e prorompenti personalità, marginalizzate per questioni di genere dal
mondo scientifico delle accademie, queste brillanti antropologhe, tra cui Zora stessa, sono
rimaste nascoste ai lati della storia ufficiale della disciplina.
Il rapporto della Hurston con Boas è argomento particolarmente dibattuto, nonostante la stessa
dipinga, nella sua biografia, un’immagine dell’illustre antropologo che rivela una grande
ammirazione nei suoi confronti. Scrive infatti: He [Boas] is idolized by everybody who takes his
orders. We all call him Papa, too. Away from is office, Dr. Boas is full of youth and fun, and
abhors dull, stodgy arguments. As is well known, Dr. Franz Boas is the greatest Anthropologist
alive.

Se le idee di Boas e la sua spinta a dedicarsi allo studio del folklore afroamericano, come forma
culturale complessa degla di studio e registrazione, furono decisive nel percorso della Hurston,
non mancarono però elementi problematici.
Come fa notare Walkers, l’approccio paternalistico che Boas utilizzava con le sue studentesse
(che non a caso lo chiamavano Papa Franz) portò a queste ultime ad essere sempre associate
all’idea di “figlie”. Questo termine porta con sé l’idea di dipendenza, sottomissione e stabilisce
un rapporto di tipo gerarchico, che implica inferiorità rispetto alla figura paterna. Questa visione
depotenzia anche notevolmente la capacità creativa delle allieve stesse, mero “recipiente” delle
idee del maestro. Riprendendo parte della corrispondenza tra Boas e la Hurston, Meisenhelder
arriva addirittura a colpevolizzare Boas per “dictating the focus of her reseach and treating her
as an aid or informant rather than a researcher in her own righ”.

Boas & Hurston


Prefazione di Mules and Men, redatta da Boas stesso, che altre divergenze tra i due stavano nella
metodologia di conduzione e produzione di ricerca etnografica: mentre il primo era un convinto
assertore che la scientificità di un’opera prevedesse l’annullamento dell’autore dalla stessa,
Hurston sperimentò, da parte sua, nuove forme di scrittura etnografica, molto distanti da quelle
del suo maestro.
Accontentarsi di intendere il rapporto tra Boas e Hurston in termini di pura e spontanea
ammirazione sarebbe riduttivo e semplicistico.
Senza togliere a Boas il merito di essere stato tra i primi a schierarsi fortemente contro il
razzismo e di aver sostenuto e incoraggiato la ricerca sul folklore afroamericano, le relazioni
umane, specie quelli che, come in questo caso, celano rapporti di potere ineguali, non sono mai
così semplici.

Mrs. R. Osgood Mason


Nonostante Hurston scrivesse nella sua biografia che “there was and is a psychic bond between
us, she could read my mind, not only when I was in her presence, but thousands of miles away”,
i rapporti non furono cisì idilliaci e privi di conflittualità come appaiono in queste righe. Mrs.
Mason, infatti, prendeva un controllo assoluto ed esclusivo su tutte le note di campo raccolte
dall’antropologa, come anche dei prodotti artisitci di tutti coloro che sponsorizzava. Inoltre
richiedeva una lista completa di come era speso lo stipendio che le versava per fare ricerca (two
hundred dollars a month, riporta Zora nella sua biografia), “including the exact costs of such
personal items as feminine hygiene products: once she even forced Hurston to beg for money
for a pair of shoes”. A ciò si aggiunta che anche la Mason “consistently pushed Hurston to
express only the “primitivism” she saw in Black culture”.
Eppure, Walkers ci illustra la strategia sottile che Hurston utilizzò per “ribellarsi” alla stretta
morsa della ricca mecenate: Mrs. Mason, infatti, richiedeva di non essere mai citata con il suo
nome vero ma che il suo anonimato fosse rispettato e di essere chiamata Godmother. Hurston
invece, non solo la citò pubblicamente nell’introduzione di Mules and Men, ma fece la stessa
cosa anche nella sua autobiografia: dietro a quello che noi sembra un gesto di riconoscimento si
cela invece una deliberata e sottile protesta, che probabilmente solo Mason riuscì a cogliere, ma
che è indicativa di come, nonostante la consapevolezza di dipendenza economica, la Hurston
rivendicasse sempre e comunque la sua libertà espressiva.

Mules and Men, 1935.


Mules and Men è il primo lavoro etnografico di Zora. Il testo tratta del folklore afro-americano
nel Sud degli Stati Uniti: catturando l’umorismo e la saggezza della comunità nera si fa
testimone di un patrimonio culturale estremamente interessante e a lungo marginalizzato. Il
titolo è già un primo indicatore del contenuto: la metafora del mulo, nel folklore nero, è ricca e
complessa; esso simboleggia tanto l’esistenza della persona nera segnata dal servilismo, ma
anche il suo buonsenso, la forza e la caparbietà.
Il materiale per questo lavoro iniziò ad essere raccolto nel 1927, quando Franz Boas diede il
compito all’antropologa di “go south and do research in folklore”. Tuttavia, la borsa di studio
concessale da Boas aveva la durata di soli sei mesi e la ricerca poté essere proseguita soltanto
grazie all’aiuto di Mrs. R. Osgood Mason, mecenate della borghesia anglo-americana. Nel
dicembre del 1927 Zora firmò con la Mason un nuovo contratto, della durata di due anni, che le
permise di tornare nel Sud degli Stati Uniti per proseguire le sue ricerche sul folklore
afroamericano.
Mules and Men venne scritto da Zora al suo ritorno a New York, tra il 1930 e il 1932, ma venne
pubblicato nel 1935. Il testo, a un primo sguardo, si presenta diviso in due sezioni: “Folk Tales”
e “Hoodoo”. La prima parte, che raccoglie le canzioni, le preghiere ma soprattutto i racconti
folkloristici della comunità afroamericana (lies, come vengono chiamati dagli stessi), è, a sua
volta, divisa in due ulteriori sottosezioni: i racconti raccolti da Zora presso Eatonville, la sua
città natale, e quelli invece raccolti presso Polk County, altra zona della Florida dove l’autrice
fece tappa in un secondo momento. La seconda parte illustra i rituali segreti e la medicina
popolare praticata da quelli che vengono chiamati hoodoo doctors, a New Orleans. Il testo
presenta, inoltre, un glossario, un’appendice e una prefazione redatta da Franz Boas, oltre che
note a piè di pagine per spiegare gli esotismi propri dello slang afroamericano: tutte le sezioni
che fanno pensare a un tradizionale lavoro accademico di scienze sociali.
Tuttavia, Zora è più di una mera osservatrice che riporta fedelmente ciò che vede, cosa che
richiederebbe invece un racconto etnografico redatto in modo ortodosso: addentrandoci nelle
singole parti del testo si vedrà come l’antropologa diventi una delle protagoniste centrali della
sua stessa ricerca etnografica e come continuamente si reinventi e metta in atto strategie nuove
per essere accolta al meglio nei diversi contesti di lavoro di campo. In questo modo Hurston si
contrappone a una tradizione accademica attestata da tempo e rompe definitivamente con i
modelli prestabili, affermandosi in modo creativo indipendente e personale.
Il testo etnografico di Hurston si apre con la prefazione del suo maestro e illustre antropologo
Franz Boas.
Per Zora era molto importante che Boas scrivesse la prefazione: egli aveva infatti il potere di far
guadagnare credibilità al suo lavoro, che in questo modo sarebbe stato preso seriamente in
considerazione dalla comunità scientifica. Convincere il grande antropologo a scrivere questa,
quindi, è già una prima prova delle abilità linguistiche di Hurston.
Tuttavia, la prefazione non è così lusinghiera come appare a una prima lettura e mette in luce
alcune delle tensioni tra Hurston e Boas. Innanzitutto, la prefazione è molto breve: se ciò si può
giustificare con il fatto che il target a cui è rivolto il libro non è esclusivamente accademica, ma
anche (e soprattutto) popolare e quindi qualcuno avrebbe potuto annoiarsi con una prefazione
troppo lunga, è bene sottolineare anche in che termini si è espresso Boas nella stesura della
stessa.

LA SCUOLA SOCIOLOGICA FRANCESE

La riflessione francese sulle società primitive si sviluppò tardivamente rispetto a quanto era
avvenuto in Gran Bretagna ma anche negli Stati Uniti. La riflessione francese sulle culture e
sulle società primitive deriva dalla sociologia. Disciplina quest’ultima che ha le sue radici nella
filosofia positiva di Auguste Comte. Comte aveva focalizzato la sua attenzione su temi della
normatività sociale, ossia dell’ordine sociale come frutto di una possibile applicazione di
un sapere positivo che fosse allo stesso tempo conoscenza e strumento di gestione della
società sulla base di criteri di natura tecnico-scientifica.

ÉMILE DURKHEIM

Durkheim allievo dello stico-antichista Numa Fustel de Coulanges e del filosofo Emile
Boutroux si laureò in filosofia, fu la guida di quella che venne definita la “Scuola di sociologia”,
destinata ad influenzare la riflessione francese sia un campo sociologico che etno-antropologico.
Il primo punto interessante per Durkheim fu il suo concetto do coscienza collettiva che elaborò
nel suo testo di 1893, La divisione del lavoro sociale.

La coscienza collettiva
Rappresenta l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri di una
stessa società.
Il concetto di coscienza collettiva per Durkheim rinviava ad una entità sociale sovra-individuale,
indipendente dalle coscienze singole e dotata di una logica di sviluppo autonomo. In questo
senso egli potè pensare alla società come un qualche cosa di unitario e coeso.
Pensiamo al superorganico di Kroeber.

Leggi generali
La sociologia per Durkheim era quella disciplina che poteva prendere in esame il numero più
alto possibile di società per giungere alla conoscenza di leggi generali. Pensiamo a ciò che
abbiamo detto di Franz Boas.

La divisione del lavoro sociale, 1893.


La coscienza collettiva per Durkheim poteva manifestarsi nelle diverse società con maggiore o
minore grado di solidarietà vigente tra i membri della stessa.
In questo modo dove la vita sociale occupa ogni spazio della vita del singolo determinandole le
scelte ed i sentimenti, la coscienza collettiva riflette l’esistenza di una solidarietà che Durkheim
definiste di tipo meccanico, che lega tra loro i singoli individui. La riprovazione per ogni atto
che va contro la norma sarà profonda.
Conzione della vita-della morte-importanza del rito.

Solidarietà meccanica
Il comportamento era imposto da regola collettive che gravavano sull’intera comunità concepita
come un tutto inscindibile.
In questa idea sonno annidati tutti i principali pregiudizi, errori e incomprensioni nei riguardi
dei popoli esotici che hanno contribuito a creare l’immagine stereotipata del “primitivo”: tutti
identici come cellule di un unico tessuto, tutti nudi e tutti ugualmente e immediatamente
sottomessi alla pressione del gruppo e della struttura sociale che è ovunque la stessa, il clan.
Privi di individualità psichica e si pensieri personali, privi di sentimenti complessi e
differenziati, completamente dipendenti dal gruppo, dal clan, dalle sue forze e dai suoi bisogni.

La divisione del lavoro sociale, 1893.


Nei tipi di società dove invece prevale la tendenza del singolo individuo a differenziarsi rispetto
al gruppo, nella società in cui prevale una solidarietà di tipo organico, la coscienza collettiva
tende ad occupare spazi più ristretti ma non per questo meno efficaci dal punto di vista del
mantenimento di una identità sociale comune.
Società a solidarietà meccanica e società a solidarietà organica costituiscono per Durkheim due
tipi estremi di una varietà complessa dove le due forme di solidarietà si intrecciano per costruire
forme di società e di associazioni miste ove prevale ora l’una ora l’altra.
In quest’opera, come in altre di Durkheim gli esempi etnografici erano moltissimi. In
particolare, gli esempi che D. fa sono di letteratura etnografica di comunità arabe e berbere del
Marocco, dell’Algeria e della Tunisia. Da tali osservazioni risultava che le popolazioni rurali e
nomadi di queste regioni possedevano un tipo di organizzazione che fu denominata
“segmentaria”.
Ogni gruppo era costituito da una serie di segmenti ciascuno dei quali era simile all’altro. La
vita di queste società non dipendeva dal fatto che questi segmenti aumentassero oppure
diminuissero perché come accadeva nelle forme animali inferiori (per esempio i lombrichi) la
perdita di un anello/segmento era rimpiazzato dalla crescita di anello/segmento identico a quello
che si era perduto.
In queste società la solidarietà era meccanica perché l’individuo non “compiva azioni” e non
elaborava sentimenti che non fossero quelli imposti dal gruppo. Individuo e gruppo.

Le forme elementari della vita religiosa, 1912.


Questa opera voleva elaborare una teoria generale sulla religione e sulla società attraverso
l’individuazione di quegli elementi, le forme elementari della vita religiosa appunto, che entrano
a far parte di tutti i sistemi religiosi e sociali.
Il fenomeno religioso per Durkheim era un fatto che poteva considerarsi sociologicamente
unitario.
Il fatto religioso è un fatto unitario  alcune religioni possono essere dette superiori alle altre
nel senso che mettono in gioco funzioni mentali più elevate; ma se prendiamo in esame le
religioni semplici, ci accorgiamo che esse rispondono alle stesse necessità, assolvono la stessa
funzione, dipendono dalle stesse cause e perciò possono anch’esse manifestare la natura della
vita religiosa e di conseguenza risolvere il problema che vogliamo trattare. Le religioni sono
così comparabili tra loro in quanto, indipendentemente dal loro grado di complessità interno,
alla base di tutti i sistemi di fede e di tutti i culti deve esserci necessariamente un certo numero
di rappresentazioni fondamentali e di atteggiamenti rituali che rivestono ovunque lo stesso
significato oggettivo e adempiono le stesse funzioni.

Le religioni aborigene e l’antropologia


I primi resoconti di viaggiatori ed esploratori, così come i primi studi antropologici condotti sul
territorio australiano furono più o meno unanimi nell’attribuire alla cultura, definita aborigena,
caratteristiche che l’avvicinavano alle società preistoriche europee. Tale giudizio di matrice
evoluzionista, attribuiva agli aspetti economici e sociali aborigeni un grado di arretratezza e
primitività più elevato rispetto alle culture fino a quel momento osservate.
Nella classica monografia sugli Aranta, Baldwin Spencer attribuisce a tale gruppo “un livello
culturale uguale a quello degli uomini dell’età della età della pietra ed esclude la presenza di
una vera e propria forma di religione”. Basandosi sul testo che Baldwin e Spencer scrissero,
James Frazer sviluppò la teoria secondo la quale la magia precede la religione. Marcell Mauss,
inoltre, nelle sue lezioni attribuì ai soli australiani, insieme agli abitanti della Terra del Fuoco, le
caratteristiche di veri primitivi.
L’incontro con le popolazioni australiane sembrò offrire agli studiosi una concreta possibilità di
risalire agli albori della civiltà e di derivare le forme più semplici ed elementari della cultura.

