CIVILE Roma3
CIVILE Roma3
CIVILE Roma3
Quando parliamo di beni, bisogna esaminare la tassonomia, cioè le classificazioni che hanno rilevanza ai fini
della disciplina applicabile; la prima classificazione è al centro della definizione del bene del 1865 : la
distinzione tra beni mobili e immobili; un’altra importante è quella tra beni fungibili e infungibili: ha delle
ricadute molto rilevanti la fungibilità o infungibilità è criterio discriminante ai fini dell’applicazione di un
regime determinato . per esempio, secondo il principio consensualistico, per far circolare beni e cose è
necessario il consenso . nell’ambito delle regole di circolazione, una particolare vale proprio per le cose
fungibili (o generiche): una cosa determinata solo nel genere è una cosa fungibile. Secondo l’art 1378, le
cose generiche si trasferiscono non mediante il semplice consenso, ma attraverso la INDIVIDUAZIONE, nel
momento in cui le cose vengono individuate rispetto alla massa alla quale appartengono. Diverso è il caso
dei beni fungibili, anche detti determinati. La proprietà di un bene determinato (infungibile) si trasferisce
infatti solo mediante il CONSENSO. Se si mette a raffronto la regola del 1376 con quella del 1378, ci si rende
conto della differenza tra beni fungibili e infungibili. Anche la regola del 1218 è rilevante: è la regola madre
in materia di responsabilità per inadempimento; tale articolo funziona in modo diverso a secondo della
fungibilità o infungibilità del bene, con riferimento alla PROVA LIBERATORIA: se, ad esempio, si è
inadempiente a una prestazione di denaro, non si avrà la possibilità di esperire la prova liberatoria, in
quanto non si puo’ dimostrare che dare denaro sia divenuto impossibile; mentre, puo’ divenire impossibile
pitturare una parete (prestazione infungibile). L’obbligazione di dare non si comporta come quella di fare,
in quanto entra in gioco la classificazione qui detta.
Art 1813(mutuo) il mutuo ha a riferimento cose fungibili (denaro); per non dire poi del deposito, in cui
viene in essere la distinzione tra deposito regolare e irregolare(es. deposito di denaro, in cui il depositario
ha l’obbligo di restituire non già lo stesso bene, ma il tantundem eiusdem generis, altrettante cose della
stessa specie e dello stesso genere; in tal caso il depositario diviene proprietario e acquista il potere di
godere e di disporre del bene dato in deposito).
La distinzione ha anche rilevanza nel caso della tutela; nell’esecuzione forzata in forma specifica , tale
esecuzione puo’ essere effettuata solo in caso di prestazione fungibile , in cui si puo’ rendere coattivamente
possibile l’esecuzione della prestazione, qualora essa fosse appunto fungibile.
cose consumabili/inconsumabili l’uso, di regola, logora la cosa. La distinzione non è da intendere dal
punto di vista oggettivo; la distinzione si basa sulla possibilità del RIUSO della cosa. Ci sono cose che dopo
un uso non si prestano piu’ al riuso; vi sono poi cose suscettibili di un uso ripetuto. Una casa è un bene
inconsumabile; l’automobile è un bene inconsumabile; la benzina è un bene consumabile ; il denaro è
consumabile… nella disciplina dell’usufrutto, esso riguarda di regola cose NON CONSUMABILI. Puo’ anche
darsi che abbia pero’ ad oggetto una cosa consumabile, come il denaro; in tal caso si fa riferimento all’art
995: esso riguarda le cose consumabili oggetto di usufrutto, e afferma che in tal caso l’usufruttuario ha
diritto di servirsene e di pagarne il valore al termine dell’usufrutto, secondo la stima convenuta.
L’usufruttuario non restituirà piu’ la cosa determinata , ma dovrà restituire il tantundem o il valore della
cosa al termine dell’usufrutto, secondo la sua stima.
996 prende in considerazione le cose deteriorabili, le quali sono pero’ suscettibili di piu’ usi; è evidente
che la cosa verrà restituita non nel medesimo stato in cui era stata consegnata, essendo deteriorabile.
Il soggetto reagisce alla contestazione della P.A., chiedendo che il proprio diritto di proprietà venga
accertato in modo inoppugnabile.
i motivi prospettati dal ricorrente (AZIENDA SRL) sono 5: il primo riguarda la nullità della sentenza per
difetto di processualità( non rilevante per noi); il secondo si basa sulla violazione delle disposizioni art 42
costituzione (riguarda la proprietà. I beni economici..)e la violazione del protocollo primo della
dichiarazione dei diritti dell’uomo (CEDU). La disposizione qui individuata e considerata violata è quella
presente nel protocollo primo allegato alla cedu. Nell’art 1 del protocollo primo si parla della protezione
della proprietà; è disposizione fondamentale in quanto assicura una protezione generalizzata a tutti i beni
di cui si è proprietari. Vi deve essere secondo tale articolo un provvedimento che determini il trasferimento
della proprietà. Pur ammesso e non concesso che la P.A. sia divenuta proprietario, è assente un
provvedimento di legge che legittimi tale trasferimento. Il terzo motivo è anche rilevante; qui le disposizioni
che si ritengono violate , sulla base del terzo motivo, sono l’art 829 del cc afferma che la
sdemanializzazione, cioè il passaggio da una condizione ad un’altra , deve essere decretata da un
provvedimento; cio’ significa che il passaggio deve essere collegato ad atto formale ; anche ammesso e non
concesso che l’atto non sia necessario, lo stato è rimasto INERTE per molti anni; non solo lo stato si è
disinteressato, ma ha anche compiuto atti autorizzativi incompatibili con la demanialità. Viene quindi
individuato come elemento PROBANTE l’inerzia della PA nella cura del bene ; neanche il quarto e quinto
motivo sono rilevanti.
Corte di cassazione non accoglie i motivi; viene evidenziata la presenza di un regolamento piuttosto
antico, risalente al 1841, approvato dal competente organo dell’Impero. Tale regolamento avrebbe ancora
valore normativo. Esso considera la laguna un bene PUBBLICO. Essa è demanio pubblico , nel senso in cui
lo intende l’art 28 del codice della navigazione. Tale articolo 28 non è un dettato sovrapponibile agli artt
del cc che riguardano i beni demaniali, che individuano come caratteristica fondamentale di tali beni la
logica della appartenenza ad enti territoriali. L’art 28 afferma che sono appartenenti al demanio
marittimo necessario I BENI DI ORIGINE NATURALE LA CUI PROPRIETA’ NON PUO’ CHE ESSERE
PUBBLICA la condizione, per l’art 28, è una condizione NATURALE e non GIURIDICA del bene. L’articolo
28 prescinde dal dato formale della appartenenza. Tale articolo non è sovrapponibile all’art 822 del codice
civile. Quindi, quando parliamo di bene demaniale, non bisogna tenere in considerazione solo la disciplina
del codice civile, ma vi è anche questo altro dato normativo da tenere in considerazione.
La demanialità della laguna dipende dal fatto che il bene non è suscettibile di altra utilizzazione, se non
PUBBLICA (la laguna apre al mare);
l’altro elemento è che la demanialità del bene è conseguenza della presenza delle connotazioni FISICHE (ciò
che il bene è nella sua materialità): è evidente che quindi la demanialità prescinde DA ATTI RICOGNITIVI
DELLA PA o dalla formalità pubblicitaria.
Successivamente la corte evidenzia come debba tenersi in considerazione il concetto di demanialità,
tenendo conto del fatto che siamo dinanzi a una pluralità di fonti; le disposizioni del codice vanno lette in
coordinamento con le disposizioni della costituzione, che pongono al centro la tutela della persona .
BENI PUBBLICI BENE DEMANIALE (ART 822 CC) la caratterizzazione del bene demaniale , nella
disciplina del codice, è l’appartenenza allo Stato, cioè all’ente pubblico territoriale. Esiste poi un demanio
NECESSARIO E ACCIDENTALE; quest’ultimo riguarda beni che possono anche non appartenere allo stato; ma
nel momento in cui appartengono allo stato, diventano demaniali (e soggetti al regime dei beni demaniali).
Regime beni demaniali il bene demaniale è INALIENABILE; deve essere pubblico in modo perenne. Non
puo’ formare oggetto di diritto a favore di terzi. C’è pero’ la possibilità che la legge temperi la rigidità di tale
disciplina , e che un bene demaniale possa essere alienato (NEI MODI E NEI LIMITI IMPOSTI DALLA LEGGE).
16/03/2022
La proprietà è legata a modelli storicamente determinati; il concetto è mutato nel corso del tempo. Si
possono individuare però modelli.
Diritto romano il diritto romano non conosce definizione generale di proprietà; esistendo nell’ambito del
diritto romano diverse forme di proprietà, una definizione unitaria non la si riscontra. A seconda delle
diverse situazioni, vi sono diverse tipologie del diritto di proprietà. Secondo voltaire, il contenuto del diritto
di proprietà muta continuamente col variare delle esigenze economiche della società. Il termine proprietà
ha derivazione romana; il termine emerge molto tardi; il termine piu’ antico con cui si designava la
proprietà era MANCIPIUM, DA MANUS. La manus stava ad indicare la potestas , che si esercitava su
persone e su cose. C’era una definizione della potestas , come ius utendi et abutendi re sua la situazione
di manus, che poi assumerà il termine di DOMINIUM, è da collegare alla situazione in cui si trova un
soggetto nei confronti della sua cosa , che gli dà il diritto di usare e abusare del proprio bene; la
manifestazione piu’ evidente dell’abuso potrebbe essere la distruzione della cosa. Ciò finchè lo consenta un
valido motivo. È una definizione molto ampia e a larghe maglie. Il diritto romano conosce anche LIMITI al
diritto di proprietà , collegati all’esistenza di diritti in capo ad altri soggetti: i romani conoscono il diritto di
usufrutto (diritto reale che un terzo vanta su un bene di proprietà altrui); l’enfiteusi (diritto ora non molto
diffuso): sono limitazioni al diritto del dominus per effetto di situazioni di diritto vantate da terzi.
Facendo un gigantesco salto, si puo’ giungere a un modello definito modello feudale della proprietà: ci si
colloca nell’epoca del medioevo; si accredita una certa concezione della proprietà. Il modello paradigmatico
è quello feudale. L’epoca del feudo non è presente in tutto il medioevo, rappresentandone solo una fase. La
società che si registra è una società piramidale: vi è una base di soggetti senza alcuna fonte di
sostentamento; altri soggetti che hanno la possibilità di coltivare la terra (servi della gleba, cioè nullatenenti
leggermente piu’ benestanti); vassalli (avevano un rapporto con l’autorità che consentiva loro una
posizione di privilegio, con la possibilità di disporre dei beni loro conferiti- DOMINIUM UTILE); La proprietà
quindi si frantuma rispetto a quello che era l’assetto precedente, perché emerge una divaricazione tra la
proprietà formale e il dominium utile (godimento).
La proprietà medioevale è un’entità complessa e composita. Il feudo è un istituto giuridico che si fonda su 3
elementi principali: il VASSALLAGGIO è un vincolo che si crea attraverso un contratto , tra il dominus e il
vassus. È un rapporto fondato sulla fedeltà che il vassallo deve nei confronti del dominus; su obblighi
militari del vassus; d’altro canto, il vassus ottiene protezione. L’altro elemento è il BENEFICIUUM,
rappresentato dal fondo che il vassallo riceveva ; il terzo elemento era l’IMMUNITAS, che si ricollegava
all’amministrazione della giustizia e al governo del terreno dato in concessione. Quello del feudo è un
piccolo ordinamento.
Questa è la proprietà che con la rivoluzione francese fu spazzata via; nasce il modello borghese di proprietà.
Che tipo di società emerge? Si colloca la rivoluzione all’inizio di un percorso: la rivoluzione francese
inaugura lo stato moderno; la rivoluzione taglia dei ponti e ha inaugurato una stagione nuova, dello stato
moderno. Diventa aspirazione comune quella all’unità. Altro elemento è la gerarchizzazione delle fonti: si
rompe con lo ius comune e con le consuetudini: emerge il ruolo prioritario della legge ; le consuetudini
sono relegate ai margini. Il potere giudiziario diventa bouche de la loi. Si avvia un processo di
nazionalizzazione del diritto: si apre la stagione delle grandi codificazioni, che emergono all’esito della
rivoluzione francese. Il concetto di proprietà è la colonna portante dell’impianto codicistico. Rappresenta il
fondamento su cui si regge l’ordinamento civile.
Il diritto di proprietà diventa presidio di una nuova organizzazione dello stato; se prima era frammentato
(dominio utile, dominio diretto..) , con il modello borghese vi è una ricomposizione ad unum del diritto. Il
diritto acquista una dimensione monolitica, intorno ad alcuni postulati. È ovviamente un diritto uguale per
tutti ; l’uguaglianza penetra anche nel diritto di proprietà. La proprietà borghese è formalmente accessibile
a tutti; la proprietà è ancorata all’idea di libertà. Libertà dall’autorità.
Definizione di proprietà (Pothier) nella versione di pothier troviamo tutti gli elementi che poi saranno
trasfusi nel code civil francese. Il diritto viene definito come ius utendi et abutendi se la legge non lo
proibisce. Il diritto è strutturato per essere un modello riferibile a qualunque modello di proprietà. Il nucleo
è un nucleo necessario, senza cui il diritto di proprietà non esiste; tale nucleo è il diritto di usare e abusare.
Pothier era consapevole dei limiti che poteva subire la proprietà, quando la legge , per motivi importanti, lo
imponeva. Il diritto può essere eroso laddove esigenze di carattere eccezionale lo imponessero.
Art 17 dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino la proprietà, essendo un diritto INVIOLABILE E
SACRO, nessuno può esserne privato a meno che non vi sia la necessità pubblica, LEGALMENTE
CONSTATATA che lo esiga senza alcun dubbio, e sotto la condizione di una giusta INDENNITA’. Vi è quindi
l’idea che il nucleo della proprietà sia intangibile .
Art 544 code civil la proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose NELLA MANIERA LA PIU’
ASSOLUTA , purché non se ne faccia un uso proibito dalle leggi o dai regolamenti.
Statuto albertino art 29; diceva che tutte le proprietà , senza alcune eccezione, sono INVIOLABILI.
Tuttavia, quando l’interesse pubblico lo esiga, si puo’ essere tenuti a cederle in tutto o in parte
(espropriazione).
Codice civile 1942 la proprietà borghese è il secondo modello di proprietà individuato. nel passaggio dal
codice del 1865 a quello del 1942, si sono succeduti molti eventi storici rilevanti: le istanze solidaristiche
iniziano a far sentire la loro voce. Cominciano ad avere un peso anche politico, nel momento in cui si
afferma l’idea del socialismo e l’ideologia marxista, che è il supporto scientifico delle istanze; è il periodo in
cui le istanze acquistano voce : la classe operaia, in particolare, entra nel circuito politico. Ciò implica anche
introdurre limiti all’esercizio della proprietà privata , per venire incontro a tali nuove esigenze. Vi erano
anche questioni legate al conflitto (prima guerra mondiale): le esigenze belliche imponevano significativi
limiti ad alcune proprietà private.
Fu in questo periodo che si andò affermando in modo crescente una legislazione che stabiliva la PROROGA
in via legale delle locazioni di immobili urbani (il proprietario non era più libero di liberare l’immobile, in
quanto la durata del contratto veniva legalmente prorogata); si prevedeva anche il divieto di aumento del
canone di locazione .
Disciplina dell’ammasso soprattutto in relazione alle esigenze belliche, vi era l’accaparramento di beni di
prima necessità. Venne stabilito per legge l’ammasso: il grano deve essere “mandato all’ammasso”,
venduto cioè con un prezzo amministrato ad un ente centrale, che assicura che il grano venga distribuito
equamente a tutta la popolazione. Il bene non può essere quindi liberamente negoziato.
Vi erano poi molte terre abbandonate, molte delle quali erano abusivamente occupate da nullatenenti;
sono intervenute successivamente leggi per legittimare tale occupazione; quindi, il proprietario originario di
quei terreni era costretto a tollerare che occupanti abusivi continuassero a permanere in quei terreni.
Il codice del 1942 è un codice partorito in tempo di guerra; è il codice non della proprietà , ma
dell’IMPRESA; tuttavia, per quanto non possa essere definito un codice fascista, più che alla proprietà,
guarda al dinamismo e alla produzione. Ciò lo troviamo fotografato nell’art 832 del codice.
L’articolo ci dà definizione del diritto di proprietà attraverso l’identificazione del CONTENUTO: non
fotografa il diritto, ma ci dice cosa può fare il proprietario, definendo le prerogative di quest’ultimo.
Esordisce affermando che il proprietario HA DIRITTO DI GODERE E DISPORRE DELLE COSE IN MODO PIENO E
ESCLUSIVO, ENTRO I LIMITI E CON L’OSSERVANZA DEGLI OBBLIGHI STABILITI DALL’ORDINAMENTO
GIURIDICO.
Chi poteva vietare determinati usi della proprietà? Qui c’è il richiamo all’ordinamento, in quanto anche
fonti diversi dalla legge e dal regolamento possono imporre limiti al proprietario. Quindi, il nostro codice
civile risente ancora del modello borghese di proprietà.
L’ultimo passaggio si colloca nella dimensione del DIRITTO EUROPEO l’elaborazione del diritto europeo
risale agli anni 50, quindi ad anni piuttosto lontani; sul fronte della comunità europea si è avuta una
evoluzione, dagli anni 50 in poi. Anche la comunità ha cambiato le sue ispirazioni e l’impronta delle sue
azioni; intorno agli anni 80-90 dello scorso secolo, si ha avuta una forte caratterizzazione dell’attività
normativa dell’unione europea in senso LIBERISTA: tale data è piuttosto generalizzato, in quanto vi sono
mutamenti storici e trasformazioni avvertite e metabolizzate dalla comunità europea. Si è accreditato una
tendenza a livello del diritto europeo che è una sorta di contro tendenza rispetto ai precedenti anni, in cui
avevano avuto un peso piu’ forte le istanze solidaristiche e sociali. Nel diritto europeo vi è anche il cd
DIRITTO SAPENZIALE, frutto dell’elaborazione di cultori del diritto che si sforzano di elaborare testi di diritto
UNIFORME a livello europeo; ad esempio, l’istituto di uni droit si interessa soprattutto di contratti
commerciali, e studia il diritto europeo elaborando modelli capaci di rendersi uniformi a livello europeo;
quindi non si parla solo di diritto in senso stretto, che emana da organi come la comunità europea; bisogna
anche intendere gli sforzi continuamente fatti per elaborare un diritto uniforme : tali principi di diritto
europeo elaborati sono spesso stati tenuti in considerazione dai giudici, pur non essendo vere e proprie
norme. Questo è il quadro generale del diritto europeo, che quindi vive una tendenza di impronta liberista,
dagli anni 90 in poi.
Punto di vista normativo per quel che riguarda la proprietà, si puo’ far riferimento a 2 dati che rendono
evidente questo mutamento di passo. Il primo fa richiamo all’art 1 del protocollo primo della CEDU: esso
riguarda il diritto di proprietà e la protezione di essa; l’art 1 afferma che “ogni persona fisica o giuridica ha
diritto al rispetto dei suoi beni; nessuno puo’ essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità
pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”. La
disposizione risale agli anni 50: nell’ottica di un confronto col testo costituzionale, notiamo che il diritto di
proprietà è anzi tutto disciplinato all’interno di un documento che riguarda i DIRITTI DELL’UOMO E LE
LIBERTA’ FONDAMENTALI: questo è già un dato che evidenzia una presa di distanza dal territorio dei
rapporti ECONOMICI.
