Linguistica Italiana
Linguistica Italiana
Linguistica Italiana
1
flusso d’aria, detta modo di articolazione, e una parte del tratto vocale che svolge un ruolo attivo nell’articolazione del
fono, il punto di articolazione. Infine, va considerato se durante l’articolazione del suono le corde vocali vibrano
oppure no. Per questo, i suoni si possono suddividere in sonori, nei quali vi è una vibrazione delle corde vocali
(vocali), e sordi, dove non vi è vibrazione (consonanti). Quest’ultima è detta distinzione di carattere oppositivo.
Il lavoro del logopedista è quello di correggere chi non è in grado di posizionare la lingua nel punto di articolazione
corretto.
Tra le modalità di articolazione invece, vi sono modalità
con flusso d’aria continuo, come quando si pronunciano [l]
e [s], oppure con un flusso d’aria breve [b], [c].
La prima distinzione che è possibile effettuare nell’italiano
è quella tra vocali e consonanti: nel primo caso l’aria
fuoriesce senza incontrare ostacoli, se invece il tratto
vocale è chiuso si hanno le seconde. Esistono inoltre le
semiconsonanti (anche dette approssimanti), che si
producono quando l’aria che fuoriesce incontra un ostacolo
lievemente maggiore rispetto a quando si pronuncia una
vocale, ma allo stesso tempo minore rispetto a quando si
pronuncia una consonante, e le semivocali.
Le vocali
Nella lingua italiana parliamo in totale di 7 vocali toniche, ossia portatrici di accento, [a], [è], [i], [ò], [u], [è], [o], e 5
vocali atone. La differenza di suono tra le varie vocali è determinata da tre parametri: l’avanzamento della lingua
(anteriori, centrali e posteriori), l’altezza della lingua (alta, medio-alta, medio-bassa, bassa) e l’arrotondamento delle
labbra (arrotondate o non arrotondate).
Le vocali toniche si rappresentano attraverso un trapezio che
ricorda la cavità orale. Esiste poi anche la distinzione tra
vocali toniche aperte e chiuse, che però appartiene
principalmente al toscano e ad altre varietà regionali, ma con
una distribuzione delle vocali aperte e chiuse diversa da
regione a regione: ad esempio, lettera è pronunciata con
vocale aperta a Firenze e con vocale chiusa a Roma, così
come gonna e colonna, pronunciate con vocale aperta a
Firenze e con vocale chiusa a Roma. Le pronunce dialettali e
regionali influenzano e neutralizzano questa distinzione, ad
esempio il vocalismo del siciliano ha solo vocali aperte.
Quando invece le vocali si trovano in posizione atona scompare la distinzione tra medio-alte e medio-basse, col
risultato della riduzione delle vocali da 7 a 5. Anche queste si rappresentano attraverso un trapezio.
Si può dire che il sistema vocalico dell’italiano sia più semplice rispetto a quello di altre lingue, per i seguenti motivi:
-il numero di vocali è ridotto, e questo consente una buona distanza articolatoria tra le vocali; per questo, dal punto di
vista uditivo, sono più distinguibili.
-non esistono vocali complesse dal punto di vista dell’articolazione, come le vocali nasali e le vocali turbate, cioè le
vocali anteriori pronunciate con le labbra arrotondate, ad esempio la [u] della parola tedesca Führer.
-non esiste la vocale centrale, anche detta schwa, che corrisponde alla [ə] dell’inglese taken.
2
Queste vocali possono però essere presenti in dialetti non toscani: le turbate possono essere ritrovate in dialetti
settentrionali, le nasali nel piemontese e nel ligure, mentre la schwa in quasi tutti i dialetti della penisola. Questi foni
non modificano però il quadro fonologico dell’italiano standard. Possiamo inoltre aggiungere che la quantità vocalica,
ossia la durata della vocale (lunga o breve) non ha valore distintivo. Solitamente le vocali toniche sono brevi se si
trovano in sillaba chiusa, ossia terminante con consonante (ad esempio la [a] di cassa), mentre sono lunghe se si
trovano in sillaba aperta, ossia terminante con vocale (ad esempio la [a] di casa). Fanno eccezione le vocali toniche in
fine di parola, che sono brevi pur essendo in sillaba aperta (caffè, città). Le vocali non hanno uguale distribuzione
nelle parole: a fine parola può comparire la [u] tonica (virtù, tribù) e quasi mai la [u] atona, ad eccezione alcuni
prestiti da lingue straniere, come Frau dal tedesco. Inoltre, nelle parole tronche la [e] finale può essere aperta, come
nel caso di cioè, o chiusa, come nel caso di perché o affinché, mentre la [o] è sempre aperta, come in però, a parte in
prestiti dal francese, come nel caso di bordeaux.
A differenza di questo caso, la quantità vocalica delle consonanti ha valore distintivo, che è quello che ci permette di
distinguere la parola pala dalla parola palla.
Le consonanti
Vi sono poi le consonanti, che si suddividono in molti gruppi in base al modo e al punto di articolazione
Occlusive: chiusura totale del tratto vocale. Una particolarità riguarda la [k], che si può scrivere anche come c o ch;
quest’ultimo è un digramma.
Nasali: aria che fuoriesce da bocca e naso, ad esempio la [η] (si legge gn); in alcune parole si aggiunge una i,
‘sogniamo’: si tratta della desinenza della 1° persona plurale.
Laterali: la lingua è innalzata al centro e il flusso d’aria passa ai lati di essa, sono tutte sonore: [λ] (si legge gl): aglio-
trigramma; agli-digramma.
Vibranti: un articolatore (lingua o ugola) vibra durante il passaggio dell’aria, la vibrante è quindi sonora. La [r] è una
consonante vibrante alveolare, ma esisterebbero anche le varianti [ʀ] e [ʁ], che in italiano sono foni (in altre lingue
anche fonemi) e prendono il nome di erre moscia.
Fricative: chiusura parziale del tratto vocale, la [z] corrisponde alla s di rosa e solitamente è interna alle parole. Vi è la
[ʃ] (sc, con la s di serpente) e la [϶] (sc, con la z, ‘garaGe’).
Affricate: combinano una fase occlusiva ed una fricativa: [ts] – staZione, [ds] – zanZara, [tʃ] - Ciliegia, [d϶] -
Germoglio.
Esistono inoltre due suoni semiconsonantici (o, come detto, semivocalici, a seconda della posizione rispetto alla
vocale tonica), detti approssimanti (perché due organi fonatori si avvicinano senza toccarsi). Sono tutti sonori.
Anche le consonanti si suddividono in brevi (o tenui) o lunghe (intense), e, a differenza delle vocali, questo ha valore
fonologico. Le consonanti hanno anche un’intensità, che varia in base a influenze dialettali o regionali. Questo prende
il nome di variazione diatopica. Dal punto di vista di scansione in sillabe, le consonanti intense sono ambisillabiche,
cioè appartenenti a due sillabe diverse (fat-to, scap-pa-re). In confronto ad altre lingue, il sistema consonantico
3
dell’italiano è sbilanciato in avanti, in quanto i fonemi più arretrati sono velari. Di conseguenza, sono assenti fonemi
uvulari, faringali o glottidali, ad esempio. Come però già osservato con le vocali, alcuni di questi suoni sono ritrovabili
in dialetti (la glottidale in casa per il toscano, che pronuncia [‘hasa]).
Le consonanti dell’italiano sono 23, le vocali sono 7 e in totale l’italiano è costituito da 30 fonemi. La maggior parte
delle consonanti sono sonore, per questo si può anche dire che l’italiano sia per lo più una lingua sonora.
Lezione 2, 6 ottobre 2021
Le combinazioni di suoni: il dittongo e lo iato
Lo iato ed il dittongo non sono la stessa cosa, si tratta di due fenomeni distinti. Il dittongo è una sequenza di due
vocali grafiche appartenenti alla stessa sillaba (fio-re), tra le quali però solo uno dei due suoni costituisce il nucleo
della sillaba ed è una vocale a tutti gli effetti. L’altro suono è o una semi-vocale (se segue il nucleo della sillaba, come
la [u] in causa) o una semi-consonante (se precede il nucleo della sillaba, come la [i] in fiore). Poiché la vocale che fa
da nucleo sillabico costituisce anche il picco intonativo della sillaba, quando il nucleo è preceduto da una semi-
consonante si ha un dittongo ascendente, quando invece è seguito da una semi-vocale si ha un dittongo discendente.
Tra i dittonghi ascendenti abbiamo quelli formati da [j] e vocale (fiato, piede, piegare, chiodo, fiore, fiume) e formati
da [w] e vocale (guado, quercia, questo); tra i discendenti abbiamo invece quelli formati da vocale e [j] (daino,
amerei, poi) e quelli formati da vocale e [w] (causa, euro, Europa).
Lo iato invece presenta due vocali, che rimangono separate sia nella pronuncia che nella scrittura ( zio, zi-o (iato) /
diverso da fiore, fio-re (dittongo)). Questo avviene solitamente quando si incontrano due vocali diverse da i e u
(paese, aorta, reame), oppure quando una delle due vocali è una i o u accentata (ortografìa, calpestìo, paùra), oppure
nel caso delle parole derivate e composte, in cui il primo elemento termina per i o per u (biennio, triangolo,
dialettico).
La definizione tecnica di questa differenza è che nel dittongo c’è una sola vocale e una o più semi-vocali o semi-
consonanti, mentre nello iato c’è una sequenza di due vocali, senza semivocale o semiconsonante. Il dittongo presenta
due grafemi e due fonemi (au-to), mentre lo iato ha un numero diverso tra questi ultimi (zi-o).
Grafia e pronuncia
Una caratteristica dell’alfabeto italiano è che presenta una buona corrispondenza tra il livello fonico e quello grafico, e
vi sono pochi casi in cui questa corrispondenza non è biunivoca, cioè quando a un fonema corrispondono più lettere
dell’alfabeto o viceversa. I nostri fonemi si rappresentano solitamente con lettere dell'alfabeto, 21 lettere o grafemi, di
cui 5 sono provenienti da altri alfabeti (j,k,x,y,w).
Questa mancata corrispondenza presenta come causa principale delle ragioni storiche. La scrittura, infatti, si è sempre
imposta per passare ai posteri delle testimonianze e, per questo motivo, si dice che sia molto conservativa: non esiste
infatti la libertà di scrittura; questa conservatività però non è corrispondente al fatto che la lingua orale cambi e si
evolva molto velocemente. Al cambiamento della lingua, infatti, non corrisponde il cambiamento della scrittura. Solo
quando la lingua diventa molto diversa dalla scrittura, si pensa al cambiamento di quest’ultima. La prima proposta di
riforma ortografica venne avanzata nel 1524 da Gian Giorgio Trissino, che però non riuscì ad imporsi, se non nella
proposta di usare [zi] al posto della grafia latina [ti] (vitium si legge vizium).
I principali casi di mancata corrispondenza biunivoca sono dati da:
-una lettera che corrisponde a più fonemi, come ad esempio la [e] e la [o] che possono avere suono aperto o chiuso, [c]
e [g] che possono avere suono palatale o velare, [i] e [u] impiegate sia per le vocali che per le approssimanti ed [s] e
[z] che hanno realizzazione sorda e sonora.
-lettere sovrabbondanti rispetto ai suoni, cioè che a un fonema corrispondono due lettere, quando è seguita da una [u],
l’occlusiva velare sorda [k] può essere resa con [c] o [q].
-alcuni fonemi si scrivono combinando due lettere (digrammi) o tre lettere (trigrammi). In italiano sono presenti sette
digrammi e tre trigrammi.
-la lettera h non rappresenta un suono, né in italiano né nei prestiti latini. Nei prestiti da altre lingue invece può
indicare una consonante aspirata, come nella parola jihad.
4
Digrammi
-[ch] e [gh] hanno una pronuncia velare [k] e [g] davanti alle vocali [e] e [i] (che, ghetto, ghirlanda) e hanno una
pronuncia palatale davanti alle stesse vocali, ma senza [h] (cesto, gesto).
-[ci] e [gi] corrispondono al suono [tʃ] e [d϶] davanti alle vocali [a], [o], [u].
-[sc] corrisponde alla pronuncia [ʃ] quando è seguito dalla e o dalla i (scelta, scimmia).
-[gl] corrisponde alla pronuncia [ʎ] quando è seguito dalla i (scogli, figli), ad eccezione di glicine, glicerina,
negligiente.
-[gn] corrisponde alla pronuncia [ɲ] davanti a tutte le vocali (sogno, ingegnere, cognome).
Trigrammi
-[sci], derivante da sc seguito dalla vocale i e da un’altra vocale si pronuncia [ʃ] (sciame, sciopero). Eccezioni sono il
verbo sciare e i derivati di sci, dove la i va pronunciata.
-[gli], seguito da un’altra vocale si pronuncia [ʎ] (aglio, meglio). Fanno eccezione parole in cui la i è tonica e va
pronunciata (barbaglio, gorgoglio).
-[gni], seguito da un’altra vocale e quando fa parte della desinenza verbale -iamo si pronuncia [ɲ] (sogniamo,
bagniamo). Fa invece digramma in compagnia, compagnie.
Allofoni
Non tutti i foni di una lingua costituiscono fonemi, prendiamo ad esempio la coppia di parole pane e panca. Al
grafema [n] corrispondono due foni diversi: nel primo caso si ha una nasale alveolare, mentre nel secondo caso si ha
una nasale velare. Questa differenza risulta solo foneticamente, mentre graficamente non esiste. Questi due foni, ossia
[n] e [ɲ], non hanno valore di fonemi, infatti in italiano non esiste nessuna coppia di parole che differisca per la
presenza di una nasale alveolare o velare: questi prendono quindi il nome di varianti combinatorie o allofoni. Al
contrario dell’italiano, questa coppia di foni acquisisce lo status di fonemi nella lingua inglese (thin-thing). Le varianti
combinatorie sono tra loro in distribuzione complementare, cioè in un determinato contesto fonologico si trova o l’una
o l’altra. Oltre a queste varianti combinatorie, vi sono anche quelle libere, cioè le variazioni nella realizzazione di un
fonema legate a caratteristiche individuali di pronuncia: tra queste la realizzazione uvulare [ʀ] o [ʁ] della vibrante
alveolare [r].
Il sistema fonologico dell’italiano presenta due aree di variazione allofonica:
-le consonanti nasali si assimilano parzialmente alla consonante seguente, di conseguenza la [n] alveolare può
diventare velare di fronte a occlusiva velare sorda o sonora (panca) o labiodentale, quando è seguita dalle fricative
labiodentali [f] e [v] (convenzione, infantile). Lo stesso accade per parole di origine straniera, come comfort,
amfetamina, che presentano anche la sequenza grafica con la labiodentale [ɱ].
-le vocali toniche si allungano in sillaba aperta; questo non vale per le vocali toniche a fine parola, che rimangono
foneticamente brevi. Questa asimmetria è all’origine del fenomeno del raddoppiamento fonosintattico.
Il raddoppiamento fonosintattico
Il raddoppiamento fonosintattico corrisponde al fenomeno per cui, nella pronuncia dell’italiano toscano e
centromeridionale, la consonante iniziale di una parola si allunga e viene pronunciata come intensa. Questo accade
spesso per influsso della parola precedente. Questo raddoppiamento avviene quindi tra due parole non separate da
pausa, e regolarmente si trova dopo:
-monosillabi con accento grafico (è, dà, lì, né, più)
-lettere dell’alfabeto di una sola sillaba pronunciate per esteso (tivvù, tiggì, ciddì)
-polisillabi tronchi (città, perché, virtù)
E più raramente dopo:
5
-monosillabi deboli senza accento grafico (a, blu, che, chi, ecc.)
-alcuni polisillabi piani (come, dove, qualche, sopra).
Il raddoppiamento non viene quasi mai rappresentato con la grafia, a meno che le due parole non siano graficamente
unite, come ad esempio appena, chissà, eppure, cosiddetto, frattanto. Inoltre, può essere prodotto con parole composte
con contra- e sopra- (contrappunto, soprattutto). Questo fenomeno è caratteristico dei dialetti toscani e
centromeridionali, questo accade perché l’italiano non tollera che una sillaba tonica sia priva di coda, cioè che dopo la
vocale non ci può essere immediatamente un confine di sillaba, ci deve essere qualcosa tra la vocale e prima
dell’inizio della sillaba successiva. Questo qualcosa può essere la seconda parte della vocale lunga o una consonante.