Da Frazer, 1910.
Lo studio degli aborigeni australiano è di incalcolabile importanza perché sembra che nelle loro
forme arcaiche di società e di modi di pensare noi tocchiamo il più remoto passato, lo stadio più
rudimentale della vita umana che attualmente è dato di osservare sulla terra. Nell’opera di
Spencer e Gillen noi troviamo per la prima volta un resoconto completo e autentico su selvaggi
interamente primitivi che vivono nello stadio totemico, praticamente non toccati dall’influenza
europea. La sua importanza come documento della storia umana non può pertanto essere
sottovalutato. Fra le grandi estensioni di terra e di contenenti nel mondo, l’Australia è insieme la
più piccola e la più solata e quindi la sua flora e la sua fauna sono in generale di tipo meno
sviluppato che altrove.
Per lo stesso motivo, gli aborigeni australiani sono rimasti nel complesso e fino ai nostri giorni,
in uno stato più primitivo.

Le religioni aborigene e l’antropologia


Gli etnografi e gli antropologi nelle prime fasi dello studio sugli aborigeni australiani
indirizzarono i loro interessi verso quei temi che meglio potevano corroborare le tesi di matrice
evoluzionista. La ricerca antropologica condotta nel XIX e nel XX secolo, ispirata alle teorie
spenceriane dell’evoluzionismo unilineare fu dominata pertanto dalla visione degli aborigeni
come rappresentanti privilegiati di uno stile di vita primitivo.
Questi studi, condotti da antropologi del calibro di Durkheim, Frazer, McLennan, Morgan Tylor
furono fondamentali per lo sviluppo della disciplina antropologica e per l’attenzione che venne
posta su temi che poi saranno “classici” per l’antropologia successiva. L’antropologia che aveva
come oggetto gli aborigeni, in quanto disciplina accademica, raggiunse un consolidamento
definitivo negli anni Venti del 1900.

Totemismo nell’elaborazione di Durkheim


Il totemismo degli aborigeni australiani fu elaborato da Durkheim come fatto sociale e fatto
unitario. Esso sarebbe infatti consistito per Durkheim in una forma in cui il gruppo si
identificava con un animale o con una pianta o con un fenomeno naturale qualsiasi che sarebbe
poi divenuto il simbolo del gruppo, il simbolo dell’antenato comune dei membri del gruppo, e
un oggetto di culto da parte dei membri di esso.
Egli considerava il totemismo come un sistema religioso, il più semplice che si potesse trovare
tra le popolazioni primitive al cui interno agivano rappresentazioni di natura collettiva
indipendenti dalla psiche individuale, rappresentazioni che erano la proiezione ideale del gruppo
sociale.
L’unità del gruppo, la solidarietà dei suoi membri, la consapevolezza di non potere esistere al di
fuori della società, spingono gli individui a “idealizzare” la propria unione la quale i trova
rappresentata in un simbolo, in un totem e nel culto che a questo viene tributato.
Il totemismo può essere considerato come il complesso delle istituzioni e delle credenze
incentrata sulla relazione tra una specie (frequentemente un animale) e il gruppo sociale.
Per Durkheim fu una forma elementare e originaria di religione. Tra gli aborigeni australiani
l’organizzazione sociale è caratterizzata dalla divisione in clan, ognuno dei quali è rappresentato
da un emblema totemico.

Identità collettiva
L’emblema e il totem rendono manifesta l’identità del clan e l’unità dei suoi membri. Durante i
riti collettivi gli appartenenti al clan si riuniscono ed esprimono in questo modo il loro senso di
identità collettiva. La venerazione rivolta al simbolo del clan rivela in tal modo la percezione di
una esistenza di una realtà diversa e superiore al singolo individuo, ossia la sua partecipazione
ad una collettività. Nell’animale/totem questi popoli venerano il proprio clan, la società stessa di
cui fanno parte.

Totemismo per Durkheim


Alla base c’era la sua idea di sacro.
Le piante, gli animali o alcuni fenomeni naturali acquistano un carattere si sacralità nel processo
che li trasforma in simboli, in emblemi tangibili e concreti di qualcos’altro.
Il totem è un simbolo, una espressione materiale di qualcos’altro. È la forma esteriore e
sensibile di ciò che è il “principio totemico”, una forza anonima e impersonale che si trova in
ciascuno di questi esseri.
È anche il simbolo della società che si chiama clan.

Totemismo
Il termine totem deriva dall’espressione OTOTEMAN che nella lingua di alcuni gruppi di nativi
del Nord-America, significa qualche cosa come “egli fa parte della mia parentela”. Siccome
questa espressione era applicata anche ad una specie animale avente lo stesso nome del gruppo
(di solito un gruppo di discendenza esogamico o un clan) i primi studiosi di antropologia
parlarono di totemismo ritenendo che tutto quanto potesse segnalare l’uso di termini di animali
o piante in relazione agli esseri umani o a gruppi di essi, dovesse essere considerato una forma
di religione primitiva, anzi la forma più primitiva di religione.
Questa idea venne confrontata dal fato che alcuno gruppi di nativi nord-americani e tra loro
quelli della regione prospiciente la costa settentrionale del Pacifico, erigevano pali, chiamati
anch’essi totem, con incise le figure dei loro animali mitici (corvo, castoro, balena). Questa
religione totemica avrebbe avuto il fondamento del culto dell’antenato eponimo, portante cioè lo
stesso nome del gruppo, e un atteggiamento rituale nei confronti di tutto ciò che fosse associato
ad esso mediante il nome.

Totemismo e Lévi-Strauss
In realtà ciò che noi chiamiamo totemismo comprende un complesso di fatti tra loro
estremamente eterogenei. In uno studio del 1962 Lévi-Strauss dimostrò che quello che gli
antropologi avevano ritenuto essere una forma di religione altro non era che un modo di
classificare i gruppi e gli individui basato sul repertorio della specie animali e vegetali. Ciò non
toglieva il fatto che le relazioni simboliche tra esseri umani e specie animali o vegetali
costituisca un elemento centrale nella cosmologia e nelle religioni di molte culture con
importanti riflessi sul plano rituale.

LUCIEN LÉVI-BRUHL

Insieme a Marcel Mauss e a Rivet fonda L’ISTITUT D’ETHNOLOGIE nel 1927.

La morale e la scienza dei costumi, 1903.


Nacque come testo di filosofia. La domanda che si faceva Lévy-Bruhl in questo testo riguardava
la possibilità di elaborare una morale universale valida, cioè oggettiva in senso filosofico. Per
Lévy-Bruhl qualunque teoria avesse pretesa di fondare una teoria oggettiva partirebbe
dall’assunto più o meno esplicito secondo il quale esisterebbe una “natura umana” sempre ed
ovunque identica a sé stessa. Studiare la morale significa che l’esperienza morale può assumere
in contesti sociali differenti, i diversi sistemi morali che sono caratteristici delle diverse società.
Dalla pubblicazione di questo testo Lévy-Bruhl si dedicherà allo studio delle società cosiddette
“primitive”.

La mentalità primitiva
1910, Psiche e società primitiva
Lévy-Bruhl vuole cercare di elaborare una teoria generale sulla mentalità primitiva. Criticò la
tradizione inglese dell’evoluzionismo. Le rappresentazioni collettive erano per Lévy-Bruhl
“comuni ad un dato gruppo sociale e trasmissibili di generazione in generazione”, erano
rappresentazioni che si imponevano agli individui attraverso la pratica sociale e che costituivano
perciò modelli sociali di atteggiamenti mentali erano insomma veri e propri fatti sociali.
Egli pensava che questi fatti sociali fossero già dati all’interno di un contesto che era già dato 
la società.
“Per quanto lontano si possa risalire, per quanto possano essere primitive le società prese in
considerazione, noi incontriamo sempre spiriti socializzati, se così si può dire, presi già da una
moltitudine di rappresentazioni collettive che gli sono state trasmesse dalla tradizione e la cui
origine si perde nella notte dei tempi”,
I fatti primitivi sono da ricondursi ad un identico meccanismo mentale ma questo meccanismo
non è quello di uno spirito umano naturalisticamente determinato ma quello di uno spirito
collettivo di ordine sociale.

Le funzioni elementari nelle società inferiori


Vuole determinare la mentalità peculiare delle società inferiori. Il suo studio verte sui due tipi
estremi di mentalità, tra cui si dispone tutta una serie di tipi intermedi o di transizione: proprio
perché la distanza tra i due tipi considerati è massima, la loro comparazione dovrebbe consentire
di individuare con maggiore nettezza i caratteri peculiari della mentalità dei primitivi. Egli
pensa che si possano disporre su una scala evolutiva sia i tipi sociali sia i tipi di mentalità.

Elementi e presupposti che Lévy-Bruhl deriva dalla scuola sociologica durkheimiana

- Nozione di solidarietà dei fatti sociali.


- Nozione di tipo sociale (a seconda delle strutture sociali è possibile ricostruire una
tipologia di società).
- Convinzione che ad ogni tipo sociale corrispondono istituzioni, costumi e mentalità
particolari.
- Per la costruzione di una tipologia è necessario ed indispensabile uno studio
comparativo dei tipi sociali ed esso comporta uno studio comparativo delle
rappresentazioni collettive corrispondenti. Infatti, istituzioni e costumi altro non sono
che l’incarnazione e l’oggettivazione delle rappresentazioni collettive.

Universo simbolico primitivo


L’universo simbolico del primitivo era per Lévy-Bruhl omogeneo all’universo sociale in cui il
primitivo stesso viveva. Era il carattere eminentemente emotivo dell’esperienza sociale a
generare il tipo particolare delle rappresentazioni collettive che costituivano questo universo
simbolico. Il gruppo sociale primitivo viveva, cioè, una esperienza mistica che si realizzava
nelle pratiche del culto e nell’esecuzione del rito.
In questo contesto l’individuo non aveva possibilità di sviluppare un giudizio proprio e
indipendente da quello che gli veniva imposto dalla sua società. Lévy-Bruhl portava alle
estreme conseguenze quanto aveva elaborato Durkheim; secondo lui la forza del pensiero
sociale si impone agli individui che mostrano un atteggiamento mentale caratterizzato da una
fondamentale impermeabilità all’esperienza.
Per Lévy-Bruhl esiste un contrasto molto forte fra la mentalità primitiva e la mentalità moderna.
La prima può essere definita come essenzialmente mistica e prelogica; potendo questi due
caratteri essere considerati come due aspetti della stessa tendenza. Questa mentalità se si
considera più specificamente il contenuto delle rappresentazioni sarà detta mistica e prelogica se
si guarda piuttosto ai collegamenti. La mentalità moderna è caratterizzata invece dalla
determinazione dei concetti e dall’esigenza logica.
Il gruppo sociale primitivo viveva in questo senso una esperienza mistica nel senso che esasa si
realizzava nelle pratiche del culto e nell’esecuzione del rito. L’individuo non poteva sviluppare
un giudizio proprio. Il misticismo era quell’elemento che sottolineava l’unione inscindibile tra
esperienza collettiva e individuale e che permetteva l’impermeabilità sociale all’esperienza.
“Orientata diversamente dalla nostra, preoccupata soprattutto delle relazioni delle proprietà
mistiche e avendo per legge principale la legge della partecipazione, la mentalità dei primitivi
interpreta necessariamente in maniera diversa quella che noi chiamiamo la natura
dell’esperienza”.
Universo simbolico primitivo
- Impermeabilità all’esperienza.
- I primitivi continuano a praticare la magia nonostante e indipendentemente dai risultati
che possono essere realmente ottenuti per mezzo della stessa.
È proprio la rappresentazione collettiva che impedisce loro di concentrale l’attenzione
sui dati dell’esperienza oggettiva.

La mentalità primitiva, 1922.


“La mentalità primitiva si preoccupa, come la nostra, delle cause di ciò che accade. Ma non le
cerca nella stessa direzione. Vive in un mondo in cui innumerevoli potenze occulte erano ciò
che la mentalità primitiva coglieva nella loro relazione “partecipante”, dove la parte
corrispondente al tutto e dove il gesto rituale prefigura o addirittura sta per l’azione reale”.

Mentalità prelogica
Tale relazione partecipava a ciò che determina la natura prelogica di questo tipo di mentalità. Il
concetto di prelogico non designa in Lévy-Bruhl una forma di pensiero “meno evoluta” di
quella designata da termine logico.
Prelogico per Lévy-Bruhl significa a-scientifico, a-critico, e non implica né una anteriorità di
tipo temporale, nello sviluppo delle facoltà mentali, né tantomeno una natura irrazionale. Il
concetto di prelogico indica una differenza di tipo qualitativo.

Uno schema dualistico ed oppositivo che comporta alcune conseguenze


Se ci sono due mentalità, distinte ed opposte, non è possibile descrivere le funzioni dell’una con
i termini adatti a descrivere le funzioni dell’altra. Occorre perciò inventare una nuova
terminologia o perlomeno stabilire un nuovo senso alla terminologia corrente.

Rappresentazioni
Non bisogna considerare solo la rappresentazione come fenomeno meramente intellettuale ma
come fenomeno in cui intervengono, oltre ad elementi intellettuali, elementi emozionali ed
elementi motori. Tra questi elementi vi è indifferenziazione. In virtù di questa indifferenziazione
tra elementi emozionali, motori ed intellettuali si parla di mistico, di aspetto mistico.

ROBERT HERTZ 1882-1915

- Fece ricerca di campo.


- Contributo allo studio sulla rappresentazione collettiva della morte, 1907.
- La preminenza della mano destra. Studio sulla polarità religiosa, 1909.
- Iniziatore dell’antropologia alpina, studia a Cogne, studio sul santuario di San Besso.

La ricerca di campo di Hertz


Restrinse il campo di indagine in senso etnografico e questo lo differenzia in maniera
esponenziale dagli evoluzionisti. Lavora nel Borneo nell’attuale Indonesia.
L’idea che è alla base della ricerca etnografica di Hertz riprende il tema della “coesione sociale”
esposta da Durkheim. Per quanto riguarda la concezione che ciascun popolo aveva di essa
rientrava in un problema più vasto, quello cioè della comprensione dei meccanismi grazie ai
quali una società riesce a mantenere la propria identità e la propria coesione.
Per Hertz la morte era una delle rappresentazioni collettive più interessanti per comprendere i
processi mensali che erano condivisi da tutti i membri di una società e investivano le relazioni
tra il singolo e la comunità e i valori fondamentali del gruppo sociale.

La morte
La comunità avverte la morte come una minaccia alla propria coesione. La comunità dopo un
evento di morte deve ristabilire un equilibrio che la scomparsa dell’individuo ha alterato e per
questo si ricorre ai rituali funebri.
La morte viene studiata da Hertz come transizione, come un passaggio da una condizione ad
un’altra.

