Tesi Podeschi
Tesi Podeschi
Tesi Podeschi
Tesi di laurea
Relatore: Laureando:
Prof. Marco Sasso Davide Podeschi
I
Ringraziamenti
Ringrazio il professor Marco Sasso per l’opportunità di
tesi e la disponibilità dimostrata.
II
Indice
Indice…………………………………………………………………………………………………………………………….……Ⅲ
Introduzione………………………………………………………………………………………………………………….…….Ⅴ
Capitolo I ⸺ Il sughero…………………………………………………………………………………………………...…1
I.1 Generalità ............................................................................................................... 1
I.2 Struttura ................................................................................................................. 2
I.3 Composizione chimica ............................................................................................ 4
I.4 Applicazione ........................................................................................................... 5
I.5 Proprietà fisiche ..................................................................................................... 5
Capitolo II ⸺ Modello Iperelastico…………………………………………………………………………….…......8
II.1 Introduzione .......................................................................................................... 8
II.2 Potenziale elastico per materiali isotropi .............................................................. 9
II.3 Legame sforzi‐deformazioni ................................................................................ 12
II.4 Forme particolari di potenziale elastico .............................................................. 16
II.5 Calibrazione dei modelli di potenziale elastico per materiali elastomerici......... 21
Capitolo III ⸺ Modello Viscoelastico………………………………………………………………………………..28
III.1 Introduzione ....................................................................................................... 28
III.2 Rilassamento e scorrimento viscoso .................................................................. 30
III.3 Modelli viscoelastici elementari: modello di Maxwell e Kelvin ......................... 33
III.4 Modello di Maxwell generalizzato ..................................................................... 38
Capitolo IV ⸺ Metodo a elementi finiti e software di simulazione……………………………….....44
IV.1 Introduzione ....................................................................................................... 44
IV.2 Metodo a elementi finiti FEM ............................................................................ 48
IV.3 Analisi lineari e non lineari ................................................................................. 50
IV.4 Algoritmo esplicito ............................................................................................. 54
IV.5 Tempo di incremento stabile ............................................................................. 58
Capitolo V ⸺ Implementazione del modello e risultati delle analisi FEM……………….……..…60
V.1 Introduzione ........................................................................................................ 60
III
V.2 Macchina per test di perforazione ...................................................................... 60
V.3 Implementazione del modello iperelastico e viscoelastico su Abaqus ............... 62
V.4 Effetto Mullins ..................................................................................................... 66
V.5 Implementazione del modello di danneggiamento ............................................ 70
V.6 Preparazione del modello FEM ........................................................................... 75
V.7 Analisi FEM e risultati .......................................................................................... 77
V.8 Mappe di deformazione FEM .............................................................................. 82
Capitolo VI ⸺ Conclusioni…………………………………………………………………………………………….....86
Riferimenti bibliografici……………………………………………………………………………………………………..88
IV
Introduzione
V
Com’è ben noto, anche semplicemente osservando il tappo di una
bottiglia, il sughero è un materiale che si presta a subire grandi
deformazioni e a recuperare tali deformazioni quasi integralmente; tale
comportamento non lineare viene definito iperelasticità. Partendo da un
modello iperelastico si sono aggiunti via via ulteriori modelli allo scopo di
perfezionare la risposta del materiale nel campo delle elevate velocità di
deformazione, compreso la modalità di rottura, ed avendo come riscontro
le curve sperimentali velocità-tempo di prove di penetrazione da impatto.
VI
Capitolo I
Il sughero
I.1 Generalità
1
I.2 Struttura
Il sughero è un materiale cellulare a celle chiuse che riempie tutti gli spazi,
senza lasciare vuoti intercellulari. Come tutti i materiali di questo tipo le
sue proprietà dipendono fortemente dalla geometria e dalla distribuzione
delle celle. Caratteristica è la presenza di una struttura regolare a celle
chiuse con una crescita regolare in direzione radiale al tronco dell’albero.
Possono esservi durante la fase di crescita piccole variazioni nella densità
e nelle dimensioni delle celle causate dal ritmo fisiologico della pianta,
portando alla creazione di diversi anelli di crescita. La regolarità della
struttura può anche essere compromessa da alterazioni locali dovute a
diversi fattori biologici ed accidentali quali per esempio fratture o
inclusioni del legno (Pereira et al.,2007). Per descrivere correttamente la
struttura del sughero sarà necessario conoscerne la corretta collocazione
spaziale all’interno della pianta, definendo con la sezione trasversale
quella perpendicolare alla direzione assiale (estensione verticale
dell’albero), la sezione tangenziale è perpendicolare a quella radiale
(direzione di sviluppo della sezione di tronco), ed infine la sezione radiale
che contiene la direzione assiale ed è perpendicolare alla direzione
tangenziale (figura 1).
Figura 1
2
2005; Fialho et al.,2001; Pereira et al.,1987). In direzione radiale e
trasversale invece la struttura appare completamente diversa a quella
tangenziale. Le singole celle, infatti, richiamano dei mattoncini
rettangolari allineati con i tre lati che si incontrano nei singoli vertici.
Tridimensionalmente possiamo quindi pensare al sughero come costituito
da celle riconducibili a prismi esagonali impilati in righe (figura 2).
Figura 2
All’interno di ciascuna riga tutte le celle sono costituite dalla stessa base,
ma differente altezza del prisma. Le varie righe sono tra loro allineate in
direzione radiale e disposte con le basi del prisma parallelamente alla
sezione tangente. Nelle file adiacenti le basi del prisma non sono
coincidenti e giacciono tra loro in posizione sfalsata. In conclusione,
quindi, le cellule di sughero sono poliedri che entrano tra loro in contatto
in bordi facce e vertici. In particolare, due cellule possono entrare in
contatto in una faccia, tre in un bordo e quattro in un vertice, di modo che
in una struttura ideale con i prismi tutti uguali, ogni cellula entrerebbe in
contatto con ben 14 cellule. Le dimensioni sono molto piccole, per una
cella media normale parliamo di altezza del prisma di appena 40 um, bordo
di base 20 um e spessore della parete di appena 1 um. Nella realtà le
dimensioni sono molto variabili in relazione anche al ritmo di crescita
stagionale della pianta, in tal senso si possono per esempio distinguere
all’interno di uno stesso anello annuale tra: quelle prodottesi nelle prime
3
fasi di crescita da quelle nelle ultime fasi. Le prime risultano infatti più
grandi e più sottili le seconde più corte e spesse. Altro dato caratteristico
è il volume realmente occupato da materiale nel sughero, si stima infatti
che la porzione solida occupa solo l’8-9% nelle cellule del primo periodo
ed il 15-22% in quelle del secondo. (Pereira et al., 2007)
Ogni cellula si origina a partire di una cellula madre presente nel
phellogen, la direzione di crescita è quella radiale. Rispetto ad altre piante
il periderma del sughero presenta caratteristiche singolari di crescita,
regolarità e longevità. Uno strato protettivo denominato phellem,
costituito da cellule morte che fanno parte del periderma costituente la
corteccia, separa le cellule della pianta dall’ambiente esterno. Dopo la
morte del phellogen, si verifica, infatti, una rapida formazione di tessuto
filogenico traumatico che riprende la sua funzione come produttore di
strato di sughero. E’ questa caratteristica che dà alle piante da sughero la
possibilità di poter essere usate come produttrici di sughero in maniera
sostenibile.
4
una terza parete di polisaccaridi. Tra i vari componenti, la suberina è la più
abbondante (circa il 40%), la lignina corrisponde al 22%, i polisaccaridi al
18% e gli estraibili al 15%. Internamente, invece, le cellule contengono
cristalli di cerina e fridelina ed una grande quantità di gas. (Pereira et
al.1979; Pereira et al., 1981; Bernards et al., 1998; Bento et al., 1992;
Cordeiro et al., 1995; Pereira et al., 1988).
I.4 Applicazione
5
coefficiente di frizione (Gibson et al., 1981). Ha inoltre mostrato una
elevata affinità per i liquidi non polari ed a polarità molto bassa ed una
buona compatibilità con polimeri acidi e basici (grazie alla sua superficie
dalle caratteristiche anfotere) (Gibson et al., 1997).
In generale il sughero è caratterizzato da un peso specifico molto basso,
ma fortemente variabile entro ampi limiti in funzione del trattamento
subito (naturale o bollito) e della sua età (vergine o riproduzione). Si
possono addirittura registrare variazioni di un fattore due passando da
circa 120 a 240 kg/m^3. (Cumber et al., 2000). Globalmente le variazioni
di densità sono riconducibili alle dimensioni della cella (corrugazione,
altezza e spessore della parete) ed alla frazione di volume occupata dai
canali lenticolari. Alte densità, per esempio, coincidono con celle spesse e
fortemente ondulate caratterizzate dalla presenza di pochi canali (Cumber
et al., 2000; Gibson et al., 1981; Fortes et al., 1988; Baptista et al.,1993).
In quest’ottica le cellule formate durante la primavera sono più sottili e
quindi meno dense di quelle autunnali. Ad influire ancora sulla bassa
densità anche la presenza di gas contenuto nelle celle. Quest’ultimo,
insieme alle ridotte dimensioni della cella sono anche alla base della
trasmissione del calore, prevalentemente per conduzione, con pareti che
presentano una conducibilità simile a quella del gas e quindi fortemente
ridotta. Allo stesso modo anche la trasmissione del suono è molto scarsa
in quanto la bassa densità e l’elevata porosità assorbono e trasformano in
energia termica la maggior parte delle onde (Mano et al., 2002).
