Targetti Tamborini

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. Globalizzazione, squilibri e crisi

Chapter · January 2009

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1. Globalizzazione, squilibri e crisi
Ferdinando Targetti
Roberto Tamborini

La crisi finanziaria innescata dalla sovraesposizione degli istituti di


prestito immobiliare negli Stati Uniti nel 2007 e le minacce di reces-
sione mondiale sono solo gli elementi più eclatanti di un quadro eco-
nomico internazionale irto di difficoltà e di tensioni in atto da assai
più lungo tempo: gli squilibri dei pagamenti tra le aree del mondo,
l’andamento sempre più divergente tra euro e dollaro, il ruolo pro-
rompente ma ancora incerto e indefinito dei paesi emergenti dell’A-
sia e dell’America Latina sulla scena mondiale, la debolezza delle isti-
tuzioni di controllo e regolazione di mercati finanziari e delle politi-
che economiche.
Lo scopo di questo capitolo è di evidenziare le connessioni tra i
global imbalances del sistema mondiale e la crisi finanziaria. Quando
le polveri delle macerie si saranno posate, probabilmente si vedrà che
questa vicenda racchiude in sé tutte le luci e le ombre della nostra era
globale. Da un lato, le enormi opportunità di accesso alla finanza fino
ai settori meno abbienti della società (i quali ne sarebbero effettiva-
mente i più bisognosi) grazie alla moltiplicazione degli strumenti di
diversificazione e trasformazione del rischio anche su scala geografica
(Shiller, 2008). Non era forse bello e giusto dare finalmente anche
alle masse precarie una casa, un’automobile e una carta di credito,
sganciarne il tenore di vita dalla miseria dei salari globalizzati, spar-
gendone i rischi sul resto del mondo che se li può permettere? Dal-
l’altro, le altrettanto enormi difficoltà, anche tecniche e concettuali, di
gestire in maniera appropriata una catena del rischio sempre più lun-
ga, ramificata e complessa, sempre meno trasparente, misurabile,
accessibile a organi di controllo e di regolazione imprigionati nella
gabbia preglobale dello stato nazione.
La lettura in chiave di «sogno americano» (infranto?) dei mutui
subprime si collega al dossier dei global imbalances in quanto i flussi
2 oltre lo shock

finanziari internazionali sottostanti ai prestiti immobiliari americani,


prevalentemente interni, erano uno dei tanti affluenti nell’imponente
fiume di denaro mondiale che senza soste allevia la sete finanziaria
dell’economia americana da un quarto di secolo a questa parte. È
questo il fulcro dell’analisi della crisi finanziaria e dei suoi molteplici
effetti, che intendiamo proporre in questo capitolo.

1. Squilibri macroeconomici globali

1.1. Qual è il problema?

Il termine global imbalances sta a indicare persistenti squilibri dei


pagamenti internazionali tra diverse aree del mondo. La Tabella 1 dà
un’idea del problema in termini di saldi di conto corrente (esporta-
zioni – importazioni di merci e servizi, e pagamenti di redditi e inte-
ressi). Per oltre tre decenni, dalla fine degli Accordi di Bretton
Woods nel 1971, si sono consolidati e ampliati due principali fattori
di squilibrio. Il primo è il forte avanzo strutturale dei paesi esportato-
ri di petrolio concentrati in Medio Oriente. Il secondo è il crescente
disavanzo degli Stati Uniti, i quali sono in rosso ininterrottamente
dal 1982. Nel 2007 il disavanzo di parte corrente ha superato i 900
miliardi di dollari, circa il 6 per cento del PIL.

Tabella 1 SALDI DI CONTO CORRENTE, % PIL

1980 1985 1990 1995 2000 2007

Giappone –1 3,8 1,4 2,1 2,6 4,5


Stati Uniti 0,1 –2,8 –1,4 –1,5 –4,3 –5,7
Area euro –2.6 –0,3 –0,9 1,5 –0,6 –0,2
Asia emergente –1 –2,8 –1,2 –2,3 1,7 6,9
Medio oriente 19,6 –0,1 1,3 0,3 11,4 16,7

Fonte: International Monetary Fund (2007).

I fornitori degli Stati Uniti sono principalmente due, entrambi al di


là del Pacifico. Primo, in ordine cronologico, il Giappone. Negli ulti-
mi quindici anni i paesi asiatici emergenti (India, Cina, Sud-Est), che
globalizzazione, squilibri e crisi 3

si sono inseriti nel commercio mondiale e hanno adottato modelli


tirati dalle esportazioni. Gli Stati Uniti hanno preso ad assorbire, in
condizioni di cambio stabile, quantità crescenti di prodotti asiatici a
basso costo, che hanno mantenuti bassi i salari interni e l’inflazione. I
paesi esportatori (Europa inclusa, pur mantenendo un sostanziale
equilibrio di conto corrente) hanno goduto a loro volta di un lungo
periodo di traino delle proprie esportazioni da parte della «locomoti-
va» americana, in un contesto di moderazione di prezzi e salari. Il
commercio mondiale è cresciuto a ritmi elevati, e così il reddito pro-
capite di numerosi paesi che hanno colto la sfida della globalizzazio-
ne. Essendosi collocati in una posizione di esportatori netti, e di
accumulatori di riserve valutarie, questi paesi hanno evitato i rischi
finanziari della globalizzazione, che avevano colpito duramente i
neo-globalizzati del decennio precedente. I temuti funzionari del
Fondo monetario internazionale (FMI) hanno goduto di un lungo
periodo di riposo e di riflessione (e forse anche di accidia).
I macroeconomisti (specialmente americani) hanno definito il
decennio di fine secolo The Great Moderation (il termine si richiama a
due infausti precedenti storici, The Great Depression degli anni ’30 e
The Great Inflation degli anni ’70). Si è dibattuto sui meriti: una serie
di favorevoli circostanze storiche oppure il successo delle ricette di
politica economica prodotte dai macroeconomisti stessi e attuate con
perizia dalla due maggiori autorità monetarie mondiale, la Riserva
federale americana (sotto la guida di Alan Greenspan, acclamato
come miglior banchiere centrale del secolo) e la neonata Banca cen-
trale europea (BCE)? Poco si è dibattuto sulle ombre, dietro le luci,
della scena mondiale fin de siecle, sulla sua solidità e sostenibilità di
lungo termine.
Il problema è che gli squilibri dei pagamenti internazionali, su cui
si è retta la Great Moderation, hanno numerosi effetti collaterali, che
minano la stabilità economica mondiale. Il più importante riguarda
la loro contropartita finanziaria. Un paese con un persistente disa-
vanzo di parte corrente, come gli Stati Uniti, tipicamente ha anche
un afflusso di capitali finanziari dal resto del mondo. A loro volta,
questi ultimi sono il risultato di emissioni di titoli (azioni, obbliga-
zioni pubbliche e private, ecc.) acquistati da soggetti esteri. In sinte-
si: un disavanzo di parte corrente comporta un aumento netto del
debito estero.
4 oltre lo shock

Figura 1 SALDI DI CONTO CORRENTE E POSIZIONE PATRIMONIALE ESTERA


DEGLI STATI UNITI, 1982-2006 (MILIARDI DI DOLLARI)

Fonte: International Monetary Fund (2007).