Lo scandalo della morte


La morte per Hertz, al di là del fenomeno biologico riveste una serie di rappresentazioni assai
differenziate non solo nel loro aspetto culturale ma anche nel loro significato sociologico.
“Alla morte di un capo o di un uomo investito di grande dignità, un vero e proprio panico si
impadronisce di tutto il gruppo. Al contrario la morte di uno straniero, di uno schiavo o di un
bambino passerà quasi inosservata e alle volte non darà luogo ad alcun rito.
La morte non si limita a porre fine all’esistenza corporea, visibile, di un vivo; essa distrugge
contemporaneamente l’essere sociale che si sovrappone all’individualità fisica, a cui la
coscienza collettiva attribuiva una importanza, una dignità più o meno grande”.
La morte nella prospettiva di Hertz distrugge il rapporto dell’individuo con il gruppo di cui fa
parte e dal quale trae la sua stessa identità sociale.
La morte viene avvertita dalla società come una minaccia.
Come si risponde alla minaccia? Attraverso il rito.
La morte riveste rappresentazioni, emozioni molto differenziate non solo per il loro aspetto
culturale ma anche sociologico.

A. Van Gennep, 1909, I riti di passaggio


Nelle culture ogni fenomeno è caratterizzato dalla processualità e dalla gradualità. In esse
l’individuo è condotto, attraverso tempi e passaggi concatenati, a mutare sé ed il proprio
ambiente e a raggiungere successivi e più elaborati traguardi. La costruzione dell’umanità è
legata ad un modello articolato di passaggi.
Ogni mutamento di situazione dell’individuo viene a comportare delle azioni e delle reazioni tra
il sacro e il profano; queste azioni e reazioni devono essere appunto regolamentate e controllate,
affinché la società generale non subisca né disagi, né danni cosicché la vita dell’individuo si
svolga in una successione di tappe nelle quali il termine finale e l’inizio costituiscano degli
insiemi dello stesso ordine.
Nascita, pubertà sociale, matrimonio, paternità, progressione di classe, specializzazione di
occupazione, morte. A ciascuno di questi insiemi corrispondono ceremonie il cui fine è identico:
far passare l’individuo da una situazione determinata ad un’altra anch’essa determinata.

Il rito e le sue diverse tipologie


È impresa impossibile classificare i riti in base a categorie rigide. Il rito consiste infatti in una
serie di atti, parole, simboli che hanno significato polisemico. Gli elementi del rito rinviano
spesso a livelli e aspetti della realtà differenti venendo a rivestire significati politici, religiosi,
magici.

I riti di passaggio
Tre fasi del rito di passaggio così come li elaborò e rappresentò Van Gennep.
1. Fase di separazione (riti preliminari)
2. Fase di margine (riti liminari)
3. Fase di aggregazione (riti post-liminari).

La fase liminare
Van Gennep considera questa fase la più delicata perché essa consente di ridurre l’aspetto
traumatico del distacco da una determinata categoria sociale e del passaggio ad un’altra in cui si
acquisisce il nuovo status. È la fase più “fragile” sul piano sociale e sul piano delle forze
ambigue che possono sprigionarsi dall’ambiguità dello status in cui è coinvolto l’iniziando.

Fase liminare e communitas


V. Turner, Il processo rituale. Struttura e antistruttura, 1972.
I riti di passaggio che coinvolgono interi gruppi (iniziazioni giovanili) danno luogo alla
formazione di communitas. Nella situazione di communitas tendono a prodursi situazioni
“antistrutturali” nel senso che l’insorgere di uno spirito comunitario si traduce in comportamenti
e in rappresentazioni contrari a quelli ordinari o della vita di tutti i giorni. La communitas
rappresenta un nucleo sociale a “tempo determinato” che raggruppa individui che perseguono il
medesimo fine.
I riti
Di passaggio, della regalità, di inversione, i riti funebri… tutti i riti prevedono degli specialisti i
quali hanno competenze specifiche, conoscono le tecniche e mediano tra il mondo umano ed
extra-umano. Sciamani, stregoni, profeti, divinatori, sacerdoti, essi mediano tra sacro e profano.

MARCEL MAUSS 1872-1950

Il saggio sul dono, 1923-24.


Dare-ricevere e ricambiare.
Hau, teoria indigena maori. Lo spirito della cosa donata.

Il saggio sul dono, 1923-1924


Mauss si interessava di fatti sociali totali. Egli rivolse la sua attenzione ai fatti etnografici
rilevati da Franz Boas e da Bronislaw Malinowski e nella fattispecie al potlatch e al kula. Questi
due casi dimostravano in maniera molto chiara l’esistenza anche presso quelle che allora
venivano chiamate “società primitive” di fenomeni complessi, articolati di scambio.
La descrizione di Boas e Malinowski e di altri antropologi spinse Mauss a parlare di chiari
esempi di fatti sociali totali.
Questi fenomeni investivano la vita sociale, religiosa, economica di queste popolazioni e
situavano al centro di relazione tra individui e gruppi e implicavano scambi che prevedevano
reciprocità.
Per Mauss si trattava di leggere questi fenomeni come fatti sociali totali. Egli li raggruppa sotto
la categoria del dono. Egli vuole rendere ragione del “carattere volontario per così dire,
apparentemente libero e gratuito e tuttavia obbligatorio ed interessato di queste “prestazioni””.
Egli cercava di spiegare questi fenomeni sulla base del principio in base al quale la società,
come aveva sostenuto Durkheim, impone agli individui di comportarsi secondo delle regole che
spesso sfuggono ai suoi stessi membri.

Dare-ricevere-ricambiare
Erano tre regole che stavano alla base del fenomeno del dono: Dare-ricevere-ricambiare. Era
attraverso questo complesso di regole che si strutturava il principio della reciprocità. Mauss
riconduceva questo principio e il suo carattere obbligatorio ad una “qualità intrinseca” degli
oggetti scambiati, una qualità che li assimilava alla persona che li aveva posseduti e che
permaneva in essi anche dopo che erano passati nelle mani di altre persone.

Lo spirito della cosa donata


Era la credenza nell’esistenza di questa “qualità” e nella azione da essa esercitata a mettere in
moto il sistema di prestazioni reciproche, in quanto mancata restituzione degli oggetti donati
avrebbe prodotto l’interruzione dello scambio che si sarebbe tradotto a sua volta in un danno per
il trasgressore dalla regola. La qualità presente nella cosa era infatti suscettibile di “vendicarsi”
sul trasgressore in quanto “forza” appartenente al possessore originario della cosa donata, “la
forza magica” di colui che l’aveva ceduta.

Hau
Mauss in questa interpretazione fu profondamente influenziato dalla lettura della etnografia
polinesiana e dalla teoria dello HAU presente tra i Maori della Nuova Zelanda.
Secondo i Maori lo Hau sarebbe proprio “lo spirito della cosa donata” ciò che pone colui che
riceve il dono nella posizione di “debito” nei confronti del donatore e lo obbliga quindi a
ricambiare per restaurare un equilibrio tra forze.
Le tecniche del corpo (1934) Testo di una conferenza tenuta da M. Mauss di fronte ad un
uditorio di psicologi pubblicata nel 1936.
Le tecniche del corpo sono i modi con cui gli uomini nelle diverse società si servono del proprio
corpo per uniformarsi alla tradizione.
La tecnica è un atto tradizionale efficace.
Il corpo è il primo ed il più naturale degli strumenti, ed è utilizzato seguendo norme e regole la
cui natura non è esclusivamente biologica o fisiologica ma sociologica.

Le tecniche del corpo


Nuotare, marciare, fare l’amore, camminare: le questioni relative al corpo non sono meri fatti
biologici, e sono comprensibili solo all’interno di processi di socializzazione.
Il corpo è uno strumento attraverso cui leggere, rileggere ed interpretare il sociale.
Il corpo è oggetto di indagine antropologica, si studia il corpo individuale e sociale.

Il corpo
L’ambito del corpo ha stentato a farsi strada anche dopo Mauss poiché, pacificamente
considerato come rappresentante dalla natura, è sempre stato ritenuto l’ultimo baluardo contro i
processi culturali e sociali. Siamo sempre stati convinti che a governare il corpo fossero la
biologia e l’inconscio. Solo con Durkheim ci siamo accorti che è dalla società che ci
pervengono le categorie attraverso le quali noi ordiniamo il mondo. Mauss, in sostanza, de-
naturalizza il corpo e lo strappa dal suo essere meramente biologico.

Mimesi
Mimesi, imitazione: mediante l’imitazione degli altri membri del corpo sociale, si apprende
socialmente ciò che è sociale. Il carattere implicito di tale processo fa sì che gli individui lo
vivano come se fosse naturale. Le tecniche del corpo sono culturalmente determinate e
socialmente apprese. Qualsiasi azione porta l’impronta dell’apprendimento: di educazione ed
imitazione. Gli atti che si vede compiere con successo, da parte di persone che esercitano
autorità, vengono imitati nelle sequenze di cui si compongono.
Di solito si imitano gli atti, con esito positivo, compiuti da persone che esercitano una certa
autorità.

Il corpo sociale
Il sociale si fa natura, il collettivo si fa individuale. Il corpo collettivo vive nei corpi individuali.
È nelle tecniche del corpo che noi troviamo il naturale modo di vivere il corpo, ma è una
modalità appresa.
Il corpo è il terreno individuale su cui la società scrive il sapere attraverso l’educazione,
attraverso la mimesi. Nel corpo i discorsi sociali si fanno abitudine, natura. Non esiste un modo
naturale per utilizzarlo; tutto è riconducibile al sociale, cioè ai processi di educazione e ai
sistemi simbolici che li organizzano. Tuttavia, noi arriviamo a vivere come natura e naturale ciò
che invece è arbitrario. La differenza tra l’atto tradizionale della religione, o un atto morale e
l’atto tradizionale della tecnica sta nel fatto che l’autore lo viva e lo senta come un atto di ordine
fisico e meccanico.

Pensare antropologicamente il corpo


Mauss propone dei criteri per classificare le tecniche del corpo. Ovviamente ciò che è
importante non è la classificazione delle tecniche ma che Mauss ci abbia offerto un modo per
pensare antropologicamente il corpo.
Le tecniche del corpo variano a seconda delle società, delle educazioni, delle convenienze, delle
mode, del prestigio, dei sessi, dell’età. Possono essere classificate in base al loro rendimento e ai
risultati dell’addestramento, alla natura dell’educazione e dell’addestramento. I movimenti e le
posture sono soggetti ad una intrinseca variabilità etnografica, e ad una evoluzione nel corso del
ciclo di vita individuale: le tecniche del corpo corrispondono alla mappatura socioculturale del
tempo e dello spazio.
Le tecniche del corpo
Le tecniche del corpo sono montaggi fisico-psico-sociologici prodotti dall’educazione e per
l’autorità sociale. Forniscono autorità perché ci uniformiamo alla tradizione, sono per l’autorità
perché le legittimiamo attraverso la tradizione.
L’adattamento a uno scopo fisico viene perseguito attraverso una serie di atti collegati non
semplicemente dall’individuo, ma da tutta la sua educazione, da tutta la società di cui fa parte,
dal posto che egli vi occupa.
- Tecniche della nascita e dell’ostetricia
Ex. partorire in posizione verticale o orizzontale
- Tecniche dell’infanzia
Ex. allevamento e nutrimento del bambino
- Tecniche dell’adolescenza
iniziazione
- Tecniche dell’età adulta
Ex. tecniche che ripartiscono i diversi momenti della giornata, tecniche del sonno, del
riposo, del movimento (marcia, corsa, danza, salto, arrampicarsi, movimenti che
richiedono forza).
- Tecniche delle cure del corpo
Ex. strofinamento, lavatura, insaponatura, cura della bocca.
- Tecniche della consumazione
Ex. mangiare (utilizzo mani, posate), bere (insegnare ai bimbi a bere alla sorgente).

Sacro e profano
Fu soprattutto E. Durkheim seguito da alcuni suoi allievi a privilegiare questa opposizione per
determinare la religione nei suoi diversi aspetti. Secondo Durkheim l’aspetto peculiare del
fenomeno religioso è il fatto che esso presuppone sempre una divisione dell’universo in due
sfere: il sacro e il profano. Tali ambiti della realtà si escludono reciprocamente, ma possono in
particolare circostanze, comunicare fra loro. Le credenze religiose sono rappresentazioni
collettive che esprimono la natura delle cose sacre e i rapporti che esse hanno tra loro e con le
cose profane.

Il sacro e il profano
È ciò che sottoposto a divieti, a tabù, ciò che non può essere raggiunto dal profano senza che
questo causi reazioni o sia giudicato trasgressivo. Il sacro è totalmente altro, superiore e
separato.
“Quando un certo numero di cose sacre presenta al proprio interno rapporti di coordinamento e
subordinazione, in modo da formare un sistema di una certa unità che però non rientra a sua
volta in un altro sistema del genere, l’insieme delle credenze e dei riti corrispondenti costituisce
la religione”.

Il sacro e il profano
Sono ambiti dotati di autonomia. Non si possono accostare e sovrapporre, se non a precise
condizioni o in precise prospettive. Il sacro però non avrebbe efficacia se non si giungesse nella
sfera della vita ordinaria. Il contatto tra sacro e quotidiano deve essere controllato. Devono
esserci mediazioni. Ogni cultura ha elaborato forme legittime di intermediari o di specialisti, di
uomini preposti che collegano gli uomini con il divino.

MARCEL GRIAULE 1898-1956


La missione Dakar-Gibuti 1931-1932.
Verso la fine degli anni Venti l’insegnamento di Mauss e l’attività dell’Institut d’Ethnologie
diedero vita ad una nuova era nella storia dell’etnologia francese. Nel 1931 venne finanziata una
importante Missione etnografica la famosa “Dakar-Gibuti”. Compito della missione era quello
di raccogliere dati sulle lingue, sulle culture e regione africane attraversate dalla costa
dell’Atlantico e quella dell’Oceano Indiano. L’obiettiva principale era quello di raccogliere
oggetti della cultura materiale.

La Missione Dakar-Gibuti
Nel 1931 il Parlamento francese finanziò la missione Dakar-Gibuti. La missione durò circa due
anni dalla primavera 1931 fino all’inverno del 1933 e si concluse come un enorme successo
scientifico e di pubblico.
L’etnologia intesa come studio delle società “primitive” sul campo veniva consacrata
definitivamente grazie all’intraprendenza dei nuovi etnologi e a Marcel Mauss.

Maschere Dogon, 1938.