L’attrito si aggira intorno allo 0,5 e come molte altre proprietà presenta un
comportamento anisotropo (che si attenua in presenza di sughero umido),
essendo maggiore per gli scorrimenti sul piano tangenziale rispetto ai piani
ad esso perpendicolari. Risulta influenzato da fenomeni di adesione tra le
aree di contatto e dalla deformazione per flessione delle pareti cellulari
(Vaz et al., 1998).
6
Il materiale risulta essere caratterizzato da un comportamento anisotropo,
valutabile dal rapporto tra la dimensione maggiore della cella e da quella
minore (indicato con R) ed il cui valore influenza fortemente le proprietà
del materiale. Nel caso del sughero, anche se tutt’ora non sono ancora note
tutte le cause, è possibile ricondurre l’anisotropia a due fattori principale
tra loro indipendenti: l’anisotropia della struttura, dovuta alla forma delle
celle, e l’anisotropia del materiale dovuta alla parete delle celle.
L’anisotropia strutturale in particolare deriva dalla non equidimensionalità
delle celle, per le sezioni trasversali e radiali è possibile valutare, infatti,
rapporti di anisotropia di 1,5-1,7, nella sezione tangenziale invece il
rapporto è circa 1,0-1,1. Presenta simmetria ortotropica, il che significa
che ha tre piani di simmetria ortogonali, anche se è possibile approssimarlo
ad un materiale con simmetria circolare nel piano tangenziale, ovvero
rispetto tale piano può essere visto come materiale isotropo ed
assialsimmetrico rispetto alla direzione radiale. Per l’anisotropia
materiale, risulta in gran parte sconosciuta, anche se in prima
approssimazione può essere considerato isotropo per la presenza di
cellulosa come elemento strutturale nella parete cellulare. Ad influenzare
ci sono ancora la presenza di anelli di crescita, con la presenza di sottili
strati di latercork e la formazione di canali lenticolari che non avendo le
stesse dimensioni nelle differenti direzioni, introduce un fattore di
variazione nel piano tangenziale (Pereira et al., 2007)
7
Capitolo II
Modello Iperelastico
II.1 Introduzione
8
Saranno quindi presentate le forme corrispondenti delle leggi costitutive,
basate sull’applicazione di diverse misure di deformazione. Saranno
inoltre introdotte alcune forme specifiche del potenziale proposte in
letteratura e, infine, si discuteranno le procedure di calibrazione per le
formulazioni individuate, a partire da dati ottenuti mediante prove
sperimentali.
II.1
𝟏 𝑻
𝜮Ⅱ 𝐽𝑭 𝝈𝑭
𝑑𝐿 II.2
𝑙 𝜮Ⅱ ∶ 𝑑𝑬
𝑑𝑉
dove il prodotto scalare rappresentato dal simbolo “:” corrisponde a
moltiplicare fra di loro i termini a componenti identici dei due tensori
rappresentati dalle matrici 𝜮Ⅱ ed E. L’assunzione di materiale con
9
comportamento elastico implica che il lavoro compiuto durante un
processo deformativo dallo stato di deformazione 𝑬 allo stato 𝑬 risulti
uguale alla variazione di potenziale elastico 𝜔 𝑬 :
𝑬 𝑬
𝛥𝑙 𝛥𝜔 𝑬 𝜮Ⅱ : 𝑑𝑬 𝑑𝜔 𝑬 II.3
𝑬𝒂 𝑬
𝜕𝜔 𝑬 II.4
𝜮Ⅱ
𝜕𝑬
A differenza del caso lineare, tuttavia, il potenziale elastico non è una
forma quadratica delle deformazioni, ma può essere rappresentato da una
funzione generica. Nell’ipotesi di materiale isotropo, comunque, il
potenziale è convenientemente espresso come funzione degli invarianti del
tensore di deformazione, poiché il suo valore non può dipendere dal
sistema di riferimento considerato per descrivere lo stato di deformazione
stesso. La forma più conveniente da dare al potenziale elastico per un
materiale iperelastico ortotropo è tale da distinguere i contributi dovuti alla
componente deviatorica e volumetrica della deformazione. Il
disaccoppiamento fra le leggi costitutive che legano sforzi e deformazioni
volumetrici e deviatorici è possibile in un materiale isotropo, e comporta
importanti vantaggi nella modellazione e calibrazione del comportamento
dei materiali elastomerici. Tali materiali, infatti, hanno spesso un
comportamento quasi incomprimibile, ed il contributo al potenziale
originato dalle deformazioni volumetriche è quantitativamente e
qualitativamente diverso rispetto a quello relativo alle componenti di
deformazione deviatorica. Per ottenere la separazione fra le due
componenti il potenziale potrà essere espresso in funzione degli invarianti
del tensore sinistro di Cauchy-Green B, definito come:
10
𝑩 𝑭 ∙ 𝑭𝑻 II.5
𝐼𝑩𝟏 𝑡𝑟 𝑩 𝑰∶𝑩
II.6
1
𝐼𝑩𝟐 𝐼 𝑡𝑟 𝑩: 𝑩
2 𝑩𝟏
Gli invarianti del tensore B si riferiscono alla sola componente deviatorica
dello stato di deformazione. Si consideri, infatti, un processo di
deformazione infinitesimo caratterizzato da un gradiente di spostamento
infinitesimo 𝑑𝒖, il quale è possibile mettere in relazione con l’incremento
infinitesimo del gradiente di deformazione:
𝜕𝑑𝒖
𝑑𝑳
𝜕𝑋
II.7
𝜕𝑑𝒖
𝑑𝑭 𝑰 𝑑𝑳 𝑰
𝜕𝑋
L’incremento infinitesimo di deformazione è ottenuto dalla parte
simmetrica di L (la cui derivata nel tempo è il tensore di velocità di
deformazione):
1
𝑑𝑫 𝑑𝑳 𝑑𝑳𝑻 II.8
2
L’incremento infinitesimo di deformazione volumetrica 𝑑𝜀 e
deviatorica 𝑑𝒆 risultano:
𝑑𝜀 𝑡𝑟 𝑫 𝑰∶𝑫
II.9
1
𝑑𝒆 𝑑𝑫 𝑑𝜀 𝑰
3
Nel processo l’incremento di 𝐽 dipende solo dall’incremento di
deformazione volumetrica:
11
𝑑𝐽 𝐽𝑑𝜀 II.10
𝜔 𝜔 𝐼𝑩𝟏 , 𝐼𝑩𝟐 , 𝐽
𝜕𝜔 𝜕𝜔 𝜕𝜔
⟹ 𝑑𝜔 𝑑𝐼 𝑑𝐼 𝑑𝐽
𝜕𝐼𝑩𝟏 𝑩𝟏 𝜕𝐼𝑩𝟐 𝑩𝟐 𝜕𝐽 II.12
𝑑𝜔 2 𝐼𝑩𝟐 𝑩 𝑩 ∙ 𝑩 ∶ 𝑑𝒆 𝐽 𝑑𝜀
𝑩𝟏 𝑩𝟐 𝑩𝟐
𝑑𝐿 𝒔: 𝑑𝒆 𝑝𝑑𝜀 𝑑𝑣 ⟹
II.13
⟹ 𝐽 𝒔: 𝑑𝒆 𝑝𝑑𝜀 𝑑𝑉
12
dove s è la componente deviatorica del tensore di Cauchy e p è la
corrispondente componente idrostatica, positiva se di compressione,
energeticamente coniugata con la deformazione volumetrica. L’eq. 13
sfrutta la possibilità di disaccoppiare il lavoro di deformazione deviatorico
e volumetrico per i materiali isotropi. Inoltre nell’equazione si è fatto uso
del legame 𝐽 per trasformare l’integrale riferito al volume deformato
2 𝜕𝜔 𝜕𝜔 𝜕𝜔
𝒔 𝐼𝑩𝟐 𝑩 𝑩∙𝑩
𝐽 𝜕𝐼𝑩𝟏 𝜕𝐼𝑩𝟐 𝜕𝐼𝑩𝟐
II.14
𝜕𝜔
𝑝
𝜕𝐽
L’eq. 14 consente dunque di calcolare le componenti di sforzo di Cauchy
a partire dal gradiente di deformazione nota l’espressione del potenziale,
applicando la procedura riassunta di seguito in Figura 3.
13
Noti gli sforzi di Cauchy, le altre misure di sforzo (ad esempio il tensore
di sforzo nominale o il secondo tensore di Piola-Kirchoff) sono
immediatamente calcolabili noto il gradiente di deformazione. Tuttavia è
possibile mettere direttamente in relazione il potenziale con altre misure
di deformazione e ottenere, derivando, le corrispondenti misure di sforzo
coniugate. In particolare, per la calibrazione delle leggi iperelastiche è
utile mettere il potenziale in funzione dei rapporti di allungamento
principali 𝜆𝟏 , 𝜆𝟐 e 𝜆𝟑 . Tali rapporti definiscono, in assi principali di
deformazione, tutte le componenti non nulle del gradiente di
deformazione, che risulta
𝜕𝑢
⎡ 1 0 0 ⎤
𝜆 0 0 ⎢𝜕𝑋 ⎥
⎢ 0 𝜕𝑣
𝑭 0 𝜆 0 1 0 ⎥
0 0 𝜆 ⎢ 𝜕𝑌 ⎥ II.15
⎢ 𝜕𝑤 ⎥
⎣ 0 0
𝜕𝑍
1⎦
⟹ det 𝑭 𝜆 𝜆 𝜆 𝐽
Sulla base dell’eq.15 il tensore di deformazione di Green-Lagrange risulta:
1
𝑬𝜶 𝜆 1 𝛼 1; 2; 3 II.16
2
I rapporti di allungamento principali sono immediatamente correlabili alla
deformazione nominale o ingegneristica:
𝜀̃𝜶 𝜆 1 𝛼 1; 2; 3 II.17
14
che, per piccole deformazioni, le componenti di E sono approssimabili con
le deformazioni ingegneristiche.