La posizione patrimoniale netta verso l’estero degli Stati Uniti è


diventata negativa dal 1989. Nel 2007 erano il paese con il più alto
passivo netto, oltre 2600 miliardi di dollari, pari a quasi il 20 per cen-
to del PIL (secondo il FMI; le cifre però sono molto controverse).
Per un confronto internazionale omogeneo si può prendere a rife-
rimento il PIL mondiale, come in Figura 2. Gli Stati Uniti sono il
debitore primario con quasi il 10 per cento del PIL mondiale, seguiti
dalla Unione monetaria europea (UME) con circa il 3 per cento. I
creditori globali sono i paesi petroliferi, il Giappone e i paesi emer-
genti asiatici. Se si esclude il Giappone, si osserva il noto paradosso
per cui la globalizzazione ha fatto sì che i paesi in via di sviluppo sia-
no diventati creditori dei paesi ricchi anziché il contrario.
In ultima analisi, la sostenibilità di uno squilibrio internazionale
riguarda la capacità del paese in disavanzo di far fronte ai propri
impegni di pagamento in conto capitale, stante il fatto che, come è sta-
to spiegato, tale paese vede crescere il proprio debito estero e i relati-
vi pagamenti d’interessi. Come reagiscono i mercati finanziari, segna-
tamente i creditori del paese, a questa prospettiva? La forza intrinse-
globalizzazione, squilibri e crisi 5

Figura 2 CREDITORI (+) E DEBITORI (–) GLOBALI, 2007 (% DEL PIL MONDIALE)

Fonte: F. Targetti, A Fracasso (2008), p. 260.

ca dell’economia reale americana, la sua illimitata credibilità finanzia-


ria, il beneficio che i suoi creditori hanno ricevuto grazie alla conti-
nua espansione della domanda americana per le loro merci e i loro
risparmi, sono fattori che hanno lungamente attenuato la percezione
del problema e la ricerca di soluzioni. Tuttavia, come nel caso dei ter-
remoti, il fatto che l’accumulazione dello squilibrio sia lenta, e la
manifestazione del fenomeno di «aggiustamento» possa essere molto
distante nel tempo, non fornisce una buona ragione per ignorare il
problema. Non sappiamo quando, ma sappiamo che succederà. Anzi,
la prima forte scossa è già arrivata, come vedremo meglio in seguito.

1.2. Cause e (mancati) rimedi

L’individuazione delle cause degli squilibri macroeconomici globali è


materia complessa e dibattuta. In linea generale, e sufficientemente
semplice, possiamo dire che si determina un sistema di prezzi delle
merci, dei costi dei fattori produttivi, dei tassi d’interesse e dei tassi di
cambio tali per cui un paese («Stati Uniti») domanda più risorse
(consumi e investimenti privati, spesa pubblica) di quante ne produ-
6 oltre lo shock

ce, a fronte di un altro («Cina») che produce più risorse di quante ne


domanda. La contabilità nazionale di «Stati Uniti» mostra anche che
il saldo finanziario del settore privato (risparmi - investimenti) è infe-
riore al fabbisogno finanziario del settore pubblico (spesa pubblica -
gettito fiscale). Il contrario avviene in «Cina». Se i due paesi fossero
chiusi e autarchici, i dati che hanno creato il problema di squilibrio
macroeconomico interno dovrebbero modificarsi in modo da riequili-
brare domanda e offerta di beni (e i saldi finanziari privato e pubbli-
co) in ciascun paese. Alla fine, «Stati Uniti» dovrebbe ridurre la pro-
pria domanda (risparmiare di più) e/o aumentare l’offerta, viceversa
la «Cina». Dunque attenzione: lo squilibrio internazionale è la mani-
festazione di un sottostante squilibrio macroeconomico interno.
Sebbene molto semplificato questo schema concettuale ci consente
d’individuare gli elementi critici sottostanti agli squilibri internazio-
nali tratteggiati in 1.1:

• lo squilibrio macroeconomico interno del modello americano di


crescita basata sul debito;
• l’elevato risparmio e la lentezza della crescita di salari e consumi
interni e di spesa pubblica sociale in paesi emergenti in avanzo
(Cina);
• l’insufficiente dinamica della domanda interna nei paesi maturi
(UME);
• l’avanzo strutturale di paesi che esportano beni energetici a
domanda rigida (paesi del Golfo e Russia).

Nella visione classica, l’apertura dell’economia al resto del mondo


ha vantaggi duraturi di tipo microeconomico (vantaggi della specializ-
zazione produttiva, maggior disponibilità, varietà ed economicità di
beni di consumo), ma non può posporre all’infinito l’aggiustamento
degli squilibri macroeconomici globali. Tuttavia, questi dovrebbero
correggersi grazie alle forze del libero mercato. In un sistema valu-
tario con tassi di cambio fluttuanti, come quello esistente dal 1971,
la forza principale dovrebbe essere proprio la variazione di lungo
periodo del valore delle valute, e precisamente la svalutazione per i
paesi in disavanzo e la rivalutazione per quelli in avanzo. Questa
forza, però, non ha operato in misura sufficiente e, talvolta, in modo
sbagliato.
globalizzazione, squilibri e crisi 7

La Figura 3 mostra l’andamento del tasso di cambio reale multila-


terale per le tre maggiori aree commerciali globali, Stati Uniti, Cina e
Unione Monetaria Europe con anno base 1989.

Figura 3 TASSO DI CAMBIO REALE (MULTILATERALE) DI STATI UNITI, CINA, UME,


1989-2007 (1989 = 100)

Fonte: International Monetary Fund (2007).