Uno studio analitico e molto puntiglioso di un rituale e della sua simbologia. Al centro dello
studio vi erano le maschere. Fin da questo primo studio Griaule concepì l’idea di una stretta
relazione ed interconnessione tra simbologia, mito, rito e sacrificio dogon formandosi una
concezione delle cosmologie primitive come sistemi coerenti e autonomi di pensiero.

Importanza del rito


La vita rituale scandiva l’intera giornata dei Pueblos e le attività quotidiane ruotano attorno alle
chiacchiere sui riti.
Le pratiche religiose devono essere fatte in maniera corretta e se sono fatte secondo le “regole”,
funzionano e sono efficaci.

La vita rituale degli Zuñi


La vita rituale-religiosa degli Zuñi si basava sul culto di numerose entità super-umane: sul culto
degli Uwanami che erano coloro che portavano la pioggia; sul culto degli animali sacri preposti
alle società mediche; sul culto degli A’hayuta gemelli signori della guerra. La maggior parte del
cerimoniale annuale consisteva in riti durante i quali venivano impersonate, mediante l’uso di
maschere, particolari entità dette koko.

Le maschere
Gli antropologi non hanno studiato tanto le maschere come prodotto artistico ma il loro utilizzo
rituale, la relazione tra maschere e cosmologia e patrimonio mitologico. Compaiono
frequentemente nei rituali di iniziazione e nei riti funebri dove rappresentano gli antenati o
esseri spirituali. In alcuni casi la maschera ha lo scopo di ricollegare la ceremonia rituale con il
tempo mitico delle origini dove ebbe luogo un avvenimento che ha determinato la formazione
dell’universo e della società nella sua forma attuale. Le maschere vanno analizzate nel loro
contesto e all’interno del complesso simbolico e cerimoniale di cui fanno parte.
Il costume, la danza, il gesto. L’uso di un particolare strumento musicale che rappresenta la voce
degli spiriti (tamburo, fluato), sono tutti elementi che vanno tenuti in considerazione per
comprendere l’utilizzo delle maschere. Le maschere sono circondate da prescrizioni rituali:
possono essere utilizzate solo in determinate circostanze e in particolar modo quando sono
connesse con rituali iniziatici maschili, devono essere tenute lontane dal contatto o dalla vista
delle donne e bambini non iniziati.
La maschera veniva utilizzata per i rituali di iniziazione maschile. Ogni ragazzo zuñi veniva
iniziato alla società koko che era la società degli uomini adulti. L’iniziazione avveniva durante
due riti distanziati nel tempo: al primo partecipavano i ragazzi dai cinque ai sette anni, al rito
finale i ragazzi di età superiore ai dieci anni. Durante la prima notte dei riti, i membri del
sodalizio dell’entità suprema prendevano la maschera e dopo la mezzanotte si andavano a
vestire alle White Rocks.
Maschera. Impersonificazione
Gli studi condotti sulle popolazioni Zuño sono interessanti perché ci dicono che gli operatori
sacrali dell’iniziazione diventano individui in grado di operare nel rito solo al momento stesso
del rito, nell’atto di indossare la maschera e proprio perché indossano la maschera. Era, cioè, la
maschera a realizzare la loro figura di operatori sacrali. Tolta la maschera perdevano anche la
funzione e la funzione di operatore sacrale.
Ogni maschera individua, dunque, una categoria di pensiero per la quale erano messi in
relazione:
- Determinati ruoli rituali.
- Determinati gruppi sociali.
- La realtà su cui si poteva influire mediante l’uso di quella data maschera.

Certe maschere, tra cui quelle utilizzate per l’iniziazione Ko’tikili si tramandavano da tempi
antichi, di generazione in generazione, custodite da gruppi specifici. Queste maschere si deciva
fossero state consegnate agli Zuñi all’epoca stessa del mito: esse erano tra gli oggetti più sacri,
si doveva maneggiarle solo in modi stabiliti e si dovevano dipingere solo nello stesso modo.
Alle maschere si rivolgevano preghiere si offriva cibo ad ogni pasto. Era la donna della casa in
cui la maschera era custodita a portarle il cibo. Sancire la sacralità delle maschere significava
sancire l’assoluta validità e la necessità dei ruoli rituali e del fatto che essi fossero rivestiti da
individui che appartenevano a gruppi precisi.

Ruolo dell’informatore
Nell’opera di Griaule l’informatore non viene occultato, anzi è un protagonista attivo nel
processo etnografico ed un interprete originale della propria cultura. Il merito del racconto di
Griaule è quello di rendere ineludibile la parte dell’incontro etnografico che in genere rimane in
ombra: il lato indigeno della storia.
Griaule ed il suo informatore sono infatti legati da una interazione dialogica la quale fa
emergere una particolare rappresentazione della cultura intesa come complesso sistema di
conoscenze.

Etnografo e detective. L’enquete orale en Ethnologie, Marcel Griaule, 1952.


In un primo momento, nella prima parte della sua carriera come etnografo sul campo, la figura
dell’etnografo viene paragonata a quella del detective o del magistrato inquirente. Il crimine è il
fatto, il colpevole è l’interlocutore, i complici sono tutti gli uomini della società. Il tavolo da
lavoro diviene il teatro della scena vivente. Il ricercatore di volta in volta compagno affabile
della persona posta sul banco degli accusati, amico riservato, estraneo scostante, padre
amorevole, mecenate interessato, ascoltatore apparentemente distratto davanti alle porte aperte,
ai misteri più pericolosi e amico compiacente e vivamente interessato al racconto dei casi
familiari più insignificanti, deve condurre senza tregua una lotta paziente, ostinata, agile e
caratterizzata da passioni dominate e represse.

Dio d’acqua, 1948. Ricerca sul campo tra i Dogon del Mali
È fondamentale nell’etnografia di Griaule il ruolo dell’informatore che è il protagonista della
sua più importante etnografia. Griaule ed Ogotemmeli sono legati da una interazione dialogica
che fa emergere una particolare rappresentazione della cultura, intesa come complesso sistema
di conoscenze che possono venire svelate e comunicate attraverso la parola. Nel rapporto tra
Griaule ed il suo informatore vi è una continua e costante ri-negoziazione dei ruoli. Se abbiamo
detto che per Griaule l’intervista era paragonabile all’operazione del detective allora si può
arrivare a dire che siamo di fronte ad una vera e propria operazione strategica “dove il paziente
indigeno sarà una sorta di malato, di colpevole, di candidato che risponde alle domande del
medico, del giudice, dell’esaminatore”.

Griaule e Ogotemmeli
Rapporto complesso e ambiguo.
La loro relazione è infatti una drammatizzazione dei rispettivi ruoli, un esibire certe verità ed un
coprirne altre. Una reciproca “manipolazione”, “rinegoziazione dei ruoli” una vera e propria
lotta con l’uso di presupposizioni, disgressioni, dissimulazioni, atti di meta-comunicazione.

Tattiche dell’inchiesta orale


Per Griaule siamo di fronte ad una vera e propria sfida. Nel 1946 Griaule inizia il colloquio con
Ogotemmeli e a parte altri testi come quello di Michel Leiris noi per capire come Griaule lavorò
abbiamo il testo e su questo dobbiamo interrogarci: sulla sua costruzione retorica rispetto ad una
situazione dialogica, sulla sapienza letteraria rispetto all’incastro nelle descrizioni con la teoria,
rispetto alla documentazione etnografica dei costumi.

Da, Dio D’acqua trentesima giornata


Da tre mesi, una gran parte del popolo dogon era in agitazione lungo le piste per la questione
dei vitelli gemelli di Mendeli. L’evento si era prodotto in settembre e la notizia si era propagata
celermente da un villaggio all’altro, pero tutto l’altipiano e sui ravaneti. Era penetrata
dell’intimo di ciascuno; che potevano parlare e dire semplicemente: “La vacca ha avuto due
vitelli”. Perché questo parto dà il via ad un movimento fuori dal comune: tutti coloro che sono
in grado di camminare e di parlare si recano dalla famiglia paterna per portarvi la notizia e
ricevere in cambio regali in moneta. Un tempo solo le donne erano sollecitate… Oggi tutti i
membri del gruppo vengono raggiunti e regalano, di solito, denaro. Quanto ai vecchi non
possono viaggiare, essi si contentano di fare visita alle loro parenti sposate nel villaggio e di
cogliere al volo quelle che si recano al mercato.

Le dimensioni del tempo


Quale è il rapporto tra il contesto descritto e quello originario? Come sono state trasformate nel
testo le dimensioni dello spazio e del tempo? Come viene trasformato il dialogo?
I tempi del tosto sono l’imperfetto, il trapassato prossimo e il presente. Da tre mesi, in
settembre, un tempo, oggi.
L’imperfetto e il trapassato prossimo secondo quando ci dice Benveniste fanno parte di quei tipi
di enunciazione che possiamo classificare come HISTOIRE che caratterizzano affermazioni in
terza persona singolare, prive cioè di un soggetto e che indicano l’anteriorità dell’azione del
verbo rispetto al tempo della scrittura.
I tempi usati da Griaule fanno riferimento così ad un discorso fittizio, lontano dalla situazione
reale e insieme descrivono e vogliono descrivere una situazione attuale attraverso l’utilizzo del
tempo presente (il DISCOURS pronomi personali di prima e seconda persona, forme verbali del
presente, del futuro o del passato prossimo, tempi che descrivono una situazione attuale o che ad
essa rimandano). Griaule usa però sempre la terza persona.

La dimensione indigena
Secondo quando leggiamo nel suo testo di metodo, è la visione indigena quella che deve
emergere nella monografia. La filosofia implicita che essi hanno elaborato rappresentandosi in
maniera sistematica i loro rapporti sociali e la loro cultura. Ma a differenza di quanto veniva
detto da Malinowski, per Griaule il ricercatore non doveva spogliarsi della propria cultura e
della propria personalità; per Griaule “è più onesto e chiaro, ed anche più abile, accettare il
ruolo di straniero”. Per Griaule la ricerca non deve rivolgersi tanto alle manifestazioni esteriori
della realtà sociale quanto piuttosto ai sistemi simbolici e mitologici che soli permettono di
cogliere il senso della realtà.

Le descrizioni, i dialoghi e i personaggi


Descrizione riportata da Maffi, pag. 107.
I mondi descritti sono lontani fantastici. La scansione del tempo è data dalle giornate. Il secondo
elemento che dà ritmo sono le parti descrittive abilmente incastrate spesso ad inizio di ogni
giornata per distrarre il lettore dal racconto complesso ed impegnativo del sapere mitologico
dogon. Tali descrizioni sfumano nelle conversazioni con Ogotemmeli cui sono collegate spesso
per associazioni per argomento. All’interno della situazione dialogica vi è un elemento
importante che è costituito dalle domande di Griaule. A reggere le file di tutto il discorso c’è il
narratore che non solo descrive i personaggi e i loro sentimenti ma interpreta e spiega le parole
dei Ogotemmeli trasformando spesso il discorso diretto in discorso libero indiretto e inserendovi
le proprie considerazioni teoriche.

I tempi
- Tempo del mito, tempo in cui si svolgono gli avvenimenti mitici narrati da Ogotemmeli.
- Tempo dei colloqui, durata delle conversazioni tra Griaule e Ogotemmeli.
- Tempo naturale e sociale dei Dogon scandito dalla vita agricola e commerciale, rituale.
- Tempo della ricerca durante il quale è stata osservata e studiata la cultura dogon.
- Tempo della scrittura, tempo in cui si è rielaborato il testo.

Il tempo del mito è un tema particolarmente delicato


Una delle dimensioni è quella del mito. Nel racconto il testimone articola il suo discorso in una
serie di avvenimenti che portano dall’esistenza di un unico dio originario a più divinità e infine
alla creazione del mondo e dell’uomo. Durante questa progressiva creazione avvengono degli
spostamenti dello spazio celeste e quello terrestre e a quello sotterraneo che acquistano diverse
valenze simboliche.
Anche se il racconto viene attribuito ad Ogotemmeli, è Griaule che ordina, selezione e manipola
le sue parole trasformandole in un discorso libero indiretto e utilizzando il procedimento della
ricostruzione analogica del senso.

I tempi e i metodi della ricerca


Siamo tra il 1946 e il 1947 e Griaule ci dice questo nella prefazione. Secondo quanto ci dice
Griaule nel suo testo sul Metodo in Etnografia, egli voleva farsi portavoce di una scienza del
concreto, “le nostre filosofie e le nostre religioni ci allontanano dalle indagini positive: esse ci
inculcano un immoderato amore per l’astratto, se non addirittura per il ditirambo, e non ci
insegnano che spesso ci sono più novità da apprendere nel rullio di un tamburo rituale che in
tutta una scolastica. Da questa lacuna dei nostri giorni il nostro etnografo deve guardarsi; egli
sarà fermamente convinto che l’espirit de système è a portata di mano del più mediocre
bacelliere, ma lo spirito di investigazione, fondato semplicemente sulla visione e l’audizione, è
appannaggio dell’élite che avrà avuto la passione dia acquisirlo”.

La costruzione teorica del testo


Ciò che interessa a Griaule è insomma dare un quadro complessivo della cultura senza crepe e
smagliature in cui tutti gli elementi siano classificati e collegati ad un restante edificio teorico.
Egli vuole dimostrare come la cultura dogon sia raffinata come quella antica. E questo paragone
con la cultura antica non è casuale ma è la spia di un attegiamneto evoluzionistico che vede
nella diversità uno stadio anteriore di sviluppo. Il procedimento teorico che permette di
accostare l’Altro ha delle caratteristiche in comune con l’etnografo, esso ha tuttavia una cultura
diversa da quest’ultimo, cosicché può essere accostato ad un noi, ma ad un noi differente.