Si può inoltre osservare che, sempre in assi principali di deformazione, la
variazione di deformazione nominale consente di calcolare le componenti
della variazione del tensore di deformazione:
𝑑𝜆 0 0 𝑑𝜀 0 0
𝑑𝑭 0 𝑑𝜆 0 0 𝑑𝜀 0 II.18
0 0 𝑑𝜆 0 0 𝑑𝜀
Dal punto di vista energetico la relazione in eq. 18 è particolarmente
significativa perché il gradiente di deformazione è energeticamente
coniugato al tensore di sforzo nominale:
𝑑𝐿 𝜮𝒏 ∶ 𝑑𝑭 𝑑𝑉 II.19
15
II.4 Forme particolari di potenziale elastico
Dal punto di vista pratico la legge costitutiva iperelastica deve poter essere
calibrata attraverso una serie di prove sperimentali, specificando
completamente la funzione potenziale elastico. La Figura 4 mostra la
risposta sperimentale a trazione di un materiale elastomerico correlata con
la predizione ottenuta da un modello analitico.
Forma polinomiale
Considerando l’eq. 20, gli invarianti del tensore sinistro di Cauchy-Green
hanno valore 3 per rapporti di allungamento principali unitari; quindi in
assenza di deformazione. Analogamente, il determinante del tensore di
deformazione 𝐽 è pari ad 1 in assenza di deformazione. Tali aspetti vanno
tenuti in considerazione per definire la forma del potenziale elastico, in
modo da annullare il potenziale per deformazioni nulle. Una forma
16
polinomiale del potenziale elastico, funzione degli invarianti 𝐼𝑩𝟏 , 𝐼𝑩𝟐 e 𝐽,
è pertanto definibile nel seguente modo:
1
𝜔 𝐶 𝐼𝑩𝟏 3 𝐼𝑩𝟐 3 𝐽 1 II.21
𝐷
II.22
𝐺 2 𝐶 𝐶
2 II.23
𝑘
𝐷
Minore è il valore di 𝐷 , maggiore risulta il bulk modulus 𝐾 . In generale,
bassi valori di 𝐷 configurano un materiale incomprimibile. Il coefficiente
di Poisson iniziale del materiale può essere fornito dalla seguente tabella:
17
Tabella 1
1
𝜔 𝐶 𝐼𝑩𝟏 3 𝐶 𝐼𝑩𝟐 3 𝐽 1 II.24
𝐷
La forma così ottenuta, che prevede la calibrazione di soli tre parametri,
corrisponde al modello di Money-Rivlin. Nei materiali elastomerici questo
tipo di modello non è in grado di rappresentare il cambio di pendenza che
si ha tipicamente oltre una data soglia di rapporto di allungamento, come
qualitativamente mostrato in Figura 5. Il rapporto di allungamento che
individua approssimativamente il cambio di pendenza viene definito
“locking stretch” 𝜆
18
Altre forme polinomiali semplificate sono le cosiddette forme polinomiali
ridotte, nelle quali è eliminata la dipendenza dal secondo invariante delle
deformazioni deviatoriche 𝐼𝑩𝟐 , ottenendo espressioni del tipo:
1
𝜔 𝐶 𝐼𝑩𝟏 3 𝐽 1 II.25
𝐷
1
𝜔 𝐶 𝐼𝑩𝟏 3 𝐽 1 II.26
𝐷
Modello di Ogden
Nel modello di Ogden il potenziale elastico è espresso attraverso dei
rapporti di allungamento principali normalizzati, ed ha la forma:
2𝜇 1
𝜔 𝜆̅ 𝜆̅ 𝜆̅ 3 𝐽 1 II.27
𝛼 𝐷
1
𝜆̅ 𝜆 ⟹ 𝜆̅ 𝜆̅ 𝜆̅ 1 II.28
𝐽
19
In base all’eq. 28 lo stato di deformazione descritto dai rapporti di
allungamento principali normalizzati è caratterizzato da una deformazione
volumetrica nulla ed è pertanto puramente deviatorico. Il modello di
Ogden preserva quindi il disaccoppiamento fra la parte volumetrica e
deviatorica della deformazione, ma fornisce direttamente l’espressione del
potenziale in funzione dei rapporti principali di allungamento consentendo
una più immediata calibrazione del modello.
Modello di Arruda-Boyce
Il modello di Arruda-Boyce è ricavato da un’idealizzazione della struttura
molecolare di un elastomero. Viene considerato un modello di volume
rappresentativo di materiale elastomerico costituito da un cubo che
presenta al suo interno 8 elementi elastici convergenti nel centro
dell’elemento, schematizzato in Figura 6.
𝐶 1 𝐽 1
𝜔 𝜇 𝐼𝑩𝟏 3 𝑙𝑛 𝐽 II.29
𝜆 𝐷 2
dove i coefficienti 𝐶 non rappresentano però parametri incogniti, ma
hanno valori ottenuti applicando un modello statistico alla distribuzione di
proprietà elastiche degli otto elementi inclusi nel volume rappresentativo.
In particolare, i coefficienti 𝐶 sono ottenuti dall’espansione in serie di una
funzione matematica, ed hanno espressione:
20
1 1 11 19 519
𝐶 ; 𝐶 ; 𝐶 ; 𝐶 ; 𝐶
2 20 1050 7000 673750
21
deformazione deviatorica e volumetrica senza conoscere le caratteristiche
del materiale. Per questo motivo la separazione dei contributi deviatorici
e volumetrici nel potenziale elastico è di notevole aiuto nella procedura di
calibrazione. In particolare, la bassissima comprimibilità dei materiali
elastomerici è sfruttata per assumere che, alla presenza di uno stato di
sforzo in grado di indurre deformazioni deviatoriche e volumetriche nel
materiale, la deformazione volumetrica sia, in effetti, trascurabile. Ciò
comporta che il materiale possa essere considerato incomprimibile e che i
rapporti di allungamento principali rappresentino i valori principali della
deformazione deviatorica, introdotti in eq. 20. Sotto queste ipotesi, quindi:
𝐽 𝜆 𝜆 𝜆
𝜕𝜔 𝜕𝜔 𝜕𝜔
𝛴 𝑑𝐼 𝑑𝐼 𝑑𝐽
𝜕𝐼𝑩𝟏 𝑩𝟏 𝜕𝐼𝑩𝟐 𝑩𝟐 𝜕𝐽
II.32
𝜕𝜔 𝜕𝐼𝑩𝟏 𝜕𝜔 𝜕𝐼𝑩𝟐
𝜕𝐼𝑩𝟏 𝜕𝜆 𝜕𝐼𝑩𝟐 𝜕𝜆
Gli invarianti deviatorici pertanto possono essere determinati in funzione
dei rapporti di allungamento principali e, grazie all’ipotesi di
incomprimibilità, possono essere calcolati quando è noto il rapporto di
allungamento in una direzione. L’eq. 32 consente quindi di esprimere il
22
valore teorico dello sforzo nominale 𝛴 , ottenuto applicando una
determinata forma del potenziale elastico ω.
La prova più semplice per la calibrazione del potenziale elastico nei
materiali elastomerici è rappresentata dalla prova uniassiale di trazione e
compressione, schematizzata in Figura 5. Il test di trazione è generalmente
eseguito su provini tipo dog-bone, mentre il test di compressione è
eseguito comprimendo un disco di materiale fra due piastre lubrificate in
modo da lasciare libera l’espansione delle direzioni trasversali al carico
applicato.
1
𝜆 𝜆 ; 𝜆 𝜆 II.33
𝜆
L’applicazione dell’Eq. 32 conduce alla seguente espressione:
𝜕𝜔 𝜕𝜔 𝜕𝜔
𝛴 2 1 𝜆 𝜆 II.34
𝜕𝜆 𝜕𝐼𝑩𝟏 𝜕𝐼𝑩𝟐
23
Una seconda prova di calibrazione è la prova bi-assiale, schematizzata in
Figura 6, nella quale un carico di uguale valore è applicato secondo due
direzioni ortogonali a un provino. La prova di trazione può essere eseguita
mediante macchine di prove biassiali mentre la prova di compressione è
di più difficile esecuzione ed è raramente applicata.
1
𝜆 𝜆 𝜆 ; 𝜆 II.35
𝜆
dove 𝜆 è il rapporto di allungamento in ciascuna delle due direzioni di
applicazione del carico. Derivando il potenziale elastico in funzione di 𝜆
si ottiene il doppio del valore dello sforzo principale nelle direzioni di
carico. Pertanto il valore teorico dello sforzo nominale risulta:
1 𝜕𝜔 𝜕𝜔 𝜕𝜔
𝛴 2 𝜆 𝜆 𝜆 II.36
2 𝜕𝜆 𝜕𝐼𝑩𝟏 𝜕𝐼𝑩𝟐
Infine, incollando dei provini sottili a due piastre collegate alla macchina
di prova, è possibile effettuare test in condizioni di deformazione piana,
rappresentati in Figura 7.