Nell’art 1 , inoltre, non rinveniamo dati che ci aiutino a definire cosa è la proprietà; troviamo affermati
alcuni assunti, che echeggiano l’idea della proprietà come diritto pieno ed esclusivo DI GODERE E DI
DISPORRE: vi è un collegamento stretto tra la proprietà e l’assoluto rispetto sui propri beni; nessuno puo’
essere privato della proprietà se non per cause di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge
(regola di espropriazione). Non troviamo invece riferimento che possa rimandare alla regola di
CONFORMAZIONE DELLA PROPRIETA’; non vi è neanche riferimento agli scopi che debbono ispirare il
legislatore nel determinare le regole di godimento; scompare quindi il riferimento alla funzione sociale.
Tale articolo 1 sembra quindi ispirato al modello BORGHESE, della proprietà VINCOLATA. Dobbiamo
segnalare che l’art 1 non è quindi compatibile con la logica dell’art 42 della costituzione: la gran parte dei
commentatori ha segnalato che tale articolo effettivamente si esprime in contro tendenza rispetto al
modello della proprietà CONFORMATA.
L’altro dato normativo è ancora più esplicito: lo troviamo trasfuso in un testo che è la carta di Nizza ,
elaborata a Nizza nel 2000. Leggendo l’art 6 del TUE, si dice che l’unione riconosce i principi sanciti della
carta dei diritti fondamentali, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Quindi oggi come oggi, tale carta
ha un valore normativo pari a quello dei trattati. Tale affermazione nasce in un contesto di fallimento della
costituzione: la carta doveva in qualche modo avere la veste di una sorta di costituzione.
Cosa ci dice tale carta dei diritti fondamentali? Elenca una sorta di diritti e principi fondamentali, su cui
poggia l’ordinamento. La proprietà , nell’ambito di tale testo, è rinvenibile nel titolo secondo, che riguarda
la libertà: il binomio, considerato inscindibile, viene a ricomporsi: la proprietà è da considerare un DIRITTO
FONDAMENTALE DI LIBERTA’. Cio’ lascia intendere una presa di distanza dal modello previsto nella nistra
costituzione. La proprietà è qui disciplinata nell’art 17 della carta:
ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquisito legalmente, di usarli, di
disporne e di lasciarli in eredità. Nessuna persona può essere privata della proprietà se non per causa di
pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una
giusta indennità per la perdita della stessa. L'uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti
imposti dall'interesse generale.
Anche tale articolo 17 è molto più vicino al modello borghese di proprietà, che al modello di proprietà
conformata.
Quindi , l’art 1 del protocollo e l’art 17 della carta dei diritti fondamentali sembrano dare adito ad una
tendenza , che alcuni studiosi hanno definito di NEO PROPRIETARISMO : si assiste alla riemersione della
PROPRIETA’ , quella del modello borghese . vi sono alcuni interrogativi, perché l’idea del ritorno al modello
borghese va presa con cautela: in verità, si deve sempre considerare che nella evoluzione storica della
civiltà umana, i corsi e i ricorsi sono assai frequenti; il ritorno in auge della proprietà borghese non sarebbe
qualcosa di singolare e strano , perché ogni elaborazione e concetto è figlio dell’epoca in cui si vive. Il
modello borghese di proprietà è infatti sempre latente. Anche tale andamento della proprietà è da leggere
in chiave di “oscillazione naturale”: il modello borghese e quello della proprietà conformata sono destinati
a convivere e avere il sopravvento uno sull’altro, a seconda delle epoche storiche.
Con riferimento alla proprietà, si sta evidenziando una divaricazione tra quello che è il neoliberismo (che
traspare dai documenti sopra esaminati) e l’identità costituzionale italiana. Che rapporto sussiste tra le
fonti comunitarie e la nostra costituzione? Per lungo tempo, la dialettica è stata risolta sulla base di un
principio di assoluta prevalenza delle fonti comunitarie. Si è detto addirittura negli anni 70 che le fonti
comunitarie debbano avere prevalenza anche rispetto alla costituzione italiana; che valore dare al principio
sociale della proprietà? Negli ultimi anni, invece la corte costituzionale ha espresso principi che tendono a
individuare dei contro valori in grado di far argine al neo liberismo : è vero che il principio di prevalenza
della fonti comunitarie non puo’ essere smentito; ma in relazione ad alcuni principi della nostra
costituzione, anche il dato comunitario deve osservare rispetto. Questa è la cd logica dei controlimiti,
accreditata dalla corte costituzionale stessa, che si è resa conto dell’esistenza del problema.
In che termini si pone la dialettica tra regola di espropriazione e regola di conformazione? È utile analizzare
2 sentenze : 55 e 56 del 1968.
55/1968 tale sentenza si interessa di una voce importante di quella che è la proprietà edilizia . la
proprietà edilizia trova una prima accezione nel codice civile; negli artt 832 e ss, la gran parte delle
disposizioni riguardano la proprietà fondiaria. Nell’ambito della proprietà fondiaria, rinveniamo
disposizioni generali e una sezione dedicata alla proprietà edilizia (artt 869 e ss). Tale disposizioni
identificano concetti MA NON LA DISCIPLINA LEGATA A TALI CONCETTI. La disciplina invece fa richiamo a
una voce importa della proprietà edilizia, collegata alla disciplina URBANISTICA.
Nella disciplina della proprietà edilizia si rinvengono anche altre disposizioni , come le norme su distanze,
piantagioni, distanze tra luci e vedute… si possono collocare nell’ambito della proprietà edilizia anche
istituti , come quello del diritto di superficie. Tale diritto , infatti, viene definito come il diritto di mantenere
una costruzione su un suolo, acquisendone una proprietà distinta; o come il diritto AD EDIFICARE su un
suolo e ad acquistare la proprietà dell’edificato.
Qual è la disposizione, nell’ambito di tale sentenza, tacciata di illegittimità costituzionale? Essa fa parte di
un testo normativo importante : la legge 1150 del 17 agosto 1942; essa è la prima legge organica in materia
di disciplina URBANISTICA. Disciplina tutti i profili che hanno a che fare con l’assetto del territorio;
nell’ambito di tale legge è anche disciplinato lo IUS AEDIFICANDI , cioè il diritto di costruire. Le disposizioni
di tale legge, considerate di dubbia legittimità costituzionale , sono l’art 7 e l’art 40.
Art 7 riguarda il contenuto del piano regolatore generale; ci dice che il piano regolatore generale deve
considerare la totalità del territorio comunale; esso deve indicare : la rete delle principali vie di
comunicazione stradale; la divisione in zone del territorio comunale, con la precisazione delle zone
destinate all’espansione dell’attività urbanistica (il piano regolatore deve disciplinare, quindi, anche i
vincoli che esistono sulle proprietà di determinate zone, determinando anche le zone destinate
all’espansione dell’attività urbanistica); le aree destinate a formare spazi di uso pubblico, o sottoposte a
speciali servitù (anche qui si richiamano concetti che rimandano a limiti e sacrifici imposti alle proprietà
private); aree da riservare ad edifici pubblici, nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo e sociale
(qui echeggia la logica dell’espropriazione); vincoli da osservare in zone a carattere storico o ambientale;
norme per l’attuazione del piano.
Il piano regolatore disciplina organicamente l’assetto urbanistico, tramite anche la previsione di vincoli che
possono tradursi persino in un DIVIETO DI EDIFICARE su fondi che sarebbero in realtà edificabili.
. l’art 7 va letto in combinazione con l’art 40: quest’ultimo ci dice che NESSUN INDENNIZZO E’ DOVUTO PER
LE LIMITAZIONI E I VINCOLI PREVISTI DAL PIANO REGOLATORE GENERALE (..): I LIMITI E I VINCOLI DI CUI
ALL’ART 7 NON SONO QUINDI INDENNIZZABILI. Sarebbero sacrifici che il privato deve sopportare, senza
ottenere quale ristoro alcun indennizzo.
Perché queste disposizioni sono giudicate non coerenti con la costituzione? Qual è la disposizione della
costituzione che si ritiene violata? L’art 42. Il discorso fatto dai ricorrenti è che i limiti posti dal piano
regolatore rientrerebbero in atti di espropriazione previsti dall’art 42 c 3: dunque, dovrebbero essere
indennizzabili.
Il ragionamento evidenzia la possibilità che la regola di espropriazione entri in gioco anche in assenza dei
presupposti collegabili alla regola di espropriazione: ABLAZIONE DELLA TITOLARITA ‘ DEL DIRITTO;
RIFERIMENTO PUNTUALE ALLE SINGOLE PROPRIETA’ .. la regola di conformazione, invece, non toccava la
titolarità del bene, riguardando categorie di beni e non singoli beni.
Siamo qui in presenza, invece di una espropriazione che lascia intatta la titolarità del diritto, svuotando di
contenuto il diritto. Per cui, ogni qualvolta dovessimo trovarsi in presenza di un situazione in cui il diritto
viene svuotato del suo contenuto minimo ed essenziale, pur rimanendo inalterata la titolarità, quella è
espropriazione e non conformazione. cio’ significherebbe che la regola espropriativa puo’ assumere
l’aspetto della conformazione. La logica è che quando la conformazione supera una certa soglia, diventa
sostanzialmente espropriazione.
La corte identifica la possibilità che una regola conformativa POSSA TRADURSI IN ESPROPRIAZIONE e quindi
comportare a carico dell’ente espropriante la corresponsione dell’indennizzo.
Come risolve il problema la corte costituzionale ? essa sembra accogliere un modello di proprietà vicino al
modello della proprietà vincolata: c’è una proprietà che deve necessariamente avere un contenuto
MINIMO ED ESSENZIALE . se non lo ha, la proprietà è espropriata. Qui siamo in presenza di vincoli
destinati a essere vigenti in eterno, potenzialmente. Ciò rende difficile pensare che la proprietà possa dirsi
ancora esistente, in presenza di tali limiti . la regola prevista dall’art 42 c 3 (di espropriazione), seguendo
tale ragionamento, non la si deve necessariamente ricondurre all’ablazione totale del diritto: è sufficiente
l’esistenza di limiti che svuotino di contenuto il diritto di proprietà (espropriazione sostanziale).
Se noi riconosciamo che la proprietà deve avere necessariamente un contenuto minimo ed essenziale,
neghiamo che il legislatore possa modellare la proprietà come riconosciuto ex art 42. Nell’ipotesi in
questione abbiamo a che fare con un fondo urbano edificabile, il quale poteva essere soggetto a vincoli
assai stringenti. Se un terreno è per sua vocazione idoneo ad essere edificato, ma non puo’ in virtu’ di un
vincolo imposto dalla legge o dal piano regolatore , essere oggetto di attività edificatoria, il DIRITTO DI
PROPRIETA’ E’ COME SE FOSSE ESPROPRIATO, ANCHE SE FORMALMENTE ESPROPRIATO NON E’. la corte
costituzionale adotta il richiamo alla espropriazione sostanziale, non formale.
Sentenza 56 nello stesso giorno, la stessa corte costituzionale, con riferimento a una situazione diversa,
ha invece accolto un modello di proprietà rispondente a quello costituzionale. (proprietà conformata). La
disposizione che si sospetta essere illegittima è una disposizione di una legge provinciale di Bolzano , che
riguarda la tutela del paesaggio. La tutela del paesaggio ha anch’essa a che fare con fondi; ma parliamo di
una situazione di fatto diversa: l’art 9 della costituzione IMPONE la tutela del paesaggio.
Il vincolo di inedificabilità su un terreno urbano incide su un bene che è oggettivamente uguale a tanti altri
beni; un’area collocata in una zona protetta in quanto considerata bellezza naturale e parte di un
paesaggio, sin dall’origine è caratterizzata da una data destinazione; abbiamo quindi una differenza
costitutiva tra un fondo situato in un contesto urbano e uno situato in area protetta in quanto bellezza
naturale. Da un lato, abbiamo un fondo come tutti gli altri, sul quale viene imposto un vincolo. Dall’altro,
abbiamo un terreno che rispetto agli altri presenta AB ORIGINE UNA CARATTERIZZAZIONE DIVERSA:
l’essere parte di un paesaggio, lo rende diverso dagli altri appezzamenti; quel terreno è originariamente
marcato dal VINCOLO PAESAGGISTICO. Tale discorso è valorizzato dalla corte, al fine di giungere a una
soluzione diversa rispetto a quella accolta dalla sentenza 55.
Il terreno in questione ha un vincolo paesistico, per una circostanza che dipende dalla sua localizzazione;
costituisce una categoria che ORIGINARIAMENTE è interesse pubblico. Non DIVENTA un terreno da
vincolare al pubblico interesse, ma lo è AB ORIGINE. L’amministrazione, operando nei modi descritti dalla
legge, non ne modifica la situazione preesistente : l’amministrazione RICONOSCE qualcosa che è nel bene
già ad origine , prendendo atto della natura del bene.
La conclusione a cui giunge la corte è che la regola di tutela paesaggistica rappresenta ed esprime una
regola di CONFORMAZIONE: non entra in gioco l’espropriazione, come nel caso precedente. Qui, il vincolo
di non inedificabilità è proiezione della natura intrinseca di quel bene. In questo caso, non entra in gioco
alcuna questione di indennizzo: non entra in considerazione la regola art 42 c 3;
la corte costituzionale ha trovato la strada per individuare soluzioni diverse in relazione a situazioni diverse.
Primo profilo da tenere in considerazione si riallaccia al problema dello IUS AEDIFICANDI; tale ius si
riallaccia alla proprietà edilizia. Analizzando l’evoluzione dello ius aedificandi, si apprezza il valore della
funzione sociale della proprietà.
Legge 1150/1942 è il primo testo organico in materia urbanistica; tale testo non solo regolamenta
l’assetto del territorio complessivamente , ma disciplina anche l’attività edificatoria. Lo disciplina tramite 2
disposizioni: l’art 31 , che fa riferimento alla LICENZA DI COSTRUZIONE: “chiunque intenda, nell’ambito del
territorio comunale, eseguire nuove costruzioni , ampliare, modificare o demolire quelle esistenti ovvero
procedere all’esecuzione di opere di urbanizzazione del terreno, deve chiedere apposita LICENZA AL
SINDACO” . la PA deve disciplinare l’attività edilizia, esercitando un controllo puntuale sulle singole attività
edificatorie: lo fa tramite una licenza di costruzione. La licenza è una autorizzazione ; essa serve a
rimuovere un ostacolo all’esercizio di quella attività. L’amministrazione rilascerà l’autorizzazione a seguito
di un controllo. Lo ius aedificandi è insito nel diritto di proprietà stesso, che ha come sua prerogativa il
diritto di costruire; c’è solo da “rimuovere” un ostacolo all’esercizio del suo diritto.
Tale sistema della licenza è rimasto in piedi fino alla fine degli anni 60; le cose iniziano a mutare nei primi
anni 70, in conseguenza di un piano di edilizia economica e popolare inaugurato del 1967. Si trattava di
fare in modo che anche le classi meno abbienti potessero arrivare alla proprietà dell’abitazione. Fu avviato
un programma a livello nazionale di edificazione di una certa tipologia di case. La situazione muta perché
politicamente muta il quadro (es. crescita in Italia della sinistra, con una legislazione giocoforza più sociale);
non vi era più quella “sete” di case che vi era negli anni precedenti: si andava denunciando un fenomeno di
ECCESSIVA urbanizzazione in determinate zone. In quegli anni si accredita una tendenza diversa, cioè a
disciplinare in modo più rigido l’attività di edificazione sui fondi; ciò in nome di una istanza sociale e
generale. Da un lato vi era l’interesse del proprietario , dall’altro l’interesse pubblico a conservare le città.
Negli anni 70, con la legge Bucalossi (n 10 1977) si accredita un sistema diverso da quello precedente.
Nell’art 1, tale legge affermava : “ogni attività, comportamento o trasformazione urbanistica e edilizia del
territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e l’esecuzione delle opere è subordinata a
concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente legge”.
Ciò che è evidente è il passaggio dal sistema della LICENZA DI COSTRUZIONE a quello di CONCESSIONE di
costruzione. La licenza è autorizzazione che consente di rimuovere l’ostacolo all’esercizio di un diritto CHE
SI HA (il proprietario ha il diritto di costruire); quando parliamo di CONCESSIONE, invece, facciamo
riferimento a qualcosa che viene ad essere EX NOVO attribuito al soggetto: facciamo riferimento ad una
prerogativa che il soggetto non ha e che si vede riconosciuta all’esito della CONCESSIONE. La distanza
rispetto al sistema della licenza è molto significativa: il proprietario di un fondo edificabile non ha più il
diritto di edificare , ma se lo deve veder concesso. La PA, come afferma l’art 3, rilascerà la concessione
all’esito di un controllo e tale concessione comporta LA CORRESPONSIONE DI UN CONTRIBUTO,
commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione , nonché al costo di costruzione. Il proprietario di
un fondo edificabile non deve solo chiedere il rilascio della concessione, ma anche pagare quest’ultima.
La somma pagata dal proprietario serve ad URBANIZZARE quel territorio. Tale logica si distacca dal regime
della licenza, segnalando che la proprietà privata ASSOLVE AD UNA FUNZIONE SOCIALE: il privato che si
vede riconoscere il diritto di costruire, deve anche badare a quelle che sono le esigenze della generalità dei
consociati;
ci sono in quegli anni molte altre leggi che testimoniano tale tendenza: ad esempio, la legge sull’equo
canone di locazione (1978), che si caratterizzava per un’impronta tendente a valorizzare le istanze
solidaristiche. Intervenne a stabilire per legge a quanto doveva ammontare il canone.
L’attuale normativa (DPR 2001 N 380) ha chiuso la parentesi della CONCESSIONE DI EDIFICARE,
introducendo una disciplina articolata , introducendo il sistema del PERMESSO DI COSTRUIRE . si è voluto
accreditare un modello ibrido : il permesso di costruire è una autorizzazione , che però presenta alcuni
caratteri che sono tracce della concessione: anche nel permesso di costruire, il privato deve farsi carico di
qualche esigenza del pubblico interesse. Tuttavia, il regime del permesso di costruire è molto piu’ vicino alla
licenza che alla concessione.
Il problema dello IUS AEDIFICANDI è centrale nella sentenza n 5 del 1980: anche in tale sentenza si fa
riferimento al regime della CONCESSIONE EDILIZIA, un po’ snaturandolo. In tale sentenza, la corte accredita
l’idea che tra il regime della concessione e il regime della licenza non vi sia tutta questa differenza. In
realtà , anche il regime della concessione non è distante da quello della licenza. La corte mette in dubbio
che la concessione sia ATTRIBUTIVA di diritti nuovi, in quanto il diritto di edificare è insito nella proprietà .
L’espropriazione è regolata da un procedimento, in cui vi è anche la disciplina della indennità e della sua
misura. Innanzi tutto, Se dinanzi al procedimento amministrativo, il privato espropriato vanta una
situazione di interesse legittimo , con riferimento alla indennità vanta un diritto SOGGETTIVO: se insorge
controversia, bisogna rivolgersi al giudice ordinario.
La prima normativa in tema di indennità risale alla legge 25 giugno 1865 (numero 2359): questa era una
legge organica sulla indennità e sul procedimento di espropriazione; affermava il principio secondo cui
l’indennità di esproprio andava ragguagliata AL VALORE VENALE DEL BENE, cioè al valore di mercato, che il
mercato avrebbe in una contrattazione di mercato. Il proprietario si vedeva quindi compensato attraverso
una somma di denaro , che corrispondeva al valore di mercato del bene.