Temi importanti nell’opera di Griaule


- Il testimone che muta plasma i dati. Si costruisce un sapere diverso a seconda della
relazione che si instaura con l’informatore. Se Boas attraverso le trascrizioni dei testi
che fece con gli indiani Hunt e Tate pervenne ad una idea di cultura come testo
cumulativo di usanze, tradizioni, leggende, Marcel Griaule con Ogotemmeli producono
l’idea di una cultura del dialogo, anche se sarà un dialogo fittizio e complesso.
Presa in considerazione della possibile esistenza di una “antropologia indigena”, ovvero di
quelle forme di pensiero originali e caratteristiche delle varie società umane. Il testo di Griaule
mette in evidenza un tema importante: la latitanza e la riluttanza da parte degli antropologi nel
prendere in considerazione l’esistenza di altre forme di antropologie, in questo caso di altre
forme di organizzazione della memoria e dei ricordi, diverse da quelle entro le quali si muoveva
ed operava l’antropologia “occidentale”. Griaule nella sua operazione non è riuscito ad
ammettere la violenza e il dolore che l’incontro con l’occidentale aveva provocato.
- La scrittura e l’evento narrativo
- L’evento narrativo è allora il luogo in cui si condensano istanze diverse, in cui si
condensano fino a dissolversi storia e mito, poesia e prosa e si rivelano le complessità e
le polisemie del testo. Complessità e polisemie significano la necessità di prestare
attenzione ad ogni piccolo aspetto dell’evento. Significano segnalare il pericolo di una
lettura affrettata del testo a favore della densità di un processo nel quale la tradizione
può rivelare momenti di estrema raffinatezza e profondità.
- Ma nel momento in cui parliamo di quanto osserviamo allora entriamo nel territorio
della intersoggettività umana.
- Il dialogo antropologico crea un mondo, o una comprensione delle differenze tra i
mondi, condivisa da persone che, quando hanno cominciato a parlare tra loro erano
lontane e diverse. Questo stare “tra” il mondo del dialogo è qualche cosa che dobbiamo
tenere presente.
- L’oggettività normalmente asserita dalle scienze sociali non è altro che la soggettività
dell’osservatore che parla al di sopra e al di là di chi è osservato. In questo modo ci
lasciamo alle spalle la possibilità di una situazione dialogica per entrare nel regno di
quella che possiamo definire antropologia analogica.
Essa consisteva nel parlare attraverso, o alternativamente come facciamo tutti nella
ricerca di campo, se non siamo puri e semplici scienziati naturali. Non c’è ragione di
interrompere questo dialogo quando lasciamo il campo. Il dialogo può continuare anche
a “tavolino” attraverso il dialogo, attraverso l’interpretazione del dialogo che abbiamo
lasciato sul campo. Di solito, fino ad ora lo si è fatto prima della pubblicazione non
nella pubblicazione.
Come viene creata la situazione del campo?
- Griaule iniziò in Francia una investigazione aperta di lungo periodo. Tornò dai Dogon
in maniera costante ed assidua per tutta la sua vita.
L’invecchiamento sia dei ricercatori che degli informatori e l’esperienza dei lavori
cooperativi producono certamente l’approfondimento del sapere. Come abbiamo
accennato si è parlato di una sorta di “iniziazione” di Griaule al sapere dogon.
L’addottrinamento di Griaule ad una “parola chiara” ad opera dei Dogon costituisce una
critica implicita alla maniera di lavorare documentaria. La narrazione della iniziazione
mette in discussione quegli approcci che non si sforzano di raggiungere un certo livello
di complessità nel rappresentare il punto di vista indigeno. Questo lavoro segnò una
cesura e rivolò l’ampiezza del controllo dogon sul tipo di informazione accessibile agli
etnografi.
Annunziò un nuovo stile di ricerca nel quale l’autorità degli informatori era esplicitamente
riconosciuta.
Ora i dogon inaffidabili e mentitori erano divenuti “dottori” e “filosofi”. Griaule ora è colui che
ha il compito di trascrivere un patrimonio culturale e codificato, è un traduttore, un esegeta.
Griaule tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta aveva ottenuto la “chiave
indigena” al sapere dogon.
Il paradigma iniziatico di Griaule servì per trasformare il ruolo dell’etnografo da osservare e
documentatore della cultura dogon a esegeta e interprete. Ad ogni modo preserva e riformulava i
temi dominanti della sua pratica precedente: la logica del segreto, una aspirazione ad un sapere
esaustivo, una visione della ricerca sul campo come una recita di un ruolo.

LÉVI-STRAUSS 1908-2009

- Ricerca di campo in Brasile 1935-36 e 1937-38.


- Tra le popolazioni Caduveo, Bororo, Nambikwara, Mundé, Tupi-Kawaib, Mogh, Kuki.
- Tristi Tropici, 1955.
- La vita familiare e sociale degli Indiani Nambikwarai, 1948.
- Le strutture elementari della parentela, 1949.
- Razza e Storia, 1952.
- Antropologia Strutturale, 1958.
- Il pensiero selvaggio, 1962.
- Mitologiche I, Il crudo e il cotto, 1964.
- Mitologiche II, Dal miele alle ceneri, 1966.
- Mitologiche III, Le buone maniere a tavola, 1968.
- Mitologiche IV, L’uomo nudo, 1970.

Il termine strutturalismo si riferisce a quelle prospettive teoriche che mettono in primo


piano la forma rispetto alla sostanza. Se lo struttural-funzionalismo trova l’ordine
all’interno delle relazioni sociali, gli strutturalisti sono invece interessati alle strutture del
pensiero. Il metodo adottato dagli strutturalisti è deduttivo; è basato su certe premesse. Essi
possono seguire certe premesse, vedere dove partono e che cosa sono in grado di dimostrare.
Lo strutturalismo
Gli antropologi conoscono lo strutturalismo linguistico attraverso le analisi di Lévi-Strauss. Egli
durante il suo soggiorno a New York tra il 1941-1944 incontrerà il linguista R. Jacobson. Egli
fede conoscere a L-S le teorie della scuola linguistica di Praga. In particolare a fonologia di
Trubeckoj svolse per L-S nelle scienze sociali, la stessa funzione di rinnovamento che la fisica
nucleare ha avuto per le scienze esatte. Questa rivoluzione si è realizzata grazie a 4
procedimenti fondamentali: “in primo luogo la fonologia passa dallo studio dei fenomeni
linguistici coscienti a quello della loro infrastruttura inconscia, poi riffiuta di considerare i
termini come unità indipendenti, prendendo come oggetto di analisi le relazioni tra i termini;
introduce la nozione di sistema, di insieme interrelato di relazioni; infine mira alla scoperta di
leggi generali per induzione sia dedotte logicamente”.

Strutturalismo: lingua e cultura per Lévi-Strauss


Questa prospettiva consente a Lévi-Strauss di formulare in modo nuovo il problema
dell’influenza reciproca fra linguaggio e cultura, che aveva svolto un ruolo importante nei
dibattiti teorici all’interno della scuola antropologia americana (Sapir-Whorf). Secondo cui il
pensiero e le concezione del mondo sono profondamente influenzati ed hanno origine nella
struttura grammaticale e lessicale di ciascuna lingua. Per Lévi-Strauss il problema non andava
posto in termini di determinazione causale.
Pensiero/concezioni del mondo/lingua e la sua struttura grammaticale.

Lingua e cultura
“Non ci siamo abbastanza resi conto che lingua e cultura sono due modalità parallele di una
attività più fondamentale: alludo qui a quell’ospite presente fra noi, benché nessuno si sia
sognato di inviarlo alle nostre discussioni: lo spirito umano” (Antropologia Strutturale, 1966).
Dietro questa parola di antica origine filosofica, tipicamente francese, si cela quello che Lévi-
Strauss ritiene essere il principale obiettivo della ricerca antropologica: scoprire le leggi del
funzionamento della mente umana che consentano di comprendere ad un tempo l’unitarietà del
genere umano e la molteplicità delle sue manifestazioni concrete.
Gli antropologi del linguaggio si servono del lavoro dei grammatici che si occupano della lingua
come sistema astratto di regole per combinare fra loro elementi distinti ma privi di significato
(fonemi/ si pensi ai mitemi di Lévi-Strauss) le quali a loro volta si combinano per dare vita e
unità di livello superiore (le parole, le frasi, gli enunziati). Considerano dunque la lingua come
un sistema di regole astratto. Come la linguistica strutturale il lavoro dei grammatici non è
capire il ruolo che forme e contenuti linguistici esercitano nella vita delle persone come
individui o collettività, ma scoprire le proprietà universali della mente umana implicate delle
proprietà formali dei sistemi linguistici.

Lo strutturalismo
La linguistica per gli strutturalisti si impone come modello allo studio dei fenomeni sociali in
quanto, unica tra le scienze è riuscita a raggiungere un considerevole grado di formalizzazione e
di rigore metodologico, che le avvicina in qualche modo e per molti aspetti alle scienze della
natura.
L’antropologia strutturale di Lévi-Strauss ha un preciso “statuto”: il dominio della cultura, come
quello della lingua, è riconducibile ad un ordine a patto di abbandonare il piano della realtà
empirica e superficiale per cogliere quelle realtà oggettive che ne stanno alla base, le leggi
universali che reggono l’attività inconscia dello spirito.
In antropologia lo strutturalismo non si interessa solamente alla struttura sociale ma alle
strutture delle idee. Lévi-Strauss è interessato alla struttura ideali in due sensi: 1. Nel senso che
vuole indagare le strutture della mente. 2. Nel senso che vuole indagare le strutture della mente
delle persone con cui l’etnografo lavora.

La struttura per Lévi-Strauss


È una categoria dello spirito umano. Il pensiero per Lévi-Strauss funziona in termini di
opposizioni (alto-basso; crudo-cotto; destra-sinistra; seco-umido). Queste opposizioni sono
vuote, servono solamente ad ordinare il mondo dell’esperienza naturale al fine di costruire un
oggetto di pensiero. Lévi-Strauss voleva mettere in luce le leggi strutturali che presiedevano alla
formazione delle diverse modalità di organizzazione sociale e questo lo portò ad indagare le
qualità costitutive della mente umana in quanto le strutture messe in evidenza dall’analisi erano
strettamente mentali.

Lo spirito umano
Quello che Lévi-Strauss postula con la nozione di “spirito umano” è probabilmente l’esistenza
di un dispositivo mentale comune a tutta l’umanità, che è al tempo stesso individuale e
collettivo, che trova il suo fondamento nelle proprietà funzionali del cervello ma che si
manifesta empiricamente soprattutto nelle creazioni sociali e culturali, nelle formazioni
collettive, nell’esplicarsi di meccanismi comuni.
Parlare dell’universalità dello spirito vuole dire:
1. Postulare una identità formale delle culture, dei riti, dei miti al di là della diversità molto
grande dei contenuti.
2. Postulare il carattere finito delle possibilità logiche.
3. Affermare l’anteriorità logica sul funzionale.
Atomo di parentela
Si compone di quattro individui: la madre, il padre, il figlio e il fratello della madre. È
quest’ultimo che risulta detenere sempre sul figlio della sorella e su quest’ultima una autorità
inversamente proporzionale a quella esercitata dal padre nei confronti del figlio e della moglie.
Infatti, più i rapporti tra padre e figlio e tra marito e moglie sono improntati sull’affetto,
maggiore sarà l’autorità dello zio materno sul figlio di sua sorella e su quest’ultima. Al
contrario, quanto maggiore è l’autorità del padre sul figlio e sulla moglie, tanto più affettuosi
saranno i rapporti tra zio da un lato e nipote e sorella del primo dall’altro.
Le società mostrano una diversa gradualità nell’articolazione dei rapporti tra gli individui
costituenti l’atomo di parentela, il quale resta comunque il riflesso primario del principio
esogamico. Considerare l’atono di parentela come l’elemento irreducibile della parentela
medesima, significa non solamente rendere ragione dello “zio materno” nel sistema di molte
società “matrilineari”, ma anche conferire diversamente da altri autori, all’alleanza
matrimoniale (o affinità) un ruolo più importante di quello della discendenza nel processo di
costruzione delle strutture parentali.

Le strutture elementari della parentela, 1949


Intendiamo per strutture elementari della parentela i sistemi nei quali la nomenclatura permette
di delineare immediatamente il giro di parenti consanguinei e quello degli affini (acquisiti);
ossia i sistemi che prescrivono il matrimonio con un certo tipo di parente o, se si preferisce, i
sistemi che, pur definendo tutti i membri del gruppo come parenti, li distinguono in due
categorie: coniugi possibili e coniugi proibiti. Riserviamo il nome di strutture complesse ai
sistemi che si limitano a definire il giro di parenti e che abbandonano ad altri meccanismi
economici o psicologici, il compito di procedere alla determinazione del coniuge.
La struttura più elementare di unione è rappresentata secondo Lévi-Strauss dal matrimonio tra
cugini incrociati (figli di fratello di sesso differente). Tra le carie caratteristiche, questo tipo di
unione matrimoniale, possiede quella di esprimere al meglio il principio di reciprocità.

La regola dell’incesto
Tale elemento è universale, è una regola presente in tutte le società perché nessuna società
potrebbe costituirsi senza questa norma costitutiva e determinante. La proibizione dell’incesto,
pur essendo un fattore universale, conserva la sua qualità di regola sociale, di istituzione creata
dagli uomini, variabile nelle sue forme e nelle sue concrete applicazioni da un gruppo sociale
all’altro. Mentre in un luogo vi sono regole molto definite ed ampie, dove un gran numero di
categorie parentali vengono escluse dalla possibilità di stringere un legame matrimoniale,
altrove le regole sono diverse, più vaghe, meno vincolati, circoscritte alla sfera della famiglia
nucleare e dei parenti ravvicinati.
La regola dell’incesto assume un valore paradigmatico: la sua universalità ne rivela la stretta
connessione con la natura umana, con ciò che definisce la collocazione dell’uomo nel quadro
delle altre specie animali, mentre la sua variabilità nelle diverse tradizioni locali ne mostra
l’aspetto artificiale, provvisorio, modificabile, la sua appartenenza al campo della cultura.

La regola dell’incesto non è solamente una interdizione


Nel momento in cui proibisce qualche cosa, ne ordina anche qualcosa d’altro. A partire dal
momento in cui io mi vieto “l’uso” di una donna, che così diviene disponibile per un altro
uomo, c’è da qualche parte un uomo che rinuncia ad una donna che, per questo, diviene
disponibile per me. Il contenuto della proibizione non esaurisce nel fatto della proibizione:
quest’ultima viene stabilita soltanto per garantire e fondare, direttamente o indirettamente,
immediatamente o mediatamente, uno scambio.

Le regole per l’identificazione dei coniugi


Possibili e proibiti, è una logica che stabilisce la necessità di imporre un ordine alla casualità e
alla arbitrarietà delle contingenze naturali, u ordine determinato dalle norme e dalle regole della
cultura. Alla base di questo ordine culturale si trova il meccanismo universale del principio di
reciprocità, cioè che permetta la instaurazione di un ordine simbolico creato dall’esogamia, cioè
da una serie di regole di scambio tra i gruppi.

La reciprocità
Costituisce veramente un principio fondamentale di costituzione della stessa possibilità di un
ordine sociale. Non è la società che fonda e determina la reciprocità fra i suoi membri, piuttosto
è la regola della reciprocità che apre la strada alla possibilità di costruire un sistema di regole
sociali perché rende possibili le diverse modalità di scambio.

Importanza data da Lévi-Strauss alla reciprocità


Essa istituisce l’ordine sociale rivelando il profondo legame di Lévi-Strauss alla tradizione
durkheimiana. La reciprocità non si limita solo a costituire il fondamento della universalità, che
permette di pensare tutte le forme di regole matrimoniali come varietà di uno stesso principio di
scambio, ma diviene un principio generatore di vincoli sociali, che fonda e istituisce l’esistenza
di una rete di relazioni che trascende i singoli individui coinvolti. Lo scambio reciproco non è
una semplice transazione di beni e servizi il cui scopo è l’ottenimento di beni materiali ma il
fatto che nello scambio c’è molto di più che non le cose da scambiare.