24
Figura 7 – Prova in stato di tensione piana (A) e di
compressione (B) per la calibrazione del
potenziale elastico.
1
𝜆 𝜆 ; 𝜆 1 ; 𝜆 II.37
𝜆
Lo sforzo normale nella direzione di applicazione del carico è ottenuto
dall’espressione seguente:
1 𝜕𝜔 𝜕𝜔 𝜕𝜔
𝛴 2 𝜆 𝜆 II.38
2 𝜕𝜆 𝜕𝐼𝑩𝟏 𝜕𝐼𝑩𝟐
25
- la tensione in stato piano di deformazione è equivalente alla
compressione in stato piano di deformazione.
Una volta raccolti i dati sperimentali, la calibrazione dei parametri del
modello di potenziale può essere condotta minimizzando l’errore
complessivo fra i valori sperimentali e quelli teorici.
1 ∑ 𝜆
𝐸𝑅𝑅 II.39
∑ 𝜆
26
Figura 9 – Stato di sforzo idrostatico di trazione
(A) e di compressione (B) per la calibrazione
del potenziale elastico
𝜆 𝜆 𝜆 𝜆 ⟹𝐽 𝜆
𝐼𝑩 𝜆𝑩 𝜆𝑩 𝜆𝑩 1 1 1 3 II.40
𝐼𝑩 𝜆𝑩 𝜆𝑩 𝜆𝑩 1 1 1 3
27
Capitolo III
Modello Viscoelastico
III.1 Introduzione
Nei solidi reali possono manifestarsi deviazioni più o meno sensibili dalla
perfetta elasticità nella risposta della deformazione alla tensione, per cui è
necessario discutere la possibile forma di relazioni di tipo non elastico tra
le componenti di tensione e le componenti di deformazione. In particolare
può cadere in difetto la corrispondenza monodroma tra le dette
componenti, perché una parte della deformazione non si annulla quando
vengono rimosse le forze applicate al solido: siamo allora in presenza di
deformazioni permanenti dovute alla irreversibilità del processo di cui
esse sono conseguenza. Un comportamento perfettamente elastico
esigerebbe infatti che l’energia potenziale acquista dal solido nel corso
della deformazione venisse totalmente restituita in modo da rispettare la
perfetta reversibilità della trasformazione nel senso della termodinamica.
Evidentemente tale circostanza non può verificarsi nella realtà dovendo
essere sempre presente una dissipazione di energia nel corso della
deformazione: ad essa è dovuto ogni scostamento più o meno sensibile dal
modello ideale del solido elastico. Ammessa dunque una certa
irreversibilità di trasformazione e la presenza di dissipazione di energia
elastica, si potrà parlare generalmente di risposta anelastica; sarà quindi
conveniente pensare a modelli ideali di solidi in cui questo tipo di risposta
segua leggi particolari dove, oltre al consueto legame elastico tra le
componenti di tensione e di deformazione, dovranno comparire ulteriori
relazioni indipendenti, atte a caratterizzare il fenomeno specifico causa di
anelasticità. D’altra parte in nessun materiale reale lo stato di
28
deformazione è unicamente funzione dello stato di tensione, ma dipende
dalla temperatura, dalla distribuzione più o meno ordinata a livelli
molecolari o atomici, dal campo elettrico e magnetico. La presenza di
queste nuove variabili induce, in generale, due fenomeni tipici: la
diffusione o rilassamento delle loro fluttuazioni, cioè la tendenza ad
assumere un valore uniforme nei punti del solido, e la variazione dei loro
valori per effetto della deformazione.
La teoria classica dell’elasticità studia il comportamento meccanico dei
solidi allo stato elastico; per stato elastico si intende quello stato in cui la
tensione σ dipende dalla deformazione ɛ ed è indipendentemente dalla
velocità di deformazione ɛ : se il legame è di tipo lineare allora si parla di
solido elastico lineare (𝜎 𝐸𝜀 legge di Hooke), se il legame è di tipo non
lineare allora si parla di materiali iperelastici (figura 10).
ɛ ɛ
Figura 10
29
qualitativamente come un generico materiale può mostrare curve
caratteristiche diverse a seconda della velocità di deformazione ɛ imposta.
σ ɛ1 > ɛ2 ɛ1 ɛ2
ɛ
Figura 11
Test a rilassamento
Nel test a rilassamento (vedi figura 12) una deformazione monoassiale di
allungamento ɛ0 viene applicata in maniera “quasi istantanea” ad un
provino e viene mantenuta per un tempo abbastanza lungo; in serie al
provino è applicata una cella di carico che registra l’andamento temporale
della tensione.
30
ɛ
ɛ
σ
ɛ
σ t0 t
risposta
σ
rilassamento di tensione
t0 t
Figura 12
𝜎 𝑡
𝐸 𝑡 𝑚𝑜𝑑𝑢𝑙𝑜 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑙𝑎𝑠𝑠𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 III.1
𝜀
Per sviluppi successivi è bene definire il modulo elastico iniziale (t = t0) e
il modulo all’equilibrio (t = ∞):
𝜎 𝑡 0
𝐸 𝑡 𝑡 𝐸 𝑚𝑜𝑑𝑢𝑙𝑜 𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑎𝑙𝑒 III.2
𝜀
e
𝜎 𝑡 ∞
𝐸 𝑡 ∞ 𝐸 𝑚𝑜𝑑𝑢𝑙𝑜 𝑎𝑙𝑙 𝑒𝑞𝑢𝑖𝑙𝑖𝑏𝑟𝑖𝑜 III.3
𝜀
31
Test a scorrimento viscoso (creep)
Un altro test fondamentale per caratterizzare la viscoelasticità di un
materiale è il test a scorrimento viscoso. Una tensione uniassiale costante
𝜎 viene applicata “quasi istantaneamente” ad un provino e mantenuta per
un certo tempo; contemporaneamente si misura l’allungamento
progressivo nel tempo ottenendo delle curve qualitativamente come quelle
indicate di seguito.
σ0
t0 t1 t
recupero elastico istantaneo
ɛ0
t0 t1 t
Figura 13
32
𝜀 𝑡
𝐷 𝑡 𝑚𝑜𝑑𝑢𝑙𝑜 𝑑𝑖 𝑑𝑒𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡à III.4
𝜎
𝜎 𝐸𝜀 III.5
E
1
ɛ
Figura 14
33
La deformazione elastica, per definizione, è una deformazione che viene
totalmente recuperata in un ciclo di carico-scarico.
Il comportamento viscoso lineare è rappresentato dalla legge di Newton
𝜎 𝜂𝜀 III.6
ɳ
1
ɛ
Figura 15
σ0
t0 t t0 t
Figura 16
34
Modello di Maxwell:
Il modello di Maxwell consta di una molla e un dissipatore disposti in
serie, come indicato nella figura 17
Figura 17
𝜀 𝜎 ; 𝜀 𝜎 III.7
𝜀 𝜀 𝜀 III.8
𝜀 𝜀 𝜀 III.9
da cui si ottiene
𝜎 𝜎 𝜂𝜀 III.10
35
Eseguendo un test a scorrimento viscoso, ovvero imponendo
analiticamente una funzione 𝜎 “a gradino” si ottine, sviluppando
l’equazione, la risposta in deformazione del tipo indicato in figura 18:
1 𝑡
𝜀 𝑡 𝜎 III.11
𝐸 𝜂
𝝈𝟎
𝑬
t
Figura 18
𝜀 𝑡 1 𝑡
𝐷 𝑡 III.12
𝜎 𝐸 𝜂
Allo stesso modo si procede per ottenere la risposta al test di rilassamento;
imponendo analiticamente una funzione 𝜀 “a gradino” si ottiene la
relazione seguente:
𝜎 𝑡 𝜀 𝐸𝑒 III.12
t
Figura 19
36
Il modulo di rilassamento è definito:
𝜎 𝑡
𝐸 𝑡 𝐸𝑒 III.13
𝜀
Modello di Kelvin:
Il modello di Kelvin è costituito da una molla e un dissipatore disposti in
parallelo, come indicato nella figura seguente:
Figura 20
1 1
𝜀 𝜎 𝜀 𝜎 𝜎 𝜎 𝜎 III.14
𝐸 𝜂
da cui si ricava la legge costitutiva del modello di Kelvin:
𝜎 𝐸𝜀 𝜂𝜀 III.15
𝜎
𝜀 𝑡 1 𝑒 III.16
𝐸
37
ɛ
Graficando tale relazione si
𝝈𝟎
ottiene il grafico in figura 21
𝑬
t
Figura 21
1
𝐷 𝑡 1 𝑒 III.17
𝐸
dove per valori di t elevati il modulo di deformabilità 𝐷 𝑡 si stabilizza
asintoticamente al valore .
Come si può notare dal grafico, la risposta deformativa ad uno stimolo di
tensione non avviene in maniera istantanea; questo perché sebbene la
molla possa reagire istantaneamente a tale tensione, il dissipatore non ne
consente una risposta immediata, e quindi tende a prevalere sulla molla.
La risposta al rilassamento, ottenuta fornendo una deformazione 𝜀 “a
gradino”, non fornisce risultati interessanti. Applicare una deformazione
finita in un tempo nullo implica una velocità di deformazione infinita e ciò
comporterebbe una risposta di tensione infinita da parte del dissipatore.