Tale normativa è rimasta in applicazione fino agli anni 70 dello scorso secolo (1971); negli anni 70, tale
criterio è stato cambiato. Negli anni 70 mutano molte cose, tra cui la normativa in materia di indennità di
esproprio: negli anni 70 vi è stata una forte impronta solidaristica, soprattutto con riferimento all’esigenza
di garantire la proprietà delle abitazioni. Nell’ambito di normative che si interessavano del programma di
edilizia pubblica, veniva stabilito un nuovo criterio di misurazione dell’indennità di esproprio, col fine di far
risparmiare l’ente pubblico espropriante. Per dar corso a un programma intensivo di costruzioni, le PA
avevano necessità di espropriare le aree a prezzi sicuramente minori del valore di mercato. Ed ecco
quindi che la legge 22 ottobre 1971 (n 865) stabiliva con riferimento alla indennità di esproprio, che essa
andava ragguagliata al “valore AGRICOLO MEDIO del suolo, nell’ipotesi in cui i terreni da espropriare
fossero terreni esterni ai centri abitati” e stabiliva per i terreni situati nei centri (quindi edificabili) che
l’indennità andava ragguagliata “al valore agricolo medio DELLA COLTURA PIU’ REDDITIZIA DELLA ZONA,
MOLTIPLICATA PER UN COEFFICIENTE “. L’indennità era ancora molto lontana dal valore di mercato del
bene. Il criterio di individuazione dell’indennizzo non teneva alcun conto delle caratteristiche
OBBIETTIVE del bene. Ovviamente, i proprietari dei suoli oggetto di espropriazione avevano di che
lamentarsi. Essi venivano ad incamerare somme di denaro irrisorie , se paragonato al valore di mercato del
bene espropriato. Di qui, il trasformarsi di tali lamentele in azioni giudiziarie, intentate contro gli enti
esproprianti dai proprietari interessati alle espropriazioni. L’indennizzo non può essere un valore arbitrario ,
ma consistere in un serio ristoro.
Il discorso è svolto nell’ambito della sentenza n 5 del 1980. Essa prende di mira la normativa della legge
865. Secondo i ricorrenti, il ristoro previsto dalla normativa non è conforme a quello previsto dall’art 42 c 3;
la legge 865 sarebbe inoltre in contrasto col principio di uguaglianza dell’art 3 cost, in quanto terreni che si
trovano in eguali situazioni ricevono indennizzi diversi e vi è una disparità di trattamento IRRAZIONALE tra
proprietari di aree edificabili colpiti da provvedimenti di espropriazione, e quelli di aree aventi le stesse
caratteristiche, che non sono invece colpiti da espropriazione.
La pubblica amministrazione, dinnanzi a tali ragioni, afferma che l’indennizzo non puo’ considerarsi
irrisorio , in quanto tiene conto di TUTTE LE COMPONENTI CHE CONCORRONO A DETERMINARE IL VALORE
DEL BENE CON LA SOLO ECCEZIONE DELLA RENDITA PARASSITARIA COSTITUITA DAL CARATTERE DI
EDIFICABILITA’ DEL SUOLOsecondo i proprietari, l’indennizzo così previsto sarebbe irrisorio in quanto non
tiene conto del carattere dell’edificabilità del suolo; l’argomentazione della avvocatura di stato è che
l’indennizzo non è da considerarsi irrisorio in quanto lo ius aedificandi non è proprio del proprietario, ma
gli viene riconosciuto tramite concessione . nella argomentazione della avvocatura, si afferma che
quell’indennizzo non può essere considerato simbolico o irrisorio . Non vi sarebbe inoltre alcuna
violazione del principio di uguaglianza.
CORTE COSTITUZIONALE afferma in primis che è irrazionale scollegare l’indennizzo al valore del bene ;
con riguardo a quanto argomentato dall’avvocatura dello stato, la corte afferma che lo ius aedificandi è
comunque inerente al diritto di proprietà , e che non molto cambi tra il regime della concessione e quello
della licenza; vi è semplicemente l’esigenza che il privato , nella concessione, si faccia carico di un interesse
pubblico . quindi, con riferimento all’indennità di esproprio, la corte afferma che “perché l’indennità di
espropriazione possa ritenersi conforme al precetto costituzionale, è necessario che la misura di essa sia
riferita al valore del bene, determinato dalle sue caratteristiche ESSENZIALI e dalla destinazione economica;
solo in tal modo, l’indennità stessa può costituire serio ristoro per l’espropriato. “
Tale sentenza della corte costituzionale produce il ritorno alla vecchia normativa del 1865 (regime della
licenza), il ritorno in auge della normativa che stabiliva il valore venale del bene come parametro da tenere
in considerazione. La situazione della PA non era però mutata, in quanto persisteva l’impossibilità di
corrispondere l’intera somma, pari al valore venale del bene. Il legislatore intervenne con un decreto
legge (successivamente convertito in legge) DECRETO LEGGE 11 LUGLIO 1992 N 333. Con l’articolo 5bis si
stabilivano criteri diversi a seconda della natura delle aree: con riguardo alle AREE EDIFICABILI, l’indennizzo
veniva ragguagliato alla “semisomma tra il valore venale e il reddito dominicale rivalutato “. Attraverso
l’applicazione di tale criterio, il privato espropriato si vedeva corrisposta una indennità che
rarissimamente arrivava al 50 % del valore di mercato.
Diverso criterio veniva stabilito per i suoli agricoli: valeva il rinvio alla vecchia normativa (legge 865).
Vi furono nuovamente ricorsi da parte di proprietari di terreni edificabili e non solo; ciò si tradusse in
ulteriore lavoro per la corte costituzionale: essa fu chiamata, dapprima con riferimento a proprietari di
terreni edificabili ,a pronunciarsi; la corte costituzionale affermò L’ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE dei
criteri stabiliti dal decreto legge 333 con riferimento alle aree edificabili.
Le sentenze con cui si pronunciò tale illegittimità sono le numero 348 e 349 del 2007 . tali sono le famose
sentenze che hanno stabilito principi importanti con riferimento ALLA CEDU e all’art 1 del protocollo
addizionale della CEDU. Le 2 sentenze hanno stabilito qual è la posizione che spetta alla CEDU e alle altre
convenzionali internazionali nell’ambito del sistema delle fonti del diritto.
Art 117 c 1 esso afferma che “la potestà legislativa è esercitata da stato e regioni NEL RISPETTO DELLA
COSTITUZIONE, NONCHE’ DEI VINCOLI DERIVANTI DALL’ORDINAMENTO COMUNITARIO E DAGLI
OBBLIGHI INTERNAZIONALI.” il legislatore dello stato o regionale è vincolato non solo al rispetto della
costituzione e dei trattati comunitari , ma anche degli obblighi internazionali. Le normative che
discendono da convenzioni internazionali sono vincoli per il legislatore. Laddove vi sia violazione dell’art
117 c 1, il giudice deve rimandare la questione alla corte costituzionale , non potendo limitarsi a
disapplicare la legge interna.
Tali sentenze affermano quindi che, essendo l’art 117 norma interposta , il decreto legge 333 è illegittimo
per violazione dell’art 117 c1.
Vi è anche il profilo delle aree NON EDIFICABILI: anche con riferimento al criterio stabilito per queste aree,
furono sollevate questioni di illegittimità costituzionale. Una di esse è la sentenza 181 del 2011. Alla fine,
tale sentenza dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art 5bis , ANCHE CON RIFERIMENTO AL CRITERIO DI
INDIVIDUAZIONE DELL’INDENNIZZO PER AREE NON EDIFICABILI.
Si prende in considerazione una importantissima sentenza della corte europea, del 2006 (caso Scordino).
Tale sentenza ci dà quella che è l’interpretazione autentica del valore da assegnare al protocollo CEDU.
Alla base della illegittimità riscontrata (del decreto 333 art 5bis) vi è il contrasto con i principi stabiliti dalla
sentenza Scordino.
Successivamente, si è addivenuti a un riordino che il legislatore aveva già previsto dovesse avvenire nel
1992. La normativa che ne è venuta fuori è quella attualmente vigente: il DPR N 327 DEL 2001 .
Art 36 riguarda la determinazione dell’indennità nel caso di esproprio per la realizzazione di opere
private che non consistano in abitazioni l’indennità è commisurata al valore venale del bene.
(determinato dalla PA).
Art 37 ESPROPRIO DI AREE EDIFICABILI l’indennità di espropriazione di un’area edificabile è
determinata in misura pari al valore venale del bene; quando vi è un peso significativo dell’interesse
pubblico, l’indennità è ridotta del 25%.
(…)
In linea di massima quindi, tale decreto ha individuato come parametro di riferimento, per la
determinazione dell’indennità di esproprio, il valore VENALE del bene.
Da tutta questa parabola ed evoluzione, si evince come dai primi millenni di questo secolo la questione
sociale si è andata indebolendosi rispetto al periodo di maggior fulgore, quello degli anni 70. Dagli anni 80 ,
la funzione sociale non è stata abbandonata ma ha subito un indebolimento, dinanzi a istanze di
neoliberalismo.
ATTO EMULATIVO concetto importante nell’economia delle disposizioni generali che riguardano il diritto
di proprietà. Quando abbiamo fatto l’excursus storico sul diritto di proprietà, abbiamo anche richiamato la
famosa definizione che veniva data in tempi risalenti dalla tradizione, ossia “diritto di usare ed abusare
della propria cosa”. Questo schema, che veniva rapportato alla proprietà, era ricavato dal modello del
diritto soggettivo. La proprietà è il prototipo dei diritti soggettivi, è proprio il modello di riferimento più
chiaro. Quindi, il diritto soggettivo è stato tradizionalmente costruito come potere del soggetto titolare di
poter fare tutto ciò che era ricompreso con il termine di prerogative del diritto medesimo. Se si rimaneva
nell’ambito del contenuto del diritto, evidentemente, il concetto di abuso era un non senso, perché o c’era
un eccesso rispetto al contenuto del diritto (e allora non c’è ragione di parlare di abuso, bisogna invece
parlare di eccesso nell’esercizio del diritto); ma, se si rientra in quel perimetro, configurare l’abuso sembra
non avere un senso, sembra essere un ossimoro.
Proprio nel concetto di abuso, che è ricompreso nell’atto emulativo, c’è il nodo più significativo dal punto di
vista teorico da sciogliere. Vedremo quale rilevanza questo concetto ha nell’ambito del nostro
ordinamento, quale rilevanza ha anche in ordinamenti diversi dal nostro. Questo perché c’è anche da fare i
conti non solo con la nostra tradizione ma anche con il quadro che, con riferimento a questo concetto, si
presenta in altri ordinamenti. Quindi, è una questione abbastanza delicata e complessa quella che si tocca
quando si parla di atti emulativi.
L’atto emulativo nell’ambito del nostro ordinamento ha diverse ipotesi di rilevanza. Quella che prenderemo
in considerazione è la più significativa ed è quella prevista all’interno delle disposizioni che hanno a che
fare con la proprietà in generale. Ricordate il concetto di proprietà che l’art. 832 individua? Come abbiamo
segnalato, l’ottica dell’articolo È QUELLA DINAMICA DEL PROPRIETARIO, e non quella statica della proprietà.
Quindi, il proprietario ha il diritto di godere e di disporre della sua cosa in modo pieno ed esclusivo con i
limiti e nel rispetto degli obblighi. Il concetto di atto emulativo è stato sempre collegato a questa sfera dei
limiti al diritto di proprietà. Tant’è che la dottrina e la giurisprudenza lo hanno frequentemente associato
all’idea generale del limite al diritto di proprietà ,che il soggetto proprietario deve sopportare in virtù del
fatto che il suo esercizio del diritto deve essere in qualche modo legato alla soddisfazione di un suo
interesse: non deve essere collegato alla realizzazione di un interesse a danneggiare gli altri. Nell’atto di
emulazione c’è il divieto imposto al proprietario di fare atti che non abbiano altro scopo se non di nuocere
o arrecare molestia ad altri. L’idea è quella di un proprietario che abusa del suo diritto di proprietà ,in
quanto compie degli atti di esercizio del diritto che non sono legati alla soddisfazione di un suo interesse,
ma sono da rapportare alla volontà.
Attenzione, un elemento fondamentale dell’art. 833 è il c.d. ANIMUS NOCENDI. Questo è uno degli
elementi che hanno creato maggiori problemi anche in sede di applicazione, essendo difficile dimostrare la
sussistenza dell’animus. Quindi, anche dal punto di vista applicativo, non si pensi che la fattispecie dell’atto
emulativo ricorra in moltissimi casi. La fattispecie dell’atto emulativo è stata riscontrata in un numero assai
modesto di casi, proprio in considerazione del fatto che il più delle volte risulta assai difficile provare
l’esistenza dell’animus nocendi, ossia della volontà di nuocere ad altri. Rimane anche difficile pensare che
un atto compiuto dal proprietario, anche se poi produce degli effetti che sono di danno nei confronti di
altri, possa essere del tutto estraneo alla sfera del proprio interesse.
Molte volte il proprietario compie degli atti che provocano danno agli altri per soddisfare un suo interesse.
Magari con quell’atto il suo interesse non lo soddisfa, e provoca esclusivamente danno agli altri, ma questo
non significa che l’atto sia emulativo. Il fatto, cioè, che l’effetto dell’atto sia quello del danno provocato ad
altri non implica necessariamente che manchi un qualche interesse personale da parte del proprietario alla
realizzazione di quell’atto. Può darsi che il proprietario si sia in qualche modo sbagliato: erroneamente
pensava di realizzare un proprio interesse. È un atto emulativo allora? Cioè, se c’è un interesse non
realizzato alla base di quell’atto, questo è un atto emulativo? Questo è un altro problema che si pone in
ordine all’applicazione di questa fattispecie.
siamo nell’ambito di un concetto alquanto scivoloso, non semplice da afferrare. È un concetto che trova un
collegamento chiaro con una nozione ed un concetto più generale, che è quello di abuso del diritto che,
come vedremo, nell’ambito del nostro ordinamento, non gode di una rilevanza sul piano generale, al
contrario invece di altri ordinamenti, che hanno invece attribuito alla categoria dell’abuso del diritto una
rilevanza di tipo generale. Tanto che, in alcuni ordinamenti ,questa situazione è rilevante dal punto di vista
normativo. Ci sono disposizioni che in qualche modo, non solo illustrano cosa debba intendersi per abuso
del diritto, ma ne riconoscono in via di applicazione una rilevanza ampia, generale.
Qui ritroviamo questa fattispecie nell’ambito circoscritto della proprietà. Non troviamo, invece, in ambito di
contratto, ad esempio, una fattispecie analoga. Troviamo delle altre fattispecie che possono in qualche
modo ricollegarsi al concetto di abuso del diritto, ma questa è un’operazione che fanno gli interpreti. Il
legislatore ha in qualche modo dato rilevanza all’abuso del diritto nell’ambito della proprietà, ma non ha
dato un’eguale rilevanza all’abuso del diritto nell’ambito del contratto. Non ha detto che il contraente,
colui il quale può esercitare un diritto, avente fonte in un contratto, abbia come principio generale quello di
non arrecare, nell’esercizio di questo diritto, un danno ad altri. Non c’è un diritto nell’ambito del contratto
analogo all’art. 833.
Attraverso operazioni interpretative, anche un po’ discutibili, alcuni hanno ravvisato un’applicazione del
principio di abuso del diritto anche in ambito contrattuale, ma sono affermazioni che non trovano un
supporto chiaro ed esplicito nelle norme. Ci si arriva tramite vie traverse. Una di queste vie È LA CLAUSOLA
GENERALE DI BUONA FEDE. Un comportamento di buona fede è un comportamento imposto dalle norme,
alle parti di un rapporto obbligatorio: sia il debitore che il creditore sono tenuti al rispetto del canone di
correttezza nell’ambito dell’obbligazione. Nell’ambito del contratto abbiamo la rilevanza della buona fede.
Buona fede e correttezza sono due concetti ritenuti equipollenti: la correttezza e la buona fede in senso
oggettivo sono ritenuti concetti espressivi dello stesso significato. Quindi, attraverso la via della buona fede,
in molti hanno immaginato che questa regola dell’abuso potesse intrufolarsi nell’ambito del contratto. In
realtà è un’interpretazione che in molti giudicano azzardata. L’uso della buona fede, buono per ogni
situazione, è un uso abbastanza discutibile.
Il concetto di atto emulativo si colloca in questo contesto, ossia nel contesto dei limiti al diritto di proprietà
ed è in qualche modo fonte di numerosi interrogativi. Per affrontare il discorso è opportuno partire dalla
sentenza della Cassazione (Sentenza 1° dicembre 2015 - 22 gennaio 2016, n. 1209), che è una sentenza
interessante non solo per il principio di diritto che viene in pratica affermato con riguardo all’abuso, ma
anche per la situazione particolare che si è verificata e che ha dato luogo a questo giudizio.
Fatto
Qui abbiamo una proprietaria di due unità immobiliari nell’ambito di un condominio. Il condominio è una
comunione che riveste dei caratteri particolari rispetto alle ordinarie comunioni, non essendo possibile il
suo scioglimento. Il condominio è una di quelle comunioni dove molte volte uno vorrebbe uscire ma,
purtroppo, non può. Il condominio è una comunione particolare non solo per questo, ma soprattutto per le
sue caratteristiche, perché non c’è solo il bene comune ma ci sono anche i beni di proprietà esclusiva.
Quindi, il condominio è un insieme di beni comuni e di beni di proprietà esclusiva. Il fatto che ci sia questa
vicinanza tra beni comuni e beni di proprietà esclusiva fa sì che non soltanto si ponga un problema di
gestione dei beni comuni, ma in qualche modo condiziona anche il modo di essere delle proprietà
individuali che si trovino nell’ambito del condominio.
Quindi, siamo in questa condizione, ossia c’è una signora proprietaria di due appartamenti all’interno di
questo condominio. Qual è il fatto che scatena la controversia? Il fatto che una delibera dell’assemblea
condominiale prevede l’immediata trasformazione dell’impianto centralizzato di riscaldamento in
impianti autonomi. C’è quindi una delibera condominiale che viene assunta nel 1991 che prevede
l’immediata trasformazione dell’impianto di riscaldamento da centralizzato ad autonomo. Questo fatto
scatena la controversia perché questa delibera condominiale si rivela nulla, in quanto l’assemblea
condominiale in questione non era stata indetta all’ordine del giorno prevedendo l’immediata
trasformazione dell’impianto centralizzato in impianti autonomi di riscaldamento, ma all’ordine del giorno
era prevista solamente la discussione su una possibile trasformazione dell’impianto di riscaldamento.
Quindi, in pratica, all’ordine del giorno, non c’era l’immediata trasformazione, ma una possibile futura
trasformazione sulla quale discutere.Questo rendeva nulla la delibera, che fu dichiarata nulla su
impugnativa dal Tribunale di Foggia con una sentenza confermata in sede di gravame e passata a cosa
giudicata. È pacifico e indiscutibile che quella delibera è nulla quindi, la decisione di trasformare
l’impianto di riscaldamento da centralizzato in impianto autonomo è una decisione che non trova il proprio
fondamento.
La proprietaria dei due appartamenti, sulla base di quanto avvenuto, chiede l’immediato ripristino
dell’impianto centralizzato. tutti i condomini si sono nel frattempo adeguati a questa trasformazione che la
delibera aveva ad oggetto, quindi, tutti i condomini avevano mutato il loro impianto di riscaldamento e si
erano resi autonomi tramite una propria caldaia e un proprio riscaldamento autonomo. Si erano quindi
slacciati dall’impianto centralizzato ,che a quel punto non serviva più ed avevano tutti la gestione autonoma
del riscaldamento. Il fatto che la delibera sia nulla, evidentemente riporta la situazione, dal punto di vista
giuridico, indietro: e quindi legittima il condomino a chiedere che sia ripristinata per lui l’utilizzazione della
caldaia centralizzata e quindi dell’impianto centralizzato. Questa è la causa.