Ad esempio, andò via, se pronunciato senza raddoppiamento violerebbe la regola sopra enunciata. Questo non spiega
però il perché questo fenomeno accada anche dopo alcune parole piane e dopo alcuni monosillabi atoni.
Punti deboli del sistema fonologico italiano
L’uniformazione della lingua italiana risulta particolarmente difficile, proprio per le differenze tra i sistemi fonologici
dei dialetti, che hanno reso difficile l’imposizione di una pronuncia basata sul modello fiorentino. Questa
uniformazione è ancora più ardua in certe opposizioni, accomunate dal non essere veicolate dall’ortografia (ad
esempio [e], un unico grafema per la vocale medioalta e mediobassa), dal non essere prevedibili e dal basso
rendimento funzionale (dare luogo a poche coppie minime, ad esempio pèsca e pésca).
La prima opposizione è [ɛ] – [e], [?] – [o], che riguarda le [e] ed [o] aperte e chiuse. Queste vengono pronunciate in
base alle regioni. In particolare, la e è chiusa in sillaba aperta a finale di parola (bene), in sillaba chiusa da nasale
(tempo), nella pronuncia del dittongo -ie (piede). Mentre la e è aperta in sillaba chiusa (quello), in vocale accentata in
fine di parola (perché).
La seconda opposizione è [s] – [z], e riguarda la pronuncia sorda o sonora della lettera s. Ad inizio parola tende ad
essere quasi sempre sorda (soldato), mentre se precede una consonante sonora è sonora (sbaglio). Vi sono anche
poche coppie minime, tra cui chiesa (/chiesa/) e chiese (/chieze/), fuso (/fuso/, arnese per filare) e fuso (/fuzo/, verbo
fondere).
La terza opposizione è [ts] – [ds], solitamente è più comune la pronuncia sonora al principio di parola. Tra le
pochissime opposizioni abbiamo razza (/ratza/) e razza (/radza/, pesce).
L’accento
L’accento di parola, dal punto di vista fonetico, consiste nel pronunciare una sillaba in maniera prominente rispetto a
quelle che la precedono e la seguono. Si rappresenta attraverso il simbolo [‘] e si colloca all’inizio della sillaba tonica.
Questo accento si differenzia dall’accento grafico, che si colloca sulla vocale della sillaba tonica solo nelle parole
polisillabe tronche (bambù, colibrì) e in alcuni monosillabi (è, dà, sé). Non si accetta invece su parole piane e
sdrucciole; per questo spesso si generano dei dubbi che portano a un’ipercorrettivismo, ponendo l’accento sulla
terzultima sillaba, come nel caso di èdile invece di edìle, oppure si fa rientrare la parola nello schema accentuativo
delle piane (darsèna invece di dàrsena). L’accento di parola ha tre caratteristiche fondamentali:
-è di tipo intensivo, cioè che la sillaba tonica si pronuncia con maggiore intensità
-la sua posizione è libera, cioè non è possibile predeterminarne la collocazione
-ha valore distintivo, a differenza della quantità vocalica (calamìta-calamità).
A seconda della posizione dell’accento le parole si suddividono in:
-tronche (sull’ultima sillaba, giocherò)
-piane (sulla penultima sillaba, sapòne)
-sdrucciole (sulla terzultima, tàvolo), tendono anche ad avere la penultima sillaba aperta
-bisdrucciole (sulla quartultima, arràmpicano)
-trisdrucciole (sulla quintultima, rècitamelo)
6
L’unico caso in cui la posizione dell’accento è vincolata è quando la penultima sillaba è chiusa, in quel caso l’accento
non può ricadere sulla terzultima. Fanno eccezione pochi sostantivi, come àrista, màndorla, pòlizza, e alcuni toponimi
come Otranto, Taranto.
La sillaba e l’intonazione
Dal punto di vista fonetico la sillaba è definibile come la porzione di parola compresa tra un minimo di sonorità e il
minimo successivo. Tra questi due minimi si colloca un vertice, cioè un picco di sonorità e di intensità articolatoria,
che si chiama nucleo della sillaba. Il nucleo rappresenta il fulcro della sillaba ed è l’unico elemento indispensabile;
infatti, ci sono alcune parole che compongono una sillaba solo con il nucleo (a-ni-ma). Ciò che si trova a sinistra del
nucleo è detto attacco, mentre ciò che lo segue è detto coda. Quest’ultima è presente solo nelle sillabe chiuse, come ad
esempio gat-to. Nelle sillabe aperte si crea comunque una sorta di coda, che corrisponde all’allungamento della
vocale, e quindi al raddoppiamento fonosintattico. La struttura della sillaba e l’andamento del grado di sonorità si
possono rappresentare graficamente attraverso una curva.
Esistono sillabe più semplici e sillabe più complesse, generalmente quelle più comuni sono del tipo CV (consonante-
vocale). Esistono anche sillabe con testa pesante e coda leggera, in questo caso le consonanti che accompagnano il
nucleo tendono ad accumularsi alla sua sinistra.
La lingua italiana è regolata dal principio di isocronia sillabica, ciò significa che la sillaba tonica ha una durata
leggermente superiore rispetto alla sillaba atona; queste ultime però hanno tra loro una durata simile,
indipendentemente dal numero di sillabe della parola. In altre lingue vige invece il principio dell’isocronia
accentuativa, nelle quali la durata delle sillabe atone tende ad essere più breve quante più sillabe contiene la parola.
Per quanto riguarda l’intonazione, sono tre i parametri fondamentali che la contraddistinguono: la durata, l’intensità e
l’altezza. Quest’ultima è la più importante e dipende dalla velocità di vibrazione delle corde vocali durante la
produzione dei foni sonori. In generale, gli enunciati e le affermazioni tendono ad avere l’ultimo segmento, ossia il
contorno terminale, discendente; mentre nel caso di domande il contorno terminale tende ad essere ascendente o
comunque leggermente ascendente.
Morfologia:
Si tratta dello studio delle parti della parola, tra cui basi, desinenze, radici, suffissi o prefissi, ed è a seconda della
morfologia che si comporta l'uso di altri elementi della frase. Le parole che usiamo quotidianamente hanno sempre
una morfologia complessa, esistono invece lingue con una morfologia più semplice. In italiano la morfologia è quindi
complessa perché derivante dal latino. Possiamo perciò dire che la morfologia studia la struttura interna delle parole.
L’unità fondamentale di analisi della morfologia sono i morfemi. Questi ultimi sono composti da morfi, con un
significato lessicale, anche se non inteso come senso vero e proprio della parola, e un significato con valore
grammaticale: ad esempio nella parola casa, il morfo cas- ha significato lessicale, mentre il morfo -a ha significato
grammaticale e ci indica femminile singolare.
Il morfo con valore grammaticale non viene posto casualmente, proprio perché ha un valore grammaticale. Inoltre,
partendo da un morfema con significato lessicale, il morfema con significato grammaticale può comunicarci più di
una informazione, come nel caso di alberi, dove il morfo -i non ci comunica solo maschile, ma anche plurale, pur
avendo pronunciato un unico suono. Quindi, da una radice o base che contiene la maggior parte delle informazioni, la
parte finale in italiano ha solo un significato grammaticale. È attraverso i morfi che creiamo i vari significati possibili
della parola, ad esempio in alber è presente il morfo finale -i, che contiene due morfemi o significati, il maschile e il
plurale.
Esistono due tipologie di morfemi: i morfemi lessicali e quelli grammaticali. La morfologia flessiva studia i morfemi
flessivi, ossia riguardanti l’aspetto grammaticale, e quindi come si coniugano i verbi, come si fanno i plurali ecc.,
mentre la morfologia lessicale studia i morfemi derivativi, ossia il morfo lessicale dal quale è possibile la nascita di
nuovi nomi, come il vocabolario si arricchisce. Si chiamano morfemi liberi quelli che possono costituire una parola da
soli (ieri), morfemi legati quelli che si presentano solo in combinazione di altri morfemi (la -a di cas-a). Ci sono poi i
morfemi semiliberi, che sono parole che, pur costituendo un’entità autonoma, esplicano la loro funzione solo in
combinazione con un’altra parola, ossia articoli, pronomi, preposizioni, ausiliari.
7
L’italiano è definito come una lingua flessiva, proprio perché c’è molta morfologia, la parola può cambiare nel finale
in moltissime modalità, per comunicarci differenti informazioni. Invece, nel turco o nel giapponese (lingue
agglutinanti) non è così semplice, perché ci sono casi in cui le informazioni sono date su parole diverse, e troveremo
quindi ad esempio una parola per ogni informazione necessaria a una frase, come accade anche in inglese nel tempo
futuro: io andrò - i will go, devo usare un ausiliare, che svolge il compito di indicatore di futuro.
Gli allomorfi
In italiano sono poi presenti forme dette allomorfe, ossia forme diverse che un morfema può assumere in dipendenza
da vincoli di vario tipo. Per esempio il prefisso -in dell’italiano si presenta, a seconda del contesto fonetico seguente,
in varie forme. La consonante -n può quindi rimanere integra (incoerente), oppure assimilarsi parzialmente o
totalmente alla consonante seguente (impertinente). Un altro esempio può essere quello del verbo venire, nel quale si
alternano forme con radice dittongata (vieni, viene) e forme monottongate (venite, veniva). Le forme dittongate si
hanno quando l’accento cade sulla radice e la vocale tonica si trova in sillaba libera (vièni), mentre quelle
monottongate si hanno quando l’accento cade sulla radice, ma la vocale tonica è in sillaba chiusa ( vènni) o quando
cade sulla desinenza (venìte). Queste dittongazioni derivano dal latino, e questo ci dà l’idea di quanto la lingua italiana
sia un prodotto storico, da secoli di uso e cambiamento, e di una lingua che si porta tutte le eccezioni alla regola, fatte
dai parlanti, a differenza di lingue progettate a tavolino, ad esempio l’esperanto, nelle quali tutto è stabilito e non
esistono variazioni a livello teorico. Queste lingue però, se parlate, sarebbero parlate in fonetica diversa a seconda del
luogo del mondo in cui sono parlate, ma anche perché esistono tante famiglie linguistiche diverse. L’unificazione
linguistica, infatti, avviene solo grazie alle lingue storiche, non quelle progettate a tavolino.
Quindi, possiamo dire che queste forme con dittongo del verbo venire sono diverse e allomorfe rispetto al verbo
venire all’infinito. Questo insieme di cambiamenti è studiato, come detto precedentemente, della morfologia flessiva.
Una delle forme più forti di allomorfia è data dal suppletivismo, che si ha quando in un paradigma si alternano forme
non direttamente derivabili le une dalle altre, per esempio nel paradigma di andare si alternano la radice vad- e quella
and-. Tutti gli allomorfi in cui è possibile una sola forma in un contesto o in una casella del paradigma sono detti
allomorfi in distribuzione complementare, e si parla di allomorfi condizionati. Quando invece le varianti di un
morfema non sono in distribuzione complementare, ma intercambiabili, si dà al parlante la libertà e possibilità di
optare per una delle forme possibili si parla di allomorfi liberi o doppioni. Queste pluralità sono dovute al fatto che la
lingua non fosse unitaria e fosse influenzata da vari luoghi d’Italia, e per lungo tempo si potevano trovare tante
concorrenze. Poi, la stampa ha ridotto queste concorrenze, fino ai Promessi Sposi, prima opera adottata nella scuola
come elemento di lettura. Manzoni era consapevole di dover creare una lingua nazionale, in cui si riducevano le
espressioni diverse e che sapevano di letteratura vecchia, si volevano ridurre le forme regionali e i polimorfismi. Nel
2021 sono però ancora presenti strati antichi del latino flessivi e diverse combinazioni per esprimere un significato. La
perfetta rappresentazione dell’evoluzione e complicazione della lingua è esemplificata dal futuro immediato andare a
fare qlcs, un futuro non sintetico (cioè non su una sola parola).
Differenze tra italiano e latino
Il linguista Pierone ha affermato che in latino la morfologia flessiva era più complessa, ad esempio: in latino la -m
finale nelle parole indicava il complemento oggetto; in italiano invece per distinguerlo non si usa più la morfologia,
ma lo si capisce dal senso della frase, dal verbo utilizzato e anche per il fatto che ogni parola ha una posizione precisa
nella frase. Lo si comprende poi dall’intonazione (nell’oralità) o dalla punteggiatura (nella scrittura). Nelle frasi
comuni la posizione degli elementi effettivamente decide qual è il soggetto e quale il complemento oggetto, mentre
nel latino quest’ultimo veniva messo anche in prima posizione. In latino attraverso la morfologia si indicava la
funzione logica della parola nella frase, mentre in italiano questo non accade. Dalla morfologia, la sintassi ha preso
l’incarico di stabilire il valore delle parole nelle frasi, è avvenuta quindi una trasmigrazione dalla morfologia flessiva
(interna alla parola) alla morfosintassi (combinazione di due o più elementi tradizionalmente considerati come parole
distinte). Il latino risultava inoltre molto più semplice e veloce rispetto all’italiano, non esistevano ad esempio gli
articoli, e al loro posto si usavano aggettivi dimostrativi che, uniti ai nomi, hanno poi dato gli articoli dell’italiano, che
specificano meglio la parola stessa.
Quindi, questo sistema di casi del latino si è totalmente perso. L’italiano ha cambiato qualcosa nella sintassi: l’ordine
delle parole è più rigido, è nato il passato prossimo (nel latino c’era il perfetto), il condizionale, che deriva da due
parole poi fuse insieme. Ad un certo punto si è usato anche l’infinito + il perfetto = hanno dato vita al condizionale.
8
Queste operazioni hanno richiesto molto tempo e hanno fatto rendere conto ai parlanti che la lingua era cambiata,
passando dal latino all’italiano.
La morfologia flessiva
La morfologia flessiva italiana è caratterizzata da paradigmi flessionali complessi, ossia presenti in grande numero
(come tutti i modi e tempi verbali, ognuno con le sue forme) e da desinenze, per quanto riguarda la flessione
nominale, molto ambigue, e la possibilità di omofonia e omografia è maggiore.
La morfologia flessiva, per i nomi, riguarda il numero (singolare e plurale), per gli aggettivi il numero e il genere.
Nasce quindi spontanea la domanda: come si dà il genere ai nomi? Non c’è spiegazione, a causa dell’arbitrarietà del
segno. Infine, la morfologia verbale richiede la flessione di modo, tempo e persona. Ciascuna combinazione dà luogo
a dei morfemi che vanno uniti alla radice del verbo, per formare la parola.
Lezione 3, 7 ottobre 2021
La flessione dei verbi
Nei verbi sono soggetti a flessione il tempo, il modo e la persona. È inoltre codificato il numero, attraverso la
distinzione singolare-plurale. All’interno di ciascun morfema si possono identificare, nel caso dei verbi, delle radici
lessicali quali cant-, legg-, e delle vocali tematiche che identificano la classe di coniugazione cui appartiene il verbo.
Alla vocale tematica segue poi una marca temporale e/o modale e infine le marche personali. Sulla base di questo,
sono stati costruiti i paradigmi di flessione dei verbi regolari.
Per quanto riguarda i tempi verbali, è importante sottolineare che il tempo fisico e il tempo grammaticale non
corrispondono nella maggior parte dei casi, possiamo quindi distinguere il momento dell’avvenimento (MA) e il
momento dell’enunciazione (ME). Ad esempio, quando parliamo del presente generalmente non parliamo al presente
stesso, ma al futuro: chi sarà chi sta bussando?. Se invece parliamo del futuro usiamo il presente: domani vado da…,
leghiamo quindi l’azione al sentimento presente. Questo per spiegare il fatto che la lingua parlata sia sempre centrata
sull’io, nel qui ed ora. Su questa base possiamo distinguere tra due tipi di tempi verbali: i deittici e i deittico-anaforici.