Quindi il modello di Kelvin non ha modulo di rilassamento.
38
alla rimozione del carico. Il modello di Kelvin non mostra nessuna risposta
elastica deformativa nell’istante di applicazione del carico e la
deformazione viene totalmente recuperata dalla molla come deformazione
elastica. Per i motivi appena citati i modelli elementari di Maxwell e
Kelvin non vengono utilizzati per rappresentare il comportamento
viscoelastico; verrà invece discusso e utilizzato ai fini di questa tesi il
modello di Maxwell generalizzato.
Il modello di Maxwell generalizzato (vedi figura 22) è un modello
costituito da n rami di Maxwell disposti in parallelo che rappresentano la
parte viscoelastica, più una molla (in parallelo ai rami viscoelastici) di
modulo 𝑬 che rappresenta la parte iperelastica.
σ
componente elastica Componente viscoelastica
σ
Figura 22
39
Si assume per ora che le molle e i dissipatori del modello siano elementi
lineari, pertanto i moduli elastici 𝐸 e i coefficienti di viscosità ɳ sono
costanti durante l’intervallo di deformazione; questo rende l’equazione
differenziale di tipo lineare. Pertanto vale il principio di sovrapposizione
degli effetti (Principio di Boltzman), per cui la somma delle cause e uguale
alla somma degli effetti. Imponendo al sistema una deformazione “a
gradino”
𝜀 𝑡 𝜀 𝐻 𝑡 III.19
𝜎 𝑡 𝜀 𝐸𝑒
𝜎 𝑡 𝜀 𝐸 𝑒 𝐸 III.20
La quantità
𝐸 𝑡 𝐸 𝑒 𝐸
𝐸 𝑒 III.21
40
è una serie esponenziale decrescente definita serie di Prony. Con la serie
di Prony si rappresenta lo spettro discreto costitutivo del materiale
viscoelastico e, in generale, essa viene utilizzata anche senza far
riferimento a un modello meccanico particolare.
Qualora si abbia un materiale nuovo a presunto comportamento
viscoelastico si esegue un test a rilassamento, ovvero si impone una
deformazione “a gradino”, si collega in serie al provino una cella di carico
e si misura il valore di tensione al trascorrere del tempo. Se il materiale è
un solido viscoelastico si ottiene una curva sperimentale della tensione
con andamento ad esponenziale decrescente che tende asintoticamente ad
un certo valore diverso da zero; se il materiale è un fluido viscoelastico la
curva tende asintoticamente a zero. Ottenuta la curva sperimentale,
mediante una procedura numerica si ottengono le coppie 𝐸 e 𝜏 della serie
di Prony. La figura che segue schematizza il risultato di “fitting” di una
curva sperimentale.
Figura 23
41
𝐸 𝑡 𝐸 𝑒 𝐸 III.20
Figura 24
𝐸 𝐸 𝐸 III.21
𝐸 𝐸 𝐸
1 III.22
𝐸 𝐸 𝐸
42
𝐸 𝐸
𝑔 ; 𝑔 III.23
𝐸 𝐸
𝐸 𝑡 𝐸 𝑔 𝑔𝑒 III.24
43
Capitolo IV
44
maggiormente diffusi sul mercato. Questo tipo di software, insieme ad altri
diffusi nel settore ingegneristico, si suddividono in tre differenti fasi:
i. pre-process.
ii. process.
iii. post-process.
La prima fase consente di costruire la struttura, definire le proprietà dei
materiali coinvolti, assegnare a ciascuna parte della struttura il materiale
costituente, definire il carico e le condizioni al contorno. Ottenute tutte le
informazioni necessarie, il solutore calcola le matrici di rigidezza del
modello, nonché le forze interne ed esterne agenti in esso. Nella fase di
process, con le informazioni fornite, vengono risolte le equazioni di
equilibrio e calcolati gli spostamenti. L’ultima fase, infine, consente di
visualizzare graficamente le soluzioni ottenute nel process.
Pre-Process
Per effettuare il calcolo della matrice di rigidezza, il software ha bisogno
di informazioni sul tipo di materiale e sulla geometria della struttura da
simulare. Quest’ultima può essere creata attraverso i solutori CAD2
implementati nel programma FEM stesso, ma comunemente, in presenza
di geometrie complesse, si predilige creare la struttura utilizzando un buon
software CAD dedicato e solo dopo implementarlo nei solutori FEM. Si
deve però precisare che il passaggio da un software CAD al FEM può
creare problemi sulle connessioni, sui contatti e sulla geometria stessa
della struttura. Pertanto la scelta di implementare o meno un file esterno
deve essere ragionata in base alla complessità della geometria stessa. Di
solito, ogni programma FE ha una libreria che contiene una varietà di
elementi. Questi vengono identificati in categorie: elementi trave, solido,
shell. Ogni solutore commerciale identifica le diverse tipologie con un
opportuno codice. Dalla figura 25 si può notare come uno stesso elemento
45
viene identificato tramite codici diversi per due dei solutori commerciali
più diffusi, ANSYS della Dassault ed ABAQUS della Simulia.
Figura 25
46
assegnare il materiale costituente ed i tipi di elementi che andranno a
suddividere il corpo in un insieme discreto di nodi. La seconda parte del
pre-process consiste nell’attribuire al corpo tutte le condizioni necessarie
affinché il solutore effettui i calcoli. Si indicano, a tal proposito la
definizione degli stati di carico, delle condizioni al contorno e dei vincoli.
Le condizioni al contorno sono i valori conosciuti dei gradi di libertà del
corpo sul bordo. In un’analisi strutturale i gradi di libertà consistono
essenzialmente in spostamenti e rotazioni. Esempi di condizioni al
contorno possono essere le cerniere o l’incastro. Ulteriori informazioni
necessarie al solutore sono le eventuali zone di contatto presenti, con i
rispettivi attriti; se si conoscono le superfici che interagiscono durante
l’analisi è possibile utilizzare dei contatti di tipo pair (contatto in cui viene
specificata la coppia di superfici interessate), altrimenti si utilizza il
general contact, in cui il solutore considera tutte le superfici come se
fossero coinvolte nel contatto. Il carico è un altro aspetto fondamentale per
l’analisi. Esso può essere impostato come forza concentrata o distribuita,
oppure come carico di taglio agente su una superficie. Questa seconda
parte del pre-process può essere vista come un’intersezione pre-process e
process, perché tramite i dati forniti in questa fase, in quella successiva il
solutore procede alla realizzazione dei calcoli numerici.
Process
La fase del process è eseguita solo dopo una fase detta di check delle
informazioni inserite. Una volta terminata questa fase, parte il processo di
soluzione numerica, in cui attraverso l’uso del metodo agli elementi finiti
vengono risolte le equazioni algebriche. I tipi di analisi che si possono
effettuare sono vari, e vanno dalle analisi statiche lineari a quelle non
lineari, per finire con le analisi di tipo dinamico.
Post- process
47
Nella fase di post-process si analizzano i risultati ottenuti dalla soluzione
che è stata calcolata. Tali risultati vengono, usualmente, visualizzati e
analizzati attraverso un’interfaccia grafica, in cui il modello appare
colorato: ad ogni colore è assegnata una fascia di valori numerici di
tensione o deformazioni, che consente di capire quali sono le zone
maggiormente sollecitate.
P k∗u IV.1
48
una trave incastrata, approssimata con due elementi consecutivi. Ogni
elemento possiede due nodi; si ottiene quindi una struttura formata da due
elementi e tre nodi, di cui uno dei nodi esterni vincolato, quindi con
spostamento nullo (figura 26). La rigidezza del materiale viene
approssimata tramite un elemento molla: vale cosi la legge di Hooke su
ogni nodo.
Figura 26
𝑃 𝑘 𝑘 0 𝑢
𝑃 𝑘 𝑘 𝑘 𝑘 ∗ 𝑢 IV.2
𝑃 0 𝑘 𝑘 𝑢
49
posizione del sistema di riferimento locale, rispetto a quello fisso. Oltre
allo stato tensoriale sui nodi, occorre definire anche le tensioni agenti
sull’intero corpo. Per fare questo, si utilizzano le funzioni di forma che
permettono di correlare gli spostamenti nodali agli spostamenti interni.
Queste assicurano la congruenza, ma non l’equilibrio delle tensioni
dell’intero corpo. Dalle funzioni di forma si ricavano le deformazioni per
le quali è garantita, pertanto, solo la congruenza. Se si ipotizza che lo stato
di deformazione congruente equivale allo stato di deformazione
equilibrato e congruente (per cui reale), e facendo uso del principio dei
lavori virtuali, si ricava la matrice di rigidezza approssimata dell’intero
corpo. Conoscendo la matrice di rigidezza è possibile ricavare lo stato
tensoriale approssimato dell’intero corpo. Pertanto la determinazione della
matrice di rigidezza deriva dalle funzioni di forma. L’ipotesi introdotta è
fondamentale ed è alla base del metodo degli spostamenti, che permette di
ottenere risultati che approssimano bene il caso reale.
Da quanto esposto, si evince che risulta importante definire nel miglior dei
modi la discretizzazione del corpo, cioè definire la giusta quantità di
elementi in cui suddividere la struttura. Infatti più gli elementi sono di
piccola entità, maggiore sarà il numero di nodi totali posseduti dall’intero
corpo: il solutore numerico dovrà effettuare i calcoli su ogni singolo nodo
e, quindi, aumenterà la complessità di calcolo del problema. Sarà l’abilità
dell’utente a permettere di ottenere un buon compromesso tra risoluzione
della discretizzazione e complessità computazionale.