Che succede nel giudizio? Come si svolge il giudizio? Il condominio si costituisce eccependo l’intento
esclusivamente emulativo dell’azione. Il condominio dice: “Tutti i condomini hanno ormai abbandonato il
riscaldamento centralizzato. Dalla sentenza risulta che anche la stessa proprietaria dei due appartamenti
abbia l’impianto autonomo. Anche la stessa istante ha provveduto, quindi, a rendersi autonoma dal punto
di vista del riscaldamento. Di conseguenza, il fatto che pretenda di riallacciarsi all’impianto centralizzato è
un atto emulativo. Sta facendo un qualcosa che non le arreca nessun vantaggio, ma solo pregiudizio, perché
ripristinare l’impianto centralizzato viene a costare molto e questo è un danno per gli stessi condomini che
hanno già provveduto a rendersi autonomi. Sembrerebbe dunque che questo sia un atto di emulazione e
che costituisca un esercizio abusivo del diritto”.
Qui l’azione viene qualificata come possessoria da parte del tribunale , che poi ha considerato questo bene
come universalità di mobili. Sarebbe dunque applicabile la regola prevista dall’art 1170.
Cosa fa il tribunale? Accoglie la domanda, che è la domanda che reintegra nel possesso dell’impianto di
riscaldamento centralizzato, ordinando al convenuto di reintegrare immediatamente nel possesso
dell’impianto di riscaldamento la condomina mediante il ripristino.
La causa va in appello il condominio propone appello e la Corte di appello di Bari riforma la sentenza
impugnata, rigettando la domanda dell’attrice. La Corte, innanzi tutto, sottolinea la natura petitoria e non
possessoria dell’azione .il discorso quindi cambia, perché l’azione possessoria è un’azione che si basa sulla
dimostrazione del possesso, cioè il soggetto deve semplicemente dimostrare che la delibera è nulla e che
lui ha il possesso dell’impianto di riscaldamento. Se, invece, l’azione è petitoria, bisogna dimostrare la
proprietà. L’azione a questo punto non è più un’azione di manutenzione, bensì è una sorta di
rivendicazione. La rivendicazione presuppone la sottrazione del possesso al proprietario, che è legittimato
ad agire per far si che possesso e proprietà si ricongiungano.
Dopo avere premesso quindi la natura petitoria dell’azione di ripristino, i giudici ritenevano la natura
emulativa della richiesta avanzata dall’attrice: evidentemente anche alla corte d’appello questa domanda è
sembrato un atto emulativo. la sentenza affermava che: “non avendo l'attrice chiesto o comunque ottenuto
la sospensione della delibera condominiale impugnata, i numerosi condomini dell'edificio, costituito da due
corpi di fabbrica, si erano dotati di impianti autonomi di riscaldamento, ad eccezione della D.G.”
“L'impianto di riscaldamento centralizzato non avrebbe potuto essere ripristinato senza importanti ed
onerose opere di trasformazione e adeguamento, posto che la centrale termica non rispettava i requisiti
fondamentali ai fini della sicurezza, anche in considerazione della abusiva coesistenza tra impianto termico
centralizzato e quello idrico”. Insomma, ripristinare l’impianto creava una serie di problemi, non solo perché
era un’opera economicamente molto gravosa, ma anche perché ai fini di sicurezza non era poi consigliabile
ripristinare quell’impianto. In proposito, i Giudici evidenziavano che “secondo quanto accertato dal
consulente, non sarebbe stato possibile riattivare l'attuale impianto alimentato a gasolio con uno nuovo, in
quanto mancavano le condizioni di sicurezza per garantire l'incolumità degli stessi inquilini e dei fabbricati
limitrofi”.
Alla luce di tutti questi dati, secondo i giudici, la pretesa azionata configura abuso del diritto, potendo la
condomina trovare legittimo ristoro nella tutela risarcitoria. In pratica il giudice di secondo grado afferma
che l’attrice avrebbe potuto domandare il risarcimento del danno provocato per effetto della delibera
assunta: in tal caso sarebbe stata rimborsata degli importi necessari per liberarsi dell’impianto
centralizzato, adottando quello autonomo.
Primo motivo secondo quanto affermato dal giudice di secondo grado, da ritenersi violati erano gli artt.
1175 e 1375 c.c. :sono proprio le disposizioni che riguardano rispettivamente la regola di correttezza
nell’ambito delle obbligazioni e l’esecuzione secondo buona fede del contratto.
Si censura quindi la sentenza della corte d’appello per avere applicato la categoria dell'abuso del diritto a
una fattispecie diversa da quelle alle quali fa riferimento la giurisprudenza in questi casi. l’abuso del
diritto, nel nostro ordinamento, rileva laddove il legislatore lo abbia previsto: affermare che l’abuso del
diritto sta dentro gli artt. 1175 e 1375 cc significa violare queste due disposizioni, perché all’interno di
queste due disposizioni l’abuso del diritto non c’è.
Il primo motivo Poi deduce che in ogni caso “fra i presupposti dell’abuso del diritto vi è la possibilità che il
concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente
predeterminate, che vanno sempre ricondotte alla tutela della posizione sostanziale corrispondente al diritto
in oggetto. Nella specie, a seguito dell'annullamento della delibera condominiale, l’unica modalità per
eliminare le conseguenze era il ripristino”. Tale argomento è piuttosto debole e “avvocatesco”, ma viene
comunque inserito tra i motivi.
Secondo motivo Omessa o insufficiente motivazione. “Si enuncia la lacunosa considerazione delle
risultanze tecniche laddove non erano state esaminate o erano state travisate le circostanze e le
valutazioni della consulenza tecnica, la quale aveva evidenziato la fattibilità e la convenienza economica
del ripristino dell'impianto centralizzato nonché la illegittimità degli impianti realizzati nei singoli
appartamenti dai singoli condomini”. secondo quello che dice il ricorrente, si sarebbero male valutate le
risultanze della consulenza, che invece dimostrava che era conveniente ritornare all’impianto
centralizzato e che tra l’altro evidenziava che i condomini che avevano provveduto da loro a rendersi
autonomi, avevano fatto degli impianti accroccati.
Terzo motivo. “Lamentando la violazione e falsa applicazione delle disposizioni di cui alla L. n. 10 del 1991,
denuncia la illegittimità degli impianti di riscaldamento autonomo unifamiliari realizzati dai condomini con
rischio per la salute e per l’illegittimità amministrativamente sanzionata”. I condomini hanno realizzato, in
sostanza, impianti che non garantiscono la sicurezza.
Quarto motivo. “Censura la sentenza laddove, dando rilevanza alla mancata sospensione della esecutività
della delibera, che peraltro era stata chiesta e non concessa, non aveva verificato se fosse ispirata a buona
fede e correttezza”. Anche questo è un argomento che lascia il tempo che trova.
interessa vedere che cosa la Cassazione ha detto con riferimento al primo motivo del ricorso, che è quello
che poi decide la controversia e che ci aiuta a capire come si deve intendere il concetto di atto emulativo
di cui all’art 833 cc. “Occorre premettere che, vertendosi in tema di proprietà ovvero di comproprietà
condominiale, la (denunciata) antigiuridicità della condotta posta in essere dall'attrice andava verificata con
riferimento alla previsione di cui all'art. 833 c.c., secondo cui il proprietario non può fare atti i quali non
abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri. La norma ha la finalità di assicurare
che l'esercizio del diritto di proprietà risponda alla funzione riconosciuta al titolare dall'ordinamento,
impedendo che i poteri e le facoltà dal medesimo esercitate si traducano in atti privi di alcun interesse per il
proprietario ma che, per le modalità con cui sono posti in essere, abbiano l'effetto di recare pregiudizio ad
altri”.
Quindi, la Cassazione già dà in pratica una risposta. Cosa dobbiamo considerare atto emulativo? Soltanto
l’atto che ab origine è stato posto in essere per danneggiare? Oppure dobbiamo considerare atto emulativo
anche l’atto che è motivato dalla soddisfazione di un interesse proprio, ma che non raggiunge questo
risultato, bensì raggiunge l’esclusivo risultato di danneggiare gli altri? Secondo la cassazione, in sostanza,
“l'atto deve essere obiettivamente privo di alcuna utilità per il proprietario, ma di per sé idoneo ad arrecare
danno a terzi, dovendo poi il requisito del c.d. animus nocendi, essere accertato alla stregua della condotta,
quale si è esteriorizzata in concreto”.
uno degli elementi che rendono molto complicato giungere ad accertare l’atto emulativo è proprio quello di
riuscire a capire se sussiste o meno l’animus di nuocere: non basta che l’atto obiettivamente sia tale da
provocare danno, ma, bisogna che sia stato posto in essere con l’animo di provocarlo.
è evidente che l’esistenza dell’animus nocendi deve trovare un qualche riscontro di natura
oggettiva ,“nella condotta del soggetto, quale si è esteriorizzata”. Quindi, in atti percepibili ai sensi, che si
riescano a cogliere e a valutare.
Quali sono questi atti? “Sono atti dai quali possa trarsi inequivocabilmente la prova dell’assenza di interesse
per il proprietario nel compiere questi atti”; affinché un atto si possa qualificare come EMULATIVO, dice la
Cassazione, “deve essere mosso da un interesse che è solo ed esclusivamente quello di danneggiare; non ci
può essere un interesse del proprietario a compiere quell’atto; pertanto non può ritenersi emulativo l’atto
che comunque risponda ad un interesse del proprietario, dovendo escludersi che il giudice possa compiere
una valutazione comparativa discrezionale tra gli interessi in gioco, ovvero formulare un giudizio di
meritevolezza e di prevalenza tra l’interesse del proprietario e quello dei terzi”.
Quindi, per giudicare se un atto è emulativo non devo andare a valutare, a ponderare, gli interessi in
gioco, come in pratica nella fattispecie aveva fatto la Corte d’appello. La ponderazione di interessi non
serve al fine di valutare il carattere emulativo di quest’atto. L’atto emulativo non emerge da questa
valutazione ponderata. Il giudice deve valutare obiettivamente basandosi sulla condotta in concreto tenuta
dal soggetto, ossia deve valutare obiettivamente se l’atto da quel soggetto compiuto poteva essere in
qualche modo motivato dalla soddisfazione di un interesse proprio del soggetto, oppure no, e deve
valutare, ovviamente, se quell’atto ha prodotto un danno nei confronti di terzi. Questo è il giudizio che il
giudice è tenuto ad operare.
“nella specie, il diritto a ripristino dell’impianto di riscaldamento rispondeva all'utilità della condomina di
potere usufruire di un servizio comune ,che era stato illegittimamente disattivato dall'assemblea dei
condomini che, proprio in attuazione di tale illegittima delibera, si erano poi dotati di impianto autonomo”.
Quindi la richiesta di ripristino effettivamente risponde ad un interesse del soggetto privato;
“La sentenza, nel ritenere nella specie l'abuso del diritto da parte dell'attrice, ha erroneamente fatto
riferimento, da un lato, alla natura e all'entità delle opere di radicale trasformazione che si sarebbero rese
necessarie per il ripristino dell'impianto e, dall'altro, alla circostanza che l'attrice avrebbe potuto dotarsi di
un impianto unifamiliare”.
“in tal modo, ha ravvisato l'abuso del diritto formulando un inammissibile giudizio di proporzionalità fra
l'utilità conseguibile dalla condomina e l'onerosità che ne sarebbe derivata ai condomini”.
Sulla base di questo ragionamento, la sentenza è stata cassata e rimandata ad altra Corte di appello che
deciderà nel merito, sulla base della considerazione in termini di diritto che troviamo espressa dalla Corte
di Cassazione.
PRINCIPIO DI DIRITTO “Tenuto conto che, ai sensi dell'art. 833 c.c., integra atto emulativo
esclusivamente quello che sia obiettivamente privo di alcuna utilità per il proprietario ma dannoso per
altri, è LEGITTIMA e non configura abuso del diritto la pretesa del condomino al rispristino dell'impianto di
riscaldamento centralizzato soppresso dall'assemblea dei condomini con delibera dichiarata illegittima,
essendo irrilevanti sia la onerosità per gli altri condomini - nel frattempo dotatisi di impianti autonomi
unifamiliari - delle opere necessarie a tale ripristino sia l'eventuale possibilità per il condomino di ottenere
eventualmente, a titolo di risarcimento del danno, il ristoro del costo necessario alla realizzazione di un
impianto di riscaldamento autonomo".
L’abuso del diritto è quindi una categoria molto pericolosa. È una categoria che ha destato molte
preoccupazioni, perché viene maneggiata dall’interprete e in particolare dal giudice, il quale, sulla base
dell’abuso del diritto, può essere portato ad emettere decisioni che poi risultano fondate sul senso di
giustizia che risulta un po’ oscuro, che risulta in molti casi essere frutto della convinzione puramente
soggettiva dell’interprete.
l’abuso del diritto, inoltre, ricollegandosi all’idea che il diritto debba essere esercitato in vista di un risultato,
accredita un’idea di funzionalizzazione dei diritti soggettivi ad interessi superiori. Il diritto soggettivo,
nell’ottica dell’abuso del diritto, funzionalizza l’esercizio del diritto privato, del diritto soggettivo stesso, ad
un fine considerato superiore che è il raggiungimento di quello scopo. Ogni diritto è accompagnato da uno
scopo e da un risultato che evidentemente supera e valica l’interesse individuale :tant’è che se il titolare del
diritto lo esercita in divaricazione rispetto allo scopo, quel diritto è abusivo. significa che i diritti
soggettivi ,per essere ben esercitati, debbono rispondere ad un interesse superiore: questo implica
funzionalizzazione del diritto.
Negli anni ’30 dello scorso secolo, la categoria dell’abuso del diritto ha avuto un’elaborazione feconda,
soprattutto in Germania , da parte di autori che sono stati ferventi sostenitori del nazismo. In particolare,
Siebert, un giurista tedesco molto importante di quell’epoca, che ha teorizzato fortemente questa categoria
dell’abuso del diritto, proprio come strumento per esaltare i doveri dell’individuo nei riguardi della
collettività. Alla collettività l’individuo deve sacrificare l’interesse individuale. Questo significa esaltare la
categoria dell’abuso del diritto.
Da noi che rilievo ha avuto questo dibattito molto presente nella realtà tedesca di quell’epoca?
Ha avuto rilievo con riferimento, ad esempio, al 101 della costituzione: “il giudice è soggetto solo alla
legge”. Molti affermano che quel concetto di legge, di cui all’art 101 della costituzione, sarebbe da
intendere non come legge. Di conseguenza il giudice non sarebbe vincolato dalla legge, ma sarebbe
vincolato dal diritto, dall’ordinamento in senso lato, dove non ci sono solo le leggi nel senso di testi scritti,
ma ci sono i principi, ci sono i valori..; significa, dunque, che il giudice può anche disattendere quello che la
legge dice, in omaggio ad un valore e ad un principio.
In Italia, quando si parlò nel 1942 di fare il Codice civile, quindi di riunificare il diritto civile con il diritto
commerciale, si pensò di introdurre una disposizione riguardante l’abuso del diritto. Quindi, il codice del
42 provò ad introdurre una disposizione, l’art 7 del progetto del codice civile del 42, che affermava
testualmente “nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto gli fu
riconosciuto”. Evidentemente ci fu la tentazione di introdurre come principio generale quello dell’abuso del
diritto.
Questo tentativo di introdurre nel Codice civile questa disposizione è fallito: il legislatore del 1942 si è reso
conto, benché fosse il legislatore fascista, che introdurre in linea generale un principio di questo genere
sarebbe stato pericoloso. Fece una scelta diversa: nell’ambito del Codice civile, si rinviene il riferimento
all’abuso del diritto soltanto localizzato in alcune situazioni. Quali sono queste situazioni?
Ad esempio, Il vecchio art 330 del cc riguardava gli abusi della potestà genitoriale; Il concetto di abuso
torna nell’ambito dell’usufrutto: C’è una disposizione in materia di usufrutto che riguarda proprio l’abuso
dell’usufruttuario nell’esercizio del suo diritto; C’è l’art 833 cc, che nell’ambito della proprietà parla di atti
emulativi e configura in quel contesto la categoria dell’abuso del diritto.
L’abuso del diritto, quindi nell’ambito del nostro ordinamento trova sì ospitalità, ma nelle ipotesi in cui
concretamente il legislatore lo ha previsto.
riconoscendo alla buona fede questa funzione di integrazione del contenuto e di limite alle prerogative del
titolare del diritto, evidentemente è venuta quasi spontanea l’associazione alla categoria dell’abuso. si è
detto, in pratica, che è vero che l’abuso non è stato disciplinato come categoria generale, però è anche vero
che se noi riconosciamo alla buona fede questa funzione, tramite essa si riesce anche a concepire l’idea che
il titolare di un diritto, nell’esercitare questo diritto, debba in qualche modo tener fede e rispettare quello
che è lo scopo, il risultato.
30/03
ABUSO DEL DIRITTO: concetto strettamente legato agli atti cd emulativi.
Nell’ambito del diritto di proprietà vi è questo limite del divieto degli atti emulativi, che trova la sua ratio
nell’affermazione di un principio, dell’abuso del diritto: nel codice non trova spazio come principio
generale; tuttavia, nonostante il codice faccia riferimento solo a ipotesi puntuali, la giurisprudenza e la
dottrina hanno proposto una lettura diversa, accorgendosi che tramite la regola della buona fede si
riconosce un’applicazione in termini generali del principio dell’abuso del diritto: il diritto non può essere
utilizzato in modo alterato rispetto allo schema del legislatore; laddove vi sia un uso anomalo del diritto, ci
sarebbe la possibilità di sanzionare il comportamento grazie alla clausola della buona fede. L’idea di abuso
ha trovato ospitalità in altri testi: La CEDU, la carta dei diritti fondamentali dell’unione europea; l’attenzione
che si è accresciuta nei confronti del principio dell’abuso del diritto trova sfogo in alcune sentenze:
SENTENZA DELLA CASSAZIONE 20106/2009
Vicenda: vedeva coinvolti la casa costruttrice RENAULT e dall’altra parte i concessionari della RENAULT. Il
rapporto contrattuale intercorrente tra le parti prevedeva all’interno del contratto una clausola dal
contenuto chiaro: si affermava che la Renault aveva il potere di recedere ad nutum (a sua discrezione) dal
contratto; la RENAULT esercita tale diritto , indiscutibile e non soggetto apparentemente a qualsivoglia
controllo. Nonostante dal punto di vista letterale il diritto di sciogliere il contratto fosse chiaro, i
concessionari non accettarono tale decisione e agirono in giudizio , lamentando l’esercizio ABUSIVO del
diritto di recesso.
CORTE DI CASSAZIONEfa richiamo a due clausole spesso utilizzate: principio di proporzionalità e logica
di equilibrio che tiene conto dell’esigenza di ponderare gli interessi. La buona fede introduce tale logica di
ponderazione; anche i concessionari si valutò che avessero delle buone ragioni da vantare. Il loro interesse
a conservare il contratto aveva qualche meritevolezza.
L’abuso del diritto viene coniugato con la buona fede in senso oggettivo; la cassazione individua a suo dire
quali sono gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto: 1) TITOLARITA’ DI UN DIRITTO SOGGETTIVO IN
CAPO A UN SOGGETTOci deve essere un soggetto che vanta un diritto;
2) POSSIBILITA’ CHE IL CONCRETO ESERCIZIO DEL DIRITTO SIA EFFETTUATO SECONDO UNA PLURALITA’ DI
MODALITA’ NON RIGIDAMENTE PREDETERMINATE abbiamo un diritto che presenta diverse modalità in
ordine al suo esercizio. Colui il quale esercita il diritto dispone di diverse possibilità.