I primi sono interpretabili solo grazie alle informazioni relative al campo indicale dell’atto di enunciazione, quindi: nei
tempi passati MA precede ME (Ieri alle 8.15 sono uscito (MA) per andare al lavoro), nel futuro MA segue ME
(Domani alle 10.45 prenderò (MA) il treno per Bologna) e nel caso del presente MA e ME coincidono (Ora prendo il
treno (MA) per andare al lavoro). I tempi deittico-anaforici sono più complessi, perché entra in gioco anche il
momento di riferimento (MR), tra cui quando, prima che, dopo che. Ad esempio quando sono uscito per andare al
lavoro (MR), era da poco finito (MA) il notiziario delle otto. L’italiano ha 4 tempi deittico-anaforici, ossia trapassato
prossimo e remoto, futuro anteriore e condizionale passato.
In italiano non esiste una codifica morfologica dell’aspetto verbale, non c’è un morfema nei verbi che ci dice cosa
effettivamente succede; abbiamo solo -isc, che deriva dal latino; facciamo l’esempio del verbo finisco: è irregolare,
dovuto al fatto che il morfema -isc, che si inserisce nei verbi e significa inizio, nel caso di finisco si intende inizio a
fare l’ultima cosa, è un’azione quasi conclusa. Non ne abbiamo altri in italiano, se non il progressivo starò andando. Si
tratta di una struttura analitica perifrastica.
Nella frase progressiva, il raccontare di star facendo un’azione significa che quella azione non è conclusa all’interno
della frase che spiego (ieri stavo andando al mare, quando..). Non è possibile quindi usare una frase progressiva con i
tempi che indicano qualcosa di finito, ma tipicamente il presente, imperfetto e futuro.
La possibilità di distinguere tra azioni concluse e non si definisce aspetto, e non ha una vera e propria codifica
morfologica. Qualche forma di aspetto ce l’abbiamo su alcuni verbi alterati , studiacchiare, giocherellare, con
sfumature di tipo vezzeggiativo, che non sono il verbo stesso, ma ne sono una modalità attenuata. Qui abbiamo i
morfemi acchi oppure icchi.
Quando invece da bambini si diceva facciamo che io facevo il ladro si usava il modale, questo per esprimere un
passato astorico, si tratta di un modo ludico.
Per quanto riguarda la nascita del condizionale, possiamo notare che quando utilizziamo il condizionale vorrei delle
pere, non diciamo la seconda parte della frase ipotetica, ossia se lei avesse la cortesia di darmele, manca quindi la
9
condizione: io le voglio, tanto che se qualcuno me le nega le richiedo. Quando uso il condizionale rimango sempre e
comunque nella sfera del condizionale, a differenza magari di quando parlo di un’azione futura, ma al tempo presente.
In italiano abbiamo 7 modi verbali: 4 finiti (indicativo, congiuntivo, condizionale e imperativo) e 3 indefiniti (infinito,
gerundio, participio). Il modo corrisponde è l’atteggiamento del parlante verso l’enunciato. Questo ci mostra quanto la
morfologia verbale si sia evoluta ampliandosi, mentre quella nominale si è semplificata attraverso la perdita del genere
neutro del latino, la perdita del sistema dei casi, la perdita della possibilità di declinare come un nome le forme
dell’infinito.
La morfologia lessicale
La morfologia lessicale studia i meccanismi che rendono possibile l’ampliamento del lessico attraverso la derivazione
e la composizione.
La derivazione: grazie a un morfema si amplia la famiglia di parole. Oppure, si possono formare anche dei nomi
composti, anche per l’influenza dell’inglese e del tedesco. Anche la velocità del modo di parlare ne crea. Circa 1/3 del
nostro vocabolario è formato da neoformazioni di tipo lessicale; se consideriamo le varie scienze arriviamo a circa la
metà delle parole note dell’italiano, che però non sappiamo quante siano perché sono in continuo aumento o erosione.
La derivazione riguarda la morfologia, ed è un processo nel quale si parte da una base e si aggiunge un morfema o
davanti o dietro. Il morfema sarà un prefisso o suffisso, esistono poi anche infissi o interfissi (in mezzo alla parola), in
italiano pochissimi, tra cui -isc di finisco.
Quando aggiungo un prefisso, modifico la parola alla base: mercato > supermercato, ipermercato. La base è quindi
caratterizzata da un prefisso. Se metto invece un suffisso lo faccio per ampliare la famiglia della parola: computer >
computerizzare, posso dar vita a un verbo nuovo. Oppure anche: completare > completamento; si trasforma il verbo in
un nome di azione. La suffissazione può anche essere ricorsiva, quindi una parola suffissata può accoglierne altre:
testo, contesto, contestuale, contestualizzare, decontestualizzare.
Quando un suffisso è particolarmente efficace si definisce produttivo, ed è in grado di creare molte parole.
Per creare dei verbi devo comunque partire o da una base nominale o aggettivale, usando suffissi come - are, -eggiare,
-izzare, -ificare > click, cliccare / tinta, tinteggiare / pietra, pietrificare. Se si parte da aggettivi invece: calmo,
calmare / caldo, caldeggiare / sano, sanificare.
Posso formare anche verbi particolari sia con prefisso che suffisso, i verbi parasintetici, in cui non è possibile capire se
sia stato inserito prima il prefisso o il suffisso > sbandierare (da bandiera, non esiste né sbandiera né il verbo
bandierare), solo grazie all’apporto di entrambi è nato il verbo. Il verbo parasintetico nasce quindi dal contemporaneo
uso di prefisso e suffisso.
Per formare i nomi invece, partendo dai verbi, dipende da che tipo di nome vogliamo creare: ad esempio, nome
astratto con azione del verbo > o usiamo -zione, o -mento > commutazione, trasferimento, allargamento, facilitazione.
Nel secondo caso invece, per indicare la persona che compie quell’azione: -ore, -trice > pensatore, lavatrice. -Aggio
indica invece un’altra azione, lavaggio, pattinaggio. -Ura > filatura; -anza/-enza > distanza o permanenza. Ce ne
sono anche partendo dall’aggettivo verso il nome, tra cui con -ezza, come stanchezza.
Esiste anche un’eccezione alla regola, ossia la possibilità che da nomi nascano altri nomi: per indicare attività umane o
persone che le compiono, con una serie di suffissi. Da questo capiamo come la lingua non sia razionale, ma fatta di
tanti processi, come quelli riguardanti la nascita delle parole fioraio da fiore, panettiere da pane (-aio, -ere). Oppure i
complessi industriali > fioreria, pastificio. -Ale > pedale, da piede > non c’è il dittongo, non si dice piedale perché
non c’è l’accento sulla e, ma è sulla a. Ci sono anche usi un po’ dispregiativi con -ata, per indicare azioni sbagliate.
Infine, formiamo degli aggettivi, si parte da verbi: -bile, -evolve, -ivo > calcolabile, pieghevole, corrosivo. Poi si
creano anche partendo da nomi: -are, linerare; -ale, promozionale; -ico, mitico; -oso, giocoso. La vitalità dei suffissi
si misura con il criterio della produttività, cioè se fa nascere ulteriori parole.
10
-Oso è un suffisso particolarmente produttivo, e può dare origine a nuove parole usate anche per scopi scherzosi. Per
esempio risparmioso, o il recente petaloso, creato da un bambino pieno di fantasia linguistica. Non può essere
applicato a una base verbale o aggettivale (mangioso, rapidoso), ma la pubblicità ha usato anche questa via
(inzupposo, comodoso); -ata dà origine a parole di diversa connotazione semantica: improvvisata, studiata, manata,
americanata.
Ad esempio, pubblicità di una macchina:
Nelle lingue scientifiche o speciali, possiamo usare anche parole greche e latine come prefissi o suffissi, che però non
nascono in questa maniera > pazzoide, è uno che sembra pazzo; romboide, una figura che somiglia a un rombo.
Possono essere quindi usati prefissoidi e suffissoidi, cioè parole greche o latine che svolgono una funzione
morfologica. Se unite insieme, si dicono confissi: glottologia, sociopatia, ecc.
La prefissazione non definisce le categorie grammaticali (aggettivi, nomi, verbi, ecc.), ma aggiunge info di vario tipo:
spazio-temporali (anteriorità, anticamera, preistoria). Si possono usare gli stessi prefissi per spazio e tempo. Poi
posteriorità (retromarcia, postcomunismo), opposizione (controrivoluzione), ulteriorità (ultraconservatore,
oltreoceano, transgenico), superiorità (soprannumero), inferiorità (sottoposto, ipotermia), esteriorità (fuoricampo),
interiorità (introspezione). Oppure posso usare prefissi intensivi: extravergine. Oppure per indicare qualcosa di
negativo: immorale, illegale, sleale, discontinuo.
Poi abbiamo gli alterati, tra cui diminutivi, vezzeggiativi: si esprime anche un giudizio personale. Si tratta di una
procedura di suffissazione che non dà luogo a derivati veri e propri, ma offre la valutazione del parlante riguardo a una
parola, o all’oggetto indicato. Si può avere una valutazione sulle dimensioni, tramite accrescitivi o diminutivi
(quadernone, fogliettino), sulla bellezza/simpatia oppure bruttezza/degrado (amichetto, tesoruccio, e ragazzaccio,
quartieraccio). Alcuni sono diventati parole di senso compiuto: finestrino della macchina, rosone delle chiese, fiorino
(moneta), fioretto (arma) > che hanno indotto a creare un nuovo diminutivo di fiore combinando due suffissi:
fiorellino; è avvenuta una lessicalizzazione. Anche alcuni nomi di persona sono vittima di questi equivoci > Ivone,
forma normale che sembra un accrescitivo. Per la lessicalizzazione si deve attendere del tempo, di modo che entri in
uso. Di solito, non ci sono parole nuove appena create, ma parole che hanno 4/5 anni di vita e che si iniziano ad usare
e parole che spariscono: non tutte sono sul vocabolario, perché devono esserci solo le parole minime necessarie, non
se ne aggiungono troppe perché alcune potrebbero nascere per moda temporanea e poi sparire.
C’è poi la composizione, nella quale si uniscono due parole esistenti: si entra nel lessico. La composizione è l’unione
di due parole (lessemi) in un’unica, nuova parola che prende il nome di composto. Si distinguono per lo più composti
a base verbale e composti a base nominale.
Una delle combinazioni più produttive in lingua italiana è la composizione di verbo + nome: battiscopa,
asciugacapelli, attaccapanni.
È comunque possibile trovare composti verbali con altra configurazione, anche se non produttivi:
V+V: lasciapassare, saliscendi
N+V: maremoto (da terremoto, terra e motus dal latino). Questi casi sono più rari, e spesso particolari: l’ultimo
composto è, per esempio, una forma mutuata dal latino.
11
I composti nominali sono altrettanto produttivi, anche se in minor misura rispetto alle lingue germaniche (e al tedesco
in particolare). La struttura più diffusa è:
N+N: capostazione, cassapanca, ma sono frequenti anche combinazioni di N+A o A+A.
N+A: terraferma, cassaforte, pellerossa
A+A: agrodolce, chiaroscuro, bianconero, pianoforte.
Mentre la combinazione di aggettivo e nome può realizzarsi anche con forme aggettivali prefissoidali: A+N:
malasanità, mezzobusto, neonazismo, monoposto; la composizione N+N può dare luogo a composti di subordinazione
e composti di coordinazione. Questa informazione è di tipo semantico e consente di individuare la testa del composto.
Nel caso di capostazione è possibile individuare un elemento semanticamente dominante, cioè capo: esso è la TESTA
del composto (solitamente nei composti italiani la testa è a sinistra), mentre stazione è il MODIFICATORE. Ciò può
influenzare la flessione, che di solito viene operata sulla testa: capistazione e non *capostazioni. Invece, nel caso di
cassapanca entrambi gli elementi concorrono a formare il significato del composto, e dunque si avrà una
coordinazione.
Esistono infine composti preposizionali: Pr+Pr: sottosopra - Pr+N: senzatetto, lungofiume. Nell’italiano
contemporaneo si nota una tendenza a dare vita a nuove forme di composti che si scrivono staccate: notizia bomba,
madre coraggio (giornalismo). Nell’oralità però non c’è differenza, la parola fonica è quel che pronunciamo prima di
prendere fiato, l’articolo insieme al nome o due nomi di un composto. Nella scrittura possiamo però avere delle info
importanti di tipo psicologico, non siamo ancora sicuri che siano composti che avranno vita lunga, le percepiamo
come temporanee. In alcuni, rari casi, si possono avere composti che presentano i componenti separati da un trattino:
diritto-dovere, per indicare l’unione e il loro essere slegate allo stesso tempo. Queste forme polirematiche (composti
da più parole) possono, con il tempo, assumere la forma di composti univerbati (cioè riuniti in un’unica parola: pomo
d’oro è pomodoro; antico plurale pomidoro, oggi pomodori).
Alcune locuzioni, composti articolati su molte parole, che richiederebbero preposizione, possono essere scritte invece
senza: treno merci, spia livello olio. Altre invece restano catalogabili come vere e proprie espressioni polirematiche:
avviso di garanzia, motore di ricerca, pentola a pressione. Possiamo poi usare anche aggettivi, che non posso però
mettere in mezzo alla locuzione.
Rare, ma probabilmente destinate a espandersi numericamente, sono infine le PAROLE-MACEDONIA, formate cioè
da “pezzi” di parole (morfemi) e non da interi lessemi. Due esempi di uso frequente sono postelegrafonico e
autoferrotranvieri. È dunque assai difficile definire un confine tra composti e unità polirematiche, proprio per la
tendenza contemporanea alla formazione di nuove costruzioni che mantengono la separazione grafica tra gli elementi.
Si possono avere anche tipi di composto in cui si lessicalizzano espressioni composte con risultato non prevedibile >
se dico belladonna, parlo di un’erba medicinale. È uno dei primi composti dell’italiano. È stata chiamata così dal
fiore, che era molto bello, ma velenoso. Si registrano negli ultimi anni composti anglo-italiani, con testa a destra e
trattino di separazione, diffusi a partire da modelli inglesi, con il primo elemento inglese (baby-pensioni) o più spesso
con il secondo elemento inglese (pigiama-party), o con entrambi gli elementi italiani (calciomercato, sieropositivo, il
tipo Renzi-pensiero). Il problema che nasce è però la morte della lingua precedente, alle lingue romanze qualora la
lessicalizzazione non si limitasse più al lessico, ma anche alle strutture. Se dunque questi composti violano la regola
della formazione dei composti italiani, abbiamo viceversa composti angloitaliani con testa a sinistra: batterio-killer,
film-culto, ecc. La composizione era molto rara in italiano fino al ’500: tra le parole più antiche si trovano
beccamorto, caciocavallo, biancospino, belladonna. È dunque una struttura latente della lingua italiana, che dava
origine sporadicamente a neoformazioni, e che è divenuta produttiva da un certo momento storico in avanti.
Lezione 4, 8 ottobre 2021
Il lessico
Il lessico è la terza struttura più importante dell’italiano. Il lessico corrisponde all’insieme delle parole che consente la
comunicazione tra i parlanti della stessa comunità linguistica, queste parole si dicono lessemi e costituiscono l’unità di
analisi fondamentale del lessico. Il concetto di lessema è spesso associato a quello di lemma, che corrisponde invece al
lessema nel momento in cui entra a far parte di un dizionario. I lessemi possono avere più di un significato, più di
un’accezione e si possono adattare alla situazione comunicativa. Anche parole che non ci sembrano dotate di un
12
significato forte, come la preposizione per, in realtà assumono molti significati: parafrasando o cercando altre
soluzioni di tipo preposizionale per rendere il concetto, posso sostituire il per con altre forme, tra cui a favore di e a
causa di, ossia locuzioni preposizionali.
Uno dei concetti più recenti della linguistica sono le collocazioni, delle combinazioni privilegiate di parole, non solo
modi di dire, ma espressioni non divenute abituali, ma frequenti, come ad esempio: buon caffè potrebbe essere una
collocazione, perché ha un aggettivo prima del nome (che solitamente sta dopo il nome) e poi perché lo si dice molto
spesso. Si tratta quindi di una forma privilegiata della lingua. Le collocazioni esprimono quindi il nostro interrogarci
mentre scriviamo un testo e vogliamo trovare l’aggettivo giusto da inserire nella frase, ad esempio, e cerchiamo una
collocazione, perché sappiamo che nel nostro vocabolario mentale esiste l’aggettivo migliore. Questo però non ci
sovviene alla mente. La collocazione corrisponde allo stadio inferiore, noi possiamo esprimere quel che vogliamo dire
con un’articolazione di aggettivi, nomi e verbi; gli elementi della locuzione (stadio successivo) non sono sostituibili,
quelli della collocazione sì, ma sono privilegiati.