50
FEM. L’analisi agli elementi finiti deve essere supportata da una
approfondita conoscenza della fenomenologia alla base del problema da
affrontare, affinché possa essere utilizzata nel modo corretto limitando i
possibili errori. Ad esempio, un’errata definizione delle condizioni al
contorno o dei vincoli, possono causare divergenze numeriche o risultati
non veritieri. I modelli maggiormente utilizzati a supporto della fase di
progettazione sono quelli lineari, che permettono una maggiore rapidità di
soluzione. Non sempre però è sufficiente utilizzare un modello lineare; in
questi casi è necessario ricorrere a modelli di tipo non lineare, che
permettono di ottenere soluzioni con migliore approssimazione rispetto al
caso reale. Il tempo necessario ad ottenere la soluzione numerica di un
problema di tipo non lineare, è di gran lunga più elevato che nel caso
lineare. La differenza sostanziale tra le simulazioni lineari e non, risiede
nelle ipotesi che vengono fatte sulla rigidezza del materiale, che
ricordiamo è l’attitudine di un corpo a resistere alle sollecitazioni con
piccole deformazioni.
Le principali caratteristiche che influiscono sulla rigidezza del corpo sono:
51
Figura 27
𝐹 𝑘 ∗ 𝑢 IV.3
in cui [F] indica il vettore delle forze esterne applicate note, [k] la matrice
di rigidezza del materiale nota ed [u] la matrice degli spostamenti nodali
52
non noti. Ipotizzando [k] costante si imposta un’analisi lineare in cui le
equazioni sono risolte in blocco, se invece la rigidezza non può essere
considerata costante, bisognerà ricorrere ad un’analisi non lineare e la
matrice dovrà essere continuamente aggiornata, aumentando il tempo di
calcolo. Questa è la causa della lentezza computazionale delle analisi non
lineari. In base ai fattori (precedentemente elencati) che influenzano la
rigidezza, si hanno comportamenti non lineari diversi. Ci sono altri casi
in cui sarà necessario far ricorso a modelli non lineari: ad esempio il caso
dall’instabilità dovuta all’effetto di carichi di punta. Nel caso di un carico
a trazione la rigidezza del materiale, infatti, aumenta mentre se si ha
compressione, e il corpo giunge ad instabilità, si possono avere due
possibili scenari: cedimento o nuova rigidezza strutturale.
L’analisi lineare è utile per il calcolo del valore del carico critico di una
struttura caricata con carico di punta; in alcuni casi tale carico può essere
maggiore del caso fisico reale: pertanto i risultati devono essere utilizzati
con cautela. Una volta raggiunto il carico di punta, non è detto che esso
causi una rottura catastrofica. È, quindi, necessaria una analisi non lineare
per prevedere il comportamento della struttura dopo il raggiungimento del
carico critico. Anche il contatto tra superfici può richiedere l’uso di analisi
non lineari, perché nella zona di contatto ci sono delle variazioni di
rigidezza (anche per zone di contatto non molto estese). Infine un altro
motivo che può rendere necessaria un’analisi non lineare è la presenza di
vincoli non lineari
Figura 28
53
La soluzione di tali metodi non lineari, sfrutta un codice di calcolo
numerico di tipo iterativo, che prende il nome di “metodo della rigidezza
variabile”. Spesso l’approssimazione lineare è ritenuta accettabile e
fornisce utili informazioni sul comportamento del corpo; in altri casi, un
modello lineare non è sufficiente a descrivere il comportamento reale di
una struttura che può essere meglio approssimato da un modello non
lineare. In generale, quindi, la scelta del tipo di analisi da effettuare,
dipende dalla necessità del caso e sarà frutto di un compromesso tra la
qualità dei risultati in termini di previsione del comportamento reale della
struttura e la complessità di calcolo.
54
permettono di ottenere dei risultati sullo stato di sforzo tridimensionale
coerenti con la fenomenologia reale. Una corretta modellazione, quindi,
permette di ottenere risultati, che consentono di approssimare bene il caso
reale. Di contro, la dipendenza dal tempo dei modelli dinamici, può
causare, nel caso di errori nell’implementazione di vincoli o contatti,
eccessive non linearità ed elevato tempo computazionale. I metodi di
risoluzione delle equazioni differenziali che governano la meccanica
strutturale, si suddividono in metodi che utilizzano codici impliciti od
espliciti. I codici impliciti utilizzano il metodo di Newmark, il quale, però,
non permette di ottenere informazioni sulla rottura del materiale. Non è,
infatti, possibile effettuare l’analisi del danno, perché nessun criterio di
rottura è implementato nei solutori impliciti. I metodi espliciti, invece,
consentono di ottenere informazioni sulla rottura del materiale. A tal fine
si è fatto uso di un solutore esplicito, vista la necessità di rilevare lo stato
tensoriale a rottura del materiale, durante un test di compressione. La
differenza sostanziale tra i due metodi consiste nel fatto che quelli espliciti
determinano gli spostamenti al passo successivo, imponendo l’equilibrio
al passo precedente, mentre, i metodi impliciti impongono l’equilibrio ad
ogni passo. Ne deriva che ad ogni step di calcolo il metodo esplicito risulta
essere computazionalmente più rapido, ma richiede più intervalli
temporali per avere delle soluzioni accettabili. Gli impliciti richiedono
meno passi temporali, ma per ognuno è necessaria l’inversione della
matrice di rigidezza dinamica.
Il modello utilizzato da Abaqus/Explicit usa un metodo alle differenze
centrali per integrare nel tempo le equazioni del moto, partendo dalle
condizioni cinematiche (accelerazioni sugli spostamenti) al tempo i per
ottenere quelle al tempo i+1. Allo step iniziale il programma calcola
l’equilibrio dinamico utilizzando la formula derivante dal secondo
principio della dinamica:
55
𝐹 𝐼 𝑀∗𝑢 IV.4
dove [F] è il vettore delle forze esterne applicate, [I] è il vettore delle forze
interne, [M] la matrice diagonale della massa e [𝑢] è il vettore delle
accelerazioni. Le incognite del problema saranno le accelerazioni nodali,
per cui è necessario effettuare l’inversione di tale equazione matriciale.
Tutti i termini dell’equazione precedente sono considerati all’i-esimo step.
Se indichiamo con t il tempo corrispondente all’i-esimo incremento si
possono calcolare le accelerazioni all’inizio dell’intervallo:
𝑢 𝑡 𝐹 𝐼 𝑡 ∗ 𝑀 IV.5
∆𝑡 ∆ ∆𝑡
𝑢 ∆ 𝑢 ∆ ∗𝑢 IV.6
2
56
nodali ottenuti nell’intervallo precedente t, si ottengono gli spostamenti
all’intervallo 𝑡 ∆𝑡 :
𝑢 ∆ 𝑢 ∆𝑡 ∆ ∗𝑢 ∆
IV.7
Figura 29
∆𝑡 ∆𝑡 0
𝑢 𝑢0 ∗𝑢 0 IV.8
2 2
57
IV.5 Tempo di incremento stabile
Il tempo di incremento stabile determina la stabilità del metodo. Dal punto
di vista fenomenologico, si può dire che la stabilità del processo di
integrazione diretta implica che gli errori numerici non si amplificano ad
ogni passo di integrazione. Una procedura viene definita
“incondizionatamente stabile” se la soluzione particolare dell’equazione
differenziale rimane limitata nel tempo per qualsiasi condizione iniziale.
Invece si parlerà di processo “condizionatamente stabile” quando la
soluzione è limitata nel tempo per Δ𝑡 di integrazione inferiori a valori
critici oltre i quali si può avere instabilità numerica. Non si deve
confondere la stabilità con l’accuratezza del metodo: il primo parametro
consente di definire la divergenza numerica del metodo, mentre il secondo
parametro indica l’errore che si commette rispetto ad un valore di
riferimento. Inoltre, il tempo di incremento stabile quantifica la durata di
una simulazione. Vista l’importanza di tale parametro è necessario
conoscere cosa lo influenzi, così da poter ottimizzare la durata della
simulazione. Il modello utilizzato da Abaqus/Explicit è un solutore alle
differenze centrali condizionatamente stabile. Il limite di stabilità, per
questa classe di metodi risulta di difficile determinazione, ma, essendo un
parametro fondamentale, se ne effettua una stima conservativa. Si può
dimostrare che per un sistema senza smorzamento, il limite di stabilità
sarà:
2
Δt IV.9
ω
dove 𝜔 è la massima frequenza naturale del corpo.
Invece, nel caso di un sistema smorzato, risulterà essere
2
Δt 1 𝜉 𝜉 IV.10
ω
58
dove 𝜔 è la frequenza naturale massima del corpo e ξ lo smorzamento
della struttura.
La massima frequenza naturale del sistema non è calcolabile in modo
esatto, poiché influenzata da molti fattori; se ne valuta, quindi, una stima
approssimativa. Si calcola la 𝜔 del singolo elemento, che si può
dimostrare essere maggiore della più alta frequenza dell’intero modello.
Si definisce, allora, il limite di stabilità come nella seguente relazione:
𝐿
∆𝑡 𝑚𝑖𝑛 IV.11
𝑐
59
Capitolo V
60
di caduta (modello Instron/Ceast9340) dotata di sistema di acquisizione
dati. Il sistema di acquisizione permette di registrare la forza di reazione
del materiale sull’impattatore durante l’urto, e di misurare la velocità
iniziale dell’impattatore stesso grazie ad un sensore ottico posto appena
sopra l’area di impatto.