L’ipotesi di Lévi-Strauss
La connessione tra sistemi di relazioni sociali e sistema di rappresentazioni mentali è oggetto
dell’attenzioni di Lévi-Strauss fin dai tempi del suo viaggio in Brasile. Questa indagine per
Lévi-Strauss deve raggiungere un livello più profondo, un livello che trascenda le riflessioni
coscienti dei soggetti e pervenga a cogliere la dimensione inconscia del fenomeno. Le
rappresentazioni coscienti dei nativi per Lévi-Strauss sono fenomeni di superficie che spesso
dissimulano e deformano la realtà.

Il modello
Il modello serve a Lévi-Strauss a cogliere, mediante una costruzione schematica, la struttura di
un sistema altrimenti impenetrabile. All’esperienza vissuta Lévi-Strauss sostituisce
l’esperimento sui modelli, cioè una serie di operazioni condotte non sui fatti ma su mere
relazioni logiche. La scienza sociale di Lévi-Strauss si edifica sulla base del rifiuto del vissuto,
del concreto, del particolare, del contingente, dell’evento, allo scopo di cogliere una realtà vera
ma che è sempre nascosta.

I modelli
I modelli sono le finzioni nel senso che sono delle costruzioni che servono a “vedere come”, a
rappresentare in maniera sintetica ed astratta una serie di rapporti tra elementi che l’antropologia
ritiene di poter descrivere nel loro aspetto dinamico. Ma come altri tipi di finzione, i modelli
non sono da intendersi come un semplice mezzo per cogliere la realtà in maniera schematica.
Essi fanno parte della stessa teoria e la orientano in base alla loro specifica natura.
I modelli producono gli oggetti di riflessione e di discorso. I modelli producono oggetti per il
discorso antropologico. I modelli non sono dei semplici schemi per vedere meglio gli oggetti
che esistono “fuori di noi”, ma sono delle entità rappresentazionali che creano gli oggetti, che li
costruiscono per farceli vedere meglio.
In antropologia il termine modello serve a designare tanto uno strumento quanto un oggetto di
indagine. Il termine modello non designa solamente il frutto di un lavoro teorico
dell’antropologo. Sono detti modelli anche:
- Le enunciazioni dei nativi concernenti una serie di comportamenti pratici o ideali
ritenuti dai nativi stessi come “normali” della propria cultura e società.
- I loro comportamenti effettivi, i quali possono essere di natura esplicita o implicita.

L’organizzazione sociale degli Indios Bororo del Brasile centrale, 1966


I Bororo avevano i villaggi divisi in due metà esogamiche abitate da clan matrilineari. Gli
uomini quando si sposavano andavano ad abitare nella metà del clan della moglie. In base a
questo schema prevale un modello dualistico: tutti i membri del clan della metà est devono
sposarsi con i membri della metà ovest. Questo è il modello che gli stessi Bororo presentano
all’antropologo.
Un attento esame dei dati etnografici mostra tuttavia che questo è solo un modello parziale a cui
hanno “creduto” tutti gli etnografi che si sono occupati dei Bororo e di altre popolazioni in
possesso di un sistema di metà.
I dati etnografici, almeno quelli più accurati ci dicono che ogni clan è costituito da tre sezioni,
una superiore, una media ed una inferiore. Le regole in base alle quali avvengono le unioni
matrimoniali prescrivono effettivamente che i membri di un clan debbano sposarsi con quelli di
un clan dell’altra metà ma obbligano anche i membri di una sezione superiore a sposare quelli di
un’altra sezione superiore, quelli di una sezione media con quello di un’altra sezione media, e
quelli di una sezione inferiore con quelli di un’altra sezione inferiore.
Ciò rivela l’esistenza di una struttura diversa da quella dualista presentata spontaneamente dai
Bororo: si tratta di una struttura tripartita dove gli scambi matrimoniali si svolgono a tre livelli
non comunicanti: superiore, medio e inferiore.
La società non appare fondata allora su due metà ma su tre gruppi ciascuno diviso in due metà.
La struttura bipartite è il modello dell’osservato. Come tale è un modello esplicito che però
assunto come “vero” diventa il modello dell’osservatore.
Questa per Lévi-Strauss rappresenta una illusione. Il modello dell’osservatore una volta
oltrepassa l’apparenza dell’enunciazione del nativo, diventa il vero modello con portata
esplicativa.
Lévi-Strauss rivendica la superiorità dello sguardo dell’antropologo su quello che il nativo
rivolge verso sé stesso, lo sguardo dello scienziato su quello del profano. Lévi-Strauss opera una
ulteriore distinzione e questa riguarda i modelli consci e quelli inconsci.
I modelli consci e quelli inconsci hanno per l’antropologo una diversa portata conoscitiva.
I modelli coscienti chiamati norme sono per L-S tra i più poveri dal punto di vista conoscitivo;
la loro funzione consiste nel perpetuare le credenze più che mostrare le molle segrete che
muovono le società. Più è nella struttura apparente, più diventa difficile cogliere la struttura
profonda a causa dei modelli consci e deformanti che si frappongono tra l’osservatore e il suo
oggetto. I Bororo possiedono un modello esplicito della loro organizzazione sociale che è “mero
vero” di quello che essi possiedono implicitamente e che solo lo sguardo dell’antropologo
accorto può rinvenire.
I Bororo, infatti, affermano di sposarsi secondo un modello che solo in parte risponde alla reale
dinamica matrimoniale della loro società, la quale si fonda su un modello diverso e che solo
l’occhio di un osservatore esterno particolarmente avveduto può cogliere.

Lévi-Strauss e il mito
Nel 1952-53 L-S tenne un corso all’Ecole Pratique des Hautes Etudes sulla mitologia
americana. L-S inizia ad analizzare i miti che la scuola boasiana aveva raccolto. L-S vuole
rinnovare in modo radicale l’approccio all’interno campo di studio sui miti rinunciando alle
proposte dei funzionalisti (Malinowski) e alle soluzioni particolaristiche e circostanziate
dell’antropologia boasiana.
“Quando un sistema mitologico lascia un posto importante ad un certo personaggio, poniamo
ad una nonna malevola, ci spiegheranno che, in quella data società, le nonne hanno un
atteggiamento ostile nei confronti dei loro nipotini; la mitologia sarà considerata come un
riflesso della struttura sociale, dei rapporti sociali. E se l’osservazione contraddice l’ipotesi, si
insinuerà subito che l’obiettivo specifico del mito consiste nell’offrire un diversivo a sentimenti
reali ma rimossi. Qualunque sia la situazione reale, una dialettica che ha sempre la soluzione
in tasca, troverà pur modo di arrivare al significato”.

Per Lévi-Strauss sono importanti le relazioni tra i diversi miti


Gli studiosi del mito si sono concentrati sugli elementi di contenuto riscontrati nei racconti
mitici e si sono persi in un intrico di osservazioni circa le possibili somiglianze che questi
contenuti manifestavano frequentemente da un capo all’altro della terra. Essi trascuravano di
vedere come i miti di una determinata area culturale costituissero un insieme di relazioni.
I miti mostrano una serie precisa di rapporti fra le diverse versioni, le diverse varianti. Lo studio
strutturale dei miti deve porsi a questo livello, abbandonando la ricerca di connessioni fra
elementi del contenuto dei racconti e particolari significati, e spostando la propria attenzione
sulla ricerca delle regole che presiedono alla formazione degli stessi racconti mitici.

I miti e la mente umana


Per Lévi-Strauss i miti non ci trasmettono nozioni elementari e universali della riflessione
umana, e neppure si limitano a informarci su contesti particolari e specifici. I miti consentono di
osservare all’opera alcuni fondamentali meccanismi di funzionamento della mente umana,
quelle leggi di inversione, simmetria e trasformazione che stanno alla base della produzione dei
miti come di ogni altra creazione intellettuale dell’umanità. “Il racconto è in qualche modo, la
drammatizzazione di queste operazioni logiche”.

Il mito e il linguaggio
Ogni variante del racconto mitico, ogni versione, illustra l’applicazione di una particolare
operazione logica, o di più operazioni di questo genere. Il mito per L-S va collocato all’interno
di una particolare categoria di fenomeni linguistici. “Il mito è simultaneamente nel linguaggio e
al di là del linguaggio”. Il mito, pur essendo costituito da enunciato linguistici e facendo quindi
parte del discorso, si distingue per alcuni caratteri peculiari.

La sostanza del mito per Lévi-Strauss


La sostanza del mito non sta né nello stile, né nel modo della narrazione, né nella sintesi, ma
nella storia che vi è raccontata. Il mito è linguaggio; ma un linguaggio che agisce ad un livello
elevatissimo e in cui il senso riesce, per così dire, a decollare dal fondamento linguistico d cui
ha preso l’avvio. Le unità significative del mito sono infatti elementi linguistici più grandi di
quelli presi in esame nell’analisi linguistica, sono segmenti che vanno cercati a livello della
frase e sono riconducibili a brevi unità di racconto.

I mitemi
Il temine mitema si riferisce all’analisi dei meccanismi che regolano la produzione e
trasformazione delle diverse varianti di un racconto mitico. Il mitema non è una unità linguistica
isolabile e identificabile ma viene messo in luce solamente attraverso l’analisi delle
combinazioni e trasformazioni dei racconti mitici, rivelandosi come elemento ricorrente. Le
unità costitutive del mitema non sono entità in cui si possa definire il senso, piuttosto sono unità
prive di significazione propria, ma che assumono significati solo quando vengano poste in
relazione di opposizione e trasformazione le une con le altre.
Un segmento narrativo o un elemento pertinente all’interno dalla sequenza del racconto non
assumono alcun significato al di fuori del sistema in cui compaiono e al di fuori dei rapporti di
trasformazione che uniscono i diversi racconti mitici gli uni agli altri.
“Se i miti hanno un senso, questo senso non può consistere negli elementi isolati che entrano
nella loro composizione, ma nella maniera in cui tali elementi sono combinati”.

Analisi strutturale dei miti


1) Un mito non deve mai essere interpretato ad un solo livello o in base ad una spiegazione
privilegiata, perché esso consiste piuttosto nella messa in relazione di diversi livelli di
spiegazione.
2) Un mito non deve mai essere interpretato isolatamente, ma solo in rapporto ad altri miti, i
quali, presi nel loro complesso, costituiscono un gruppo di trasformazione.
3) Un gruppo di miti non deve mai essere mai preso in considerazione da solo, ma in rapporto
ad altri gruppi di miti e in relazione all’etnografie delle società da cui provengono.

I miti hanno la funzione di ridurre i contrasti: il trickster


In quasi tuta l’America meridionale questo personaggio, il trickster viene identificato con il
corvo oppure con il coyote. Come spiegare questa ricorrenza? L-S ritiene che l’elemento che
accomuna questi due animali sia il fatto di essere “mangiatori di carogne”. In particolare, il
coyote si avvicina agli animali che consumano certa carne animale ma se ne differenzia in
quanto non uccide la sua preda, mentre il corvo si configura come un predatore dei giardini,
ponendosi in tal modo di posizione intermediaria tra “i predatori mangiatori di carne” e gli
erbivori.
I primi sono animali che per nutrirsi uccidono mentre i secondi si nutrono di prodotti vegetali
senza provocare la morte di certi animali. Questa opposizione ne evoca un’altra, quella tra
guerra e agricoltura, una attività distruttiva e l’altra produttiva e promotrice della vita,
opposizione mediata dalla caccia che produce morte per ottenere il nutrimento essenziale per la
vita. Alla fine, tutti si riconduce alla opposizione vita/morte che figura del trickster tenderebbe a
mediare rendendo possibile pensare al tempo stesso alla vita che porta irrevocabilmente alla
morte, mentre d’altra parte la morte stessa rende possibile e produce la vita.

Lévi-Strauss, La gesta di Asdiwal. Esempio di come L-S analizza un mito


Questo studio di un mito indigeno della Costa Pacifica del Canada ha due intenti; da una parte
isolare e confrontare diversi livelli su cui il mito si evolve: geografico, economico, sociologico e
cosmologico – considerando il simbolismo che gli è proprio come una trasformazione di una
struttura logica soggiacente, comune a tutti i livelli. D’altro canto, confrontare le diverse
versioni del mito e cercare il significato delle discrepanze tra di esse o tra alcune di esse.
Importanza delle varianti.

Contesto geografico
I luoghi geografici sono reali. La narrazione inizia nella valle dello Skeena quando le due donne
lasciano i loro villaggi, uno a monte e uno a valle e si incontrano a metà strada. Dopo la morte
della madre, la giovane donna e il figlioletto si stabiliscono nel villaggio nativo di costei (cioè
quello di suo padre dove sua madre aveva vissuto dal matrimonio fino alla morte di costei): il
villaggio è a valle. Da qui inizia la visita al cielo, alla morte della madre Asdiwal prosegue il
suo viaggio verso valle, cioè verso ovest. Quando Asdiwal parte con la moglie e con i cognati
per il Nass, a pesca del pesce candela, si dirige prima verso l’estuario dello Skeena e poi verso il
mare e si arresta nella città capitale dei Tsimshian.
Contesto economico
Tutto inizia con un periodo di carestia invernale, come se conoscevano gli indigeni nel periodo
da metà dicembre a metà gennaio; è il periodo dell’arrivo del salmone e prima del pesce-
candela. Queste variazioni stagionali vanno di pari passo con le altre differenze non meno reali
che nel mito sono evidenziati ed in particolare quelle tra cacciatori di terra (Asdiwal) e
cacciatori di mare (la gente degli Abeti che vivono a valle dell’estuario e poi gli abitanti di
Dolphin Island).

Contesto sociologico
Non si tratta di un accurato quadro che documenta la vita indigena ma di una specie di
contrappunto che sembra talvolta essere in armonia con la realtà, talvolta sembra dipartirsi da
essa per poi ricongiungersi di nuovo.
La madre e la figlia erano state separate dal matrimonio di quest’ultima e da quel momento
ognuna delle due visse con il marito nel villaggio di lui. Possiamo quindi riconoscere una
società dove sebbene il sistema sia matrilineare la residenza è patrilocale in quanto la moglie si
stabilisce nel villaggio del marito; e in cui i bambini sebbene appartengano al clan materno sono
allevati nella casa paterna e non in quella dei parenti materni. Questa era la reale situazione tra
gli Tsimshian.
Nel mito la residenza patrilocale è abolita dalla carestia che libera le due donne dai rispettivi
obblighi e permette loro di incontrarsi a metà strada.
Lévi-Strauss lavora a questo punto con altre versioni del mito.
Come inizia L-S la sua analisi? Inizia con il racconto di una riunione di una madre con la figlia
che sono libere dai parenti acquisiti paterni, il racconto termina con la riunione di un padre con
un figlio libero dai parenti acquisiti materni. Inversione sociologica.