Queste combinazioni diventano poi frequenti, diventando prima locuzioni e poi fraseologie. Solitamente tra queste
forme aumenta la coesione (unità dei componenti tra loro) man mano che ci si sposta verso le fraseologie. Se ad
esempio abbiamo una pentola a pressione non possiamo separare questa struttura ed interromperla, non possiamo
porre nessun lessema tra queste parole, funziona come un blocco unico. Questo vale anche per le collocazioni, tra cui
fretta eccessiva.
La locuzione è invece un’espressione polirematica, una forma fissa, non modificabile, dal momento che la forma
stessa si è lessicalizzata; abbiamo quindi bisogno della somma dei significati di quelle parole per arrivare al significato
totale (pentola a pressione, giro di pista come locuzioni nominali; fare in modo di, fare conto di come locuzioni
verbali, stanchi morti, bagnati fradici, come locuzioni aggettivali; alla buona, di solito, come locuzioni avverbiali; a
favore di, in luogo di, come locuzioni preposizionali).
La fraseologia è invece un’espressione polirematica figurata, traslata; comprensibile molto spesso dai madrelingua,
ma difficile per chi non lo è. Esistono anche delle fraseologie dialettali comprensibili solo dalla regione stessa. Il
significato non è ricavabile dai singoli componenti, perché è una metafora, è un andare oltre: perdersi in un bicchiere
d’acqua, lavare i panni sporchi in famiglia e molti altri proverbi. La fatica più grande è presente quando si deve
passare da una lingua ad un’altra, per rendere questi modi di dire in maniere diverse. Le traduzioni delle fraseologie
non possono essere letterali.
La conversione
Oltre alla derivazione e alla composizione, per la nascita di una parola, abbiamo anche la conversione, nella quale
invece si utilizzano parole già presenti nella lingua; se ne cambia la categoria grammaticale e si creano dei nomi
partendo da forme verbali o aggettivali, come ad esempio gli infiniti sostantivati. Questi ultimi corrispondono alla
conversione di verbi in nomi. Se ho ad esempio il verbo potere, posso farlo diventare un nome, ossia il potere.
Nel verbo potere, -ere è la desinenza, il morfema desinenziale, mentre -pot è il morfema radice. Nel nome il potere
invece i morfemi restano sempre 2, -e che indica che è un singolare, morfema e morfo coincidono, e -poter, che è
variato rispetto al verbo, non c’è più quell’analisi morfemica del verbo. Una volta deciso che è un singolare, posso
fare una flessione nominale e renderlo plurale.
Abbiamo anche nomi che derivano da gerundi, come il reverendo, dai participi presenti, ossia cantante, e dai participi
passati, il fatto. In minor misura abbiamo anche aggettivi, il bello della faccenda, nel quale si usa il maschile per
indicare un avvenimento qualsiasi, che potrebbe anche essere femminile; la scelta del genere è però abitudinaria nella
comunità linguistica.
Il lessico italiano e i forestierismi
Il lessico italiano è piuttosto stabile, si è storicamente ben adattato alle nostre esigenze; all’inizio del 300 esisteva già
il 60% del nostro vocabolario di base, mentre dopo Petrarca e Boccaccio, a fine secolo, già il 90% delle parole erano
state create. Queste sono quelle che tutt’ora si usano comunemente. Poi sono state create nuove parole col passare del
tempo e la modifica delle esigenze. Per esempio, il DISC, Dizionario della lingua italiana di Sabatini-Coletti, nel 2006
aveva già 5338 parole nate nel 200 e 13691 nate nel 300, ed ancora in uso. In totale sono circa 20mila, per la maggior
parte le più comuni. Attualmente sono 150mila, e queste sono nate dopo.
13
La catalogazione è necessaria e si basa sulle nuove scoperte; infatti, la scienza e la divulgazione si aggiornano
quotidianamente e apportano nuove parole al lessico patrimoniale della lingua, e alle parole storiche, che sono rimaste
in uso. L’oralità della lingua è raggiungibile solo nella contemporaneità di oggi e attraverso fonti del 900, mentre tutto
ciò che c’era prima era solo scritto: si devono quindi usare delle cautele per i secoli precedenti. Nel momento in cui
però le scoperte hanno suggerito una necessità di ampliamento del linguaggio, sono nati lessemi esogeni. Arrivano
parole da lingue straniere, dall’inglese recentemente, mentre nel passato dalle lingue di area francese (francese e
provenzale nei secoli più antichi). Le lingue africane ed oceaniche non hanno diffuso se non in minime parti i loro
concetti, per questo non hanno influenzato l’italiano, se non attraverso dei tramiti, come lo spagnolo per patata o
cacao.
Un altro aspetto importante è l’invasione di campo delle altre lingue sull’italiano, come l’inglese e la diffusione degli
anglicismi (superflui) nell’italiano: il controllo sull’uso è un’attività velleitaria, l’uomo è figlio di una società legata al
marketing, all’aziendalismo e al mondo degli affari; questo ci permette di esprimere concetti leggermente diversi
rispetto alla parola italiana, in certi campi si sono usati però anche anglicismi che si sarebbero potuti evitare o ambiti
in cui l’italiano è arrivato in ritardo: ad esempio droplet, ossia quelle goccioline, quell’umidità che esce dalla bocca
parlando. Nessuno ha però pensato ad un equivalente italiano, perché la lingua della medicina non è più l’italiano, i
ricercatori scrivono in inglese su riviste internazionali, per parlare alla comunità scientifica si è trovata una lingua
franca comprensibile a tutti: fino al 600 era il latino, poi è stata il francese, anche se Galilei ha tentato una strada
italiana per la fisica, e ad oggi è l’inglese; l’italiano è rimasto addirittura sprovvisto di equivalenti tecnici per parlare di
certi argomenti e questo rende la comunicazione bloccata in certi casi. In altri casi queste paure sono state definite
eccessive, gli anglicismi per alcuni sono limitati e l’avanzare dell’inglese viene definito come una paura e non una
realtà. Vi sono però parole comuni come ok, che è un vero e proprio anglicismo quotidiano.
Quante parole straniere esistono in italiano? Da che lingua provengono? Il modo migliore per scoprirlo è cercarlo sul
Grande dizionario della lingua italiana, GRADIT, pubblicato nel 1999. Il responsabile è il linguista Tullio De Mauro, il
quale afferma che esistono 8000 parole dal greco (prefissoidi e suffissoidi), 6000 inglesi, 5000 francesi, 1000 spagnole
(dalla dominazione spagnola in Italia), poi il tedesco e l’arabo. Possono esserci parole prestate anche dalla lingua
scritta, sono poche eccezioni: il tunnel, il bungalow e il drone. È molto forte la capacità dell’italiano di prendere dallo
scritto; infatti, ha trasformato ogni fonema dell’inglese in italiano. Meno ovvio è che esistono prestiti dai dialetti
italiani (non nella lingua formale, ma nella espressiva), tra cui Schei, la parola veneziana che indica il denaro. Nel
1797 la Repubblica di Venezia viene ceduta all’Austria, la quale porta la sua moneta. In tedesco, le monete di piccolo
valore erano definite Scheide Munze. Abbreviate dai veneziani: Schei, letto all’italiana, nati da un equivoco
linguistico. Tutto sommato, le parole che entrano da lingue esterne sono dette prestiti linguistici, mentre le altre forme
possono non essere prestiti, bensì calchi.
I prestiti
Il prestito consiste nell’accogliere un’espressione straniera, che può essere stabile o uscire di moda. Esistono i prestiti
di necessità, ossia parole di cui non si può fare a meno per indicare nuovi oggetti o concetti elaborati nel momento
stesso, per esempio patata, caffè, il numero zero (che non esisteva nella numerazione romana), il juke-box, uno
scatolone che conteneva dischi, che consentiva l’animazione delle spiagge, che poi è sparito sotto l’evoluzione
tecnologica, ma anche il drone. Possiamo usare gli anglicismi anche per indicare oggetti e concetti che già esistono,
ossia i prestiti di lusso, e per i quali c’è già una parola italiana: baby-sitter, che ha sostituito la bambinaia, la balia,
tipica delle case borghesi. Ad un certo punto però si è imposta questa parola. Più di recente l’anglicismo baby-sitter,
che è poi caduto in disuso a causa della parola tata, lessico del bambino che ha preso il sopravvento sull’anglicismo.
C’è poi il leader, che non corrisponde perfettamente al capo, oppure il weekend, che ha sostituito il fine settimana. In
realtà fine settimana sarebbe di genere femminile, perché la testa fine è femminile.
Poi c’è il fiscal drug, ossia il drenaggio fiscale, quando si parla di tasse ed economia complessa: l’inglese opacizza il
contenuto per coloro che non deve essere subito compreso, oppure il ministero Welfare nel governo Renzi. Quelle
competenze solitamente erano affidate al ministero della sanità, o ad un mai esistito ministero dello stato sociale.
Anche i termini in politica si adeguano quindi al momento.
Ci sono poi prestiti nei quali le parole rimangono vicine all’aspetto di partenza ed altre no. In questo caso ci sono
parole che si sono adattate all’italiano, prestiti adattati o integrati: bistecca-beefsteak, dove ci sono stati molti
adattamenti grafici, trasposizione di fonemi senza badare alla morfologia iniziale, tra cui: la doppia ee di beef è
14
diventata una i breve, perché è dentro la sillaba bis. E poi la combinazione fs è stata assimilata con una sola s. E poi
ea, che è diventata e; la k che è diventata una c intensa estesa su due grafemi ed una a finale.
Abbiamo poi treno-train, adattamento di a in e chiusa e la n mantenuta poi la o. Allora perché le parole terminano con
a ed o, quando in inglese sono neutri? Perché in italiano non esiste il genere neutro, perché la lingua funziona poi per
convenzionalità, è per puro caso. L’adattamento di genere è una convenzione che è stata condivisa dai parlanti, non
esiste una motivazione vera e propria. Poi però ci sono prestiti dal francese come ingaggiare (engager), e dal tedesco:
lanzichenecco, ossia il cavaliere protagonista nel 1526 del sacco di Roma, da Lanzknecht (il cavaliere con la lancia).
Si tratta però di una parola molto opaca, ci sono stati adattamenti fonici e morfologici, ma non c’è una semplicità di
corrispondenza semantica. Più numerosi sono i prestiti non adattati o integrali, con minimi adattamenti di tipo
morfologico o fonico, ma comuni recentemente: bar, boutique, lager, kimono.
Alcuni esempi di prestiti sia adattati che non adattati: TUTTE COLLEGATE ALL’ITALIANO PER MOTIVI
GEOGRAFICI, DOMINAZIONE DIRETTA, MA ANCHE ATTRAVERSO TRAMITI (ARABO TRAMITE
SPAGNOLO) OPPURE PER PRESTIGIO, ATTRAVERSO FIGURE COME FILOSOFI, ECC.
-Grecismi: anguria (che corrisponde anche ad un geosinonimo, ossia un termine utilizzato solo in alcune regioni
d’Italia per indicare uno stesso referente, designato diversamente nelle altre regioni. Oltre ai geosinonimi, ci sono
anche i geoomonimi, come ad esempio la parola tovaglia, che indica in alcune zone il pezzo di tessuto da porre sul
tavolo, ma in zone del meridione indica un asciugamano), basilico, duca, ciliegio, gamba, spalla
-Germanismi: sapone, guerra, elmo, guardare, bianco (che in latino era albus o candido), fresco (frigidus), guancia,
tregua, guadagnare, strudel, vermut (già entrate nel latino nell’Alto medioevo)
-Arabismi: arancia, limone, carciofo, melanzana, zucchero, magazzino, algebra, cifra, zero, zenit, azzurro, ragazzo,
caffè, sorbetto, alcool, kebab, hummus. (merci o figure della società)
-Gallicismi: gioiello, cuscino, dozzina, viaggio, giorno (a sostituire il dì), mangiare (a sostituire manicare), troppo
(dal francese tro).
-Iberismi: complimento, flotta (a sostituire armata), zaino, signore (da senor in spagnolo, dopo la dominazione
spagnola, prima si usava messere)
I dialetti hanno poi dato all’italiano varie altre parole, non solo dalla gastronomia, ma anche delle abitudini quotidiane
o dal vestiario: dal ligure derivano acciuga e scoglio, dal piemontese passamontagna, dal lombardo lavandino e
risotto, dal veneziano ciao (dalla forma schiavo, sciavo > ‘sono schiavo tuo’ = ‘sono a tua disposizione’), gazzetta,
ghetto, che si è poi estesa ad indicare limitazioni e confinamenti di altre minoranze sociali. Poi anche giocattolo (si
usava il toscano balocco), poi grazie, lido (di Venezia), locale, zattera e poi dal romanesco pennichella e tintarella e
poi dal napoletano pizza e intralazzo dal siciliano.
I calchi
La seconda categoria di forestierismi è quella dei calchi, ossia parole prese in prestito dall’italiano, con una particolare
caratteristica semantica o strutturale.
Ci sono 3 sottocategorie: calco semantico, dove si importa il significato di una parola, ad esempio dall’inglese
all’italiano. In realtà possiamo già avere quella parola in italiano, ma prendiamo in prestito da un’altra lingua un’altra
parola. Ad esempio: in inglese falco si dice hawk, queste due parole sono equivalenti. In italiano, il falco è
quell’uccello rapace che cattura prede. In inglese, oltre a falco, significa anche guerrafondaio, colui che risponde alle
provocazioni con la guerra (ambito politico). Se questo significato si associa anche a falco in italiano, allora otteniamo
un calco. Se in italiano infatti diciamo falchi e colombe indichiamo, oltre ai volatili, anche una componente bellicosa e
una pacifica.
Abbiamo poi anche to pay, pagare, ripreso come ripagare o soddisfare, compensare e non solo come pagare. Pagato
è quindi un calco semantico dall’inglese; to save, salvare, sia un file, per renderlo disponibile per usi successivi, ma
allo stesso tempo anche salvare, ad esempio dalla morte. Oppure anche to realize, realizzare un progetto/idea oppure
rendersi conto di qualcosa, capire. Anche important, rilevante/cospicuo oppure; severe, che perdona poco facilmente
un errore oppure grave (malattia severa).
15
Poi ci sono i calchi strutturali, composti inglesi che diventano italiani: out law, fuorilegge > avverbio e nome in
entrambe le lingue; si definisce quindi ‘calco perfetto’. Ci sono anche gli imperfetti, con un cambiamento ad esempio
nell’ordine delle parole o di categoria grammaticale: flat foot = piede piatto, sky scraper = grattacielo. Da una lingua
all’altra quindi non tutto è ovvio o automatico, ma ci sono adattamenti morfologici.
Poi c’è il calco sintagmatico, che prevede l’uso di una polirematica, come ad esempio fiscal drug = drenaggio fiscale;
underground economy = economia sommersa > underground sarebbe sotterraneo, in italiano invece diventa una
parola legata all’acqua; in inglese poi sia underground che economy sono nomi, mentre in italiano abbiamo un nome e
un participio passato usato come aggettivo. Abbiamo poi anche press room = sala stampa; inglese con la testa a destra
e in italiano con la testa a sinistra. Count down verbo e avverbio = conto alla rovescia, diventa una locuzione
nominale. Infine, brain drain = fuga di cervelli, non solo i cervelli sono perduti, ma scappano (in italiano), mentre in
inglese è il drenaggio di cervelli.
Poi ci sono forme miste: il calco parziale o calco prestito, dove si traduce solo una parte dell’anglicismo:
brain trust = trust di cervelli; dove trust indica una riunione di un gruppo; generational gap = gap generazionale,
indica il divario tra generazioni.
Lezione 5, 13 ottobre 2021
Lessicologia e lessicografia
Le discipline che studiano il lessico sono la lessicologia (studio vero e proprio dei lessemi, del lessico) e la
lessicografia (che riguarda dizionari, studio e rappresentazione delle parole, azione pratica di catalogazione del
lessico, è una foto istantanea di quel momento storico della lingua; per questo ogni dizionario si aggiorna sempre).