Questo indicatore depura il tasso di cambio nominale dell’inflazione


dando una misura sintetica dell’andamento della competitività di
prezzo delle merci di un paese. Va tenuto presente che la linea in sali-
ta indica una svalutazione reale (svalutazione nominale e/o minore
inflazione) e quindi un guadagno di competitività di prezzo dei pro-
dotti nazionali rispetto a tutti gli altri partner commerciali. La scelta
dell’anno base 1989 consente di visualizzare l’andamento dei cambi
reali nel periodo di «emersione» della Cina come esportatore netto a
fronte degli Stati Uniti come importatore netto mondiale.
Le osservazioni principali sono:

• se si esclude la forte fluttuazione della Cina all’inizio del perio-


do, legata all’apertura dell’economia agli scambi internazionali, i
movimenti assoluti dei tre tassi reali non sono stati molto pro-
8 oltre lo shock

nunciati: le differenze tra valore iniziale e finale sono minori del


20 per cento in 17 anni;
• nel periodo fino al 2000, il dollaro ha seguito un trend di rivalu-
tazione reale, mentre l’euro e lo yuan cinese ne hanno avuto uno
di svalutazione reale: ossia queste valute sono andate nella dire-
zione sbagliata;
• solo nel periodo più recente (dopo il 2000-01) il dollaro e l’euro
hanno invertito e corretto i rispettivi trend; ciononostante,
rispetto all’inizio del periodo a) il tasso reale della Cina rimane
sottovalutato, b) quello degli Stati Uniti rimane sopravvalutato.

La mano tremante e fallace dei mercati valutari non è stata certo aiu-
tata dalla mano delle autorità di politica economica. È noto che la
Cina ha mantenuto la sua valuta artificialmente sottovalutata facendo
pegging sul dollaro per non frenare la crescita tirata dalle esportazioni
(e la migrazione dalle campagne alle città). Ma è altrettanto noto che
gli Stati Uniti e la UME (le rispettive banche centrali) hanno aperta-
mente ignorato il tasso di cambio nella conduzione della propria
politica monetaria. La correzione di rotta di dollaro ed euro degli
ultimi due-tre anni, più consona ad alleviare il problema degli squili-
bri globali, è stata solo l’esito di politiche monetarie dettate da obiet-
tivi interni, più espansivo per la Riserva federale, più restrittivo per la
BCE.
Infine non va dimenticato che la svalutazione del cambio è sempre
solo una parte del processo di aggiustamento degli squilibri dei paga-
menti. L’altra parte è costituita dal riequilibrio tra risorse prodotte e
risorse assorbite all’interno di ciascuna area mondiale. Ricordiamo
che un paese in disavanzo è un paese che «vive al di sopra dei propri
mezzi» ossia assorbe più risorse di quante ne produce. Dunque, il
mondo all’indomani della correzione degli squilibri globali ci mostre-
rebbe una riduzione dell’assorbimento interno di risorse negli Stati
Uniti e un aumento in Europa e in Cina. Per usare una nota metafo-
ra popolare, occorrerebbe sostituire la «locomotiva» americana con
un’altra. Fino allo scoppio della crisi finanziaria, non si sono manife-
state né forze spontanee, né strategie politico-economiche in grado di
affrontare e risolvere il problema in maniera ordinata e non traumati-
ca. Ma, in questa prospettiva più generale, la crisi finanziaria, avendo
il suo epicentro negli Stati Uniti, dove sta imponendo una brutale
globalizzazione, squilibri e crisi 9

correzione degli eccessi d’indebitamento e di domanda interna,


potrebbe rivelarsi una via, disordinata e traumatica, per correggere gli
squilibri globali.

2. L’economia del debito

2.1. The Great Immoderation

In questa sezione tratteremo più da vicino uno dei fattori sottostanti


agli squilibri globali menzionati in 1.2, ossia lo squilibrio macroeco-
nomico interno degli Stati Uniti, legato all’affermarsi di una vera e
propria economia del debito. Iniziamo osservando brevemente alcuni
dati significativi.
La Figura 4 riporta i conti finanziari degli Stati Uniti dal 1980 al
2007, ossia dalla fine della Great Inflation allo scoppio della crisi
finanziaria.
Questi dati si riferiscono alle relazioni contabili finanziarie intro-
dotte sopra in 1.2 per spiegare gli squilibri macroeconomici. Da un
lato abbiamo il saldo finanziario del settore privato (risparmi - inve-

Figura 4 I CONTI FINANZIARI DEGLI STATI UNITI, 1980-2007 (% PIL)

Fonte: International Monetary Fund (2007).


10 oltre lo shock

stimenti), dall’altro quello del settore pubblico (tassazione - spesa


pubblica). La loro somma algebrica fornisce il saldo finanziario netto
del paese che, per ragioni contabili, non corrisponde esattamente ai
flussi netti di capitale registrati nella bilancia dei pagamenti. In ogni
caso, tale saldo indica se l’economia necessita di ricevere risorse
finanziarie dall’estero (saldo negativo) o se dispone di risorse ecce-
denti da trasferire all’estero (saldo positivo). Si individuano chiara-
mente quattro fasi.
1. Negli anni ’80 (le due presidenze Reagan), il settore privato ha
segnato saldi finanziari moderatamente positivi (come è tipico dei
paesi industriali maturi), ma saldi pubblici negativi di entità maggio-
re. Di conseguenza gli Stati Uniti hanno espresso un fabbisogno net-
to di risorse dall’estero per finanziare il settore pubblico (nonostante
la retorica privatistica del reaganismo). Abbiamo cioè una fase di eco-
nomia del debito pubblico.
2. Dal 1988 al 1992 (presidenza Bush sr.), il settore privato
aumenta il proprio saldo finanziario in misura sostanziale, essenzial-
mente per via di una stagnazione degli investimenti e dei consumi.
Ma ciò è appena sufficiente per finanziare il crescente indebitamento
del settore pubblico e per consentire un quasi annullamento del fab-
bisogno finanziario netto del paese.
3. Nel corso degli anni ’90 (le due presidenze Clinton), il settore
privato compie la svolta epocale verso la progressiva erosione del pro-
prio saldo finanziario, sotto la spinta del boom degli investimenti e dei
consumi della New Economy. Inizia l’era dell’economia del debito pri-
vato. Il governo federale, sfruttando la fase d’intensa crescita econo-
mica, attua una incisiva correzione dei conti pubblici, azzerando il
proprio fabbisogno finanziario in concomitanza con l’azzeramento
del saldo privato. Tuttavia, l’esplosione dell’economia del debito pri-
vato è irrefrenabile e, malgrado gli avanzi di bilancio pubblico del
1998-2000, il decennio si chiude con un fabbisogno finanziario netto
dall’estero che sfonda la soglia del 3 per cento del PIL.
4. Con gli anni 2000 (le due presidenze Bush jr.), l’economia del
debito privato, dopo la battuta d’arresto della crisi del 2001-02,
riprende la sua corsa, mentre si riaccende quella del debito pubblico:
è la fase del debito globale. Una situazione del tutto anomala per un
paese sviluppato e maturo, in cui entrambi i settori interni creano sal-
di finanziari negativi e quindi un forte fabbisogno di finanziamenti
globalizzazione, squilibri e crisi 11

esteri, che supera il 6 per cento del PIL (cioè raddoppia in sei anni).
Questo, inoltre, avviene dopo oltre due decenni d’indebitamento con
l’estero, aggravandone significativamente la sostenibilità finanziaria.