Contesto cosmologico
Se la sequenza iniziale e quella finale del mito costituiscono dal punto di vista sociologico una
coppia di opposizioni, lo stesso può essere vero da un punto di vista cosmologico, per i due
viaggi soprannaturali che interrompono il viaggio “reale” dell’eroe. Il primo dei due lo porta in
cielo alla casa del Sole che dapprima cerca di ucciderlo e poi lo riporta in vita. Il secondo
viaggio è in un regno sotterraneo. Il primo viaggio sbocca in un matrimonio matrilocale e che
testimonia il massimo scarto esogamico; tale matrimonio sarà rotto dalla infedeltà di Asdiwal
con una donna del proprio villaggio che può essere considerato il massimo scarto endogamico.

Geografia, economia, sociologia, cosmologia


I due primi aspetti (carestia e tipologie di cacciatori) sono una trascrizione fedele ed esatta della
realtà, il quarto aspetto non ha nulla a che fare con la realtà (regni celesti e sotterranei), mentre
nel terzo aspetto istituzioni reali ed immaginarie si intrecciano. Tutto avviene come se i livelli
fossero forniti di diversi codici, utilizzabili secondo i bisogni del momento e secondo la propria
particolare capacità per trasmettere lo stesso messaggio. La carestia, per esempio, è un tema
economico ma ha anche un significato cosmico perché la carestia viene considerata uno
sconvolgimento dell’ordine originario da parte del gigante corvo.

Prima schematizzazione attuata da Lévi-Strauss


- Madre - Figlia
- Più anziana - Più giovane
- A valle - A monte
- Ovest - Est
- Sud - Nord

Altre opposizioni
La prima avventura di Asdiwal ci presenta una opposizione: quella cielo/terra che l’eroe è in
grado di superare grazie all’intervento del padre Hatsenas, l’uccello di buon augurio.
Quest’ultimo è una creatura del cielo atmosferico o medio e di conseguenza ben qualificato per
sostenere il ruolo di mediatore tra il terrestre. Asdiwal e il suo suocero sole. Asdiwal non riesce
a superare la sua natura terrestre a cui si abbandona due volte, la prima cedendo al fascino di
una compaesana e poi sentendo nostalgia per il suo villaggio.

Opposizioni non risolte


- Basso - Alto
- Terra - Cielo
- Uomo - Donna
- Endogamia - Esogamia

Asdiwal
Proseguendo la sua avventura verso ovest, Asdiwal contrae un secondo matrimonio matrilocale
che genera un’altra opposizione, quella tra caccia di montagna (terra) e caccia di mare (acqua).
Tali opposizioni sono ugualmente insormontabili in quanto la natura terrestre di Asdiwal
prevede che sia abbandonato dalla moglie e dai cognati. Asdiwal contrae il suo matrimonio non
con rivieraschi ma con insulari e lo stesso conflitto si ripresenta. L’opposizione continua ad
essere insormontabile sebbene ad ogni stadio i termini si avvicinino.
La sua avventura può essere vista come una serie di mediazioni impossibili che sono ordinate in
scala discendente: alto e basso, acqua e terra, caccia di mare e caccia di montagna. L’analisi
precedente ci porta a distinguere tra due aspetti della costruzione del mito: le sequenze e gli
schemi. Le sequenze formano il contenuto apparente del mito; l’ordine cronologico in cui i fatti
accadono: l’incontro delle due donne, l’intervento del protettore soprannaturale, le spedizioni di
caccia e pesca, le dispute con i cognati. Le sequenze sono organizzate su piani di livelli
differenti, secondo schemi che esistono contemporaneamente e si sovrappongono. Proprio come
una melodia composta per più voci deve sottostare ad un duplice determinismo, primo quello
della sua linea melodica che è orizzontale e poi quello degli schemi contrappuntistici che sono
verticali.

Lévi-Strauss e la ricerca di campo


Fra una pretesa simile e gli strumenti di cui facciamo uso, la sproporzione è tale che si potrebbe
a buon diritto considerarsi ciarlatani.
Come penetrare i meccanismi di una società che ci è estranea, in capo ad un soggiorno di pochi
mesi, nell’ignoranza della sua storia e con una conoscenza il più delle volte rudimentale della
sua lingua?

Tristi Tropici, 1955


- Si tratta di diversi libri in una volta, più generi di testi e piuttosto differenti tra loro che
sono sovrapposti l’uno all’altro per produrre un disegno globale.
- Resoconto di viaggio. Libro di etnografia.
- Testo filosofico.

L’insieme dei costumi di un popolo è contrassegnato sempre da uno stile; questo forma dei
sistemi. Sono persuaso che questi sistemi non esistano in numero illimitato e che le società
umane, come gli individui, nei loro giochi, nei loro sogni, nei loro deliri, non creano mai un
modo assoluto, ma si limitano a scegliere certe combinazioni in un repertorio ideale
agevolmente ricostruibile. Facendo l’inventario di tutti i costumi osservati, di tutti quelli
immaginati nei miti, di quelli evocati nei giochi dei fanciulli e degli adulti, dei sogni degli
individui sani e malati e dei comportamenti psicopatologici, si giungerebbe a comporre una
specie di quadro periodico come quello degli elementi chimici, in cui tutti gli elementi reali o
semplicemente possibili apparirebbero raggruppati in famiglie, e in cui avremmo più che da
riconoscere quelli che le società hanno effettivamente adottato.

- Tema del viaggio antropologico.


- Tema dell’impossibilità di comprendere l’altro: nel momento in cui si “tocca” e si vede
da vicino, l’alterità diviene una entità non conoscibile all’uomo.
- Unica modalità di conoscenza avviene attraverso la modellizzazione, la struttura.
- Essere là ed essere qua.

Lévi-Strauss sostiene che “l’essere là” in maniera diretta e personale, se si pensa alla maggior
parte della recente antropologia inglese e americana, è fondamentalmente impossibile: o è una
frode bella e buona oppure è un fatuo autoinganno. La nozione di continuità tra esperienza
vissuta e la realtà oggettiva è falsa, come egli sostiene fin dall’inizio in Tristi Tropici, “Non c’è
continuità nel passaggio fra le due”. Per raggiungere il reale è necessario prima ripudiare il
vissuto, salvo reintegrarlo in seguito in una sintesi obiettiva, spoglia di ogni sentimentalismo.
La nostra missione consiste nel comprendere l’essere in rapporto a lui stesso e non in rapporto a
noi.

Avevo voluto andare fino all’estremo limite della vita selvaggia; non ero dunque soddisfatto,
ormai giunto fra questi benevoli indigeni che nessuno aveva mai visto prima di me e che
nessuno forse vedrà dopo? Alla fine di un viaggio esaltante avevo trovato i miei selvaggi. Ma
ahimé, essi lo erano troppo.
Essi erano là, vicini a me come una immagine in uno specchio; potevo toccarli ma non potevo
comprenderli.
Ricevevo nello stesso tempo la mia ricompensa e il mio castigo…
Giunto a decifrarli, essi si spogliano di ogni stranezza: avrei anche potuto non muovermi dal
mio villaggio. Oppure, come nel presente caso, la conservano e allora non mi serve a nulla
poiché non sono in grado di afferrarne il significato. Fra questi due estremi, quali casi ambigui
giustificano i motivi di cui noi antropologi viviamo?
Da questo turbamento che nei nostri lettori è causato da osservazioni elaborate quel tanto che
basta per essere intelligibili e tuttavia interrotte a mezza strada poiché svelano esseri simili a
coloro i quali quelle usanze sono normali, chi è veramente ingannato? Il lettore che crede in
noi, o noi stessi?

Sontag, L’antropologo come eroe, 1969


L’universo levi-straussiano e qualche cosa che si potrà comprendere, incorporare e fare proprio
nel tempo e co la severa devozione allo studio; mi sono molto care in questo senso le parole di
Susan Sontag che in un suo testo del 1968, Contro l’interpretazione descrive magistralmente il
lavoro e gli obiettivi scientifici dell’etnologo francese. Il saggio della Sontag è illuminante per
noi perché potrà aiutarci a capire quanto si insinui pungente ed in ognuna delle riflessioni levi-
straussiane, dai miti, alla parentela, al totemismo e alla musica un “pessimismo lucreziano […]
della conoscenza come consolazione ed insieme come necessari disillusione”.
Sontag intuì quanto la perfezione non umana a cui aspirava lo strutturalismo levi-straussiano e
che ritroviamo in ognuna delle sue ricerche, era per lui una sorta di riparo dal disincanto. Se è
vero che la sua aspirazione era quella di comprendere i meccanismi del funzionamento dello
“spirito umano” nella molteplicità delle sue manifestazioni etnografiche, è tanto più vero che
più il tempo rivestiva di profondità e solidità il suo lavoro teorico, più la realtà etnografica gli
riservava amare sollecitudini. Scriveva Sontag:
In fine di Lévi-Strauss è assai simile a quello di Lucrezio, il romano grecofilo che invitava allo
studio delle scienze naturali come metodo di psicoterapia. L’obiettivo di Lucrezio non era la
conoscenza scientifica in sé stessa, ma la riduzione dell’ansia emozionale. Egli vedeva l’uomo
dilaniato tra i piaceri del sesso e il dolore di una perdita emozionale, tormentato da
superstizioni di ordine religioso, ossessionato dalla paura della decadenza fisica e della morte.
Raccomandava la conoscenza scientifica che insegna il distacco intelligente e l’equanimità.
Essa è, per Lucrezio, un metodo di eleganza psicologica. È un modo per imparare a lasciar
perdere.

Riduzione dell’ansia emozionale


“La riduzione dell’ansia emozionale” fu il sentimento che animò Lévi-Strauss nella stesura di
Tristi Tropici (1955); il “valore della conoscenza” fu quanto cercò di trasmettere ai lettori con
Razza e Storia (1952). Fu proprio negli anni Cinquanta infatti che prende corpo quella
riflessione profonda sulla mitologia americana che sfocera nel ciclo delle Mithologiques, sono
gli anni in cui l’etnologo lavora alla creazione di un modello, in cui, come scriveva Remotti
“all’esperienza vissuta si sostituisce l’esperimento sui modelli, cioè una serie di operazioni
condotte non sui fatti ma su mere relazioni logiche”. La creazione di una struttura che trascenda
il livello empirico degli accadimenti diviene uno strumento di analisi e comprensione che
permette a Lévi-Strauss di penetrare ciò che altrimenti sarebbe rimasto in superficie; come già
lui stesso affermava “in mancanza di una accessibile verità di fatto avremmo raggiunto una
verità di ragione” (Lévi-Strauss, 1960).

BRONISLAW MALINOWSKI 1884-1942

Il 7 aprile del 1884 nasceva a Cracovia Bronislaw Kasper Malinowski; il padre Lucjan era un
linguista che si era dedicato allo studio della lingua polacca e dei dialetti regionali. Fu il
fondatore della dialettologia polacca e uno dei più eminenti professori di filologia slava
all’Università di Cracovia. La famiglia Malinowski faceva parte dell’aristocrazia universitaria
polacca e il giovane Bronislaw fu un prodotto ben riuscito di questo raffinato ed esclusivo
milieu intellettuale. Tutta la vita di Malinowski fu segnata dalla sua saluta cagionevole che lo
portò a soggiornare nel Mediterraneo, in Nord Africa, alle isole Canarie e sulle Dolomiti e lo
costrinse a ricevere la sua educazione primaria prevalentemente a casa. Malinowski trascorse
l’adolescenza a Polonia, tra gli intellettuali di Cracovia e Zacopane, ridente località di montagna
e cenacolo per molti liberi pensatori polacchi.
A quel tempo la Polonia era suddivisa tra la Russia, l’Austria e la Prussia. Cracovia era sotto il
dominio dell’impero austriaco.
Alla Jagellonian University studiò fisica e matematica e si addottorò nel 1908 con una tesi dal
titolo “On the Principle of Economic of Thought”; suo mentore fu Stefan Pawlicki, storico della
filosofica che segnò in maniera particolare la formazione di Malinowski. Come sottolineano
molti fra coloro che hanno tentato una summa del retroterra culturale malinowskiano, furono
molteplici le istanze intellettuali che lo accompagnarono, che lo influenzarono e che
contribuirono a quella conformazione metodologica eclettica ed originale, viva in ognuna delle
sue opere. Dopo avere conseguito il dottorato, Malinowski si recò all’Università di Leipzig che
già suo padre aveva frequentato. Qui intraprese lo studio della Völkerpsychologie con Wilhelm
Wundt; la traduzione del testo di Wundt Elements of Folk Psycology era arrivata a Londra nel
1916 dopo avere influenzato sia Boas che Durkheim con la nozione di “coscienza collettiva”.
Malinowski fu in realtà colpito soprattutto dall’ipotesi di Wundt secondo cui le diverse
espressioni mentali, soprattutto nelle loro espressioni più “antiche”, erano fortemente
interconnesse e difficilmente separabili le une dalle altre.
In quegli stessi anni (1908-10) frequentò le lezioni dello storico ed economista Karl Bücher il
quale aveva pubblicato un libro sulla natura del lavoro tra i popoli “civili e quelli non
civilizzati”. Nel periodo vissuto in Polonia, Malinowski ebbe modo di avvicinarsi all’empirismo
radicale di Ernst Mach e alla fisica, alla psicologia e alla filosofia della scienza così come era
stata elaborata da Richard Avenarius, trovando modalità inattese di adesione e dissenso; non
meno fu intensa la comunanza intellettiva con Stanislaw Witkiewicz, che diverrà uno degli
artisti più noti in Polonia come scrittore, attore e pittore.
Nel 1910 Malinowski si allontana dalla Polonia per recarsi a Londra, alla London School of
Economics; qui lavorerà inizialmente con Edward Westermark, ma fu Charles Seligman il suo
patrono. Seguì i loro corsi che per lui furono profondamente formativi perché iniziò a conoscere
in maniera sistematica l’antropologia anglosassone in tutte le sue distinte conformazioni.
Il suo primo lavoro fu pubblicato nel 1913 e aveva come titolo Family among Australian
Aborigenes. Era un testo che non solo seguiva gli interessi psicologici ma che bene si inseriva
nel contesto antropologico europeo: in quegli stessi anni venivano pubblicati infatti i labori di
Durkheim e Alfred Reginald Radcliffe-Brown che prendevano in esame materiale australiano.
Malinowski tentava di seguire la linea di pensiero intrapresa da Westermarck, rivedendo la
nozione elaborata da Morgan sui “sistemi classificatori di parentela” e criticando i concetti di
“promiscuità primitiva” e “gruppi matrimoniali”. Fu il suo patrono che si preoccupò affinché
Malinowski un finanziamento per partire per il Sudan, riuscì ad ottenere una borsa di studio
come assistente di Marett che era in procinto di partire per l’Australia.
Il 12 settembre del 1914 Malinowski arrivò a Port Moresby; il primo mese, guidato e
monitorato da Atlee Hunt, segretario del Dipartimento degli affati esteri e Hubert Murray,
vicegovernatore di Papua dal 1908 al 1940, si dedicò alla linguistica e visitò alcuni villaggi
vicini.