Quest’ultima è sempre al servizio del parlante.
I lessemi, ossia le parole, prendono il nome di ‘lemma’ o ‘entrata lessicale’ nel caso dei dizionari. Il lemma costituisce
una forma che rappresenta altre forme, per esempio, per quanto riguarda un nome, lo avremo al singolare, per gli
aggettivi al maschile singolare, e per i verbi all’infinito. Un dizionario contiene quindi una serie di parole che ne
rappresentano altre: se cerco avremo, troverò avere e dovrò conoscerne il paradigma verbale. Ecco, quindi, che queste
consuetudini richiedono il fatto che noi siamo competenti su diverse questioni di flessione non così ovvie e scontate.
Lessico e stratificazione storica
Il lessico si suddivide in:
-lessico di una lingua o comunità, con anche parole dialettali e regionali
-lessico di una sola persona (complesso delle parole conosciute da qualcuno o scritte da un autore/autrice).
Il lessico, se facessimo un’immaginaria rappresentazione sferica delle strutture della lingua, rappresenterebbe la parte
più esterna, perché quando veniamo a contatto con un’altra lingua, tendenzialmente usiamo le parole di quella lingua:
si imparano infatti le corrispondenze tra parole. Ci si trova quindi in una fase di apprensione della lingua con un
lessico A1-A2, vengono poi apprese le varie parole, ma non si ha capito la struttura interna e profonda di una lingua, e
questo allontana la persona dalla competenza attiva della lingua. È anche vero che il lessico varia molto. Le strutture
profonde sono invece la fonetica e la morfologia, che hanno un cambiamento limitato: nei casi dei prestiti adattati si
può assistere ad un adattamento di quella struttura inglese alla fonologia dell’italiano, come nel caso di drone, che non
prevede quei suoni e che quindi cerca degli adattamenti, senza modificare la struttura profonda, che rimane all’inglese.
Ecco, quindi, che il lessico si differenzia in 3 gruppi: neoformazioni endogene, acquisizioni esogene e una
componente patrimoniale. La lingua deriva da una sua storia che l’ha portata a quel punto di evoluzione; ecco che
quindi si può studiare anche la stratificazione progressiva della lingua. Fino al 500 il latino era un supporto
fondamentale per l’italiano, che era ancora poco usato, soprattutto per alcune situazioni comunicative di alto livello. In
certi casi si parlava addirittura il dialetto; dalla letteratura poi l’italiano ha iniziato a spostarsi verso la lingua
scientifica ed i trattati filosofici, e via via ha avuto sempre più bisogno di nuove parole: questo perché i campi di uso si
erano ampliati. Il serbatoio naturale era quindi il latino: da qui i latinismi, o cultismi, ossia parole riprese dal latino e
reintrodotte nell’italiano dopo moltissimi anni, e sono circa 30mila. Anche altre lingue europee di cultura hanno
conosciuto un percorso analogo, tuttavia i latinismi hanno lasciato un’impronta maggiore nell’italiano. I lessemi
16
ereditari e i latinismi sono anche denominati parole popolari, o patrimoniali/ereditarie, e parole dotte: vitium è
diventato sia vezzo, trafila popolare, che vizio, di trafila dotta.
I lessemi ereditari
Si tratta di circa 4500 parole che costituiscono l’ossatura dell’italiano: verbi, nomi ed aggettivi di più alta frequenza.
Esse possono essere anche abbastanza diverse dalla base latina, sia a livello di forma che di significato, come è
accaduto nel caso di focum (focolare), che ha assunto il significato di ignis (fuoco). Il latino è stato anche il tramite
attraverso cui l’italiano ha acquisito parole di lingue di sostrato, ossia lingue che coesistevano col latino prima
dell’espansione di Roma.
I latinismi
Alcune di queste sono parole quotidiane: alleanza, amicizia, difficoltà, arteria, cervello, cemento, intimo (come
aggettivo), mirabile, essenza, raviolo, salame (che era un salame di salsa di pesce nel mondo latino, conservato con il
sale). Una metà di questi latinismi vengono poi usati nelle scienze. Sono successe poi varie cose, proprio perché la
lingua è un oggetto storico: si sono creati degli allotropi, ossia dei doppioni, in cui si è avuta sia la parola patrimoniale
che il latinismo, cioè: partendo da una parola latina, in un caso si è modificata ed è stata usata nei secoli senza
interruzione, e nell’altro è stata recuperata ed introdotta in italiano. Ad esempio: vitium, ossia un’abitudine criticabile
della moralità, è arrivata in italiano come vezzo, ossia un comportamento capriccioso (Giovanni ha il vezzo di portare
l’orecchino), qualcosa che è percepito come insolito. Questa parola ha poi perso di intensità semantica, effettivamente
vitium è più forte di vezzo. L’italiano si trovava sprovvisto quindi di una parola di quell’intensità, e ha recuperato
vizio. Abbiamo quindi contemporaneamente una parola più debole ed una più intensa e moraleggiante; entrambe
hanno la stessa etimologia, solo che vezzo è patrimoniale e vizio è un latinismo.
Altro esempio è discum, ossia tavola (tonda), diventata desco. Nel 400 però ci sono stati progressi nell’arte della
guerra ed è stato inventato uno scudo leggero e rotondo, ed era stato identificato recuperando discum. Nell’800 è stata
poi inventata una tecnologia che permetteva di incidere dei solchi contenenti la musica per poter essere letta, da lì è
nato il termine disco. Oggi il senso di circolarità del disco è un po’ passato, a causa delle nuove forme di ascolto della
musica. Quindi qui la duplicazione è etimologica, c’è una sola parola latina di partenza che dà luogo a due parole
separate, che non sono dei duplicati o allomorfi, bensì due parole ben definite e separate.
Abbiamo poi anche latinismi che non si sono adattati, perché spesso il latino ha una struttura facile da usare, si tratta
soprattutto di parole di scienze giuridiche e mediche: curriculum, virus, referendum, quorum, omissis, ictus, agenda
(neutro latino che indica le cose da fare), grossomodo (locuzione latina – si capisce dalla collocazione insolita
dell’aggettivo, davanti al nome), media (che poi ha creato la locuzione anglo-latina mass media), forum. Per quanto
riguarda la parola curriculum, è possibile fare il plurale curricula in italiano? Oppure hobby, diventa hobbies in
italiano? Nel caso dell’inglese, non si deve fare il plurale, quindi resterebbe hobby-hobby. Per quanto riguarda il latino
invece si preferisce farlo, perciò si farebbe curriculum-curricula; è preferibile dire due curricula. Le sfumature di
opinione nel caso del latino sono però varie. Quando si indica ad esempio il curriculum degli studi, si può trovare
anche curriculo-curricoli. Si deve quindi distinguere tra latinismi pluralizzati e forestierismi che non vanno
pluralizzati.
Un caso curioso di latinismo riguarda quelli nati dal popolo, che spesso ascoltava la messa, celebrata in latino per
moltissimi secoli, fatta eccezione per l’omelia, che era sempre nella lingua comprensibile al popolo. La recitazione del
‘Credo’ in latino, in particolare da visibilium omnium et invisibilium, è nata la locuzione italiana in visibilio, ossia
avere una felicità superiore alla norma > proprio perché le persone comprendevano questo, da qui i latinismi di
origine non colta, ma popolare.
Le parole dell’italiano
Di quante parole è formata la lingua italiana? Non possiamo saperlo con precisione, ma possiamo guardare i dizionari:
generalmente ci sono 100-150mila parole. Nei più recenti sono maggiori, mentre nei meno recenti sono in numero
minore, proprio perché le situazioni comunicative sono molte di più. Per capire quante sono in realtà, si dovrebbero
raddoppiare i nomi (per i plurali); quadruplicare gli aggettivi, moltiplicare per dieci i verbi, ecc. Con un conteggio
preciso, il GRADIT ha un lemmario di 260mila lemmi, e si crede quindi che il lessico della lingua italiana vada verso i
3 milioni di parole, escluse quelle delle lingue speciali, dell’ambito scientifico. (Parentesi sul latino: il numero delle
parole del latino classico si può ottenere solo attraverso i testi scritti, per noi è difficile capire quanto una parola fosse
17
comune in quel tempo e nei vari momenti dell’epoca nella quale il latino era di uso quotidiani. Il latino utilizzato
invece ad oggi nella Città del Vaticano è più semplice da studiare e quantificare.) Esistono quindi dizionari riguardanti
queste specifiche lingue speciali. Siccome esistono dizionari diversi però, si possono trovare comunque certe parole
speciali, in base alle valutazioni dei lessicografi.
I dizionari e il vocabolario
Vocabolario = insieme lessicale riferibile a singoli parlanti, dizionario = parola più tecnica che indica lo strumento.
Di fronte a questo numero di parole è però impossibile conoscerle tutte, per questo esistono i dizionari. Questi ultimi
devono contenere le parole di uso quotidiano, per lo più. Ci sono degli identificatori, ossia le marche d’uso, che ci
indicano se la parola è rara, dialettica, di lingua speciale, etc. Ci sono poi anche le marche diasistematiche, che
identificano come o a quale livello di variazione del sistema si trova una parola: se di uso popolare, se burlesca, se
comica, se volgare. Questo è importante perché si potrebbe fraintendere l’uso di una parola e usarla in un registro
sbagliato.
Le parole che noi usiamo più spesso sono state studiate da Tullio De Mauro, che ha creato categorie di analisi
lessicologica; secondo lui esiste un vocabolario di base di 6700 lessemi divisi in 3 categorie: lessico fondamentale
(2000 lessemi), vocabolario di alto uso (2700) e vocabolario di alta disponibilità. Termine hapax = parola unica, rara
che si trova una volta sola in un testo.
A seconda della nostra maturazione, veniamo a contatto
con sempre più parole, anche di lingue speciali e
regionalismi, fino a creare la nostra competenza, ossia la
capacità di parlare in modo preciso in un certo ambito.
Ciascuno di noi ha quindi una base comune con gli altri ed
un insieme di parole che condivide con meno persone. Il
LIP (lessico di frequenza dell’italiano parlato) corrisponde
alle parole più usate nell’italiano; un computer individua i
numeri di lessemi usati dai parlanti e fa una classifica di
parole dalla più alla meno usata. Tra le prime venti
abbiamo preposizioni, articoli e certi verbi. Tra le posizioni
2001 e 2007 c’è il vocabolario di alta frequenza: ad
esempio fiocco, fischiare; ossia parole usate meno delle
prime 2000, ma comunque usate. Se tra le prime 4700
parole non trovo certe parole comunque usate, De Mauro
ha fatto una scelta e ha creato un gruppo di alta
disponibilità: parole di cui sappiamo il significato, ma che si usano meno perché non ce n’è molto bisogno, tra cui:
forchetta, batuffolo, carrozzeria. Quindi generalmente la necessità ci induce ad usare parole che naturalmente non
avremmo impiegato. Dopo queste parole, c’è un ampio gruppo detto ‘lessico comune’, ossia 40-45mila parole che non
tutti conoscono, ma solo generalmente chi ha studiato. Tipicamente sono parole insegnate ed esercitate. Superando le
100mila, ci sono parole desuete, rare e letterarie. Le si tiene nel vocabolario per far si che le persone possano
conoscerne di nuove. Tutto il resto sono parole tecnico-scientifiche e prestiti, etc.
A quali categorie grammaticali appartengono le parole del nostro vocabolario?
Le preposizioni, gli avverbi e gli articoli costituiscono gli invariabili, che non hanno flessione e sono il 3%. Poi ci
sono verbi, aggettivi e nomi: la categoria prevalente è quella dei nomi, il 62% sono nomi. Noi abbiamo bisogno di
chiamare le cose col loro nome, mentre i verbi e gli aggettivi non sono così tanti.
La lessicologia
La lessicologia si occupa del definire i rapporti di significato tra le parole: possono essere paradigmatici e
sintagmatici. Il rapporto sintagmatico riguarda la combinazione di parole diverse nella frase, il rapporto paradigmatico
riguarda invece l’associazione di idee legate al concetto che sto esprimendo. Ad esempio, sono davanti ad un
paesaggio e ho la libertà di scegliere tra le parole: sto osservando un paesaggio, sto contemplando il paesaggio, sti
ammirando il paesaggio. Questo lavoro di sinonimi appartiene al rapporto paradigmatico; sono infatti tutti paradigmi,
sinonimi di guardare. Anche i contrari funzionano all’interno del paradigma, in quei casi lì per velocità operiamo sul
18
paradigma e andiamo dalla parte opposta. In questo caso si possono fare errori polari, quando ci viene in mente il
contrario della parola che vogliamo dire. Se in questo caso però riusciamo sempre ad avere una parola da usare, che
sia la più precisa o meno, nel caso del sintagma, se non ci viene la parola, non riusciamo ad arrivare al concetto: se
devo spiegare come si chiama il pedale per far partire la macchina e non mi viene, non posso usare un sinonimo, devo
per forza usare la parola acceleratore. Ci si ferma e si arriva all’imbarazzo linguistico, dobbiamo cercare di riempire
quel vuoto con delle perifrasi, dei giri di parole che facciano capire. Il contesto linguistico, o sintagma, mi richiede
una parola ben precisa.
Altro problema del lessico è: esistono tantissime parole in italiano, c’è un ulteriore sfumatura, cioè che le parole
possono possedere altri significati, o accezioni: sono parole polisemiche. Ad esempio, acqua: liquido senza odore,
sapore. Quando piove invece, la parola acqua si riferisce alla precipitazione atmosferica. Posso però usare questa
parola anche in altri casi, come quando mi taglio ed esce un liquido di ferita detto acqua; oppure i segni zodiacali di
acqua. Posso poi passare a locuzioni, a proverbi (la classe non è acqua = se una persona è raffinata, non è una cosa da
poco. Solo in questa fraseologia, posso dare questa spiegazione). Questa parola, quindi, assume tantissimi
significati!!!
Per quanto riguarda il paradigma, parliamo di sinonimi (sinonimia o orizzontalità) e antonimi, ma poi anche
omonimia. Oltre all’omonimia con i nomi propri, ci sono anche altre parole, tra cui sale: o il cloruro di sodio o la terza
persona del verbo salire. In questo caso però si capisce in base al contesto. Per quanto invece riguarda la pèsca e la
pésca, c’è una differenza di fonema. Queste parole si dicono omografe, si scrivono allo stesso modo, ma si
pronunciano in modo diverso.
Oppure, altri rapporti di paradigma sono detti di verticalità: iperonimi, si sviluppa dal grande al piccolo, o iponimi, dal
piccolo al grande.
Ad esempio, ‘animale’, ‘mammifero’, ‘gatto’, ‘soriano’. Dunque, ogni volta ho ristretto il campo di indicazione.
Ci sono poi anche i meronimi, ossia parole incluse in altri oggetti: volante e cruscotto sono meronimi, in quanto sono
componenti di un’auto.
Dato che non tutte le parole sono ugualmente facili da capire per tutti i parlanti, se ho il compito di scrivere dei testi
devo usare un lessico adatto alle persone che lo leggeranno, posso usare dei valori numerici o indici di leggibilità. Il
più famoso si chiama GULPEAS, un gruppo di ricercatori ha creato questo indice: se prendo un paragrafo di un saggio
di linguistica e lo metto su gulpeas, mi calcola quante parole ci sono in ogni frase, quante frasi ci sono, ecc. Il software
alla fine da un punteggio al testo, che se convertito con una tabella, mi indica la facilità di un testo.
Lezione 6, 14 ottobre 2021
Come si riconosce un latinismo, rispetto a una parola patrimoniale? O si ricorre ai dizionari storici, oppure possiamo
sapere che solitamente le parole di uso quotidiano sono latinismi, i concetti astratti, le parole scientifiche.
Dizionari
Riprendendo la lessicologia e la lessicografia: il primo vocabolario storicamente compilato fu dell’accademia della
Crusca nel 1600 e si chiamava ‘vocabolario’. Poi, tra fine 800 e primo 900 era nata la lingua scientifica, da quel
momento è nata la tecnicizzazione del termine ‘dizionario’.