2.2. Debito pubblico e debito privato

Per la gran parte del quarto di secolo rappresentato nella Figura 4, il


governo federale degli Stati Uniti ha creato debito, ponendosi come
principale accaparratore di risorse finanziarie dal resto del mondo.
Giova ricordare che i disavanzi fiscali più significativi si sono regi-
strati per ragioni analoghe, essenzialmente extra-economiche: l’escala-
tion della spesa tecnico-militare per chiudere vittoriosamente la guer-
ra fredda con il blocco sovietico (1982-86), l’intervento militare in
Iraq (1991-92), le guerre in Afghanistan e Iraq dopo il 2001. Dunque
possiamo dire che gli Stati Uniti hanno realizzato a più riprese
un’imponente operazione di global war-finance indebitandosi col
resto del mondo. È importante tener presente questo aspetto dell’in-
debitamento pubblico americano, in quanto il finanziamento delle
imprese belliche presenta aspetti del tutto particolari, che però non
possiamo affrontare qui (vedi Tamborini, 2006).
Se un disavanzo pubblico rappresenta una condizione piuttosto
comune tra i paesi avanzati, merita una riflessione più approfondita
l’esplosione dell’economia del debito privato negli Stati Uniti. Il pun-
to critico naturalmente non riguarda le imprese, ma le famiglie, le
quali tipicamente costituiscono la fonte primaria di risorse finanzia-
rie. Come detto sopra, la svolta avviene intorno alla metà degli anni
’90. Si tratta di un fenomeno assai complesso, che qui possiamo
ricondurre a due spinte principali.
La prima è venuta dalla deregolazione dei mercati finanziari, in
particolare degli intermediari bancari e non bancari, la quale ha pro-
dotto un’espansione dell’offerta di strumenti di «debito per famiglie» a
costi decrescenti (naturalmente anche grazie alle condizioni generali
della politica monetaria). La seconda spinta è sorta dal lato della
domanda di debito, in cui un ruolo critico è stato svolto dal forte
peggioramento della distribuzione del reddito.
Globalizzazione, progresso tecnico e outsourcing nei paesi indu-
strializzati, e negli Stati Uniti in particolare, hanno redistribuito il
12 oltre lo shock

reddito a favore dei profitti e di alti redditi da lavoro. Nonostante


questa redistribuzione, e la conseguente stagnazione del reddito delle
famiglie delle classi medie, nel periodo 1990-2007 il consumo aggre-
gato è cresciuto al tasso medio annuo del 3,4 per cento a fronte del
2,9 per cento del PIL reale. Questo divario sarebbe sostenibile per un
lungo periodo se il consumo fosse alimentato da redditi non da lavo-
ro. Certamente questa componente è stata significativa per le fami-
glie americane, grazie alla loro progressiva partecipazione ai mercati
finanziari e ai loro ingenti rendimenti fino al 2001. Tuttavia, le classi
medie con redditi da lavoro stagnanti prevalentemente consumavano
a debito: l’aspetto più emblematico è stato lo sviluppo delle carte di
credito e la politica bancaria dei mutui a debitori incapaci di ripagare
il debito sulla base del flusso di reddito, ma concessi sulla base della
presunzione che la garanzia derivasse dalla rivalutazione del bene
acquistato a debito (carte di credito e mutui sono stati i due principa-
li attivi bancari oggetto di cartolarizzazioni su cui torneremo in
seguito). Nel 2000 il rapporto passività finanziarie/PIL delle famiglie
americane ha raggiunto il 77,4 per cento: era al 50,6 per cento nel
1980. Dunque il ritmo elevato del consumo aggregato americano ha
avuto una significativa componente debitoria. La sostenibilità del
debito imponeva una crescita futura del reddito maggiore di quella del
consumo ossia una delle tre possibilità: una riduzione del trend di
consumo, un sentiero di crescita più elevato dell’economia, o un
gigantesco default del settore privato.
È in questo contesto mondiale, per così dire preparatorio, che si è
sviluppata la crisi bancaria e finanziaria del 2007 a causa di alcuni
detonatori dell’esplosione del debito privato: la perdita di controllo
della catena del rischio generata dalle cartolarizzazioni dei prestiti
bancari, le insufficienze e inefficienze dei sistemi di rating e vigilanza,
una politica monetaria troppo permissiva troppo a lungo. Su questi
temi rimandiamo ad altri capitoli del libro; qui passiamo a esaminare
le sfide presenti e future, soprattutto per le politiche economiche.

3. Che fare?

Il sistema finanziario mondiale è risultato molto più fragile del previ-


sto, perché se da un lato ha consentito di finanziare a lungo enormi
globalizzazione, squilibri e crisi 13