3)CIRCOSTANZA CHE TALE ESERCIZIO CONCRETO SIA SVOLTO SECONDO MODALITA’ CENSURABILI,
RISPETTO A UN CRITERIO DI VALUTAZIONE GIURIDICO ED EXTRAGIURIDICO in tal caso il recesso ad
nutum è una modalità censurabile ,nell’opinione della cassazione. Non è però sufficiente la valutazione del
giudice. Sono considerabili anche criteri di carattere extragiuridico (es. criteri morali);
4)CIRCOSTANZA CHE A CAUSA DI UNA TALE MODALITA’ DI ESERCIZIO, SI VERIFICHI UNA SPROPORZIONE
TRA IL BENEFICIO DEL TITOLARE DEL DIRITTO E IL SACRIFICIO CUI È SOGGETTA LA CONTROPARTE
ponderazione degli interessi in gioco.
L’abuso del diritto, lungi dal presuppore una violazione in senso FORMALE, (non vi è nessuna violazione)
delinea utilizzazione alterata dello schema formale del diritto. C’è un’alterazione della buona fede. È
ravvisabile quando risulti alterata la funzione OBBIETTIVA DELL’ATTO. Si parla di una divaricazione di una
funzione obiettiva dell’atto.
Il giudice prevede una decisione da assumere e in qualche modo individua la strada da percorrere: c’è una
precomprensione, in quanto si cerca in ogni modo di tutelare la posizione dei concessionari. Tale metodo
non è però giusto.
La sentenza è stata da molti criticata: da parte di chi ritiene debba avere valore la volontà espressa delle
parti. Ciò significa abuso del diritto. Come conseguenza di tale abuso , la legge fissa un principio generale,
nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi esercitati in violazione delle corrette regole di
esercizio e posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.
La sentenza si chiude affermando che si ritiene acclarato il principio dell’abuso del diritto, che e ‘ uno dei
criteri di selezione con cui esaminare anche i rapporti negoziali nascenti da autonomia privata. Anche
nella fase pre contrattuale si può aversi la fattispecie dell’abuso del diritto.
I principi della buona fede e del divieto dell’abuso del diritto debbono essere sottoposti a copertura
costituzionale. Tale copertura è nell’art 42 della costituzione, in riferimento alla funzione sociale della
proprietà. Vi è anche quindi una sovrapposizione di piani, in quanto la funzione sociale è riferita non a
diritti soggettivi ma solo alla proprietà. Eppure il legislatore ha voluto rendere più forte la vigenza della
regola. I due principi si integrano a vicenda: la buona fede è canone GENERALE; l’ABUSO prospetta una
correlazione tra poteri costituiti e fine per cui sono costituiti.
Tutti i diritti debbono essere soggetti a tale “setaccio”? ad esempio, lo ius penitendi è visto come colonna
portante del diritto privato. Può rientrare nella fattispecie dell’abuso del diritto? si snaturerebbe il diritto
stesso. L’idea dell’abuso del diritto non fa i conti con la realtà delle situazioni che vanno considerate per
quelle che sono. Lo ius penitendi è diritto di ripensamento e non recesso; è il cc che afferma la non
necessità di motivazione. Come si può pensare di esercitare un controllo su di esso? Immaginare un
controllo implicherebbe idealizzare un consumatore “Masochista”.
Nella sentenza analizzata, è la buona fede a CONFORMARE LA SUSSISTENZA DELL’ABUSO DEL DIRITTO.
In Germania esiste la regola della VERWIRKUNG : secondo cui se si fa legittimamente affidamento sul fatto
che un determinato diritto non verrà mai esercitato, l’improvviso esercizio diventa ABUSIVO. Noi
conosciamo la prescrizione. E pure si è introdotto un principio analogo a quello tedesco tramite una
sentenza:
episodio: il locatore proprietario tollera per sette anni che il canone non sia pagato; nell’ottavo anno bussa
alla porte del conduttore chiedendo tutti i canoni non pagati: la cassazione afferma ( 16743/2021) che il
comportamento del locatore titolare del diritto a riscuotere i canoni, che non abbia mai preteso il
pagamento sin dall’origine del rapporto, può generare un affidamento SULLA RINUNCIA DEL CREDITO
FINO AD ALLORA MATURATO. Pertanto, la richiesta di adempimento costituisce abuso del diritto.
Gli atti emulativi si collocano in un contesto , che ha a che fare con la disciplina dei rapporti tra proprietari.
Nella classica concezione della proprietà borghese, il proprietario era “solo” e la proprietà avulsa da
qualsiasi logica di rapporto. Era il prototipo di diritto reale, consistente nel rapporto instaurato da un
soggetto con una res. È un potere diretto sulla cosa; ciò a differenza della obbligazione, in cui il creditore
realizza il suo interesse attraverso la cooperazione con il debitore.
Tale concezione di diritto di proprietà è però superata: tutt’oggi, la proprietà presuppone una dimensione
relazionale, e la logica del rapporto è insita anche nel diritto di proprietà: il legislatore ha ritenuto
necessario disciplinare i rapporti tra le parti.
L’atto emulativo , in particolar modo, è la regola secondo cui il proprietario non può esercitare il proprio
diritto COL SOLO FINE DI RECARE DANNO AD ALTRI ha come presupposto l’esistenza di un rapporto tra
proprietario ed altri soggetti; in tale dimensione, troviamo tutta una serie di disposizioni , riguardanti l’atto
emulativo in sé, o la proprietà fondiaria. L’esercizio del diritto di proprietà viene ad essere limitato
dall’esistenza di altri diritto di proprietà.
Da qui, il ricorso nei confronti del TAR da parte della tenuta San Quirico. Il TAR fa una serie di rilievi; afferma
che sono infondate una serie di affermazioni contenute nel ricorso e che risulta invece FONDATO ritenere
che la disposizione della legge UMBRIA sia effettivamente illegittima: ravvisando il sospetto di
incostituzionalità, il TAR rimanda la questione alla corte costituzionale, aderendo alla sollecitazione del
ricorrente.
Su quali basi si fonda il sospetto di illegittimità costituzionale? Innanzi tutto, si sottolinea che l’attività di
porre delle recinzioni al fondo rientra nel diritto di proprietà stesso: di potere di chiudere il fondo si occupa
un articolo del codice, l’841 , che stabilisce che il proprietario può chiudere IN OGNI TEMPO IL FONDO. A
lume di naso, tale disposizione sembra non limitare il potere di chiudere il fondo da parte del proprietario ,
che sembra non essere sottoposto ad alcun limite. Tale libertà è sì presente, ma comunque limitata: è
necessario attuare una distinzione tra recinzioni. Quando si parla di “chiusura del fondo” , vi è una
valutazione da fare sul modo in cui tale diritto è esercitato; in alcune circostanze , il diritto di chiudere il
fondo, può dar luogo comunque ad atto emulativo.
PRIMA CENSURA prima disposizione che si ritiene violata è l’art 117 c2: in tale articolo vengono elencate
le MATERIE DI COMPETENZA ESCLUSIVA STATALE, tra cui rientra l’ordinamento civile (la disciplina della
proprietà); il giudice afferma che sia INAMMISSIBILE che sulla disciplina della proprietà viga una regola
diversa in Umbria , rispetto a quella che vige in altre parti del territorio. L’art 117, laddove individua le
materie di competenza esclusiva dello stato, evidentemente presidia anche il principio di uguaglianza, cioè
la necessità che SU TUTTO IL TERRITORIO NAZIONALE VIGANO REGOLE OMOGENEE.
SECONDA CENSURA si ritiene violato l’art 42, in quanto si afferma che la previsione della legge regionale
va a incidere su quello che è un tipico diritto dominicale; si afferma che il “sacrificio” imposto dalla legge
dovrebbe essere giustificato da un superiore interesse pubblico; tale interesse pubblico non sussiste nel
caso di specie.
TERZA CENSURA art 117 c3; tale articolo riguarda le materie di competenza concorrente tra stato e
regioni: materie in cui sia stato che regione possono legiferare. Lo stesso articolo 117 stabilisce che le
regioni, nell’ambito di tali materie, “hanno la potestà normativa, salvo che per la determinazione dei
PRINCIPI FONDAMENTALI , riservata alla legislazione dello Stato” dunque, la legislazione regionale , in tali
materie, è una legislazione di dettaglio: spetta allo Stato la legislazione per principi, cioè individuare la
cornice entro cui la regione può stabilire puntualmente determinate discipline. Nel caso di specie, la
materia che viene in considerazione è il GOVERNO DEL TERRITORIO. Si tratta di una regolamentazione di
principio, che quindi dovrebbe essere demandata allo Stato.
La regione Umbria eccepisce che vi sia INNAMMISSIBILITA’ DELLE QUESTIONI PER DIFETTO DI RILEVANZA
si afferma che l’ordinanza del comune di Orvieto si basa sulla circostanza che la recinzione sia stata
innalzata senza alcuna segnalazione : trattandosi una recinzione particolare (elettrificata), laddove la tenuta
avesse voluto procedere alla sua installazione , avrebbe dovuto procedere prima ad una SEGNALAZIONE DI
INIZIO ATTIVITA’, la cd SCIA. La scia è una segnalazione , non una licenza vera e propria. Non ha valore di
autorizzazione allo svolgimento dell’attività , ma di segnalazione. La regione eccepisce che la tenuta
avrebbe dovuto , quindi, segnalare l’attività. La mancanza della SCIA giustificava quindi l’ordinanza che
disponeva la demolizione.
Altra obiezione da parte della regione è che il giudice aveva erroneamente considerato la disposizione
come generale (quindi rientrante nelle competenze dello stato). La regione sottolinea di aver solo vietato
una recinzione INDISCRIMINATA.
Corte costituzionale ritiene che le questioni siano nel merito fondate; l’innalzamento di recinzioni è
facoltà strettamente correlata al diritto di proprietà, al diritto di escludere gli altri dal proprio fondo. Si fa
comunque riferimento a limiti, in quanto le recinzioni sono ammissibili purché di scarso impatto visivo , di
dimensioni ridotte e senza opere murarie. La corte non fa altro che specificare il fatto che NON TUTTE LE
RECINZIONI SONO UGUALI.
La corte afferma che “recinzioni che consistono in materiale di scarso impatto visivo, e che si configurano in
un intervento di dimensioni ridotte , privi di opere murarie di sostegno sono espressione dello ius excludendi
alios , che è prerogativa del diritto di proprietà; quando invece la recinzione, per le modalità costruttive
prescelte, determini un’apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale e si atteggi, pertanto,
come esercizio dello ius aedificandi, è indispensabile il previo rilascio di un idoneo titolo abilitativo”.
Decisiva è la disposizione dell’art 117, che prevede che l’ordinamento civile è DISICIPLINA ESCLUSIVA DELLO
STATO. Una volta stabilito che vi è la violazione dell’art 117, il discorso si chiude e la legge della regione
UMBRIA SI CONSIDERA ILLEGITTIMA PER VIOLAZIONE DELL’ART 117, a prescindere da qualsiasi altra
valutazione.
Tuttavia, vi sono altre valutazioni da parte della corte la corte guarda anche al c 3 dell’art 117; lascia
intendere che anche il 117 c3 è in qualche modo violato : “Nell’àmbito di un equilibrato bilanciamento tra i
contrapposti interessi, il legislatore regionale ben può conformare anche le facoltà spettanti ai privati, allo
scopo di salvaguardare interessi pubblici sovraordinati e di delineare un assetto complessivo e unitario di
determinate zone, rispettoso delle peculiarità dei territori coinvolti. Al legittimo esercizio della competenza
concorrente in materia di governo del territorio possono essere ricondotte disposizioni specifiche sulle
modalità costruttive delle recinzioni, limitazioni puntuali connesse con la particolarità del territorio,
specificazioni in merito al regime edilizio applicabile, in coerenza con la normativa statale del d.P.R. n. 380
del 2001.”. vi è quindi anche la considerazione che la legislazione regionale debba essere una legislazione
DI DETTAGLIO.
L’atto emulativo fa parte della disciplina organica dei rapporti tra privati; vi sono poi le disposizioni generali
riguardanti la proprietà FONDIARIA (ART 840 E SS); vengono disciplinati limiti che nascono dall’esigenza di
contemperare i diritti del proprietario e i diritti di soggetti che possono entrare in conflitto con il diritto del
proprietario.
Art 840 tale disposizione non riproduce del tutto il tenero letterale della disposizione contenuta nel
codice civile del 1865; confrontando i due testi, ci rendiamo conto che vi è un salto di qualità. Codice 65
“il proprietario di un suolo è proprietario del sottosuolo e del sovra suolo”.
Codice 42 “La proprietà del suolo si estende al sottosuolo, con tutto ciò che vi si contiene e il proprietario
può fare qualsiasi escavazione o opera che non rechi danno al vicino; Questa disposizione non si applica a
quanto forma oggetto delle leggi sulle miniere, cave e torbiere. Sono del pari salve le limitazioni derivanti
dalle leggi sulle antichità e belle arti [839], sulle acque [909], sulle opere idrauliche e da altre leggi
speciali [Cost. 42]. Il proprietario del suolo non può opporsi ad attività di terzi che si svolgano a tale
profondità nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio sovrastante, che egli non abbia interesse ad
escluderle” oggi non si dice più che il proprietario del suolo è proprietario del sovra suolo. Entra poi in
gioco una logica di bilanciamento(ultimo comma). (es. non si può pensare che un privato proprietario di
un’abitazione possa opporsi al traffico aereo).
Art 842 costituisce un limite al diritto del proprietario di chiudere in ogni tempo il fondo, previsto dall’art
841. L’articolo 842 afferma che “Il proprietario di un fondo non può impedire che vi si entri per l'esercizio
della caccia, a meno che il fondo sia chiuso [841], nei modi stabiliti dalla legge sulla caccia(1) o vi siano
colture in atto suscettibili di danno”. È una disposizione molto discussa è vi è la necessità di storicizzare: nel
1942, l’esercizio della caccia era fonte di sostentamento per molti. L’animale cacciato veniva considerato
una res nullius, che ciascuno poteva fare propria in virtù dell’occupazione. Oggi, la fauna selvatica, è di
proprietà della regione. Oltre tutto, la caccia non è più priva di norme che la regolamentano.
La regola generale prevista dall’art 842 è che il cacciatore possa entrare liberamente, anche nei fondi
privati, per l’esercizio della caccia; il privilegio è dunque del cacciatore, ma non di altri soggetti, come il
pescatore: lo stesso articolo prevede, per l’esercizio della pesca, l’autorizzazione del proprietario.
Si fatica a individuare una giustificazione nel trattamento di privilegio del cacciatore; è sicuramente una
disposizione anacronistica.
Art 843 riguarda il diritto da parte del proprietario del fondo vicino di poter accedere all’interno del
fondo confinante, per poter effettuare opere di manutenzione, se necessarie. “Il proprietario deve
permettere l'accesso e il passaggio nel suo fondo, sempre che ne venga riconosciuta la necessità, al fine di
costruire o riparare un muro o altra opera propria del vicino oppure comune.”
Art 845 “La proprietà fondiaria è soggetta a regole particolari per il conseguimento di scopi di pubblico
interesse nei casi previsti dalle leggi speciali e dalle disposizioni contenute nelle sezioni seguenti”.
IMMISSIONI profilo di primario interesse; si tratta di interpretare l’articolo 844, cosa non semplice. Con
riferimento alle immissioni, entrano in gioco interessi che vanno ben al di là della proprietà: interessi legati
alla salute, alla produzione,… quindi la disciplina delle immissioni ha implicazioni con INTERESSI
FONDAMENTALI.
SENTENZA 1974 è una decisione importante, in quanto con tale decisione la corte ha inaugurato un
indirizzo che è ancora oggi prevalente: l’indirizzo secondo cui l’art 844 cc è disposizione che riguarda il
diritto di proprietà, tutelandolo nei rapporti inter privati , senza prendere in considerazione esigenze di
natura pubblica, collegate alla tutela della salute pubblica, alla tutela dell’ambiente come bene collettivo
ecc.. la sentenza evidenzia anche alcuni profili problematici: innanzi tutto, in essa è implicato il rapporto tra
tutela contro le immissioni e tutela della salute: non basta dire che l’art 844 non tutela la salute, ma
bisogna cercare di capire in che rapporto è l’articolo con la tutela della salute, e in che modo può venire in
gioco un’implicazione della tutela della salute in questo articolo. Nel momento in cui viene accertata la
tollerabilità della immissione, bisogna prendere atto del fatto che l’immissione non può essere impedita,
perché quell’attività che produce l’immissione tollerabile rientra nelle prerogative del proprietario, non
configurando un illecito. Se non vi è illecito, il danno alla salute che può derivare dall’immissione è un
danno che il soggetto dovrebbe tollerare.
Non è solo in gioco il godimento del proprio bene , ma vi è anche un sacrificio alla salute, se si afferma che
l’immissione tollerabile non configura illecito. È possibile astrattamente che anche un’immissione
tollerabile possa dar luogo a un danno alla salute. . NELL’OTTICA DELL’ART 2043, non si avrebbe un danno
INGIUSTO (dunque risarcibile).
Cosa significa, però, “normale tollerabilità?” la dobbiamo intendere dal punto di vista oggettivo? O in senso
soggettivo, tenendo conto della particolarità della vicenda? Conta la valutazione sulla condizione di salute
delle persone coinvolte? C’è quindi il piano della proprietà , ma anche l’implicazione di un piano diverso: il
concetto di tollerabilità si rapporta all’individuo. Il concetto stesso deve fare i conti con la situazione
soggettiva. (un’immissione è tollerabile/intollerabile non per la res , bensì per il soggetto). Se si valorizza
l’elemento relazionale, si fa filtrare all’interno dell’art 844 la questione della salute del soggetto .
Bisogna valutare la reale incidenza che in quella particolare situazione hanno le immissioni. La “normale
tollerabilità” non è la stessa sempre.
Di fronte a un’immissione tollerabile, non può essere impedito l’esercizio del diritto del proprietario;
tuttavia, il giudice potrebbe predisporre una tutela inibitoria positiva.
Il discorso va quindi problematizzato alla luce del profilo legato alla salute.
SENTENZA 247/74 corte costituzionale è una sentenza anomala; un pretore di Bologna lamenta che l’art
844 sarebbe un rimedio insufficiente ai gravi problemi posti dall’inquinamento. L’insufficienza sarebbe
palese per quel che riguarda la tutela di beni costituzionalmente protetti , che non possono non essere
tutelati. Gli interessi e i beni a cui si fa riferimento sono quelli della SALUTE UMANA e dell’AMBIENTE. Il
pretore lamenta anche il fatto che l’art 844 sia norma che regola il conflitto tra proprietari di fondi VICINI, e
lasci invece scoperta l’esigenza di tutela di altri soggetti che potrebbero essere pregiudicati dalle
immissioni. (si lamenta quindi anche la violazione dell’art 3 della costituzione).
Bisogna anche guardare alla natura delle immissioni che vengono in essere, in quanto molte tipologie di
immissioni sono disciplinate da normative specifiche (es. inquinamento acustico).
Siamo , nella specie, di fronte a immissioni consistenti in propagazioni di fumo e scorie, provenienti dal
fondo vicino. Tale tipologia di immissione non è disciplinata da disposizioni specifiche. Siamo di fronte ad
un’immissione che ha come riferimento normativo l’art 844.