Quali tipi di dizionario esistono? Monolingui, bilingui (i primi usati nella storia dell’uomo, in Babilonia) e plurilingui,
cioè repertori usati meno ad oggi, ma che un tempo erano usati dai mercanti per viaggiare in Europa > dal mercante
Ambrogio Calepio, bergamasco con sedi in tutta Europa, 21 lingue. Il dizionario ha preso il nome di Calepino. Poi ci
sono dizionari tecnici e specialistici (ad esempio di filologia), enciclopedici (a partire dall’Enciclopedia di Diderot e
Dalambert, con anche storia ed illustrazione del fenomeno), poi etimologici (che si focalizzano sull’origine della
parola), dei sinonimi e contrari (ad oggi usati meno, perché queste indicazioni ora si trovano anche nei monoligue),
inversi o rimari (con le parole rovesciate: invece che casa, troviamo asac > servono per trovare le parole che rimano,
sono tutte vicine l’una all’altra; ad esempio posso trovare tutte quelle che terminano con -ordo insieme). Esistono
anche quelli delle collocazioni, ossia che aiutano a cercare le parole che non troviamo, ad esempio, se cerco
documento, troverò una serie di aggettivi che si adattano al documento e tutti i verbi che vi si abbinano. Esistono
anche quelli storici, che ci danno la storia completa degli esempi d’autore per la parola; ci sono poi quelli cartacei ed
online, anche perché ormai si specializzano per pubblici diversi. Uno dei primi fu il ‘glossario di Monza’, con 60
19
lemmi che traducono dall’italiano settentrionale dell’epoca (pregrammaticale) verso il greco bizantino, nel X secolo.
Sono corrispondenze semplici, senza spiegazioni particolari, ad esempio: costa = pleura (probabilmente termini
medici). Luigi Pulci ha scritto poi il Morgante nel 1478, scrivendo in un registro basso: a differenza del linguaggio del
periodo, molto vicino a Boccaccio e Petrarca. Ha tratto delle parole dal Morgante e ha scritto il Vocabulista, con 700
parole. Niccolò Liburnio invece pubblicò Le tre fontane (1526), repertorio lessicale delle Tre Corone toscane (Dante,
Petrarca, Boccaccio). Il Dittionario di Francesco Sansovino (1568) è un primo esempio di lessicografia attenta agli usi
locali. Ma esistono anche repertori plurilingui di enorme importanza storica: la Stele di Rosetta (scritta in geroglifico,
demotico e greco); il Calepino (antenato dei dizionari pluringui tascabili), il Vocabolario degli Accademici della
Crusca (I ed. 1612).
Nel dizionario di uso corrente troviamo lemma, categoria grammaticale, eventualmente il genere, la scansione
sillabica o la pronuncia, le accezioni, le marche d’uso. Le marche del GRADIT ci consentono di verificare
immediatamente l’appartenenza di un termine a uno dei settori lessicali: FO – AU – AD – CO – BU (con possibile
specificazione RE – DI – LE – ES – TS). Nei dizionari dell’uso le parole fondamentali, di alto uso e alta disponibilità
sono evidenziate con un espediente: Sabatini-Coletti usa un fondino rosso, Zingarelli un rombo pieno, Devoto-Oli
l’inchiostro azzurro. Esistono dizionari storici, che raccolgono l’evoluzione semantica delle parole attraverso i secoli
(anche se col tempo le parole perdono di intensità semantica), spesso con esempi d’autore: il Vocabolario degli
Accademici della Crusca, dal 1612, ha questa caratteristica; così il Dizionario di Niccolò Tommaseo, ottocentesco,
fino al Grande Dizionario della Lingua Italiana (1961-2002) – GDLI. Esistono dizionari etimologici, nei quali si
ritrova l’origine remota della parola, solitamente posta al vertice di tutta la famiglia che si è creata attorno a essa.
Esistono dizionari speciali, come i dizionari analogici, i dizionari ragionati (strumenti che quasi mai fanno parte del
repertorio di una famiglia, sono dizionari che organizzano le parole per famiglie: se cerco buono, trovo tutti i derivati
e le parole che fanno parte di quella famiglia; ha quindi molti meno lemmi), ecc., nei quali il lessico viene illustrato
nelle sue ramificazioni: non in modo orizzontale come spesso siamo abituati a pensarlo, ma ragionando su basi e loro
derivazioni e composizioni.
Lezione 7, 15 ottobre 2021
Tipi di testo e principi testuali
La comunicazione avviene per mezzo di testi. Anche l’analisi logica assume dei significati diversi in base all’insieme
delle frasi, al contesto linguistico, che mi consente di capire meglio. Un testo è un atto linguistico realizzato in forma
orale, scritta o trasmessa, che deve avere un senso, deve essere collocato all’interno di opportune coordinate
contestuali e svolgere una funzione comunicativa. Il testo corrisponde ad una somma di frasi con un valore aggiunto
riguardante ogni frase che lo compone, che si definisce enunciato. L’enunciato può costituire un testo da solo, o può
essere in combinazione con altri enunciati. Ogni frase in realtà non esiste come entità astratta, ma prende vita nel
momento in cui è calata in un contesto. Per esempio: L’università è anche tua; non significa che noi siamo proprietari
dell’università e che dobbiamo pagare le tasse. Se noi mettiamo un contesto, ossia di non sporcare in giro (con una
premessa), capiamo che il senso è quello di tenere pulito perché tutti sono responsabili del decoro dell’aula.
L’analisi testuale affianca lo studio con altre strutture grammaticali, ossia la fonologia, la morfologia e la sintassi, ed
implica l’adozione di un diverso punto di osservazione.
Quali regole ci sono per costituire un testo?
Sono molto complesse, perché si ricade in una libera combinazione degli elementi. Quando violiamo una regola
testuale, il testo perde di efficacia, o di proprietà, rispetto all’obiettivo che vogliamo raggiungere con la
comunicazione. D’altra parte, oltre alla scrittura del testo, abbiamo anche la considerazione del testo come pronuncia:
il testo nasce infatti come oralità. La comprensione avviene attraverso la decodifica (codice da interpretare) e
l’inferenza (intuire senza elementi diretti che ci suggeriscono la soluzione).
Per decodifica intendiamo la composizione di unità piccole per ottenere unità maggiori, è un processo che va dal
piccolo al grande, che parte da fonologia, morfologia e sintassi fino ad arrivare al lessico ed al testo. Si mettono
insieme parole che si capiscono con parole che non si conoscono, ma che si cercano, capendo poi la frase.
Quest’ultima la metto insieme a quella successiva, e inizio pian piano a far accumulare significato al testo
nell’interezza.
20
C’è però anche un altro elemento importante, ossia l’inferenza, che a differenza della decodifica, non è uguale per
tutti: si tratta della capacità di intuire, e questo accade grazie alle nostre capacità; ci possono essere toni ironici, ad
esempio. È anche per questo che si può fraintendere. Ad esempio, avendo la parola università, noi inferiamo grazie
alle nostre capacità e conoscenze il suo significato. Spesso però ci accontentiamo e crediamo che il senso della parola
sia quello comune, quando in realtà però l’interlocutore può dargliene un altro: da questo anche il fraintendimento.
Quindi, noi capiamo i testi attraverso le informazioni fornite, ma allo stesso tempo attraverso ciò che percepiamo noi:
ognuno di noi vive il testo in maniera differente, perché raggiunge il proprio ragionamento e i propri commenti. Ad
esempio, ogni lezione (universitaria in questo caso) è decodificata e inferita da ognuno in modo diverso. L’inferenza
parte dal testo e dal lessico, fino ad arrivare alla sintassi, morfologia e fonologia. La decodifica è consapevole, mentre
l’inferenza è automatica ed inconsapevole.
Esistono vari tipi di testo, esistono varie teorie, tra cui una la più importante elaborata da Werlich, che ha differenziato
5 tipi di testo: questo non significa che ogni testo appartenga solo ad una categoria, ma alcuni possono essere un mix
tra le varie categorie. I 5 tipi sono:
-descrittivo (il più semplice, funziona per indicatori di spazio: vedo un albero, vedo una panchina, ecc. Mi servo
quindi di indicatori dello spazio, rappresento l’oggetto all’interno dello spazio ed uso la mia matrice cognitiva, la mia
capacità di ragionare, per percepire lo spazio che mi circonda)
-narrativo (nel quale ha importanza la variabile ‘tempo’, ci sono dei personaggi e una cronologia di azioni – fabula =
ordine cronologico; intreccio = eventi non in ordine cronologico, con flashback e flashforward, ossia analessi e
prolessi)
-regolativo (obblighi, divieti ed istruzioni rivolte alla persona che legge o ascolta. La matrice cognitiva occupata è
quella che regola il nostro comportamento futuro; ad esempio non fumare > non fumerò. In questa categoria vi sono
anche le istruzioni per l’uso, le ricette, i manuali di funzionamento, gli avvisi, le regole di gioco)
-espositivo, o informativo (è più complesso, serve a trasmettere una conoscenza -tipicamente una lezione
universitaria-. La matrice cognitiva è quella di comprensione di un testo, generale e particolare. Ad esempio ci sono
racconti orali, lezioni, manuali da studiare)
-argomentativo (ha una struttura rigida, il produttore del testo deve convincere il destinatario della propria tesi, per
questo seleziona le informazoni, le rielabora e le accosta. Si lavora sulla matrice cognitiva della selezione delle
informazioni. Espongo anche le antitesi, o obiezioni. Ne esce una sintesi; è la tipica dialettica con tesi, antitesi e
sintesi. Posso usare argomenti logici o pragmatici, che si riferiscono ad una praticità maggiore, oppure posso elencare
delle autorità o degli esempi di casi simili.)
Questi tipi di testo si riferiscono all’emittente, il compito invece di chi legge o ascolta (ricevente) è di valutare il
vincolo interpretativo, ossia: quale margine di interpretazione o libertà di comportamento posso avere di fronte a quel
testo? Ci sono testi molto vincolanti, che usano strutture che impediscono al destinatario una libertà di interpretazione
(mangia questa minestra!), nei quali uso dei verbi di obbligo. I testi regolativi in particolare sono molto vincolanti.
Insieme a questi vincolanti, ci sono anche i vero o falso e le istruzioni di montaggio di mobili. Tutti questi richiedono
una sequenza di operazioni fatte in una precisa direzione. Poi c’è il medio vincolo, dei testi espositivi, dove c’è una
tesi di fondo, ma si è liberi di interpretare e dare il proprio contributo alla completezza delle informazioni. Il minor
vincolo sta dalla parte dei testi narrativi e della letteratura, che si basa sull’interpretazione da parte del lettore: alcuni
testi si compiacciono di far sbagliare interpretazione al lettore, come i libri gialli.
I principi testuali sono di 3 categorie:
-costitutivi, che indica le informazioni grammaticali e semantiche (senso e grammatica) del testo
-pragmatici
-regolativi
I principi costituitivi
La coesione di un testo è riguardante la parte grammaticale, ossia se è ben formato dal punto di vista delle relazioni
grammaticali, mentre la coerenza è la globale omogeneità delle informazioni, ci indica se si può attribuire continuità
21
di senso al testo. Un testo può essere coerente, ma non coeso; ci possono essere incongruenze grammaticali.
Nonostante questo, possiamo inferire il senso del testo. La coesione è data dall’accordo grammaticale (dalla flessione -
un buon amico, e NON -una buon amico, e coniugazione), dalla concordanza dei tempi, dalle forme sostituenti
(pronomi) e dai segnali discorsivi (quelle parti che consentono di apprezzare meglio il testo: oggi è una bella
giornata, INFATTI c’è il sole). Questi connettivi collegano porzioni di testo (sintagmi, frasi semplici e complesse,
ecc.) stabilendo coordinazioni e dipendenze. Poiché articolano il discorso da un punto di vista logico e semantico,
servono anche alla coerenza.
Gli elementi coesivi
I connettivi sono preposizioni, congiunzioni, ma anche avverbi (così, peraltro), verbi desemantizzati (senti, figurati),
locuzioni (in sostanza, a tal proposito), proposizioni intere (metti che; si pensi a). Sono quindi elementi che
aggiungono qualcosa di collegamento tra una parte del discorso e l’altra, e per lo più sono nel testo orale. Per questo
motivo, alcuni di questi connettivi hanno semplicemente un valore pragmatico (e sono detti anche segnali discorsivi):
servono all’interazione tra i parlanti (per prendere il turno: allora; sì, ecco, io...; per chiedere attenzione: senti,
guarda; per modulare un’affermazione - come modulatori, per ridurre l’intensità, per sminuire, danno l’idea che non
siamo sicuri della nostra risposta): praticamente, appunto; per avere un feedback: eh?, capito?.
I connettivi pragmatici possono avere funzione demarcativa (in seguito) oppure di riformulazione o correzione (al
limite, in altre parole), o anche di esemplificazione (diciamo, metti che).
Le forme sostituenti consentono di riferirsi al tema informativo con altre parole, le più frequenti sono pronomi
personali, ma è possibile usare anche dimostrativi, sinonimi oppure perifrasi. Per esempio: Manzoni può essere
sostituito da lui, quello scrittore.
Tuttavia, possono essere riscontrati casi di anafora zero: i verbi possono essere usati anche senza soggetto (la
morfologia italiana lo consente), se esso non cambia tra una frase e l’altra.
Lezione 8, 20 ottobre 2021
Anafora, catafora, deissi
Dal testo si diparte una fitta rete di invii sia verso altre parti del testo che verso il contesto esterno, tra questi rinvii
abbiamo l’anafora, la catafora e la deissi.
Gli anaforici sono quindi quegli elementi che ripetono quanto già detto o scritto in precedenza, come ad esempio i
pronomi personali, che sono anaforici dimostrativi: leggete il testo e studiatelo. L’elemento a cui si riferisce il
pronome si chiama punto d’attacco (o antecedente), e corrisponde all’intero sintagma. I rinvii anaforici assicurano la
continuità (o discontinuità) del riferimento, cioè ci consentono di capire se in un testo si sta parlando dello stesso
referente o no. Il rinvio anaforico si può realizzare per ripetizione o sostituzione; in quest’ultimo caso distinguiamo tra
sostituzione pronominale e lessicale. Nella sostituzione pronominale si utilizzano per lo più i pronomi. La sostituzione
lessicale si affida anche a sinonimi, iperonimi o perifrasi sinonimiche. Queste due tipologie di sostituzioni non sono
del tutto equivalenti, dato che i pronomi sono semanticamente vuoti e instaurano un rapporto puramente referenziale
tra due elementi, mentre nella sostituzione lessicale vi è anche un rapporto semantico: per questo si possono
aggiungere al testo eventuali nuove informazioni, arricchendolo dal punto di vista semantico. Quest’ultima
sostituzione permette anche una ridistribuzione del carico informativo fra punto d’attacco e anafora.
Quando invece l’elemento pronominale non sta ripetendo qualcosa di già espresso, ma lo anticipa, diciamo che
quell’elemento è cataforico: la catafora è quindi un’anticipazione di un elemento non detto; lo si fa quando si usa una
frase secondaria, prima della principale: prestami quel libro quando lo avrai letto è anaforico; quando lo avrai letto,
prestami quel libro è cataforico.
È possibile anche l’uso di incapsulatori anaforici o cataforici, si tratta di un processo semplice: quando per riferirmi ad
un accaduto, uso il termine il fatto, utilizzo un incapsulatore. Quest’ultimo può essere anche usato nel giornalismo per
attirare l’attenzione o comunque creare suspence. Se è anaforico o cataforico dipende da dove si trova nel testo.
Un testo però può fare riferimento anche a elementi esterni alla situazione comunicativa, può cioè indicare elementi
del contesto (tutti gli avverbi ad esempio), appartenenti alla realtà extralinguistica, all’interno della quale si svolge la
comunicazione. Questi elementi formano la deissi, dal gr. dèixis ‘indicazione’: se enunciati in una frase formano il
22
campo di indicazione (prima, dopo, ecc). Gli elementi deittici sono personali (i pronomi di prima e seconda persona,
perché indicano le persone coinvolte nella comunicazione, quelli di terza sono anaforici) oppure sociali (identificano il
ruolo sociale di chi partecipa alla comunicazione, oppure il grado di confidenza: tipicamente, è il “dare del tu” o il
“dare del lei”, o “dare del voi”). Ci sono poi elementi deittici spaziali (qui, lì, sotto, sopra, più avanti, ecc.) e temporali
(ora, oggi, ieri, in quel momento, ecc.). Questi elementi valgono tipicamente solo entro il contesto di riferimento.