squilibri e di ripartire il rischio a livello mondiale, d’altro lato ne ha


ignorato la sostenibilità di lungo termine, la necessità e i costi dell’ag-
giustamento. Come previsto dagli studi sul comportamento umano, a
una valutazione irrazionale è seguito un sovraggiustamento di segno
opposto. Di colpo è venuto a mancare l’ossigeno a parti del sistema
quando si è incrinata la fiducia, generando default a catena sul debito
e crisi bancarie. Tuttavia gli eventi del 2007-08 non sono un fatto
inedito. È ben chiaro che la storia del capitalismo è costellata di crisi
finanziarie. Vi è stato e vi è chi pensa che, quindi, il sistema sia
intrinsecamente sbagliato, come chi pensa esattamente l’opposto,
tanto da propendere per un atteggiamento assai poco interventista
(«passare a raccogliere i cocci», secondo il detto americano che, pare,
piacesse al Ben Bernanke pre-2008; vedi Cassidy (2008)).
Uno degli effetti collaterali che si annunciano di lunga durata del-
la crisi attuale riguarda la politica economica, sia di tipo microecono-
mico-regolativo, che di tipo macroeconomico. Se l’attivismo (tenden-
te al panico) dei responsabili di governo di tutto il mondo può essere
sospetto, la riflessione è ormai aperta anche ai più alti (ed insospetta-
bili) livelli accademici, se si escludono alcune frange per le quali la
priorità rimane la stessa degli anni ’70, ossia liberare e difendere i
mercati dalla politica (Alesina e Giavazzi (2008)). Certo, il problema
di fondo rimane sempre lo stesso e sempre complesso: l’economia di
mercato richiede un appropriato sistema di istituzioni, regole (obbli-
ghi e divieti) e interventi pubblici, per impedire e correggere ineffi-
cienze e iniquità che si creano allorché la ricerca del guadagno si
combina coi limiti della razionalità umana e gli eccessi del potere di
mercato. La natura ed estensione dell’intervento pubblico possono
variare in contesti ed epoche diverse. Ci sono pochi dubbi che venia-
mo da una fase storica in cui esso è stato assai limitato, se non altro
rispetto al passato. La tesi suggestiva secondo cui l’immane market
failure finanziario a cui stiamo assistendo sia in realtà un policy failure
dovuto agli evidenti errori compiuti da (de-)legislatori e (de-)regola-
tori, deve essere intesa come uno stimolo a ripensare idee, ruoli e
compiti di questi soggetti, non già per concludere che è meglio
comunque lasciar correre (lasser faire) e «passare a raccogliere i cocci».
Inizieremo con una breve rassegna degli interventi adottati per fron-
teggiare la crisi in atto, per passare infine ad alcune indicazioni per il
futuro.
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3.1. Cosa abbiamo imparato finora

Gli interventi di politica economica per fronteggiare la crisi si sono


sviluppati per cerchi concentrici, come la propagazione della crisi, dal
settore bancario all’economia reale, dagli strumenti monetari e finan-
ziari a quelli macroeconomici, dagli Stati Uniti al resto del mondo.
Nell’anno compreso tra autunno 2007 e 2008, banche centrali e
governi, seppur in maniera incerta, confusa e sempre in ritardo sull’a-
vanzata della crisi, hanno dispiegato un vasto arsenale di armi con-
venzionali e non convenzionali.
In prima battuta ci è cercato di porre un argine alla crisi bancaria,
prima negli Stati Uniti e poi in Europa, con interventi di tre tipi:

• il primo ha riguardato l’immissione di liquidità in ottemperanza


alla funzione di prestatrice di ultima istanza svolta dalla banca
centrale nei confronti delle banche;
• il secondo intervento è stato attuato (da banche centrali e da
governi) per ridurre il peso di titoli in possesso delle banche non
facilmente liquidabili sul mercato;
• il terzo è stato attuato (con interventi in vario modo dei gover-
ni) per aumentare la capitalizzazione delle banche.

Su ciascuno di questi interventi molto si è scritto e detto; e il lettore


ne troverà materia di riflessione nel prosieguo del volume. Qui fare-
mo invece alcune riflessioni sulle politiche macroeconomiche, in
quanto esse ci ricondurranno al nostro tema conduttore: gli squilibri
globali che preesistevano alla crisi e che ne hanno costituito il brodo
di coltura, ma che rischiano di ripresentarsi se non di peggiorare.
Sebbene i ripetuti e drammatici crolli borsistici dell’autunno 2008
sembrano essersi arrestati, non è ancora possibile affermare che la
stabilizzazione finanziaria sia stata raggiunta. Due sono le lezioni che
si possono trarre su questo fronte. La prima è che la ricostruzione
della fiducia, il bene pubblico essenziale per il funzionamento di que-
sti mercati, si è rivelata un’impresa durissima e costosissima. La
seconda è che, per richiamare due grandi economisti, la fiducia non
ha solo la dimensione microeconomica alla Akerlof – la garanzia che
il mercato non è invaso da «bidoni» e «bidonatori» – ma anche quella
macroeconomica alla Keynes. Detto in una battuta: non c’è banca o
globalizzazione, squilibri e crisi 15

impresa che possa prosperare se non prosperano i suoi clienti. Dal


punto di vista sistemico, questo principio basilare dipende dalle poli-
tiche macroeconomiche, fiscale e monetaria insieme, più che dall’in-
gegneria finanziaria. Secondo molti osservatori, i crolli borsistici del-
l’autunno 2008 sono stati dettati da una crisi di questa dimensione
della fiducia. Tuttavia, se si tratta di resuscitare il vecchio Keynes, la
sola leva monetaria non è sufficiente, occorre una forte manovra
fiscale, ben mirata e concertata a livello europeo. Manovra ben mira-
ta significa concentrata sui soggetti a valle del sistema bancario e finan-
ziario, con misure consistenti e non transitorie.
Negli Stati Uniti, fino al varo del Piano Paulson del settembre
2007, tutto il peso della stabilizzazione macroeconomica è stato sulle
spalle della banca centrale, la quale però ha faticato a capire l’entità
del problema, a invertire la rotta del rialzo dei tassi che aveva intra-
preso Bernanke all’inizio del suo mandato, a passare dalla fornitura di
liquidità al vero e proprio abbattimento dei tassi d’interesse. La poli-
tica fiscale è rimasta passiva scontando un deficit elevato a causa del-
le spese militari e di sgravi fiscali inutili alle fasce di reddito elevato.
Il Piano Paulson contiene provvedimenti fiscali a favore di famiglie e
imprese, ma sono stati giudicati troppo timidi e limitati rispetto alle
risorse destinate alla pura e semplice rimozione della spazzatura dalle
banche.
Su questo terreno gli Stati Uniti dimostrano ora maggiore volontà
di azione e rapidità di esecuzione. Il piano del neo-presidente Obama
consiste di 800 mld di dollari di fiscal stimulus (tagli fiscali per i meno
abbienti di 310 mld e investimenti in grandi progetti infrastrutturali
e in assistenza sociale). Il piano di Obama riguarda sia misure a breve
termine di sostegno sociale ai cittadini maggiormente colpiti dalla
crisi, sia un programma in infrastrutture che produrrà i suoi effetti
anche sulla crescita di lungo periodo, è il maggior piano di investi-
menti pubblici dagli anni ’50. È in discussione se il piano debba con-
templare aiuti all’industria dell’automobile e sotto quali forme e a
quali condizioni (investimenti in tecnologie per la produzione di
mezzi di trasporto ecologici).
Il problema del deficit passa in secondo piano: si stima che in Usa
il deficit interno raggiungerà, con gli aiuti alle banche, circa 1200 mld
di dollari (più dell’8 per cento del PIL). Questo sforzo, pur rilevante,
viene da alcuni (Paul Krugman) valutato insufficiente per l’assorbi-
16 oltre lo shock