La corte pronuncia una sentenza di NON FONDATEZZA delle questioni: secondo l’ormai prevalente
orientamento giurisprudenziale, fondato sull’art 844, “il proprietario è tenuto a SUBIRE le immissioni di
fumo e di calore, nonché esalazioni, rumori scuotimenti (..) provenienti dal fondo del vicino, che non
superino la normale tollerabilità; la cui valutazione non in astratto , ma in concreto, in relazione alla
condizione dei luoghi ed alla stregua di valori economico-sociali generalmente accettati in un determinato
momento storico, è rimessa ai poteri determinativi del giudice ove sorga controversia. Nel caso poi (comma
secondo) che le immissioni provengano dallo svolgimento di un'attività produttiva e che esse superino quella
tollerabilità che sarebbe altrimenti decisiva ai sensi del comma primo, spetterà al giudice - sempre in
mancanza di accordo - di contemperare mediante opportuni provvedimenti gli interessi della
produzione .con quelli della proprietà, tenendo conto anche della priorità dell'uso, sì da evitare il completo
sacrificio dell'una o dell'altra categoria di interessi. All'infuori dei casi e dei limiti predetti tutte le altre
immissioni sono ritenute illegittime e suscettibili di venire represse con l'azione negatoria (art. 949 c.c.) oltre
che mediante le azioni personali esperibili per ottenere il risarcimento dei danni eventualmente subiti”.
(..)la norma è infatti destinata a risolvere il conflitto tra proprietari di fondi vicini per le influenze negative
derivanti da attività svolte nei rispettivi fondi. Si comprende quindi che il criterio della normale tollerabilità
in essa accolto vada riferito esclusivamente al contenuto del diritto di proprietà e non possa essere utilizzato
per giudicare della liceità di immissioni che rechino pregiudizio anche alla salute umana o all'integrità
dell'ambiente naturale, alla cui tutela è rivolto in via immediata tutto un altro ordine di norme di natura
repressiva e preventiva”.
SENTENZA 103/2011: è un’ordinanza della corte costituzionale che prende di mira l’articolo 6ter del
decreto legge 208/2008. Siamo dinnanzi a un caso di immissione acustica. Essa è assistita da disposizioni
normative ad hoc.
VICENDA si tratta di una controversia proposta dai proprietari di un’abitazione, per la eliminazione delle
immissioni acustiche derivanti dalla gestione di un impianto di risalita, ad uso turistico. I proprietari
dell’abitazione chiedono la cessazione dell’immissione e il risarcimento del danno. Il giudice di Sondrio, con
un’ordinanza (8 giugno 2010) solleva la questione di legittimità dell’art 6 ter, il quale afferma:
“nell’accertare la normale tollerabilità delle immissioni e delle emissioni acustiche, ai sensi dell’art 844 del
cc, sono fatte salve , in ogni caso, le disposizioni di legge e di regolamento vigenti, che disciplinano
specifiche sorgenti e la priorità di un determinato uso”. Nel 2018, anche all’esito di questa sentenza, la
legge 145 ha inserito nell’articolo 6ter un altro comma , il quale così recita : “ai fini dell’attuazione del primo
comma, si applicano i criteri di accettabilità del livello di rumore, di cui alla legge 447/1995 e alle relative
norme di attuazione”. La legge 447 è appunto la legge QUADRO in materia di inquinamento acustico.
Al comma 1 vi era un riferimento GENERICO a disposizioni di legge; di qui, la necessità del legislatore di
inserire il riferimento ai criteri di accettabilità della legge quadro.
Come è stata interpretata tale disposizione? Il giudice premette che la convenuta (proprietaria
dell’impianto di risalita) ha chiesto il rigetto della domanda dei proprietari. Si era registrato che, dal punto
di vista della normale tollerabilità, l’immissione si configurava come INTOLLERABILE. (applicando l’art 844).
Invece, tale immissione risulta nell’ambito dei limiti stabiliti dal DPR del 97. Vi è quindi concorrenza tra 2
disposizioni: l’art 844 e il DPR.
Secondo il giudice a quo, in presenza di specifiche discipline, il giudice non potrà più valutare la NORMALE
TOLLERABILITA’, ma dovrà limitarsi a rilevare l’eventuale contrasto con le disposizioni specifiche. Se c’è
concorrenza, l’art 844 non si applicherà più.
“il rimettente (giudice) – ritenuto che la domanda proposta dovrebbe essere rigettata, nonostante il
superamento dei limiti di normale tollerabilità ricavabili dall’art. 844 cod. civ. – deduce che la norma
censurata violerebbe gli evocati parametri, per il diverso trattamento degli atti di immissione e/o di
emissione acustica rispetto a quelli di altra natura e per la lesione del diritto alla salute, sotto lo specifico
aspetto del diritto al riposo ed alla tranquillità individuale, perché impedisce di applicare la norma primaria
“in bianco” contenuta nell’art. 844 cod. civ”
CORTE “Considerato che il rimettente deduce che la norma censurata violerebbe l’articolo 3 della
Costituzione, in ragione del diverso trattamento degli atti di immissione e/o di emissione acustica rispetto a
quelli di altra natura, nonché l’art. 32 Cost. per la lesione del diritto alla salute, sotto lo specifico aspetto del
diritto al riposo ed alla tranquillità individuale, perché impedirebbe di applicare la norma primaria “in
bianco” contenuta nell’art. 844 cod. civ., che vieta le immissioni non tollerabili(..);
che, con riferimento a tale secondo profilo di censura, va rilevato che il rimettente (come eccepito dalla
difesa dello Stato) omette di specificare se il riscontrato superamento del limite di normale tollerabilità delle
immissioni acustiche comporti nel caso concreto un effettivo danno per la salute fisio-psichica degli attori;
che la completa assenza di qualsiasi motivazione sul punto vale a determinare l’inammissibilità della
questione per insanabile astrattezza (ordinanza n. 5 del 2010), in quanto tale difetto di motivazione non
consente alla Corte di valutarne la rilevanza ai fini della definizione del giudizio a quo;
che, tuttavia, (come ancora eccepito dalla Avvocatura generale dello Stato) il giudice a quo non indica quali
(e di quale rango) siano le disposizioni pubblicistiche che disciplinerebbero nella fattispecie la specifica
sorgente sonora degli impianti sciistici, né chiarisce se a suo avviso debba farsi riferimento ai limiti stabiliti
dal D.P.C.M. 14 novembre 1997”(..)
Il salumificio precisa, in giudizio, che l’edificio preesisteva al condominio, al fine di sottolineare la priorità
del salumificio rispetto al condominio; che il costruttore dell’edificio condominiale, rendendosi conto
dell’esistenza dei rumori, avrebbe dovuto provvedere a sistemare le cose. Poiché non si era provveduto a
ciò, si chiedeva l’autorizzazione a chiamare in giudizio anche tali soggetti: il costruttore e il comune di
viterbo.
Il giudice provvede , ex art 700, a nominare un CTU , affidando l’accertamento ad un perito. Quest’ultimo
accerta “che il rumore effettivamente c’è, che supera il limite assoluto di immissione stabilito per le zone nel
periodo notturno”. Fa riferimento a dei limiti previsti dal DPCM del 1991, individuando quei limiti come
soglia e ritenendo l’immissione intollerabile perché supera la soglia nelle ore notturne. Lo stesso CTU
provvedeva ad indicare le opere necessarie per ricondurre le immissioni nei limiti della tollerabilità .
successivamente, il CTU specifica che applicando il criterio della normale tollerabilità , le immissioni
superavano il valore limite PER TUTTI GLI AMBIENTI CAMPIONATI, SIA NEL PERIODO DIURNO CHE
NOTTURNO. Al CTU viene quindi richiesto di valutare anche la normale tollerabilità dell’immissione, ai sensi
dell’art 844: qui si fa riferimento al superamento dei limiti, con riferimento a tutto il periodo della giornata.
Nel valutare la normale tollerabilità , il giudice si basa in primis sulla condizione dei luoghi; il presupposto è
vedere quanto il rumore aggiuntivo vada oltre il cd rumore di fondo, che è il parametro da tenere in
considerazione. Il rumore di fondo dipende dall’ambiente in cui la struttura si trova.
Esaurita la fase istruttoria, il tribunale di Viterbo accoglie le domande attoree, rivolte alla cessazione dei
rumori e al risarcimento del danno subito. Contro questa sentenza, interpone appello la società (il
salumificio). Viene disposto un nuovo accertamento tecnico; la corte di appello di Roma rigetta l’appello,
condannando l’appellante al pagamento delle spese del giudizio.
“Secondo la corte territoriale, accertato che i rumori di cui si dice superano la normale tollerabilità, vanno
rimossi quale che sia la tecnica che si voglia porre in essere; o intervenendo direttamente sul fabbricato, o
eliminando le stesse fonti dei rumori ,anche interrompendo il processo lavorativo”. Il criterio su cui si basa il
tribunale e la corte è quello del primo comma dell’art 844. Il giudice ha quindi valutato se la NORMALE
TOLLERABILITA’ FOSSE O NO SUPERATA. Nella valutazione, il salumificio viene in considerazione non quale
impianto di produzione, ma SUB SPECIE di proprietà, come oggetto della proprietà da parte dei salumieri.
Quindi, la cassazione afferma che la sentenza impugnata ha correttamente seguito tali principi, ritenendo
che il conflitto dovesse essere risolto sulla base del criterio della normale tollerabilità dell’art 844.
“alla materia delle immissioni sonore o da vibrazioni o scuotimenti atte a turbare il bene della tranquillità
nel godimento degli immobili adibiti ad abitazione, non è applicabile la L. 26 ottobre 1995, n. 447,
sull’inquinamento acustico, poichè tale normativa, come quella contenuta nei regolamenti locali, persegue
interessi pubblici disciplinando, in via generale ed assoluta, e nei rapporti cd verticali fra privati e PA, i livelli
di accettabilità delle immissioni sonore al fine di assicurare alla collettività il rispetto di livelli minimi di
quiete. Nei rapporti fra privati, infatti, la disciplina delle immissioni moleste in alieno va rinvenuta
nell’art. 844 c.c.,(..)”
Vi è in tale sentenza una diversa lettura del rapporto tra disposizione speciale e art 844.
LIQUIDAZIONE DEL DANNO altro profilo significativo della sentenza; “Quanto al quantum del danno va
qui precisato che l’accertamento del superamento della soglia di normale tollerabilità di cui all’art. 844 c.c.,
comporta nella liquidazione del danno da immissioni, sussistente in “re ipsa”, l’esclusione di qualsiasi
criterio di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell’uso, in quanto venendo in
considerazione, in tale ipotesi, unicamente l’illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si
rientra nello schema dell’azione generale di risarcimento danni di cui all’art. 2043 c.c”., si afferma un
ulteriore principio: nel valutare il danno arrecato dalle immissioni, una volta accertata la violazione della
proprietà, il danno conseguirebbe IN RE IPSA, cioè sarebbe automaticamente risarcibile, perché la
violazione della proprietà è in sé e per sé un illecito. Ai fini dell’art 2043, configura l’ingiustizia del danno.
Qui si accredita l’idea che l’ingiustizia del danno sia insita nella violazione del diritto di proprietà.
Specificamente, per quanto concerne il danno alla salute, quest’ultimo è un danno biologico rilevante in sé
e per sé, come danno all’integrità psico fisica.
Art 2059 si cercò di emancipare il danno biologico dall’art 2059, cioè di togliere dall’ambito di
applicazione dell’art 2059 il danno alla salute, mantenendo solo particolari danni non patrimoniali: i cd
danni morali .
il danno biologico, sottratto al 2059, veniva ad essere attratto dall’art 2043: quest’ultimo fa riferimento in
generale a DANNI INGIUSTI, quindi nulla esclude che anche danni NON PATRIMONIALI possano rientrare
nell’art 2043, senza subire la regola restrittiva prevista dall’art 2059 (“il danno non patrimoniale deve essere
risarcito solo nei casi determinati dalla legge”. ). Tale tesi è stata abbracciata anche dalla corte
costituzionale. È stata poi oggetto di revisione quando si è affermata l’idea che l’art 2059 potesse essere
letto in modo COSTITUZIONALMENTE ORIENTATO: al di là della lettera, si deve sempre mettere in contatto
le disposizioni della legge ordinaria con i principi affermati dalla costituzione.
Nella costituzione, è presente l’art 2(diritti inviolabili). Quindi, la costituzione afferma che non possa essere
fatta una discriminazione con riferimento al danno all’integrità psicofisica (che rientra tra i diritti inviolabili).
Tutti i danni procurati a diritti inviolabili della persona vanno risarciti.
Già a partire dagli ultimi anno dello scorso secolo, la corte costituzionale ha sancito tale lettura
costituzionalmente orientata dell’articolo 2059. La lettura trova un riferimento chiaro nelle cd sentenze di
SAN MARTINO, definite così perché risalenti all’11 novembre; sentenze che hanno affermato che L’ART
2059 VA LETTO IN MANIERA TALE DA ASSICURARE IL RISARCIMENTO DEL DANNO NON PATRIMONIALE
OGNI QUALVOLTA IL DANNO SIA PROCURATO COME LESIONE DI UN DIRITTO INVIOLABILE,
COSTITUZIONALMENTE RITENUTO TALE. Sono risarcibili non solo i danni non patrimoniali oggetto di
specifica previsione di legge; ma tutti i danni non patrimoniali conseguenza della lesione di un diritto
inviolabile della persona, come tale riconosciuti dalla costituzione.
“Trattandosi di danno non patrimoniale, il giudice ha correttamente proceduto alla liquidazione equitativa
del danno.” La valutazione equitativa del danno interviene quando un danno è certo ; ad essere incerto è
l’ammontare. Il danno non patrimoniale, non essendo valutabile in termini monetari, sfugge alla possibilità
di essere determinato con precisione. Interviene quindi la valutazione EQUITATIVA.
“Può essere accolta la domanda di risarcimenti dei danni proposta dagli attori ai sensi dell’art 2043, in
quanto le immissioni rumorose hanno pregiudicato gli attori nella facoltà di godimenti dei loro immobili; e ,
comunque, hanno recato disturbo al loro riposo e alle loro occupazioni. “. Qui si fa riferimento all’art 2043;
l’art 2059 è stato forse tirato fuori successivamente.
Questa sentenza quindi è interessante per 2 ragioni: la prima riguarda la concorrenza di normative; la
seconda , il risarcimento del danno.
Con riferimento a questo, è interessante confrontare la sentenza ora vista con un’altra, la 19434/2019: tale
sentenza accredita una diversa interpretazione, in ordine alla liquidazione del danno.
PRIMO MOTIVO la corte di appello aveva rigettato il motivo di gravame, con il quale si lamentava la
mancata adozione di rimedi tecnici idonei a ricondurre le immissioni entro i limiti della normale tollerabilità
(c.d. inibitoria positiva) sull’assunto che era onere dell’appellante – nella specie non assolto – indicare quale
in concreto questi avrebbero dovuto essere.
Ci interessa il terzo motivo proposto in cassazione dal ricorrente: si lamenta la violazione di una serie di
articoli, perché la corte aveva ritenuto la sussistenza di un danno risarcibile in re ipsa, pur in mancanza di
una lesione alla salute .
Pronuncia corte la corte giudica fondato il primo motivo di ricorso: “nell’accogliere la domanda volta a
far cessare le immissioni, il giudice pur avendo la facoltà di scegliere tra le diverse misure consentite dalla
norma, ha l’obbligo di precisare le ragioni della scelta e di indicare le misure in concreto adottate”. il
giudice deve scegliere tra un’inibitoria di tipo negativo (che si sostanzi nella condanna a cessare il fatto
lesivo) e INIBITORIA POSITIVA (che si sostanzia nella adozione di misure volte a ricondurre nell’ambito di
tollerabilità le immissioni). La corte chiaramente lascia intendere che la strada preferibile è la seconda
(inibitoria positiva). Il giudice deve tentare di adottare le misure meno invasive, cioè quelle corrispondenti a
inibitoria positiva.
Terzo motivo è fondato altresì il terzo motivo; i giudici di merito avevano ritenuto il danno risarcibile in re
ipsa; siffatto principio non è condiviso dalla più recente giurisprudenza, secondo cui il danno non può
essere considerato in re ipsa, ma deve essere considerato secondo la regola generale dell’art 2697. qui
si evidenzia quello che anche le sentenze di San Martino avevano sottolineato: il danno alla salute è un
danno conseguenza, non un danno evento; il danno alla salute è danno conseguenza dell’evento, quindi
non considerabili risarcibili in re ipsa. Non basta allegare l’esistenza del danno, ma bisogna dimostrarlo,
attraverso FATTI SPECIFICI E PRECISI .
NEL NOSTRO SISTEMA, IL RISARCIMENTO DEL DANNO HA ESSENZIALMENTE FUNZIONE RIPARATORIA: non
può andare al di là di quanto necessario alla riparazione e non può avere valenza punitiva. Se si accettasse
l’idea del danno in re ipsa, si funzionalizzerebbe il risarcimento alla pena da irrogare nei confronti
dell’autore dell’illecito.
SERVITU’ PREDIALI inquadrare le servitù è agevole: è un diritto reale limitato, perché esercitato su beni
che sono di proprietà di un soggetto diverso. È un diritto reale particolare perché al contrario degli altri che
riguardano situazioni di relazione tra soggetti (es. usufrutto), la servitù viene descritta come rapporto tra
fondi e non tra persone, anche se poi essendo questi fondi di proprietà di persone, alla fin fine riguarda
anche persone in rapporto. Anche la visione tradizionale va quindi sfatata: la servitù è sì un diritto su cosa
(condivide i carattere dei diritti reali, per esempio il diritto di seguito) , ma presuppone anche una relazione
tra persone. La distinzione tra diritti reali e personali di godimento va presa con le molle: la locazione ad
esempio, diritto personale di godimento, si atteggia per certi versi al pari di un diritto reale.
Il diritto di servitù presenta caratteri che lo distinguono da altri diritti reali limitati; non può certo essere
avvicinato al diritto di usufrutto, tipico diritto reale di godimento di un bene; non può essere avvicinato a
istituti di uso e abitazione, altrettanti diritti reali limitati che hanno come riferimento l’usufrutto. Non si può
infine certo confondere la servitù col diritto di superficie.
In cosa quindi consiste la servitù prediale? La nozione è offerta dal codice , agli articoli 1027 e ss. Le servitù
vengono definite PREDIALI, in quanto hanno a che fare col predio, cioè col fondo. Non bisogna pensare che
solo i fondi possano costituire oggetto di servitù , che può riguardare un bene immobile diverso dal fondo.
Art 1027- peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario.
Il primo elemento è quindi il peso: bisogna far riferimento agli articoli successivi, che ci danno
un’indicazione chiara. Il peso si sostanzia in un obbligo di comportamento da parte del soggetto titolare di
uno dei due fondi. In buona sostanza quindi abbiamo un rapporto tra soggetti. Abbiamo quindi il
proprietario del fondo dominante, che trae utilità dal peso, che ha diritto a che l’altro proprietario si
comporti in un certo modo.
Art 1030: è indicativo di cosa consiste il peso: ci dice che il proprietario del fondo servente , su cui grava il
peso, non è tenuto a compiere alcun atto per rendere possibile l’esercizio della servitù: in linea di massima,
l’obbligo di comportamento non è un obbligo di FARE : se il proprietario del fondo servente deve fare
qualcosa, si tratta di una prestazione ACCESSORIA, e non di quella oggetto della servitù. La servitù si
sostanzia in un peso che non può consistere in un obbligo di fare, ma di TOLLERARE (PATI) a che l’altro
tragga dalla servitù le utilità che la servitù deve dare. Al peso si ricollega la nozione di utilità, in quanto deve
sussistere una corrispondenza tra PESO E UTILITA’ DEL FONDO DOMINANTE.
Utilità: bisogna far riferimento all’art 1028, che ci dice che l’utilità può consistere anche nella maggiore
AMENITA’ E Comodità del fondo dominante (non quindi utilità in senso di profitto economico ).
1029 serve per chiarire il profilo dell’attività: ci dice che una servitù può essere costituita per assicurare al
fondo un vantaggio futuro: l’utilità non deve quindi essere necessariamente immediata; es. caso in cui la
servitù viene costituita con riferimento ad un immobile da costruire, che quindi non esiste.