Figura 30
61
La piena penetrazione dei campioni è stata registrata per la velocità di
impatto di 1,80 𝑚⁄𝑠.
Figura 31
62
cellulari si possono distinguere 3 fasi diverse: una prima fase per piccole
deformazioni a comportamento puramente elastico in cui avviene una
flessione delle pareti delle celle; una seconda fase cosiddetta di “plateau”
nella quale inizia il collasso delle pareti delle celle di materiale e la
deformazione è indipendente dalla tensione. Infine la fase di
densificazione delle celle di materiale nella quale la tensione riprende ad
aumentare.
Il comportamento iperelastico, in generale, viene agevolmente descritto
modellando la funzione potenziale di deformazione, come descritto nel
capitolo 2. Una variante al modello di Ogden, valida per materiali isotropi
non lineari e ad elevata porosità, è il modello hyperfoam. Il potenziale di
deformazione di tale modello è espresso dalla relazione
2𝜇 1
𝜔 𝜆 𝜆 𝜆 3 𝐽 1 V.1
𝛼 𝛽
𝜈
𝛽 V.2
1 2𝜈
63
I parametri 𝜇 sono correlati al modulo di taglio iniziale 𝜇 dalla seguente
relazione
𝜇 𝜇 V.3
1
𝐾 2𝜇 𝛽 V.3
3
Figura 32
Comportamento viscoelastico
Come descritto nel terzo capitolo, il comportamento meccanico di un
materiale generico è sempre intermedio tra un comportamento
perfettamente elastico ed uno perfettamente viscoso. Tale comportamento
64
viscoelastico lo si riscontra anche nel sughero; se si immagina di
schiacciare molto velocemente un provino di sughero e di rilasciare la
forza, si nota che il recupero alla forma originale avviene in un determinato
tempo. La viscoelasticità, essendo una proprietà (intrinseca) del materiale
e non attinente a un certo tipo di sollecitazione, la si riscontra anche nel
caso della prova di penetrazione.
Figura 33
65
La figura 33 mostra l’inserimento dei coefficienti della serie di Prony su
Abaqus; è stato considerato un modello di Maxwell generalizzato a 10
rami viscoelastici.
c
b’ b’
C
b B B
a Figura 34
𝑡
66
l’andamento della curva tensione-deformazione è indicato
qualitativamente nella figura 35 seguente
Figura 35
Aspetti teorici
I materiali iperelastici, come indicato nel secondo capitolo, sono descritti
in termini della funzione energia di potenziale di deformazione ω(F), la
67
quale rappresenta l’energia di deformazione accumulata nel materiale per
unità di volume, ed F rappresenta il gradiente di deformazione. Per tener
conto dell’Effetto Mullins, i ricercatori Ogden e Roxburgh proposero una
descrizione basata su una funzione energia potenziale di deformazione
modificata, del tipo ω(F,ɳ) dove ɳ è una variabile scalare detta “variabile
di danno”. Richiamando l’equazione rappresentativa del modello
hyperfoam di seguito,
2𝜇 1
𝜔 𝜆 𝜆 𝜆 3 𝐽 1 V.1
𝛼 𝛽
𝜈
𝛽 V.2
1 2𝜈
𝜔 𝜆 ,𝜂 𝜂𝜔 𝜆 𝜙 𝜂 V.4
68
Poiché per definizione di iperelasticità la tensione è esprimibile come
gradiente della funzione energia potenziale di deformazione, derivando la
V.4 rispetto 𝜆 otteniamo
𝝈 𝜂, 𝜆 𝜂𝝈 𝜆 V.5
1 𝜔 𝜔
𝜂 1 𝑒𝑟𝑓 V.6
𝑟 𝑚 𝛽𝜔
Figura 36
69
V.5 Implementazione del modello di danneggiamento
Il comportamento costitutivo di un materiale semplice, tipo acciaio, viene
determinato con prove meccaniche che servono a produrre stati di tensione
e deformazione ben definiti all’interno del materiale; tali prove sono per
esempio la prova di trazione, compressione, taglio ecc. Queste prove,
come visto precedentemente, vanno eseguite imponendo una certa velocità
di deformazione, più o meno elevata, e si può osservare quanto il materiale
sia sensibile alla velocita di deformazione. E’ possibile, inoltre,
quantificare la resistenza ultima del materiale e avere indicazione di
quando avverrà la rottura. Tutte queste informazioni si possono acquisire
fin quando sono misurabili; se, come nel caso in discussione, la velocità
di deformazione è elevatissima (si consideri che l’intervallo temporale di
acquisizione dei dati nella prova di penetrazione a impatto è di 0.03
secondi) diventa problematico procedere. Con la prova di penetrazione il
provino di sughero mostra segni di danneggiamento permanenti già a
velocita di 1,27 𝑚⁄𝑠; l’energia trasferita dal punzone al provino porta il
materiale in crisi di resistenza nell’arco di centesimi di secondo, fenomeno
che accade in maniera del tutto simile in molti dispositivi di sicurezza
antiurto. Il problema che ci siamo posti è stato innanzitutto quello di
assumere un criterio di rottura (o criterio di crisi) adatto al tipo di materiale
in prova e, in secondo luogo, implementare tale criterio su Abaqus.
70
penetratore. Questo fa pensare che a certe velocità di penetrazione, dove
la rottura si verifica, il sughero tende a comportarsi come un materiale
fragile in cui le azioni di taglio producono decoesione del materiale. Visti
i presupposti sperimentali si è deciso di adottare il criterio di rottura di
Mohr. Nella figura 37 è mostrata la foto del provino impattato a 1,80 𝑚⁄𝑠.
Figura 37
71
𝜏
𝑐 𝜎 𝜎 𝜎
𝛼
𝜎 𝜎 0 𝜎
𝜎 𝜎
𝜎
𝜎 𝜎
Figura 38
72
implementato il criterio di rottura di Mohr per materiali fragili. In questi
casi è comunque possibile implementare un criterio di rottura andando a
richiamare una subroutine in linguaggio Fortran opportunamente
compilata. Tra le tante subroutine che Abaqus mette a disposizione per
risolvere problemi specifici, quella relativa alla modellazione di
danneggiamento di un materiale si chiama VUSDFLD, che è l’acronimo
di “User Defined Field” per risolutore esplicito. In figura 39 è
rappresentata la finestra di dialogo Abaqus per l’implementazione della
subroutine.
Figura 39
73
cerchio di Mohr
condizione di rottura
Figura 40
74
Operativamente la subroutine VUSDFLD esegue il calcolo dello stato di
deformazione, ovvero calcola il tensore di deformazione (o di tensione, a
seconda di come vogliamo impostare l’analisi) in ogni elemento del
modello. Una volta acquisito il tensore di deformazione, la subroutine
calcola il cerchio di Mohr nei parametri che lo rappresentano, cioè il raggio
e il centro del cerchio. A questo punto si impone la condizione di rottura
di Mohr scrivendo l’equazione della “retta di danno” e successivamente si
esegue la verifica di avvenuta rottura con un ciclo di IF. Come discusso
nel paragrafo precedente la rottura avviene se il raggio del cerchio supera
un valore limite (epsFail) e, in tal caso, la subroutine procede con
l’istruzione StateNew(K,1)=0. Operativamente quest’ultima istruzione
annulla (spegne) gli elementi che non hanno superato la verifica di rottura,
tali elementi sono quelli che nella sperimentazione vengono strappati via
dal punzone e non collaborano più alla resistenza.
I parametri della retta di danno, ovvero l’intercetta con l’asse verticale e
la pendenza, si sono determinati mediante una serie di simulazioni tese a
trovare il miglior fitting fra le curve sperimentali e quelle ottenute
numericamente,
75
modellato il contatto tangenziale fra il provino e il penetratore inserendo
un coefficiente di attrito di 0,5. Si è considerato un valore della densità
pari a 140 𝐾𝑔⁄𝑚 .
Figura 41
76
3. Si imposta lo step ovvero l’intervallo temporale di simulazione che,
come nel caso sperimentale, è pari a 0,03 secondi;
4. Nella sezione Field Output si vanno a settare tutti i valori che
vogliamo ottenere al termine della simulazione; in particolare a noi
interessano i valori del raggio del cerchio di Mohr (ovvero la
deformazione tangenziale massima) e la deformazione di rottura
epsfail;
5. Nella sezione History Output si va a richiedere l’andamento
temporale di grandezze di varia natura; per i nostri scopi sono state
calcolate le curve velocità-tempo di un punto rappresentativo del
penetratore per le tre diverse velocità di impatto;
6. Vengono impostate le condizioni cinematiche di vincolo del
modello di sughero, le condizioni cinematiche e dinamiche del
penetratore (massa e velocità) e le condizioni di attrito fra modello
di sughero e penetratore;
7. Infine viene creato il Job di simulazione impostando la chiamata
della subroutine VUSDFLD;
77
abbiamo impostato le simulazioni partendo da valori fittizi dei parametri
di rottura Mohr 𝑐; 𝛼 (figura 42).