Malinowski e la ricerca di campo


Poco più di un mese dopo, il 13 ottobre 1914, Malinowski partì per Toulon, un’isola del gruppo
Papuo-Melanesiano occidentale. Nel 1915 Seligman propose a Malinowski di recersi alle
Rossel Island per esaminare un’altra regione di confine; egli decise invece di optare per il
distretto di Mambare: fu proprio nel tragitto per Mambare che si fermò alle isole Trobriand; qui
soggiornò da giugno 1915 al maggio 1916 e successivamente dall’ottobre 1917 all’ottobre 1918.
Da questi ultimi due periodi di ricerca nacque il famoso Argonauts of the Western Pacific, il
testo che lo consacrò a padre indiscusso dell’antropologia.

Gli Argonauti del Pacifico Occidentale, 1922


Venne pubblicato nel 1922. Segnò una netta cesura con tutta l’antropologia che l’aveva
preceduta, anche se Malinowski mai mancò di sottolineare i debiti intellettuali che ebbe nei
confronti dei suoi predecessori. È certamente vero, come sottolineano Stocking che molte delle
innovazioni metodologiche che oggi vengono attribuite a Malinowski erano già state elaborate
da Rivers e da Haddon. Soprattutto durante il suo primo soggiorno di campo, Malinowski
consultò la quarta edizione delle Notes and Queries; seguì Rivers nella formalizzazione
sistematica dei dati poiché il metodo genealogico rappresentava un ottimo strumento per potere
ottenere una documentazione oggettiva; seguì Haddon laddove classificò e prestò attenzione ad
ogni elemento culturale e sociale. Ma rivisitò in maniera profonda e sistematica il pensiero di
entrambi.

Il primo capitolo degli Argonauti del Pacifico Occidentale, 1922


Il primo capitolo di Argonauts of the Western Pacific è una vera e propria formalizzazione delle
pratiche di ricerca; sono tre gli obiettivi fondamentali che Malinowski pone all’antropologo di
professione: 1. L’etnografo deve possedere mire scientifiche ed una conoscenza delle moderne
tecniche etnografiche; 2. Deve vivere (senza altri uomini bianchi) per un periodo
sufficientemente prolungato con i nativi e 3. Deve applicare specifiche metodologie per la
raccolta e catalogazione dei dati raccolti. Per raggiungere questi obiettivi l’antropologo polacco
enumera una serie di procedure a cui attribuisce denominazioni specifiche: a. metodo della
documentazione statistica; b. osservazione degli imponderabili della vita reale e del tipo di
comportamento; c. creazione di un corpus inscriptionum in cui potere incasellare i dati
(affermazioni etnografiche, espressioni tipiche, elementi di folklore e formule magiche). La
rivoluzione metodologica di Malinowski è da leggersi in relazione per lo meno a tre fattori: la
scrittura del diario di campo, l’elaborazione del “funzionalismo” e dell’”olismo” e il rapporto
che egli volle istaurare con il suo pubblico di lettori.
Le nostre considerazioni mostrano quindi che all’obiettivo del lavoro etnografico sul terreno ci
si deve avvicinare da tre strade:
- L’organizzazione della tribù e l’anatomia della sua cultura devono essere registrate in
uno schema solido e chiaro. Il metodo della documentazione statistica concreta è il
mezzo con cui deve essere elaborato un tale schema.
- All’interno di questa struttura vanno inseriti gli imponderabili della vita reale e il tipo di
comportamento. Questi dati devono essere raccolti attraverso osservazioni minuziose e
dettagliate in forma di una qualche sorta di diario etnografico, reso possibile da uno
stretto contatto con la vita degli indigeni.
- La raccolta di affermazioni etnografiche, narrazioni caratteristiche, espressioni tipiche,
elementi di folklore e formule magiche deve essere fornita come un corpus
inscriptionum; come documenti della mentalità indigena.
Queste tre linee di analisi conducono all’obiettivo finale, che l’etnografo non dovrà mai perdere
di vista. Questo obiettivo è, in breve, quello di afferrare il punto di vista dell’indigeno, il suo
rapporto con la vita, di rendersi conto della sua visione del suo mondo.

Il “campo” di Malinowski
- Settembre 1914 – Marzo 1915 soggiorno tra i Mailu nell’isola di Toulon.
- Giugno 1915 – maggio 1916 primo soggiorno alle isole Trobriand.
- Ottobre 1917 – ottobre 1918 secondo soggiorno alle isole Trobriand.
- Nei lassi ti tempo che intercorsero tra i tre soggiorni, Malinowsk ritornò sempre in
Australia. Gli intervalli fra i soggiorni di campo ebbero per Malinowski un ruolo
fondamentale nell’economia del suo rapporto con il lavoro etnografico e con
l’evoluzione del sapere antropologico.

Malinowski è stato fatto oggetto di una specie di “culto” come antropologo sul campo. È stato
descritto come l’antropologo capace di particolari e misteriose qualità che lo avrebbero messo in
grado di cogliere “il punto di vista” del nativo, la vita delle popolazioni studiate “dall’interno.
Malinowski fu in effetti colui che diede il via alla pratica dell’osservazione partecipante
(termine che coniò lui stesso) una tecnica di inchiesta che consentiva ai ricercatori di entrare in
un rapporto empatico con i nativi. Osservare partecipando voleva dire cercare di prendere parte
il più possibile alla vita degli indigeni allo scopo di cogliere il loro punto di vista, la loro visione
del mondo.

Le aspettative che generò Malinowski


Malinowski diventò il simbolo dell’uomo avventuroso, che rotti i legami con il proprio gruppo e
lasciatosi alle spalle le convenzioni sociali, fugge dalla civiltà.

Problemi etici sul campo


Visto che non è possibile osservare tutto, quali criterio selettivi debbono essere attivati in una
condizione di totale partecipazione? Come fare ad evitare che la nostra esperienza etnografica
assuma caratteristiche così personali da finire con l’essere una opera univa, magari affascinante,
ma senza alcun corredo di standardizzazione e quindi non comunicabile per via scientifica? Il
risultato è spesso quello di un lavoro segnato da un empirismo ossessivo che costringe a
guardare, a toccare, annusare e gustare solo ogni “pezzo” di cultura, perché da tutto potrebbe
giungere lo sperato segnare di significanti utili ma senza alcun formato che metta in condizioni
di saggiare la portata e la rappresentatività del nostro lavoro.

Limiti e risorse dell’osservazione partecipante


È stato detto che nella ricerca partecipante il ricercatore è strumento della ricerca nel senso che
tutta la rilevazione viene filtrata attraverso i suoi occhi, i suoi sensi, la sua sensibilità. La sua
capacità di immedesimazione. A questo vanno aggiunti specifici condizionamenti culturali. La
ricerca etnografica “è una cultura che studia la cultura”. Ciò che chiamiamo “i nostri dati sono
in realtà le interpretazioni delle interpretazioni di altri su ciò che fanno loro e i loro compatrioti.
Già al momento dei fatti veri e propri noi stiamo dando spiegazioni”. Quindi nel descrivere le
altre culture certamente l’etnografo descrive anche sé stesso. Non perdiamoci nella critica.
Certo, teniamola presente sapendo che con umiltà e precisione possiamo pensare di fare
“etnografia”.
Non generalizzabilità dei casi.
La difficoltà a generalizzare le acquisizioni di una ricerca condotta attraverso l’osservazione
partecipante oltre che derivare, come si è detto, dalla soggettività del ricercatore, dipende anche
dalla soggettività dei casi studiati. L’osservazione partecipante prende in considerazione pochi
casi; sono studi intensi e intensivi su piccola scala.

I diari
- Il quotidiano
- Storia del campo
- Memoria, storia, ricordo, evocazione, testimonianza
- Impegno etico-politico dell’antropologo
- Linea di continuità tra lettere e monografie

Il ceremoniale kula
Questa forma di scambio o kula nella lingua delle Trobriand veniva definita da Malinowski
come un “fenomeno economico di notevole importanza teorica all’interno del suo circuito”.
Malinowski affrontò lo studio di questo fenomeno partendo dall’analisi di tutti gli elementi della
vita sociale connessi alla pratica del kula. Il kula risultava essere così un fenomeno complesso e
stratificato.

Il Kula
Tra le isole abitate dai gruppi partecipanti allo scambio, isole che per comodità possiamo
immaginare disposte su una circonferenza, circolavano due tipi di oggetti: collane di conchiglie
rosse (soulawa) e braccialetti di conchiglie bianche (mwali). Le prime circolavano solo in senso
orario e i secondi solo in senso contrario. Ciò dipendeva dal fatto che gli oggetti potevano essere
scambiati solo con gli oggetti dell’altra categoria: Soulawa contro mwali, mwali contro
soulawa.

Gli oggetti circolavano in continuazione restando nelle mani dei loro possessori per un periodo
limitato di tempo. Essi non uscivano mai dal circuito di scambio e venivano barattati nel corso
delle visite che gli abitanti delle diverse isole si scambiavano periodicamente. Tanto che i
preparativi per la partenza quanto gli scambi avvenivano secondo rituali precisi accompagnati
da pratiche magiche. Durante le visite gli scambi kula, considerati strettamente come
“cerimoniali” erano accompagnati da un commercio di tipo profano mediante il quale venivano
scambiati oggetti di un valore d’uso.

Olismo e funzionalismo
L’osservazione partecipante produsse sul piano teorico aspetti di grande importanza.
In primo luogo, la comparsa di una nuova concezione della cultura e della società come
complessi di fenomeni integrati reciprocamente e quindi non astraibili dal contesto dal contesto
generale entro il qual si manifestano abitualmente.

L’oggetto di studio
Divenne qualcosa che poteva essere colto da una prospettiva di tipo olistico e non settoriale.
Così inteso l’oggetto di studio risultava costituito da parti tra loro correlate in senso funzionale.
Anche se Malinowski non fornì mai un quadro complessivo della società e della cultura delle
Trobriand, in tutti i suoi lavori iniziali agisce l’idea della funzionalità dell’elemento singolo o
tratto culturale sia esso una istituzione, una credenza, una pratica per il mantenimento della
totalità.

Riflessioni
La prospettiva di Malinowski va anche considerata alla luce di uno sforzo mirante a mostrare
come il “selvaggio”, il “primitivo” fosse in grado di esprimere contro lo scetticismo allora
diffuso, un tipo di comportamento dotato di coerenza e ragionevolezza. L’influenza di fare
apparire i popoli primitivi sotto una nuova luce fu probabilmente all’origine della scelta stessa
da parte di Malinowski, di studiare lo scambio kula come principale oggetto delle sue ricerche.
Malinowski comprese lo scambio kula nella sua portata sociologica in senso generale; egli ne
comprese la funzione che esso assolveva nel rafforzare i rapporti tra gli individui e tra i gruppi.
Egli gli attribuì una importanza di tipo economico. In questo senso egli diede una
interpretazione economica ad un fenomeno che non era propriamente tale, se per economia si
intende il complesso di operazioni di produzione, distribuzione e scambio di beni.
Malinowski rigettava l’opinione di un comunismo primitivo e si rifiutava anche di vedere
nell’indigeno delle Trobriand l’incarnazione dell’homo economicus. Voleva descrivere il
“selvaggio” come essere ragionevole e questo lo portò a descrivere come “economico” un
fenomeno che propriamente non lo era.

Il principio di reciprocità (Mauss, 1923-24)


Tutte le operazioni connesse al kula, dalla fabbricazione delle grandi piroghe d’altomare con cui
venivano compiuti i viaggi da un’isola all’altra, fino allo scambio vero e proprio, si
presentavano regolate da una logica sociale che nei suoi effetti tendeva a promuovere la
solidarietà e l’organicità della società e della cultura. Lo scambio kula era il solo fenomeno che
più di ogni altro mostrava di possedere queste caratteristiche.
Tutti gli altri aspetti o momenti importanti della vita sociale erano comunque sanzionati da atti
esprimenti un complesso di precisi diritti o doveri di una persona nei confronti di un’altra o di
un gruppo nei riguardi di un altro. Ogni fase della vita sociale appariva così contrassegnata da
comportamenti di mutua assistenza da prestazioni e controprestazioni, dall’offerta di doni e
contro-doni, di vendette o risarcimenti, tutte azioni che trovavano il loro senso specifico nello
status sociale delle persone che, in un caso o nell’altro risultavano coinvolte. Malinowski
pervenne ad elaborare una tipologia di questo genere di relazioni che dal dono puro fino allo
scambio kula e da questo al commercio profano, mostrava di fondarsi invariabilmente sul
principio della reciprocità.

Diritto e costume nella società primitiva, 1926


Questo principio, descritto nelle sue dinamiche concrete negli Argonauti, costituì l’argomento di
questa opera del 1926 dove il principio di reciprocità, osservato in relazione allo scambio kula
venne presentato come pervasivo della intera società trobriandese. Come in Argonauti,
Malinowski demoliva alcune immagini distorte e fortemente ideologiche dell’economia
primitiva. Diritto e costume era il tentativo di attribuire un aspetto di coerenza a pratiche
connesse con il controllo sociale che spesso erano state svalutate o misconosciute. L’idea era
quella che esistesse un principio di ordine non codificato se non dalla pratica tradizionale in
grado di svolgere una funzione strutturante dell’agire sociale, idea del principio di reciprocità
come immanente alla vita sociale delle popolazioni primitive.

Una teoria scientifica della cultura, 1944


I due saggi più importanti, Una teoria scientifica della cultura e La teoria funzionale erano stati
scritti nel 1939 e nel 1941 nel periodo in cui Malinowski era andato negli Stati Uniti.
L’immagine della società e della cultura che Malinowski andava elaborando era quella di un
insieme di pratiche e di comportamenti tra loro integrati tendenti al mantenimento
dell’equilibrio interno della società e del “funzionamento” di essa.

Funzionalismo ristretto
Concezione della società e delle culture come complessi integrati e ad esso si affianca una
concezione particolare della cultura. Per Malinowski la cultura è un vasto apparato in parte
materiale in parte umano spirituale con cui l’uomo può venire a capo dei concreti specifici
problemi che gli stanno di fronte. La cultura è un apparato strumentale pensato da Malinowski
come una sorta di risposte dall’uomo per l’adattamento all’ambiente esterno.

Potrebbero piacerti anche