È segnalata la distinzione tra servitù affermative e negative: le prime si sostanziano nella possibilità di
tenere un certo comportamento (legittimamente)che altrimenti sarebbe vietato. Tipico esempio è la
servitù di passaggio . dall’altro lato, quelle negative si configurano in un NON FARE del soggetto su cui
incombe la servitù. Tipico esempio è la servitù di NON SOPRAELEVARE.
TUTELA: la servitù è assistita da tutela reale; l’articolo 1079 individua le azioni che il titolare della servitù
può esperire; il titolare della servitù può far riconoscere in giudizio l’esistenza di una servitù non
riconosciuta (il modello è l’azione negatoria) e può far cessare eventuali impedimenti e turbative. Può
anche chiedere la rimessione delle cose in pristino e il risarcimento del danno. L’apparato di tutela
riproduce la tutela di cui risponde il proprietario, in buona sostanza.
COSTITUZIONE per costituire la servitù’ esistono diversi modi. Art 1031 le servitù possono essere
costituite COATTIVAMENTE O VOLONTARIAMENTE. Lo stesso articolo completa il quadro facendo
riferimento alla possibilità di costituzione per usucapione o destinazione del padre di famiglia.
1) COATTIVAMENTE rimanda alle cd servitù coattive (artt 1032 e ss). Caratterizzate dal numerus
clausus : le servitù coattive sono dominate da un principio di tipicità legale: sono quelle che la legge
riconosce tali, e non altre. Quali sono ? sono le servitù di acquedotto e scarico coattivo .
l’acquedotto serve a far passare l’acqua e consentirne la distribuzione: ecco perché la servitù è
considerata COATTIVA. Andando avanti, incontriamo anche la servitù di passaggio coattivo: la
servitù di passaggio è coattiva in presenza di alcune circostanze, come nell’ipotesi del cd FONDO
INTERCLUSO, che essendo circondato da altri fondi di proprietà di soggetti diversi, non ha la
possibilità di accedere alla pubblica via: il soggetto proprietario del fondo dovrà avere accesso alla
pubblica via. Quindi a carico di uno dei fondi confinanti verrà costituita anche in via coattiva una
servitù. La servitù coattiva non è necessariamente apparente. Altra ipotesi tipica è quella della
servitù di elettrodotto, cioè passaggio di vie funicolari per far passare la corrente elettrica. La
servitù coattiva ha come prerogativa quindi il fatto di essere costituita A PRESCINDERE del consenso
del titolare del fondo servente. L’art 1032 ci dice come si costituisce: quando IN FORZA DI LEGGE il
proprietario di un fondo ha diritto di ottenere da parte del proprietario di un altro fondo la
costituzione di una servitù, questa in mancanza di contratto è costituita con sentenza.
L’articolo lascia presumere che il primo modo di costituire la servitù coattiva è il contratto, quindi
l’accordo tra le parti. Le servitù coattive prevedono anche un indennizzo nei confronti del
proprietario del fondo servente, che viene determinato dalle parti in caso di contratto.
In mancanza di contratto, si ricorre al giudice e la servitù si costituisce con SENTENZA. La sentenza
determinerà anche il quantum dell’indennizzo. È un tipico esempio di sentenza COSTITUTIVA.
L’articolo parla anche di atto dell’autorità amministrativa, laddove la legge lo preveda .
SENTENZA 11563/2016 vi sono in gioco la costituzione di due servitù: una era servitù coattiva di
acquedotto e scarico; in tale fattispecie vi era poi in gioco la costituzione della servitù atipica di
GASDOTTO: il problema sorge con riferimento a quest’ultima servitù , che una delle parti coinvolte
pretendeva dovesse essere costituita in modo COATTIVO, sulla base di una considerazione: l’idea
che si dovessero interpretare in via ANALOGICA le disposizioni in materia di servitù coattiva. La
parte riteneva che il dettato legislativo fosse datato , facendo riferimento solo all’acqua e alla
energia elettrica, senza pensare a quanto importante fosse la distribuzione capillare anche del gas.
il dettato normativo dovrebbe quindi essere , secondo la parte, aggiornato con il ricorso all’analogia
(art 12 preleggi) . si avanzava quindi la possibilità di ricorrere a tale meccanismo , per colmare la
lacuna in questione.
La cassazione dice che la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del principio secondo
cui a differenza delle servitù volontarie (che possono avere ad oggetto qualsiasi utilitas), quelle
coattive formano un NUMERUS CLAUSUS, avendo ciascuna un contenuto predeterminato dalla
legge, sicché non sono ammissibili altri tipi. La cassazione tiene quindi fermo il principio del
numero chiuso, con valenza ostativa. Pertanto è inammissibile la costituzione della servitù di
passaggio per la fornitura di gas metano. La cassazione afferma che la servitù di acquedotto e
gasdotto non sono assimilabili per i caratteri di struttura e funzione di ciascuna, e per la
PERICOLOSITA’ DI PASSAGGIO DI GAS . la corte costituzionale ha dichiarato la infondatezza della
questione di legittimità sollevata sull’articolo riguardante la servitù di acquedotto.
Solo il legislatore può intervenire dichiarando la servitù’ di gasdotto come coattiva. La corte fa leva
sull’esistenza di altre fonti alternative, rispetto a quella di gas metano.
Un altro dato che la sentenza evidenzia è il fatto che le condotte DI GAS erano state collocate in
loco a seguito di accordo verbale: la corte interviene affermando che la costituzione di una servitù
necessita di un atto SCRITTO.
La sentenza non fa altro che rafforzare l’idea del numero chiuso di servitù, consistente in quelle
espressamente previste dalla legge.
2) SERVITU’ VOLONTARIE si costituiscono volontariamente, per volontà concorde delle due parti in
gioco o per TESTAMENTO. Quelle costituite per contratto possono avere ad oggetto qualsiasi tipo di
utilità. Non ci sono particolari vincoli, se non quelli legati al modello di riferimento.
3) PER USUCAPIONE E PER DESTINAZIONE DEL PADRE DI FAMIGLIA tali modi di costituzione
riguardano SOLO LE SERVITU’ APPARENTI. L’usucapione è un modo di acquisto della proprietà. Si
parla con riferimento ad esso di PRESCRIZIONE ACQUISITIVA, PER DISTINGUERLA DA QUELLA
ESTINTIVA. Il trascorrere del tempo e la presenza di altri elementi comporta la perdita del
diritto da parte di un soggetto e l’acquisto corrispondente da parte di un altro soggetto. Il soggetto
B diventa proprietario a titolo originario in virtu’ del possesso continuo per un certo lasso di tempo.
Il meccanismo dell’usucapione vale quindi non solo per la proprietà, ma anche per altri diritti
immobiliari. Il discorso vale se la servitù è apparente , in quanto nell’usucapione il possesso deve
essere INDISTURBATO, QUINDI IN UN CERTO SENSO VISTO DAGLI ALTRI SOGGETTI.
4) PER DESTINAZIONE anche tale modo riguarda le servitù’ apparenti: l’art 1062 dice che la
destinazione ha luogo quando consta che due fondi attualmente divisi sono stati posseduti dallo
stesso proprietario e che questi ha lasciato le cose nello stato da servire alla servitù. Se i due
fondi cessano di appartenere al medesimo soggetto senza alcuna disposizione relativa alla
servitù, questa si intende stabilita attivamente e passivamente a favore e sopra ciascuno dei
fondi.
ESTINZIONE estinzione per confusione (si riuniscono nella medesima persona entrambe le proprietà);
per prescrizione; per mancanza di uso…
SERVITU’ DI USO PUBBLICO dal punto di vista normativo vi è richiamo nell’art 825: fa riferimento a diritti
demaniali su cose altrui: “demaniali” che rimanda ad un uso collettivo di tali diritti. L’art 825 dice che sono
soggetti al demanio pubblico i diritti reali su cose appartenenti ad altri soggetti….. vi è la possibilità che i
diritti demaniali siano costituiti per il perseguimento di fini di pubblico interessi, anche su BENI DI
PROPRIETA’ PRIVATA, su cui viene a gravare una servitù di uso pubblico .
CIVILE 27/04
COMUNIONE (SENTENZA SEZIONI UNITE 25021/ 2019).
Indicazioni generali sull’istituto per definire la comunione, si puo’ far capo a una
distinzione: comunione romanistica e comunione germanica: si fa questa distinzione
per evidenziare due diverse impostazioni, una delle quali ha perso molto della sua
attrattiva(quella in senso germanico, che è praticamente scomparsa). Perché
questo? Perché la c in senso germanico (“a mani riunite”) è caratterizzata
dall’assenza di quote: altro non è che una particolare forma di proprietà
COLLETTIVA. Qualche riferimento nel nostro ordinamento può anche averla, con
riferimento per esempio alla comunione legale tra coniugi, che non è pro quota. Ma
al di là di questo accostamento, la c. in senso germanico non trova riscontro nel
nostro ordinamento, dove la comunione è stata sempre legata al modello
romanistico; la concezione romanistica si fonda sull’idea di quota. La quota è una
quota ideale, cioè non ha riscontro con riferimento al bene costituente oggetto del
diritto. La quota esiste idealmente in quanto ciascun comunista è titolare di una
quota, ma non è una quota che cade sul bene, in quanto è solo misura dei diritti che
appartengono a ciascun comunista. Questi due concetti di comunione fanno parte
della discussione intorno al concetto di comunione. Il modello vincente è quello
romanistico . i 2 modelli che si possono tenere a riferimento sono entrambi tributari
della concezione romanistica della comunione . la comunione definita dal nostro
codice (come contitolarità della proprietà o di altro d reale- art 1100) consente
l’individuazione di quote in capo ai comunisti.
Sono individuate 2 teorie: 1) TEORIA DELLA QUOTA teoria che viene segnalata
perché nel cc del 1865 si rinveniva accolta tale teoria; nell’art 679 del cc del 1865 si
affermava che ciascun partecipante alla comunione ha la piena proprietà della sua
quota e dei relativi utili o frutti si evince che la quota altro non è che una quota di
proprietà : la proprietà si segmenta in tante quote quanti sono i comunisti. È quota
di PROPRIETA’.
2) Tale teoria che nel cc 1865 ha trovato accoglimento, è stata superata dal cc del
1942, il quale accoglie la teoria della PROPRIETA’ PLURIMA INTEGRALE siamo su
un piano diverso: la teoria della quota non concepiva una proprietà PLURIMA, ma
una frazione della proprietà. È una pr. Che spetta a tutti i comunisti
proporzionalmente alla quota da ciascuno posseduta. Tale quota è una quota ideale,
in quanto la proprietà in tal caso è plurima. Il bene è in comproprietà INDIVISA. La
quota serve a identificare il grado di partecipazione nell’amministrazione del bene.
Ci sono articoli del cc che evidenziano tale dato:
art 1105 abbiamo una quota che viene ad essere attribuita e identifica il peso che
ciascun comunista ha nelle decisioni che riguardano l’amministrazione;
art 1106 puo’ essere formato un regolamento per l’ordinaria amministrazione ,
secondo una decisione presa dai comunisti in proporzione alla propria quota.
La quota serve anche a identificare ciò che spetta al soggetto che intenda disporre
della propria partecipazione: il comunista può infatti effettuare atti di DISPOSIZIONE
della propria quota; l’art 1103 dice che ciascun partecipante puo’ disporre del suo
diritto NEI LIMITI DELLA SUA QUOTA.
La quota identifica ciò che spetterà al soggetto in caso di divisione, perché la
comunione è una situazione transitoria e non è detto duri in eterno, perché è
tendenzialmente provvisoria. Come si fa a stabilire i diritti dei comunisti in sede di
divisione? SULLA BASE DELLA QUOTA
La comunione vigente è la cd comunione pro indiviso, in cui il bene non è diviso ma
è integro, cosi come è integra la PROPRIETA’: si indentifica una quota solo ai fini
sopra detti.
La comunione puo’ essere VOLONTARIA (costituita per atto di autonomia privata)
ma anche INCIDENTALE (la comunione è un accidente che interviene per legge al
verificarsi di certe circostanze: una di esse è rappresentata dalla comunione
ereditaria). Esistono anche forme diverse da queste: comunione forzosa (es.
condominio, comunione forzosa del muro…) ; tutte le comunioni presentano tra loro
differenze: non possiamo paragonare la comunione ordinaria (volontaria) a quella
incidentale, che hanno un funzionamento disciplinato dalla legge.
SENTENZA 2019/25021 ci dà modo di riflettere su alcune problematiche di una
comunione ereditaria: il de cuius lascia 3 eredi; uno dei 3 era sottoposto a procedura
concorsuale, cioè a fallimento (volta a garantire la soddisfazione dei creditori). Vi
sono poi altri due eredi, fratelli germanici del primo soggetto in fallimento. Cosa era
caduto in successione? Un immobile di un piano che era stato successivamente
sopra elevato con altri piani, in assenza di concessione edilizia (quindi abusiva).
Tale edificazione abusiva era avvenuta negli anni tra 70 e 76, in cui si iniziava ad
introdurre il sistema della concessione. (Il legislatore ha cercato sin dal 1985 di
introdurre regole volte da un lato a sanzionare comportamenti di tale tipo o sanare
eventuali irregolarità. (legge 47/1985)). Uno dei tre eredi , quello sottoposto a
fallimento, chiede lo SCIOGLIMENTO DELLA COMUNIONE (con riferimento al
fabbricato costruito abusivamente) e quindi l’assegnazione di una quota. La quota
rivendicata sarebbe dovuta essere di 2/9. I giudici di merito rigettano la richiesta di
scioglimento dell’immobile abusivo, sulla base dei disposti normativi.
QUADRO NORMATIVO legge 1985 (successiva all’epoca della sopraelevazione
abusiva) : con l’articolo 17 la legge stabilisce che gli atti tra vivi sia in forma pubblica
che privata, aventi ad oggetto trasferimento o scioglimento della comunione di
diritti reali , relativi ad edifici la cui costruzione è iniziata dopo l’entrata in vigore
della legge, sono NULLI e non possono essere stipulati ove da essi non risultino gli
estremi della concessione a edificare. Tale articolo non sarebbe dovuto essere
applicato in quanto le opere abusive erano state compiute prima dell’entrata in
vigore della legge: ma la stessa legge del 85 nell’articolo 40 con riferimento agli
abusi compiuti prima dell’entrata in vigore della legge, stabilisce che gli atti tra vivi
aventi ad oggetto modificazione di diritti di garanzia e servitù SONO NULLI.
Nell’articolo 40, pero’, manca il riferimento all’oggetto degli atti tra vivi “aventi ad
oggetto il trasferimento o scioglimento..”
ART 46 DPR 2001 riproduce il contesto dell’art 17, che era stato abrogato.
La ragiona addotta dai giudici di merito è che la richiesta non puo’ essere accolta
perche’ il fabbricato era stato sopra elevato in assenza di concessione edilizia. Lo
scioglimento rientra quindi negli atti inter vivos dichiarati NULLI dall’articolo 17 della
legge dell’85. Non si dà rilevanza alla diversità della lettera presente nell’articolo 40
rispetto all’articolo 17.
Sarebbe inapplicabile inoltre l’art 46 c. 5 che esclude la nullità di atti derivanti da
procedure esecutive immobiliari. I giudici di merito dicono che tale disposizione ha
un ambito di applicazione ridotto, applicandosi solo alle fattispecie relative ad atti di
VENDITA DI BENI.
Cassazione vengono posti 2 quesiti: se lo scioglimento della comunione puo’
essere qualificato come atto INTER VIVOS; una volta chiarito ciò , bisogna capire se è
vero quanto disposto dalle leggi sopra dette con riferimento alla comunione
ereditaria , che si colloca in un orizzonte che è quello della successione e
probabilmente assimilabile agli atti mortis causa.
Primo quesito nell’art 17 lo scioglimento della comunione viene menzionato;
nell’art 40 manca riferimento allo scioglimento della comunione, che quindi si
potrebbe intendere come atto NON INTER VIVOS. Tale orientamento non convince
la cassazione: la cassazione afferma che nonostante la diversità di lettera, il senso
che deve essere tratto dall’art 40 è il medesimo di quello dell’art 17 (e dell’art 46,
che riprende il 17).
Secondo quesito tutte le comunioni sono atti inter vivos o quella ereditaria deve
essere considerata a parte?
Bisogna vedere se anche gli atti di scioglimento di comunioni ereditarie rientrano tra
gli atti inter vivos: se la comunione ereditaria è comunione speciale, questo già
giustifica il problema.
CARATTERI PARTICOLARI COMUNIONE EREDITARIAin primis, nella modalità di
costituzione : la comunione ereditaria è infatti comunione incidentale, che si
costituisce nel momento dell’apertura della successione. Questo dato potrebbe
accreditare il sospetto che l’atto di scioglimento di essa non rientra negli atti inter
vivos.
Inoltre, la comunione ordinaria riguarda la proprietà e altri diritti reali; la comunione
ereditaria comprende anche i crediti: non cadono solo i beni che divengono di
proprietà dell’erede, ma vengono ricompresi anche i crediti (i debiti, nell’ambito
della coeredità, si distribuiscono invece in proporzione alla quota di ciascuno).
Il patto di rimanere in comunione, inoltre , è valido in caso di comunione ordinaria,
ma non nel caso di quella ereditaria, che è appunto incidentale, quindi scioglibile in
qualsiasi momento. I coeredi possono sempre domandare divisione.
Essendo lo scioglimento il suggello di una situazione esistente, cio’ depone a favore
della tesi di un atto mortis causa
Art 757 dice che ogni coerede è immediatamente considerato successore del dc;
da qui lo scioglimento si limita a dichiarare cio’ che già è nei fatti: ogni singolo
coerede discende il suo diritto direttamente dal dc.
Lo scioglimento della c ordinaria è un atto costitutivo; in caso di comunione
ereditaria, lo scioglimento non è atto costitutivo, ma svolge una funzione retroattiva,
come se sin dall’inizio ciascun erede FOSSE SUCCESSORE DEL DC.
LA cassazione dice che quando parliamo di atto mortis causa, esso è un atto che trae
la sua ragion d’essere dalla morte di un soggetto. La morte è un fatto antecedente
alla divisione. Lo scioglimento è un fatto eventuale: puo’ esserci come puo’ non
esserci, quindi è difficile parlare di atto mortis causa. Si sta ragionando non tanto
sull’atto in sé quanto sull’effetto. Diversa è la divisione fatta dal testatore, che è atto
mortis causa.
La cassazione giunge alla soluzione sulla base dell’interpretazione ex art 12 delle
preleggi .
Si tratta quindi di verificare se quanto fin qui detto riguarda solo la comunione
volontaria o anche quella giudiziale; anche qui la cassazione afferma che il discorso
vale anche per la comunione giudiziale, altrimenti questo sarebbe un modo
surrettizio per aggirare l’applicazione di queste regole.
La cassazione infine si chiede se si possa addivenire ad una divisione parziale , che
escluda l’immobile abusivo. Si afferma il principio dell’universalità dello
scioglimento della comunione: per sua definizione, lo scioglimento deve
riguardare TUTTI I BENI . se accettiamo tale principio, si dà una risposta negativa, in
quanto nella fattispecie non è possibile procedere allo scioglimento parziale della
comunione. Tale discorso vale in linea generale: tuttavia, si afferma che il principio
sia derogabile : l’art ? afferma che la divisione che tralascia un determinato bene è
valida, salvo che si proceda poi a un supplemento della divisione stessa. Occorre
pero’ un consenso unanime? Essendo l’immobile un bene non divisibile, la
cassazione afferma che non vi è necessità del consenso.
USO DELLA COSA COMUNE (ART 1102 CC) afferma che ciascun partecipante puo’
servirsi della comune purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca ad altri di
farne parimenti uso.