mento della disoccupazione creata in un solo anno di crisi. Va inoltre


tenuto conto che mentre nella UE continentale il settore pubblico
rappresenta in media una quota superiore al 40 per cento del PIL,
negli Stati Uniti rappresenta intorno al 30 per cento. Tanto più alto è
il peso della spesa pubblica e tanto più nel sistema è incorporato un
ammortizzatore automatico in quanto la spesa pubblica cresce quan-
do il reddito cala, mentre quella privata cala al calare del reddito.
Quindi va tenuto conto che negli Stati Uniti, a fronte di una crisi da
domanda, l’intervento di sostegno ai consumi privati deve essere, coe-
teris paribus, maggiore.
L’Europa sul fronte macroeconomico non ha fatto nulla di sostan-
ziale, e probabilmente qualcosa di sbagliato nella politica monetaria.
In parte per via del perdurare dell’illusione che non fossimo coinvolti
nella crisi, in parte, più profonda, per via dei limiti strutturali delle
politiche macroeconomiche, dovuti all’asimmetria tra una banca cen-
trale unica totalmente autoreferenziale e autistica, e i governi nazio-
nali vincolati dal Patto di Stabilità e Crescita (PSC), e prigionieri
degli interessi nazionali. Mai come ora i frutti del «deficit di Europa»
coltivati dai populisti euroscettici risultano evidenti e drammatici.
La BCE fino a settembre 2008 ha mantenuto una politica tesa al
contrasto dell’inflazione, per altro cadendo in contraddizione tra l’ec-
cessiva durezza sul piano dei tassi di interesse, e l’acquisizione, nella
sua politica di offerta di liquidità, di attivi di dubbia qualità dalle
banche europee. Si sono potute misurare anche le incongruenze del
non coordinamento transatlantico, in una situazione in cui a poco
serve una politica monetaria più severa della BCE se, in presenza di
una politica monetaria espansiva della Fed, le banche europee posso-
no usare una leva finanziaria concessa loro da liberi movimenti di
capitale. La BCE si è resa disponile a una riduzione concertata dei
tassi d’interesse solo nell’ottobre 2008, in maniera timida e tardiva.
In campo fiscale, l’Europa presenta due problemi specifici che
richiedono un elevato grado di coordinamento. Per evitare defezioni a
causa dei vincoli del PSC (chi non vuole incorrere nelle sanzioni del
Patto creando un disavanzo, aspetta che siano altri ad attuare la
manovra in modo da goderne i frutti) occorre che a) la manovra sia
attuata in forme e modalità compatibili con esso, ossia, se necessaria,
una sua temporanea sospensione/revisione, concordata con la Com-
missione, b) la manovra risponda a finalità, tempi e criteri ben precisi.
globalizzazione, squilibri e crisi 17

Queste indicazioni sono state apparentemente recepite nel Piano


di Ripresa Economica Europea (European Economic Recovery Plan,
ERP, come il Piano Marshall!) varato dalla Commissione europea a
fine ottobre. Esso prevede un impulso fiscale di 1.5 per cento di PIL
(1200 miliardi di euro), un allentamento concordato del PSC e una
serie di linee guida per i governi. Il fatto è che si tratta, appunto, di
linee guida, non di una serie di provvedimenti effettivi, che rimango-
no invece nella discrezionalità dei governi. Se si escludono Francia e
Regno Unito, non pare che i governi degli altri maggiori paesi euro-
pei, in particolare Germania e Italia, siano intenzionati a utilizzare la
leva fiscale in maniera molto robusta; sicuramente in misura inferiore
a quanto previsto dal Piano stesso (vedi Tamborini (2008)).

3.2. Agire a tre livelli

La lezione che traiamo da questa analisi ci porta a dire che, in una


prospettiva sia di prevenzione che di stabilizzazione, occorre agire a tre
livelli: a livello statale, a livello di Unione europea, a livello mondiale.
Nuove sfide per il buon governo dell’economia. Come abbiamo detto
all’inizio di questa sezione, il nocciolo duro della crisi è stato il catti-
vo governo dell’economia, principalmente (ma non solo) negli Stati
Uniti.
Il primo terreno di sfida è naturalmente quello della regolazione
dei mercati finanziari, con misure di maggior trasparenza e responsa-
bilità bancaria. In concomitanza, occorrerà definire assai meglio l’as-
segnazione dei compiti di regolazione e vigilanza tra le diverse auto-
rità pubbliche. Sotto questo profilo l’assetto di SEC e Riserva federa-
le negli Stati Uniti si è rivelato del tutto inadeguato. Ancor peggio è
quello in seno alla UME, di cui ci occuperemo in seguito. Le banche
centrali, in ogni caso, dovranno ricomprendere nel loro quadro infor-
mativo, se non in quello operativo e d’intervento, le condizioni della
finanza privata, ora che è acclarato che le minacce alla stabilità finan-
ziaria non vengono solo dalla finanza pubblica. Il caso della UME è
emblematico: dopo che sono stati elevati alti e robusti firewalls di
protezione contro gli eccessi della finanza pubblica, l’incendio è scop-
piato nel settore privato e si è diffuso senza incontrare ostacoli resi-
stenti.
18 oltre lo shock