Infine, esistono elementi deittici testuali: più avanti, prima, sopra, oltre, ecc. In un testo sono molto utili, ma occorre
fare attenzione quando si spostano di posizione dei brani. La mancata condivisione del contesto può portare al
fraintendimento, qui serve per forza l’inferenza che deriva dal contesto, e non tanto la decodifica.
La distribuzione dell’informazione e gli elementi semantici del testo
Quando parliamo o scriviamo ci riferiamo a qualcosa. Questo argomento prende il nome di tema, o topic. L’elemento
noto, di cui parlo, è quindi il tema. In un testo, scritto o parlato, dico delle cose che riguardano quel tema. Se voglio
essere interessante, devo dire delle cose nuove su quel tema, non posso ripetermi. Questi elementi nuovi si chiamano
remi (rema al singolare), in inglese focus. Il testo può essere sottoposto a tre tipi di analisi, che ne individuano
rispettivamente la struttura tematica (tema e rema), la struttura delle conoscenze (quali sono le nuove informazioni
date) e la struttura logico-sintattica (la funzione degli elementi che compongono la frase).
Il tema di un testo può non cambiare, ad esempio se parlo di Manzoni, tutto il testo si concentra su di lui: dirò qualcosa
della sua biografia, delle sue opere, del suo ruolo di consigliere. Dico tante cose su Manzoni, ma non cambio mai il
mio tema. Quando invece uno di questi remi diventa il nuovo tema, allo avremo il caso di progressione lineare, se ad
esempio inizio a parlare dei Promessi Sposi; si cambia discorso legandosi ad eventi nominati nei discorsi precedenti.
Meno frequenti sono altre strutture: ipertemi ed iperremi, ossia temi più generali o remi più generali, nei quali, da un
discorso generale, si passa a vagliare singoli aspetti, o elementi, riferibili a un tema (o a un rema) principale.
Ancora, la struttura per temi e per remi dissociati, nella quale si elencano temi o remi di importanza simile, e si
trattano uno alla volta all’interno del testo
Infine, la più rara progressione a salti, tipicamente poetica, ma ritrovabile anche nella quotidianità. Per es: oggi mi
hanno fatto multa, è scaduta la bolletta del gas, ho fatto la spesa e iniziato il mese in palestra. Quante spese!
L’elemento unificatore è proprio l’ultima frase.
I 5 principi pragmatici del testo
Ci sono 5 principi pragmatici legati alla scrittura del testo: questi vengono esplicati nello schema della comunicazione
di Romagnacovson, a cui si ispirano tutte le discussioni: emittente, destinatario, codice usato, messaggio e canale di
comunicazione.
Se il testo è particolarmente significativo dal punto di vista dell’emittente, dal punto di vista pragmatico noi poniamo
sotto la nostra attenzione il principio di intenzionalità dell’autore: qual è l’intenzione dell’autore? Vuole descrivere,
narrare, informare, argomentare? Noi dobbiamo giudicare quel testo, valutare nel testo e la sua comprensibilità: si dà
un giudizio di accettabilità del testo, se è comprensibile, se ha problemi di tipo semantico ecc.
Se guardiamo l’oggetto di cui si parla, valutiamo l’informatività: cioè l’ampiezza delle nozioni, la loro originalità, ecc.
Gli altri due principi pragmatici riguardano il contesto in cui il testo è prodotto e il legame di quel testo con altri testi.
Il primo aspetto riguarda il collegamento del testo al suo contesto, è legato al fatto che ci siano esigenze contestuali
che mi suggeriscono di scrivere un testo: un testo come è pericoloso sporgersi, per esempio, sarà opportuno se
attaccato al finestrino del treno, o a una ringhiera in un punto panoramico, ma non in molti altri casi. Questo aspetto è
detto situazionalità. Infine, il legame di un testo con altri (espresso tipicamente con le note dei testi, oppure con i link
se si tratta di un ipertesto) si dice intertestualità. Questo elemento è molto più sviluppato nei testi scritti che negli orali.
In base agli studi di linguistica pragmatica, comunicare è un’azione umana. Per Austin 1955, corretto da Searle 1969,
si distinguono enunciati constativi (vero/falso) e enunciati performativi: giuro di dire la verità, mi scuso per l’errore,
le ordino di uscire. In questi ATTI LINGUISTICI si riconoscono atti LOCUTORI (l’enunciazione dell’azione),
ILLOCUTORI (la vera intenzione comunicativa: ironia, persuasione, ecc.) e PERLOCUTORI (l’effetto prodotto sul
destinatario). I parlanti possiedono la competenza necessaria a comprendere un atto linguistico. “Scusi, sa l’ora?”,
23
oppure “Mi passi il sale?”, non sono domande a risposta sì/no, nonostante il loro aspetto, ma prevedono una reazione
diversa. Così la domanda: “le dispiace se chiudo la finestra?” o “non sente freddo?” non aprono un dialogo, ma
anticipano un’azione. Alcuni testi, infatti, contengono una IMPLICATURA CONVERSAZIONALE, cioè un
contenuto diverso da quello letterale. Per es., in un dialogo: “è finito il caffè!!”; “nooo, sono appena sceso a buttare
la spazzatura!!”. Grice 1975 (tradotto in italiano solo negli anni Novanta) ha invece riflettuto sulla comunicazione
elencando quattro MASSIME CONVERSAZIONALI, cioè quattro principi fondativi della comunicazione
cooperativa. Essi si ispirano ai principi kantiani di quantità, qualità, relazione e modo: 1) non bisogna essere reticenti,
né ridondanti; 2) bisogna essere sinceri e veritieri, non aggiungere informazioni false o forzate; 3) bisogna restare
pertinenti agli argomenti trattati; 4) bisogna evitare le ambiguità ed essere perspicui.
I principi regolativi
Detto dei principi costitutivi e dei principi pragmatici, resta da dire dei principi regolativi. Sono l’efficacia,
l’efficienza e la appropriatezza al pubblico. Quando un testo è efficace? Quando si legge e ricorda bene, si misura
l’efficacia osservando le variazioni del destinatario. Quando un testo è efficiente? Quando il rapporto con la situazione
comunicativa in cui si trova funge al suo scopo: è invece la facilità di uso di un testo in rapporto alla situazione
comunicativa e agli scopi, sono indicazioni chiare e rapide. L’appropriatezza è la corretta associazione di un certo
testo o tipo di testo a un determinato pubblico. Il testo va modulato sul pubblico.
Sintagmi
Il sintagma è un’unità intermedia fra la parola e la frase, è un gruppo di parole in cui si articola la frase. Nella frase La
ragazza bionda di Milano legge un libro di storia medievale si identificano due sintagmi, uno nominale (SN: la
ragazza bionda di Milano, soggetto) e uno verbale (SV: legge un libro di storia medievale). I due sintagmi sono tra
loro coesi: se li sposto nella frase, devono essere mantenuti accostati (non sono però locuzioni). Infatti, un sintagma
non può essere interrotto da altri elementi della frase, però può essere globalmente spostato nella frase. I sintagmi
possono essere enunciati in isolamento: cioè, ciascuno dei due sintagmi della frase scritta sopra può costituire la
risposta a una diversa domanda. Chi legge il libro di storia medievale? La ragazza bionda di Milano. E viceversa.
I sintagmi che formano la frase sono organizzati in modo lineare, un particolare sintagma ne segue un altro, però
possono avere anche un’organizzazione gerarchica fra sovraordinati (SN, SV) e sottordinati (il resto): ci sono sintagmi
che sono racchiusi in sintagmi di livello superiore. Questa organizzazione gerarchica ci permette di analizzare anche i
significati linguistici diversi della frase ho visto una ragazza con il binocolo, che da un lato ci indica lo strumento con
il quale possiamo vedere la ragazza, e dall’altro lo strumento che la ragazza può avere con sé. Se invece ci limitassimo
a considerare la frase come organizzata linearmente, non potremmo spiegare questa duplicità.
I tipi di sintagma
Ci sono sintagmi nominali, che hanno come elemento centrale un nome o un pronome e all’interno del quale possono
apparire aggettivi o elementi preposizionali, ma anche articoli. Poi vi sono i sintagmi verbali, i più complessi della
frase, che possono contenere altri sintagmi. Ci sono anche sintagmi aggettivali (sono felice del tuo successo, verbo e
aggettivo o nome che regge un altro sintagma; tutto insieme è verbale, il sottolineato è l’aggettivale), preposizionali
(ho vinto di astuzia) e avverbiali (si muove molto prudentemente).
La parola che dà nome al sintagma è (come nelle locuzioni) la sua TESTA. Vi è anche un modificatore. Generalmente
il sintagma è coeso e non possono esservi interposte altre parole. Fanno eccezione alcuni VERBI SINTAGMATICI
italiani -phrasal verbs inglesi- (ho portato lo scatolone giù, ha messo l’avversario sotto in poche mosse, ecc.). Si sta
pensando anche di costruire un dizionario di verbi sintagmatici, con degli usi particolari.
La costruzione della sintassi italiana e la differenza tra sintagma e locuzione
Come abbiamo notato a proposito dei composti, la costruzione della sintassi italiana procede da sinistra verso destra.
Le lingue romanze hanno costruzione progressiva (inglese e tedesco hanno costruzione regressiva), è nella stessa
forma di composti e locuzioni. Questa struttura influenza anche l’ordine degli elementi della frase, che nelle lingue
romanze è generalmente una sequenza Soggetto-Verbo-Oggetto, molto rigida > sintassi italiana con elementi
principali a sinistra ed elementi di importanza minore a destra. Inoltre, può essere identificata una tendenza, nelle frasi
24
complesse, a una successione che vede la principale anteposta alla subordinata (ma questa situazione è meno frequente
delle altre indicate).
Sintagmi e polirematiche (locuzioni e fraseologie) sono due cose diverse. Per sintagma si intende un’unità (di analisi)
della struttura sintattica di un enunciato con info, che pur essendo coese, tra loro non hanno valore semantico; per
polirematica una struttura sintattica ad alta coesione – locuzione o fraseologia (non collocazione) – nella quale prevale
la considerazione del valore semantico.
Es. di SP: a Giovanni; es. di loc. prep.: per mezzo di
Es. di SN: una mela rossa; es. di loc. nom.: ferro da stiro
Es. di SV: ho viaggiato; es. di loc. verb.: fare il bucato
Le prime tre sono casualità trovate in delle frasi, mentre le altre hanno un senso e sono indivisibili.
Le relazioni tra sintagmi possono essere rappresentate mediante diagrammi ad albero, oppure (meno spesso) con
schemi “a scatole cinesi”. Alla struttura semplice SN+SV si possono aggiungere altre informazioni, per renderla più
completa, e complessa. Per es.: Lo studente di Ingegneria frequenta le lezioni di Analisi matematica del lunedì con
grande interesse.
SN = Lo studente di Ingegneria
SV = frequenta le lezioni di Analisi matematica del lunedì con grande interesse
A questo punto si può procedere a un’analisi più minuziosa:
SN = Lo studente
SP (preposizionale) = di Ingegneria
SV = frequenta
SN = le lezioni
SP = di Analisi matematica
SP = del lunedì
SP = con grande interesse
L’analisi dei sintagmi
È stata predisposta, per la lettura sintagmatica, un’analisi fondata su parentesi quadra, che consente di percepire i
confini di sintagma e i “contenitori” e i “contenuti” di frasi complesse. Tale lettura con le parentesi sostituisce il
frazionamento in colonna, che occupa più spazio; con le parentesi, invece, un’analisi sintagmatica assomiglia a
un’espressione matematica.
L’analisi della struttura dei sintagmi consente di capire perché la frase: È vietato aprire le porte esterne dei treni e
salire o scendere quando non sono completamente fermi, non sia grammaticale. Osserviamo:
[SV[è vietato SV[aprire SN[le porte esterne SP[dei treni]] e salire o scendere]]] --- quando --- [SN[?, anafora zero]
SV[non sono completamente fermi]].
L’unico SN disponibile, necessario perché richiesto dalla frase, è “le porte esterne”, che però non si accorda in genere
con l’aggettivo “fermi” e non è quindi il soggetto grammaticale dell’ultima frase. La mancata espressione del secondo
SN (“soggetto sottinteso”) può avvenire se il SN è il medesimo. Generalmente, nei manuali o nei saggi scientifici di
linguistica si adotta la terminologia inglese, e si parlerà dunque di sintagma come di phrase all’interno di una sentence.
Esistono dunque noun phrase (NP), verbal phrase (VP), prepositional phrase (PP) e adjectival phrase (AP). È dunque
evidente che sintagmi e polirematiche sono due cose diverse. Per sintagma si intende un’unità (di analisi) della
struttura sintattica di un enunciato; per polirematica una struttura sintattica ad alta coesione – locuzione o fraseologia
(non collocazione) – nella quale prevale la considerazione del valore semantico, differente dalla (superiore alla)
somma dei suoi componenti.
25
Lezione 9, 21 ottobre 2021
Solitamente la struttura semplice SV ed SN include tutta la frase.
Il modello valenziale
Le frasi servono ad esprimere un tema e ad affidare nuovi remi all’attenzione degli interlocutori, il predicato verbale
deve predicare qualcosa a riguardo della parte nominale. La struttura sintagmatica è semplice, comprende SN ed SV.
Questo apparente assetto semplice poggia su una struttura tematica, quindi il tema del testo, banalmente l’argomento
di cui si parla, che può rimanere costante o variare. C’è poi una struttura di conoscenze che può consistere sia nel
lessico che possediamo che nel sistema enciclopedico che possediamo, conoscenze di tipo lessicale ed enciclopedico.
Inoltre, c’è una struttura logico sintattica. Una cosa su cui si è riflettuto poco è che gli elementi della frase non sono
tutti uguali, ma quando si fa l’analisi logica risultano tutti più o meno sullo stesso piano.
Questa nuova impostazione invece suppone che esista una gerarchia di informazioni nella frase, che viene poi
considerata anche nei momenti di analisi dei componenti della frase stessa. Esiste una gerarchia di informazioni
perché è evidente che, quando siamo impegnati a decodificare e inferire, riterremo per noi soltanto una parte. Se ad
esempio abbiamo una conversazione con gli amici, non andremo a raccontare tutto nei singoli dettagli, ma creiamo un
riassunto che rispetta i temi fondamentali del testo. Questo tipo di analisi logica è stato studiato da un francese,
Tesniére, nel 1959, che ha elaborato un’analisi logica basata sulla struttura argomentale del verbo. In Italia ha
cominciato ad occuparsene Sabatini, che nel 2010 ha pubblicato un libro con questo sistema. La metafora utilizzata
per spiegare questo schema è quella della chimica: il verbo è come se fosse un elemento chimico, ogni elemento si
lega agli altri attraverso la valenza. Il verbo viene considerato il fondamento della frase e sta al centro dell’attenzione.
Dato il predicato, si ragiona su quante siano le info fondamentali date dal predicato. Ad esempio: andare; le info
fondamentali sarebbero dove e chi. Per questo si dice che il verbo andare abbia valenza due. Vi sono poi anche
espansioni rispetto al nucleo fondamentale data dal verbo e dai suoi elementi fondamentali. Queste valenze
permettono di saturare la possibilità del verbo di attaccare a sé queste info. Le info fondamentali sono dette argomenti:
il primo fra tutti è il soggetto. Importante è capire la questione dell’oggetto: il complemento oggetto viene sempre
indicato come la risposta a chi che cosa. Con questo modello si perde un po’ questa visione, per esempio coi verbi
intransitivi, andare, ha due argomenti, ma nessuno è complemento oggetto. Invece altri possono avere come oggetto
un complemento oggetto diretto. Distinguiamo quindi complemento oggetto diretto e oggetto indiretto. La struttura
tipica delle frasi è S.V.O. (soggetto, verbo, oggetto), dove l’oggetto può essere sia un complemento oggetto diretto
(verbi transitivi) o un oggetto indiretto (verbi intransitivi). Gli argomenti del verbo variano a seconda del verbo:
-zerovalenti, ossia i verbi metereologici
-monovalenti, che necessitano di un soggetto, ad esempio essere
-bivalenti, che necessitano soggetto e oggetto (diretto o indiretto)
-tetravalenti, che indicano spostamenti da un senso ad un altro, come traslocare, tradurre: io traduco un testo
dall’inglese all’italiano.