𝒄 𝜶
Figura 42
78
Tabella simulazioni 1 𝒗𝒊𝒏 𝟎, 𝟕𝟗 𝒎/𝒔
𝑐 𝛼 danno 𝑣 FEM (m/s) 𝑣 EXP (m/s)
0,74 0,20 no 0,476 rimbal. 0,32
0,60 0,20 no 0,476 rimbal. 0,32
0,40 0,20 no 0,476 rimbal. 0,32
0,30 0,20 parziale 0,296 rimbal. 0,32
0,35 0,20 parziale 0,372 rimbal. 0,32
0,33 0,20 parziale 0,329 rimbal. 0,32
0,34 0,20 parziale 0,329 rimbal. 0,32
0,34 0,19 parziale 0,358 rimbal. 0,32
0,36 0,20 parziale 0,370 rimbal. 0,32
0,36 0,22 parziale 0,425 rimbal. 0,32
0,35 0,22 parziale 0,432 rimbal. 0,32
0,33 0,22 parziale 0,408 rimbal. 0,32
0,37 0,20 parziale 0,370 rimbal. 0,32
v (m/s)
1
0,5
0
0 5 10 15 20 25 30 35
t (ms)
‐0,5
EXP FEM
‐1
‐1,5
79
Tabella simulazioni 2 𝒗𝒊𝒏 𝟏, 𝟐𝟕 𝒎/𝒔
𝑐 𝛼 danno 𝑣 FEM (m/s) 𝑣 EXP (m/s)
0,74 0,20 no 0,730 rimbal. 0,32
0,60 0,20 no 0,730 rimbal. 0,32
0,50 0,20 no 0,450 rimbal. 0,32
0,40 0,20 parziale 0,480 rimbal. 0,32
0,20 0,20 penetrato -0,553 0,32
0,45 0,20 parziale 0,435 rimbal. 0,32
0,50 0,22 no 0,435 rimbal. 0,32
0,48 0,18 parziale 0,435 rimbal. 0,32
0,35 0,18 parziale 0,076 rimbal. 0,32
0,40 0,19 parziale 0,432 rimbal. 0,32
0,38 0,20 parziale 0,235 rimbal. 0,32
0,30 0,20 penetrato -0,098 0,32
v (m/s)
0,3
‐0,2 0 5 10 15 20 25 30 35
t (ms)
‐1,2
‐1,7
80
Tabella simulazioni 3 𝒗𝒊𝒏 𝟏, 𝟖𝟎 𝒎⁄𝒔
𝑐 𝛼 danno 𝑣 FEM (m/s) 𝑣 EXP (m/s)
0,60 0,15 parziale 0,682 rimbal. -1,1
0,55 0,15 parziale 0,262 rimbal. -1,1
0,55 0,10 parziale 0,380 rimbal. -1,1
0,50 0,15 parziale 0,268 rimbal. -1,1
0,45 0,15 penetrato -0.431 -1,1
0,45 0,10 parziale 0,132 -1,1
0,45 0,18 penetrato -0,403 -1,1
0,40 0,18 penetrato -0,707 -1,1
0,35 0,18 penetrato -1.055 -1,1
0,30 0,18 penetrato -1.196 -1,1
0,38 0,18 penetrato -0,781 -1,1
0,35 0,195 penetrato -0,970 -1,1
v (m/s)
0,3
‐0,2 0 5 10 15 20 25
t (ms)
‐0,7
‐1,2
‐2,2
81
V.8 Mappe di deformazione FEM
I risultati grafici delle simulazioni sono riportati nelle figure seguenti, in
termini di deformazione a taglio massima e deformazione a taglio
ammissibile. Nella tabella 3 si hanno le immagini del provino un istante
prima della rottura e, come si può notare, il materiale va in crisi allo stesso
valore di deformazione nei tre casi di velocità di impatto. Nella zona
centrale del provino, dove si risente maggiormente dell’urto, nonostante si
possa ipotizzare una componente idrostatica di deformazione che gioca a
favore della resistenza, il materiale è prossimo alla rottura. In tabella 4
sono riportate le immagini relative a diversi istanti dopo la rottura. Come
ci si poteva aspettare, essendo il materiale arrivato a rottura non è più in
grado di disporre di una componente di deformazione idrostatica che gli
favoriva la capacità di resistenza, ci ricordiamo infatti che il criterio di
Mohr utilizzato si basa proprio su questo concetto. Ossevando la tabella 4
notiamo che già a velocità di 0,79 𝑚⁄𝑠 interviene la rottura nei primi strati
di sughero a contatto col penetratore; lateralmente al penetratore il
materiale ha ancora un’ultima resistenza indicata dalle zone rosse
prossime a rottura. Alla velocità di 1,27 𝑚⁄𝑠 il fenomeno è ancor più
accentuato e la zona di rottura è maggiormente estesa, ma non si verifica
il trapasso del punzone in quanto gli strati sottostanti permangono a stati
deformativi lontani dalla crisi. Nel caso delle velocità di 0,790 𝑚⁄𝑠 e
1,270 𝑚⁄𝑠, non essendo tutto il materiale arrivato a rottura, questo rilascia
l’energia elestica accumulata facendo rimbalzare il punzone con una
velocità che, in fase sperimentale, è stato possibile determinare.
Nell’ultimo caso, la velocità del punzone di 1,80 𝑚⁄𝑠 produce la rottura
completa del modello di sughero; se osserviamo le due immagini possiamo
affermare che la rottura avviene in maniera fragile poiché sembra
danneggiata solo la zona coinvolta dal punzone mentre le zone limitrofi
restano a valori di deformazione molto bassa. In questo ultimo caso,
82
l’avvenuta perforazione completa del provino fa si che l’impattatore non
possa rimbalzare e prosegua la sua corsa verso il basso ad una velocità
inferiore rispetto al valore iniziale.
83
1.0 J – 0,79 𝑚⁄𝑠
2.5 J ‐ 1,27 𝑚⁄𝑠
5.0 J ‐ 1,80 𝑚⁄𝑠 Deformazione a taglio massima Deformazione a taglio ammissibile
84
1.0 J – 0,79 𝑚⁄𝑠
2.5 J ‐ 1,27 𝑚⁄𝑠
5.0 J ‐ 1,80 𝑚⁄𝑠 Deformazione a taglio massima Deformazione a taglio ammissibile
85
Capitolo VI
Conclusioni
In questo lavoro è stato riprodotto numericamente, sfruttando la
simulazione FEM, la prova di urto eseguita su dei provini di sughero
mediante apparecchiatura con penetratore a caduta Instron Ceast. Il
sughero è un materiale che ben si presta in applicazioni dove esistano
elevate deformazioni ed elevate velocità di deformazione; si pensi per
esempio ai dispositivi di sicurezza passiva come caschi da moto,
smorzatori di vibrazioni, ma anche come materiale d’anima per strutture
in composito. Appurato il comportamento iperelastico e viscoelastico in
regime di deformazione quasi-statico, per completare lo spettro costitutivo
del materiale restava da analizzare il comportamento a rottura per velocità
di deformazione tipiche di un crash. Partendo da tali presupposti, mediante
l’utilizzo di Abaqus CAE, abbiamo rimodellato il materiale aggiungendo
due ulteriori contributi: l’effetto Mullin, per tener conto del
danneggiamento a seguito del ciclo di carico-scarico, e la modalità di
rottura del materiale ipotizzando valido il criterio di Mohr. Grazie alle
curve sperimentali velocità-tempo rese disponibili per tre diverse velocità
di impatto, dopo una serie di simulazioni siamo risaliti a ritroso ai
parametri di rottura di Mohr cercando il miglior fitting fra la curve
velocità-tempo prodotte numericamente e quelle sperimentali. Dall’analisi
delle curve possiamo affermare che il modello proposto coglie, in maniera
soddisfacente, la fase di schiacciamento del materiale. La fase di rimbalzo
del penetratore, in tutti tre i casi di velocità di impatto, viene colta in
maniera non del tutto esatta con una sovrastima della velocità di rimbalzo.
Nonostante i ripetuti tentativi di simulazione con parametri di rottura
86
diversi, abbiamo concluso che il best fitting richiedeva una calibrazione
più accurata dei parametri di Mullins. L’analisi delle mappe di
deformazione prodotte numericamente danno altresì conferma che il
criterio di rottura di Mohr ipotizzato è corretto. Sulla parte più periferica
del provino infatti, non essendoci l’azione contenitiva di un vincolo che
promuove una certa compressione idrostatica, il materiale abbassa la
propria resistenza e va in crisi a causa di deformazioni da taglio. La rottura
che sopraggiunge in questi casi è una tipica rottura fragile e il modello
implementato ne ha colto, in maniera sufficientemente accurata, i tratti
tipici.
87
Riferimenti bibliografici:
Characterization of hyperelastic rubber-like materials by biaxial
and uniaxial stretching tests based on optical methods (Sasso,
Amodio);
Costitutive modelling of large strain time-dependent behaviour of
elastomers (Bergstrom, Boyce);
Large elastic deformation of isotropic materials (Rivlin);
Modellazione costitutiva e analisi numerico sperimentale del
comportamento a impatto di schiume di pvc (Sasso, Lattanzi);
Modelling impact response of agglomerated cork (Sousa);
Static and dynamic characterization of agglomerated cork and
related sandwich structures (Sasso, Sarasini);
Testing Elastomers for Hyperelastic Material Models in finite
element Analysis (Axel);
The viscoelastic property of cork (Mano);
Non-linear elastic deformations (Ogden);
Non-linear finite element for continua and structure (Belytschko);
Polymer engineering science and viscoelasticity (Brinson)
Scienza delle costruzioni Vol.1 (Baldacci);
Manuale di Abaqus 2021
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