Ma, come detto, Il terreno di coltura di tutte le crisi finanziarie più


recenti sono gli squilibri macroeconomici globali. Dal varo degli
Accordi di Bretton Woods, gli Stati Uniti si sono distinti dagli altri
paesi per la loro volontà e possibilità di ignorare i vincoli e le conse-
guenze internazionali delle loro politiche domestiche. Ora si sono
aggiunti la UME e la Cina. Si tratta di un atteggiamento contrario ai
princìpi economici (secondo cui sono i paesi grandi, non quelli picco-
li, che non possono ignorare le ripercussioni reciproche delle proprie
politiche) ed evidentemente nocivo. L’idea che questo atteggiamento
sia consentito dalla fluttuazione dei cambi (oltretutto non praticata di
fatto dalla Cina) è semplicistica e fuorviante. Il paradigma concettua-
le adottato dalle maggiori banche centrali a partire dagli anni ’90,
strettamente delimitato al controllo ciclico di due sole variabili
domestiche, prodotto lordo e inflazione, si è dimostrato inadeguato.
La parte più critica di queste sfide risiede però nella loro dimen-
sione sovranazionale, che confligge con l’allocazione del potere e la
difesa (miope) degli interessi a livello di singole entità sovrane. È sor-
prendente la dissonanza cognitiva che si è diffusa nel mondo: quanto
più l’integrazione economica internazionale sottrae potere e rilevanza
ai singoli attori politico-economici nazionali, tanto più essi invocano
poteri e prerogative non negoziabili. Per fare cosa? Essi ingannano se
stessi e i loro elettori, a cui elargiscono promesse illusorie di difese e
protezioni locali dalle sfide globali.
Nuovi strumenti per la gestione delle crisi in Europa. In Europa le
autorità di regolazione del sistema finanziario operano a livello di
singoli stati. Non c’è un’autorità comune neppure nell’ambito dei
paesi aderenti all’euro. La BCE ha il solo scopo statutario di contene-
re l’inflazione. La crisi ha dimostrato che questo assetto è ampiamen-
te inefficiente. Quanto più le banche operano a livello mondiale, tan-
to più l’assenza di organismi sovranazionali o di forte coordinamento
nazionale di regolamentazione consente alle banche facili operazioni
di arbitraggio regolamentare. In più, le banche europee sono nella
condizione di quelle americane per dimensione e debito, ma sono
soggette alla regolamentazione di stati molto più piccoli. Basti ricor-
dare in proposito che: la Deutsche Bank ha un peso pari all’86 per
cento del Pil tedesco; la Barclays e la RBS hanno – rispettivamente –
un peso pari al 94 per cento e al 123 per cento del Pil del Regno Uni-
to; l’Ubs un peso pari al 480 per cento del Pil della Confederazione
globalizzazione, squilibri e crisi 19

Elvetica; la Fortis, che è stata salvata per l’intervento di tutti e tre gli
Stati del Benelux, aveva invece attivi pari al 254 per cento del Pil di
Belgio e Lussemburgo.
Gli stati europei si trovano in una situazione peggiore degli Stati
Uniti nel gestire la crisi. Infatti:

• la UE non dispone di un governo centrale in grado di proporre


leggi di emergenza;
• la BCE non è in grado di gestire le situazioni d’insolvenza; nes-
suno stato può chiedere il soccorso alla BCE per operazioni
straordinarie di salvataggio come quelle realizzate dalla Riserva
federale;
• le regole stringenti in tema di divieto di aiuti di stato rendono
problematiche anche operazioni dai limitati impegni finanziari;
• il PSC limita lo spazio di manovra fiscale, creando di fatto un
trade off tra consistenti operazioni di salvataggio o di nazionaliz-
zazione di banche che debbano comportare (anche se tempora-
neamente) un peggioramento del disavanzo pubblico, e politiche
di sostegno della domanda aggregata.

A causa di queste gravi deficienze istituzionali le forze politiche euro-


pee e studiosi europei sono impegnati per la definizione di nuove
regole (vedi in particolare Gross e Micossi (2008)). I princìpi dovreb-
bero seguire le linee qui riassunte.
Il PSC e il vincolo al pareggio di bilancio dovrebbe essere rivisto e
non solo allentato (si rimanda a Targetti e Tamborini (2004)).
Le regole relative agli aiuti di stato dovrebbero essere riviste alla
luce delle necessità di salvataggi bancari.
La BCE, che ha strumenti per affrontare crisi di liquidità, ma non
di insolvenza, dovrebbe poter emettere euro per fare fronte al salva-
taggio di banche site in paesi dell’area euro. Inoltre, dovrebbe dotarsi
di uno statuto per le banche della zona euro (possibilmente condiviso
anche dalle banche europee extra-euro) che svolgano la loro attività
in modo significativo in più di uno stato membro. A queste banche
dovrebbero potersi imporre requisiti comuni di capitalizzazione e
requisiti comuni di supervisione.
Un Tesoro Europeo dovrebbe essere affiancato alla BCE. Esso
potrebbe nascere dalla trasformazione nel tempo della BEI affinché:
20 oltre lo shock

a) possa emettere titoli garantiti dagli stati membri per disporre di un


fondo per operazioni di salvataggi bancari a livello europeo e sovra-
nazionalizzazioni di banche europee; b) possa emettere titoli garanti-
ti dagli stati per la realizzazione degli obiettivi di crescita, basata su
investimenti in infrastrutture e in capitale umano secondo gli obietti-
vi di Lisbona (Targetti e Tamborini (2004)).
Questa seconda attività dovrebbe avere tre scopi: dare uno stimolo
alla crescita dal lato dell’offerta; essere attuabile in momenti tali da
costituire uno strumento anticiclico; sollevare gli Stati Uniti dalla
funzione di assorbimento dell’eccesso di risparmio dei paesi emer-
genti.
Un uovo Fondo monetario internazionale. La crisi ha riacceso i riflet-
tori sulla ricerca di un «nuovo» ordine economico internazionale.
Probabilmente il pendolo sta spostandosi di nuovo verso l’idea che
ciò non sia affidabile unicamente al binomio stati nazionali (deboli) e
mercati (forti), che ha caratterizzato la fine del XX secolo. Stando al
dibattito in corso, almeno due sono gli ambiti su cui intervenire:
quello degli squilibri globali e quello della regolazione globale dei merca-
ti finanziari. Come risulta chiaro da quanto abbiamo scritto, esistono
ottime ragioni per entrambe le missioni. È da sottolineare il fatto
che, mutatis mutandis, si tratta sostanzialmente delle stesse missioni
che a Bretton Woods vennero affidate al FMI.
Ora il Fondo non fa e non è più nulla di ciò per cui fu concepito
allora, né di ciò per cui è stato via trasformato. Dagli anni ’70 non è
più il fornitore di prestiti ai paesi sviluppati in difficoltà di bilance dei
pagamenti. Dagli anni 2000 non è più il fornitore di prestiti condi-
zionati alle economie emergenti in difficoltà finanziarie, le quali ora
possono ricorrere ai fondi sovrani che sono concessi con minori vin-
coli. Ma, come ha scritto Barry Eichengreen, occorre evitare l’illusio-
ne che una nuova reincarnazione del Fondo possa essere il deus ex
machina del nuovo ordine internazionale (come non lo fu nel caso
dell’ordine internazionale post-bellico).
Per quanto riguarda la regolazione globale dei mercati finanziari è
difficile immaginare che il Fondo possa disporre di un potere d’indi-
rizzo legislativo, o di coordinamento sovranazionale, o anche solo di
avvertimento e raccomandazione, più esteso ed efficace di quello
degli organismi già esistenti, come la Banca dei regolamenti interna-
zionali e il Financial Stability Forum. Tuttavia, il Fondo ha le caratte-
globalizzazione, squilibri e crisi 21

ristiche e le competenze per monitorare l’andamento dei mercati


finanziari internazionali e segnalarne le perturbazioni.
Sul fronte degli squilibri macroeconomici il ruolo del Fondo può
essere più chiaro e definito, e più consono alla sua storia e al suo pro-
filo:

• svolgendo un’azione di monitoraggio dell’evoluzione macroeco-


nomica globale, delle sue compatibilità o incompatibilità;
• identificando gli andamenti desiderabili di lungo termine dei
tassi di cambio sui cui far convergere politiche monetarie e
aspettative degli operatori;
• identificando e raccomandando quali politiche nazionali mette-
re in pratica per non pregiudicare la stabilità esterna di ciascun
paese e quella del sistema complessivo;
• mantenendo un proprio ambito d’intervento attivo come «inter-
mediario finanziario»; i paesi in avanzo dovrebbero contribuire
con la maggioranza dei loro surplus alla dotazione di fondi del
FMI, il quale sarebbe in condizione di fronteggiare gli attacchi
speculativi contro i paesi in attivo e quelli in passivo e contro le
istituzioni finanziarie.

Se la missione del Fondo dovesse essere ridefinita in tal senso, tale


istituzione si troverà presto a fronteggiare un compito di enorme dif-
ficoltà. Una ragione, di non semplice rimozione, anzi probabilmente
inevitabile, è che le politiche macroeconomiche dei maggiori paesi
coinvolti nella crisi, in particolare quelle fiscali e in particolare degli
Stati Uniti, non sono consone all’aggiustamento degli squilibri globa-
li. A questo fine, il piatto forte delle politiche espansive dovrebbe
essere servito in Asia (e in alcuni paesi europei, se non tutti), piutto-
sto che in America. Stante il ritorno in auge di Keynes, occorrerà
anche ricordare che questo autore concepì il deficit spending come un
sostituto del private spending, cioè un mezzo per riassorbire un eccesso
di risparmio interno rispetto agli investimenti. Come abbiamo visto, la
crisi americana è nata esattamente per la ragione opposta. Si può rite-
nere che la distruzione di buona parte dei patrimoni finanziari di fat-
to stia facendo crollare la domanda aggregata privata al di sotto della
capacità produttiva in modo da ricostituire risparmi e patrimoni. Ma
rimane pur sempre il dubbio di quale sia la ratio, e di quali saranno
22 oltre lo shock

gli effetti, di aggiungere altro debito pubblico a un già colossale debi-


to privato. È possibile che vi sia un riequilibrio mondiale senza che
gli Stati Uniti accettino una riduzione della loro domanda interna di
risorse? La risposta è no. Ma è anche impensabile chiederlo loro sen-
za che qualcun altro li aiuti ad alleviare i costi dell’aggiustamento,
dando un forte contributo a mantenere elevata la domanda mondiale.
Anche questo principio basilare fa parte del bagaglio con cui Keynes
arrivò a Bretton Woods, e che cercò di lasciare in consegna proprio al
FMI.
Detto questo, siamo consapevoli che il problema fondamentale
non è che le autorità nazionali manchino di una sede istituzionale in
cui coordinarsi, ma la loro volontà politica di farlo. È credibile la pro-
messa (poniamo il caso degli Stati Uniti, ma in prospettiva anche del-
la Cina) di sottomettere questa volontà alle indicazioni o raccoman-
dazioni di un ente sovranazionale, pur contribuendo alla sua fonda-
zione e al suo mantenimento? Finora, paradossalmente, l’occupazione
delle prime file di fondatori e finanziatori di organismi internaziona-
li è stato l’espediente per sottrarsi alla loro giurisdizione.
Una precondizione minimale perché il Fondo sia capace di coor-
dinare e monitorare le varie politiche nazionali, è che venga visto
come un’autorità super partes, acquistando autonomia e in rappre-
sentatività. E queste possono essere ottenute solo con una gover-
nance diversa. La revisione della governance del Fondo, quindi, è
cruciale sia per aumentarne la rappresentatività e la legittimità, sia
per rendere le sue indicazioni più ascoltate e la sua azione più effi-
cace. Sarebbe necessario introdurre, almeno per un piccolo numero
di scelte cruciali, la doppia maggioranza in modo che le decisioni
vengano prese non solo in base alle quote (che dovranno pure esse-
re riviste alla luce della forte crescita dei paesi emergenti, oggi con
diritti di voto compresi fra lo 1,38 per cento del Brasile e il 2,7 per
cento della Russia – a fronte, per esempio, del 2,02 per cento di un
piccolo paese come il Belgio), ma anche sulla base di una maggio-
ranza numerica di paesi. La seconda riforma da attuare è quella di
rendere più ampio il numero di paesi chiamati a collaborare in caso
di crisi finanziarie internazionali. Nel passato la politica del Fondo
è stata fortemente influenzata dagli Stati Uniti. Oggi questa ege-
monia non ha più senso, tenuto conto che i paesi in surplus si tro-
vano in Asia e nelle aree petrolifere.
globalizzazione, squilibri e crisi 23

La crisi del 2007 passerà alla storia non solo per la sua entità, se
avrà fornito l’occasione di un ridisegno del sistema internazionale,
all’altezza delle sfide della globalizzazione, per trasformarle in vere
opportunità di sviluppo per tutti, tenendone sotto controllo le forze
dirompenti. Questa occasione diverrà concreta quando i global player
realizzeranno i seri limiti e costi della loro pretesa libertà di azione, e
il loro realismo politico, come dottrina e come prassi, verrà liberato
dai ceppi del secolo passato e applicato alla ricerca dei vantaggi del
sovranazionalismo e del multilateralismo. Sarebbe auspicabile che ciò
avvenisse senza che la crisi dovesse prima dispiegare per intero il pro-
prio potenziale distruttivo.
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