SENTENZA 21906/2021 CORTE DI CASSAZIONE la controversia nasce da un
rapporto tra 2 fratelli, comproprietari di diversi beni immobili; tali beni immobili in
comproprietà sono in larga parte locati; uno dei 2 fratelli ha la gestione dei rapporti
cou conduttori, tanto è che riscuote i canoni corrisposti dai conduttori. L’altro
fratello comproprietario, a sua volta, sembra abbia la gestione degli immobili,
perchè dalla sentenza risulta che il figlio occupa uno degli immobili.
Il fratello che non gestisce la gran parte degli immobili agisce in giudizio perché
l’altro aveva mancato di rendere conto della sua gestione e di corrispondere una
quota dei canoni riscossi dall’altro. Il convenuto in giudizio eccepisce dicendo che a
lui è dovuto il canone derivante dall’occupazione del figlio dell’attore di uno degli
immobili.
Il giudice accoglie inizialmente ambo le domande, stabilendo che l’attore debba al
convenuto la somma di 22 mila euro che si riferisce all’immobile occupato dal figlio
dell’attore.
Si va in appello: la corte rigetta le impugnazioni.
In particolar modo, non puo’ essere eccepito il fatto che al convenuto sia dovuto il
canone dovuto all’occupazione di uno degli immobili da parte del figlio del fratello,
in quanto l’occupazione è parte del godimento diretto della cosa e un uso della
cosa comune nel pieno rispetto della regola del 1102: al limite si sarebbe dovuto
agire nei confronti dell’occupante
Affinchè possa consolidarsi l’obbligo di ristorare, è necessario che il soggetto abbia
tratto un vantaggio patrimoniale . nella fattispecie, il vantaggio pattrimoniale non è
provato.
La sentenza della corte di cassazione evidenzia che la modalità particolare di uso
della cosa comune (conferimento del godimento a un altro soggetto) è del tutto in
norma con l’art 1102 (è un uso di tipo INDIRETTO): bisognerà dimostrare che si
sono tratte utilità e vantaggi dalla situazione per dar luogo a diritto al risarcimento.
POSSESSO: altro grande tema . il possesso si inquadra nel discorso delle forme di
appartenenza dei beni; si possono individuare 2 sistemi di appartenenza dei beni: DI
APPARTENENZA FORMALE (collegato alla titolarità di un diritto, cioè al diritto di
proprietà- art 810 cc) ; DI APPARTENENZA FATTUALE (si ricollega non alla titolarità
formale, ma ad un aspetto fattuale – appartenenza di fatto, avulsa dalla logica della
titolarità formale. Cio che interessa è la materialità della relazione tra un soggetto e
una res).
Il possesso è la figura paradigmatica della forma di appropriazione FATTUALE. Cio’
che conta è la situazione di fatto , la relazione esistente tra un soggetto e la res. Una
relazione tra proprietà e possesso esiste, in quanto il possesso è una situazione di
appartenenza NON FORMALE e cio’ vale a distinguerlo dalla proprietà.
Appartenenza formale e fattuale possono ovviamente coesistere, come nella
maggior parte dei casi . può anche darsi che l’appartenenza formale non coesista
con quella fattuale: esistono ipotesi in cui un soggetto proprietario non ha il
possesso. (es. ladro, usufruttuario , di fronte al quale il proprietario ha la nuda
proprietà).
Non qualsiasi relazione che un soggetto ha con un bene è possesso, perché il nostro
ordinamento ricollega certe conseguenze al possesso e non a qualsivoglia relazione
col bene.
Possesso art 1140 cc: relazione di FATTO che viene considerata in quanto tale e a
prescindere da ogni elemento di titolarità. Il possesso puo’ essere titolato o non
titolato. L’art 1140 definisce il possesso un POTERE sulla cosa : la relazione tra
soggetto e cosa è una relazione che si puo’ ricondurre quindi al concetto di potere,
che consiste nella possibilità e idoneità del soggetto ad effettuare un controllo sulla
res. Oggetto del possesso è una res mobile o immobile; il concetto di cosa di cui
parla l’art 1140 si collega direttamente alle cose materiali; ma si va sempre piu’
allargando la possibilità di considerare suscettibili di possesso anche le cose
IMMATERIALI (es. possesso sulle energie elettriche, onde ) ma in linea generale il
possesso è collegato al potere su cose MATERIALI.
ART 1145 il possesso delle cose di cui non si puo’ acquistare la proprietà è senza
effetto. Cio’ delimita il campo delle cose suscettibili di possesso. (es. cose
insuscettibili di appropriazione ESCLUSIVA – aria che respiriamo).
Il potere sulla cosa si manifesta : tale formulazione esprime una specificazione del
potere e con essa il legislatore ci dice che il potere sulla cosa DEVE AVERE UNA
PROIEZIONE ALL’ESTERNO. Il potere sulla cosa si manifesta in quanto è un potere
percepibile dagli altri, perché esercitato in modo palese , tramite attività (art 1140)
e comportamenti. L’attività deve essere corrispondente all’esercizio della proprietà
o di altro diritto reale; la manifestazione del potere si deve palesare attraverso il
compimento di attività che simmetricamente e concretamente si possano
considerare atti che avrebbe compiuto il proprietario o titolare di altro diritto reale.
Il possesso si manifesta per far sì che gli altri possano apprezzare quell’attività come
attività compiuta nell’esercizio di un diritto.
Non basta il potere sulla cosa ma bisogna che ci sia anche l’ANIMUS POSSIDENDI,
cioè l’intenzione di comportarsi con riferimento alla cosa cosi’ come si
comporterebbe il proprietario o il titolare di altro diritto reale. L’intenzione si deve
tradurre in attività, non essendo valutabile solo sul piano psicologico .è un animus
possidendi oggettivato nelle attività che il possessore pone in essere.
Art 1140 presenta un secondo comma che ci dice che si puo’ possedere
DIRETTAMENTE o per MEZZO DI UN’ALTRA PERSONA che ha la DETENZIONE della
cosa: qui emerge la distinzione tra possesso diretto e possesso indiretto (o mediato):
nel secondo caso, si parla di soggetto detentore.
DETENZIONE E POSSESSO anche la detenzione non necessariamente si fonda su
un titolo ; attiene come il possesso alla sfera del FATTO e non necessariamente si
accompagna alla titolarità di un diritto. Colui il quale ottiene dal possessore il
godimento del bene, diventa DETENTORE DEL BENE STESSO. Vi sono quindi
situazioni in cui la proprietà è disgiunta dal possesso ed e’ disgiunta dalla
detenzione. La differenza tra possesso e detenzione è chiara: l’elemento da
verificare è quello dell’attività concretamente posta in essere .
ACQUISTO DEL POSSESSO il possesso si puo’ acquistare tramite l’apprensione
materiale e unilaterale del bene (a titolo originario) ; si puo’ anche acquistare a
titolo derivativo tramite la consegna effettuata dal soggetto che ne ha la
disponibilità (secondo molti non è configurabile tale forma di acquisto, in quanto
tale acquisto è concepibile solo laddove il possessore acquista la cosa da chi non ha
titolo per trasferirla); successione mortis causa (art 1146 il possesso continua
nell’erede dal momento dell’apertura della successione stessa); accessione al
possesso (si unisce un possesso a un altro- art 1146); tolleranza (solo in alcuni casi
puo’ essere valida causa di attribuzione del possesso; l’art 1144 afferma infatti che
gli atti compiuti con l’altrui tolleranza non possono essere base per l’acquisto
dell’altrui possesso)
SENTENZA 2706/2019: possesso contestato di una cantina; nella situazione di fatto,
il possesso è stato esercitato per 40 anni con la tolleranza degli altri soggetti
(tolleranza che, abbiamo detto, non sarebbe circostanza idonea all’acquisto del
possesso).
Considerazioni cassazione: i motivi a detta della corte non meritano di essere accolti:
affinché si possano ritenere presenti atti di tolleranza , questi devono avere
fondamento nello spirito di condiscendenza, nei rapporti di buon vicinato e amicizia.
Si parla anche di saltuarietà ,che non corrisponde alla circostanza di fatto, in quanto
il possesso è stato prolungato per ben 40 anni.
Circostanze del possesso nella fattispecie: le circostanze di fatto militano ad
affermare l’assenza di atti di tolleranza , la cui presenza smentirebbe la sussistenza
del possesso ; il soggetto che ha avuto il possesso del bene, ha posseduto sempre le
chiavi della cantina e il possesso è stato accompagnato anche da attività che hanno
modificato anche la consistenza del bene (sono state realizzate opere all’interno
della cantina). Il possesso non è clandestino, ma si è manifestato all’esterno . in tale
contesto la corte di Milano ha escluso che il possesso sia stato frutto di MERA
TOLLERANZA: le modalità di esercizio del possesso e la sua durata dimostrano
inequivocabilmente un possesso UTI DOMIUS. (COME SE IL SOGGETTO FOSSE
PROPRIETARIO).
EFFETTI POSSESSO sono 3:
1) ACQUISTO DEI FRUTTI il possessore di buona fede fa propri i frutti naturali
separati FINO AL GIORNO DELLA DOMANDA GIUDIZIALE e i frutti civili
maturati FINO ALLO STESSO GIORNO (ART 1148). Il possessore è considerato
di buona fede quando chi possiede ignora di ledere l’altrui diritto. (buona
fede in senso soggettivo). L’art 1147 dice che la buona fede non giova se
l’ignoranza dipende da COLPA GRAVE; è inoltre presunta e basta che vi sia
stata AL TEMPO DELL’ACQUISTO (la mala fede sopravvenuta non nuoce).
Il possessore, in base all’art 1148 fa propri i frutti naturali SEPARATI fino al
giorno della domanda giudiziale “fa propri” nel senso che ne diventa
proprietario; quindi il possesso è una via per avere accesso alla proprietà.
“fino al momento della domanda giudiziale” se il proprietario fa valere la
proprietà tramite un’azione di rivendicazione nei confronti del possessore, il
pr. Riotterrà il possesso del bene: è fino a quel momento , della domanda
giudiziale, che i frutti appartengono al possessore. Ciò vale sia per i frutti civili
che per quelli naturali.
“Fino alla restituzione della cosa, risponde verso il rivendicante
(proprietario) dei frutti percepiti DOPO LA DOMANDA GIUDIZIALE e di quelli
che avrebbe potuto percepire usando la diligenza del padre di famiglia” la
cosa ,in corso di giudizio, rimane nella disponibilità del possessore , che
continuerà a trarre i frutti: ma tali frutti non sono da lui PERCEPIBILI, quindi ne
dovrà rispondere verso il rivendicante. Il possessore di buona fede è quindi
gratificato tramite l’attribuzione della pr. Dei frutti sino al momento della
domanda giudiziale.
Art 1150 riguarda riparazioni miglioramenti e addizioni attribuisce un
diritto ANCHE AL POSSESSORE IN MALA FEDE : se il possessore compie spese
per la riparazioni STRAORDINARIE della cosa, avrà diritto al rimborso di tali
spese effettuate. Egli ha anche diritto a indennità PER I MIGLIORAMENTI
ARRECATI ALLA COSA, purché sussistano al momento della restituzione.
Art 1152 fa riferimento al possessore di buona fede; qui viene ad essere
disciplinata una forma di autotutela, quella del diritto di RITENZIONE della
cosa: il possessore di buona fede può ritenere la cosa finché non gli vengono
corrisposte le indennità dovute. È un mezzo di autotutela del diritto ad
ottenere la indennità, purché le indennità siano richieste dal possessore nel
giudizio di rivendicazione.
DISCIPLINA POSSESSO
Il primo profilo da esaminare si ricollega alla PRESUNZIONE DI POSSESSO;
spesso è importante ricorrere dalla presunzione di possesso, in quanto non
sempre il possesso è accompagnato da un titolo che lo qualifichi e lo
giustifichi; e anche perché , ai fini dell’usucapione , può essere molto
importante capire quando il possesso è iniziato. Di qui l’importanza di una
serie di presunzioni; la presunzione è un concetto giuridico disciplinato
nell’ultimo libro del codice civile; la presunzione è un mezzo di prova, che
opera quando si vuole accertare il verificarsi di un fatto incerto.
La prima delle presunzioni che ci interessa è disciplinata nell’art 1141 c 1:”si
presume il possesso in colui che ESERCITA il potere di fatto, quando non si
prova che ha cominciato a esercitarlo semplicemente come DETENZIONE”. Se
si avverte che esiste questo potere di fatto (il corpus) , tale fatto è certo , da
cui si desume che quel potere di fatto è iniziato come possesso. Ai fini
dell’usucapione, si può tramite tale presunzione individuare il momento in cui
il possesso è iniziato. A tale presunzione molti giudici hanno fatto ricorso.
TUTELA POSSESSORIA
La tutela possessoria è assai importante; ci aiuta anche a capire quali logiche
ci sono dietro la tutela del possesso.
PROCEDIMENTO C’è un profilo sostanziale nella tutela; accanto, c’è quello
processuale della tutela possessoria.
La tutela possessoria si realizza attraverso 2 azioni: di reintegrazione e di
manutenzione: la prima si definisce così perché il suo fine è di reintegrare un
soggetto spossessato nel suo possesso. La seconda tende a conservare integro
in capo a chi ce l’ha il possesso (azione di manutenzione).
1) Rapidità il procedimento possessorio è strutturato in modo da assicurare
all’attore una tutela in tempi rapidi; il fattore temporale è essenziale ai fini
della tutela.
2) Efficacia una tutela che interviene in tempi rapidi è una tutela efficace.
Anche l’efficacia è assicurata dal modo in cui il processo è strutturato.
DISPOSIZIONI 1168 CC in via generica dice che la reintegrazione deve
ordinarsi dal giudice sulla semplice notorietà del fatto, senza DILAZIONE;
cpc ci aiuta a inquadrare il procedimento possessorio.
Art 703 pc domanda di reintegrazione e manutenzione del possesso le
domande si rivolgono al giudice competente mediante RICORSO ; il giudice
provvede ai sensi degli artt … e ss.
Il procedimento possessorio è un procedimento speciale; non sono
procedimenti a cognizione piena, all’interno di cui si deve realizzare con
pienezza l’accertamento del diritto. Il procedimento si articola sulla base di
una SOMMARIA COGNIZIONE: il giudice cerca di individuare nella realtà gli
elementi che gli consentano di “farsi un’idea” della bontà dei fatti addetti.
Il giudice è in grado di valutare se esiste il fumus bonis iuris. Sulla base
dell’accertamento sommario dei fatti , se giunge a credere che il ricorrente
ha ragione, emette un provvedimento. A una fase di accertamento
sommario, può seguire una fase volta all’accertamento NEL MERITO della
situazione. C’ è una struttura bifasica del procedimento, volta a garantire
celerità ed efficacia.
Art 703 cpc ultimo comma “se richiesto da una delle parti, entro il
termine perentorio di 60 giorni decorrente dalla comunicazione del
provvedimento che ha deciso sul reclamo ovvero, in difetto, del
provvedimento di cui al 3 comma, il giudice fissa dinanzi a sé l’udienza per
la prosecuzione del giudizio di merito” si chiude la fase di cognizione
sommaria e entro 60 gg, se richiesto da una delle parti, il giudice dà avvio
alla seconda fase (accertamento nel merito). La riforma del 2005 ha
innovato in modo significativo la situazione precedente; il giudice, in
precedenza, non era legato all’istanza proposta da una delle parti , ma era
tenuto a proseguire il giudizio nel merito. Era impossibile che il
provvedimento interdittale fosse definitivo: dopo la fase interdittale,
doveva esserci l’accertamento nel merito.
Dopo la riforma, non segue più la fase di merito. Il procedimento oggi non
è più necessariamente bifasico:il provvedimento interdittale può anche
risolvere il giudizio.
Art 704 si prospetta la possibilità che nel corso del giudizio PETITORIO,
venga ad essere proposta una domanda relativa al possesso. Il giudizio
petitorio tende all’accertamento della titolarità del diritto di proprietà. Il
soggetto che subisce lo spossessamento, può decidere di attivare l’azione
petitoria., (quella di rivendicazione). . Può accadere che si verifichino fatti
che intervengono in pendenza del giudizio, che giustificano però l’azione
POSSESSORIA: in tal caso, il soggetto dovrà rivolgersi al giudice competente
(petitorio); nulla impedisce comunque di proporre un’azione possessoria
nei confronti del giudice possessorio.
Art 705 DIVIETO DI CUMULO DELLE DUE AZIONI “il convenuto nel
giudizio possessorio (spesso è il proprietario)non può proporre giudizio
PETITORIO ,finché il primo giudizio non sia definito e la decisione non sia
stata eseguita” .il convenuto può tuttavia proporre il giudizio petitorio
quando dimostra che l’esecuzione del provvedimento possessorio non può
compiersi per fatto dell’attore.
Tale articolo è stato dichiarato illegittimo dalla corte costituzionale in una
parte: la rigorosa regola del divieto di cumulo è stata attenuata,
sussistendo determinati presupposti.
DECISIONE CORTE COSTITUZIONALE: tale decisione è molto importante
con riferimento al divieto del cumulo e alla individuazione della ratio della
tutela possessoria. La sentenza ci mette a cospetto di una situazione; le
sentenze della corte sono provocati da giudizi all’interno dei quali si
verifica la sussistenza probabile di una disposizione che è necessario
valutare se sia o meno incostituzionale. Il giudice rimanda la questione alla
corte costituzionale.
Nel corso di un giudizio di reintegrazione nel possesso, il pretore di
Messina aveva impugnato per contrasto con gli artt 3, 24 e 42 della
costituzione gli articoli 1168 e 705 del cpc.
La controversia trae origine dal fatto che la SPA fiat aveva concesso in
leasing a un terzo un bene mobile di rilevante valore. Il locatario non solo
ha pagato il corrispettivo con assegni a vuoto (assegni che il concedente
non poteva riscuotere), ma ha pure venduto la macchina all’odierno terzo,
il quale ha a sua volta pagato assegni a vuoto.
La società proprietaria, essendo stata la ruspa trovata incustodita nel greto
di un torrente, ne aveva ripreso il possesso. Questa azione configurava
uno spoglio nei confronti del possessore. Allora, il terzo acquirente
promuove un giudizio a difesa del suo possesso , sporgendo inoltre
denuncia di furto.
L’art 1168 (azione di reintegrazione del possesso a vantaggio del soggetto
spossessato)entra in azione anche in questa ipotesi.
Il pretore di Messina ritiene illegittimo l’art 1168 e 705 del cpc; a detta del
pretore, sarebbero illegittimi in quanto non limitano la tutela possessoria
alla funzione di agevolare il proprietario. La tutela possessoria
garantirebbe infatti al proprietario una via più breve rispetto a quella
petitoria.
Salvi fa riferimento a Savigny e Jhering : quest’ultimo aveva affermato che
alla base della tutela possessoria vi era l’esigenza di una tutela rapida ed
efficace della proprietà.
Gli articoli su detti sarebbero dunque illegittimi , in quanto concedono la
tutela possessoria anche a chi possiede PER EFFETTO DI REATI COMMESSI
CONTRO IL PATRIMONIO, non consentendo al giudice di mettere in luce i
reati.
L’esecuzione della sentenza prevista dall’art 705 metterebbe il ricorrente
in grado di alienare il bene a chi ,in buona fede, ritiene quest’ultimo
proprietario.
Altra lettura della tutela possessoria Savigny affermava che con la tutela
possessoria si intende proteggere l’ordine sociale; dunque, il proprietario
che si è riappropriato della ruspa non era autorizzato a riprendersela.
L’avvocatura afferma che le disposizioni tacciate di incostituzionalità siano
in realtà rispondenti all’interesse affermato anche da Savigny.