Possiamo avere anche casi di valenza variabile o non espressa, come mangiare, che richiede due argomenti: una
persona e un oggetto mangiato, però può essere usato anche come intransitivo: sto mangiando, non è importante
specificare l’oggetto.
Verbo e argomenti costituiscono quindi il nucleo della frase (frase nucleare), mentre il resto è espansione (frase
extranucleare). Conoscere questo modello permette di manipolare il testo come si preferisce. L’analisi logica
tradizionale è certo più precisa nella catalogazione, ma non distingue tra informazioni necessarie e superflue.
La marcatezza sintattica
Inoltre, la struttura SVO dell’italiano è definita come “ordine non marcato” della sintassi, in tutte le lingue romanze.
Nel latino la struttura era SOV. In particolari casi, e non infrequenti soprattutto nella lingua parlata, questo ordine può
essere alterato, variato abbastanza a piacimento per marcare un elemento rispetto ad altri, il tema o il rema. Questo per
portare all’attenzione certi elementi: questo lo si fa in modo in consapevole, ad oggi anche nella scrittura, perché
tendiamo a rendere la lingua sempre più espressiva. La marcatezza può essere sintattica (dunque con alterazione
26
dell’ordine), ma nella lingua parlata può essere anche fonologico-intonativa: si possono usare pause volontarie, enfasi,
diverso volume.
Si distinguono, tra le costruzioni marcate, costruzioni tematizzanti e costruzioni focalizzanti. Le prime mettono in
evidenza il tema della frase, le seconde il rema.
Quali sono le costruzioni tematizzanti?
La dislocazione a sinistra: Rispetto alla frase SVO, il complemento oggetto è spostato (dislocato) a sinistra del verbo >
da Marco compra il giornale a Il giornale, lo compra Marco. Si inserisce il lo, pronome anaforico incapsulatore. Nel
parlato c’è una breve pausa dopo l’elemento dislocato (qui, il TEMA), che è pronunciato con un tono diverso. In
questa frase c’è però qualcosa di non grammaticale: ci sono due complementi oggetti, ossia il giornale e lo. Altri casi:
della questione, ne abbiamo già parlato; a lezione, ci vado quando riesco; che fosse finito lo zucchero, lo sapevo da
una settimana, ecc. Tutti questi casi prevedono uno spostamento tematico dal fondo destro al margine sinistro. La
dislocazione non vale solo per l’oggetto, ma anche di altri complementi, l’importante è che sia il tema della frase.
Tema sospeso: Soldi, se ne vedono pochi. È un caso particolare del precedente; non c’è preposizione ma compare il
pronome di ripresa dopo il tema
Anacoluto: Il giornale, era chiusa l’edicola. Si tratta di una frase non coesa, ma coerente: il parlante cambia progetto
nel corso dell’enunciazione, lasciando isolato il tema, ma non viene meno il passaggio dell’informazione
Passivizzazione: Il giornale è stato comprato da Marco. L’oggetto della frase non marcata diventa soggetto di una
nuova frase SVO e occupa la prima posizione. Si tratta di una scelta più formale, e ormai rara nel parlato spontaneo
Ci sono tantissime differenze tra scritto e parlato, dipende dalla situazione comunicativa; tutto ciò che sembra forzato
e poco spontaneo andrebbe eliminato.
Le costruzioni focalizzanti invece sono..
Dislocazione a destra: Lo compra Marco, il giornale. Oppure: ne abbiamo già parlato, della questione; ci vado
quando riesco, a lezione; lo sapevo da una settimana, che fosse finito lo zucchero. Non si tratta di uno spostamento
del costituente tematico, che resta in fondo alla frase, ma di una configurazione che evidenzia il rema, lasciato a inizio
frase. Inoltre, compare un pronome cataforico, che annuncia la presenza del tema.
Soggetto posposto: Ha comprato lui il giornale. L’inversione di soggetto e verbo, accompagnata nel parlato
dall’intonazione, evidenzia il costituente soggetto (rema)
Frase scissa: È lui che ha comprato il giornale. La normale frase SVO viene divisa in due proposizioni, una costruita
con verbo essere + rema, l’altra con che + tema (detta “pseudorelativa”, in quanto relativa fittizia, che cela una unica
frase principale). Si tratta di una costruzione del francese, ma nelle grammatiche dell’800 era stata bandita.
Frase pseudo-scissa: Quello che va notato è che il settore sintattico si presenta molto complesso. (esempio) Si
costruisce una struttura con il verbo essere, preceduto da una frase introduttiva. La parte focalizzata è in questo caso a
destra. Oppure oggi vi parlerò di quelli che sono gli argomenti, ecc. quel ‘quelli che sono’ è inutile, serve solo
nell’oralità per prendere tempo e pensare.
C’È presentativo: C’è qualcuno che ti cerca al telefono. Si tratta di una struttura interamente rematica, priva di
elementi noti.
Come si vede, una stessa frase può essere variata, nella lingua parlata e nella lingua scritta, secondo l’intenzione
dell’emittente e la sua scelta di evidenziare uno o l’altro elemento della frase. La norma grammaticale esclude queste
costruzioni dalla casistica delle frasi accettabili, ma l’uso dei parlanti ha avuto la meglio e non se ne percepisce la
“scorrettezza”.
Paratassi ed ipotassi
Nell’italiano contemporaneo le forme PARATATTICHE prevalgono su quelle IPOTATTICHE. La paratassi prevede
che ci siano molti elementi di coordinazione e frasi giustapposte, mentre l’ipotassi corrisponde a frasi con molte
subordinate. Soprattutto, si fa uso largo di giustapposizioni, vale a dire di frasi affiancate senza l’esplicitazione di una
connessione. Per esempio: oggi parliamo di linguistica, ma domani parliamo di sintassi (paratassi). Per crearla
27
possiamo usare anche il ; o i :, che però sono più esplicativi. Nel parlato invece, se non uso la congiunzione corretta,
posso mascherare il paratattico e l’ascoltatore deve inferire, questo procedimento è tipico delle fake news. Quando
pongo due cose accanto senza che siano relazionate, la persona può capire e inferire che siano relazionate, sbagliando.
La paratassi spesso nasconde rapporti di causa-conseguenza. Oggi parliamo di linguistica, visto che domani parliamo
di… (ipotassi). Le congiunzioni subordinanti effettivamente usate sono pochissime: che, perché, se, quando e come
introducono oltre il 90% delle frasi subordinate, e a queste si aggiungono le frasi implicite introdotte da preposizione.
Una tendenza in espansione è la nominalizzazione: si diffondono costruzioni senza verbo che sfruttano lo stile
nominale: la deroga all’inizio dei lavori per conto dell’impresa, l’inaugurazione dell’anno accademico da parte del
Rettore, ecc. esiste anche la ripresa nominale, ossia: oggi ho seguito la lezione di linguistica, lezione che ecc. si tratta
di una ripresa molto comune nel parlato.
Si prediligono molte forme burocratiche e ridondanti: dare lettura, effettuare un pagamento, condurre a termine, che
penetrano anche nella scrittura giornalistica e nei testi rivolti a persone importanti. Stilisticamente si percepiscono
come elevate, ma in realtà complicano il linguaggio: non sempre la soluzione più difficile è migliore. Il parlato, e di
conseguenza anche lo scritto, fa uso sempre più ampio di RIEMPITIVI: del tipo, a livello di, quello che è, bene o
male, ecc.
La punteggiatura
Nei testi scritti la struttura gerarchica delle informazioni può essere indicata anche dalla PUNTEGGIATURA, o
INTERPUNZIONE. L’interpunzione segnala confini e transizioni di tipo sintattico, informativo e enunciativo (nel
riportare un discorso diretto). Il confine può essere forte (ed è segnalato dal PUNTO), intermedio (PUNTO E
VIRGOLA), debole (VIRGOLA). Se è conclusa un’unità informativa, allora al punto segue l’A CAPO, cioè l’inizio di
un nuovo paragrafo.
I DUE PUNTI hanno funzione demarcativa: segnalano un elenco o un discorso diretto, oppure funzione esplicativa
(causa-effetto, conseguenza, ecc.).
La VIRGOLA è il segno più soggetto allo stile personale; inoltre, nella storia della lingua è cambiato l’uso normale.
Solitamente, comunque, separa un inciso dal resto della frase e separa unità simili. Un buon uso della virgola,
soprattutto nelle frasi complesse, è nella posizione di confine tra espansioni e nucleo. Ecco perché una buona
preparazione sintattica, e l’abitudine al ragionamento gerarchico, consentono di migliorare nell’uso della
punteggiatura. La virgola NON può separare i costituenti del nucleo: soggetto e predicato, o predicato e oggetto;
nemmeno i circostanti possono essere separati dagli elementi a cui si riferiscono.
La frase complessa
Una frase complessa è composta da almeno due predicati. Può essere costruita per coordinazione (mi sono svegliato e
ho fatto colazione) oppure per subordinazione (mi sono svegliato perché ho sentito un rumore).
Come i complementi, anche le frasi subordinate hanno un ruolo rispetto al nucleo della frase: possono essere
argomenti, circostanti ed espansioni. La frase principale è detta reggente. Un esempio di frase argomentale, in modo
esplicito e implicito (possibile perché il soggetto è il medesimo):
Il tecnico ha deciso che cambierà il pezzo guasto
Il tecnico ha deciso di cambiare il pezzo guasto
che sostituiscono: “il tecnico ha deciso il cambio del pezzo guasto”.
Tutte le frasi complesse possono essere sostituite da sintagmi. Per esempio, con una frase causale:
I fiumi si sono ingrossati perché ci sono stati dei forti temporali > I fiumi si sono ingrossati a causa dei forti
temporali
28
La coordinazione invece non dà luogo a frasi-complemento: ogni coordinata è collegata alla principale e non è un suo
costituente.
Inoltre, ci possono essere frasi subordinate coordinate fra loro: non ci sono limiti teorici alla complessità sintattica.
Le subordinate
La lingua italiana consente di allargare all’infinito coordinazione e subordinazione, ma ciò complica il processo di
decodifica e dunque il processo viene presto interrotto dall’emittente. La subordinazione prevede dei gradi successivi:
esistono dunque subordinate di primo grado, di secondo grado se sono subordinate al primo, di terzo se sono
subordinate al secondo, e così via. Esistono diversi tipi di frasi subordinate. Le frasi connesse al predicato che le regge
si distinguono in subordinate nucleari e subordinate circostanziali.
-Le subordinate nucleari completano le valenze del predicato della frase reggente e corrispondono a elementi del
nucleo solitamente espressi con un complemento (sono le frasi soggettive e oggettive).
-Le subordinate circostanziali modificano il predicato della reggente oppure l’intera frase reggente. Coincidono con un
elemento extranucleare (espansione) della frase semplice.
-Altre frasi si trovano invece all’interno di un sintagma: si tratta delle subordinate relative, che tipicamente svolgono
la funzione dei circostanti, e delle subordinate completive del nome e dell’aggettivo. Le subordinate nucleari sono
frasi soggettive, oggettive dirette e indirette oppure interrogative indirette.
-Le subordinate soggettive svolgono la funzione logica di soggetto del predicato della frase reggente. Il predicato può
essere un verbo semplice, oppure una costruzione con sintagma nominale, aggettivale o avverbiale: bastava pensarci;
è una sfortuna non avere vinto; è facile indovinare; è meglio soprassedere. Come negli esempi, il verbo delle
subordinate soggettive può essere all’infinito o avere una forma coniugata: mi sembra che tu abbia ragione. Più
spesso la subordinata soggettiva è posta dopo il predicato: ma la sua posizione può dipendere da elementi sintattici (la
lunghezza: è perciò è preferibile porla dopo il verbo) oppure testuali (la frase subordinata contiene il tema, e per
questioni pragmatiche la si pone prima del verbo).
-Le subordinate oggettive sostituiscono un elemento nucleare della frase semplice che avrebbe svolto la funzione di
oggetto. Per es.: vuole andare in vacanza; ho bisogno di chiederti un consiglio. Le oggettive possono dunque essere
dirette (se sostituiscono un complemento oggetto) o indirette (se sostituiscono un complemento che necessita di una
preposizione per essere espresso). Il modo dell’oggettiva può essere infinito oppure coniugato, a seconda del verbo
reggente: penso di andare a letto / penso che andrò a letto, ma provo a restare sveglio / *provo che resto sveglio.
L’infinito è comunque possibile solo se i due verbi sono coreferenziali (cioè se hanno lo stesso soggetto). La posizione
dell’oggettiva è normalmente dopo il predicato della reggente, ma per esempio può essere dislocata a sinistra: che tu
sia dispiaciuto, lo sapevo già.
-Le interrogative indirette possono essere oggettive o soggettive. Per es.: mi chiedo se ne sia capace; è da chiedersi se
ne sia capace. Le interrogative indirette si dividono in globali, alternative e parziali.
Le interrogative globali sono introdotte dalla congiunzione se: quel tipo mi ha chiesto se avevo una sigaretta. Esse
prevedono una risposta del tipo sì/no. Le interrogative alternative, anch’esse introdotte da se, propongono
esplicitamente tutte le alternative possibili, separate dalla congiunzione o, oppure, ecc.: ci hanno chiesto se volevamo
bere un caffè, fare uno spuntino o sederci al ristorante. Le interrogative parziali sono introdotte dagli stessi pronomi e
aggettivi usati nelle interrogative dirette (chi, che cosa, dove, come, quando, perché, ecc.): il doganiere mi ha chiesto
che cosa trasportavo, Paolo mi ha domandato quando andrò a trovarlo, ecc. Nella maggior parte dei casi le
interrogative indirette non presentano il verbo all’infinito, salvo alcuni casi particolari in cui il soggetto è lo stesso (e
dunque riferisce dei propri dubbi riguardo a un’azione futura: mi chiedo se andare al cinema stasera).
-Le subordinate circostanziali sono di solito facoltative da un punto di vista sintattico (non sono infatti legate alla
valenza del predicato della reggente). Esse possono avere un verbo di modo finito, e sono allora introdotte da una
congiunzione o da una locuzione congiuntiva (perché, affinché, poiché, dato che, anche se, siccome, a meno che,
ecc.). La posizione della circostanziale rispetto alla reggente dipende da quale congiunzione è usata: alcune hanno
posizione libera, altre obbligatoria. Per es., siccome si usa solo a inizio di frase: siccome sei stato bravo, ti darò un
premio. Se non ci sono obblighi sintattici, sarà la pragmatica a definire in quale posizione il parlante la collocherà. Se
invece le circostanziali hanno un verbo all’infinito, sono introdotte da una preposizione, o locuzione preposizionale
29
(a, di, per, a meno di, invece di, piuttosto di, ecc.): starei senza cena piuttosto di studiare, lavoro duramente per
pagarmi le vacanze al mare. La posizione della circostanziale è di solito libera, e in molti casi è possibile il passaggio
alla forma verbale esplicita.
Se le circostanziali sono costruite con un gerundio, descrivono solitamente un evento contemporaneo a quello della
principale (gerundio semplice) oppure più lontano nel passato (gerundio passato): parla scandendo le parole; è
andato a casa, avendo terminato il lavoro in anticipo. Se infine le circostanziali sono costruite con un participio
(passato), esse hanno il verbo accordato con il proprio oggetto: finita la festa, tornammo a casa; sarà facile superare
l’esame, capita la teoria.
Le frasi circostanziali possono essere classificate a seconda del loro significato. Esistono dunque frasi causali, se la
subordinata esprime la causa di ciò che è enunciato nella frase reggente. Sono molte le congiunzioni usate per
esprimere frasi causali: perché, poiché, giacché, dato che, visto che, siccome, per il fatto che, ecc. Nella lingua
colloquiale si può usare anche la congiunzione che “polivalente”: fa’ con calma che è ancora presto. Se invece la
causale è all’infinito è introdotta da per: sono stato multato per aver parcheggiato in doppia fila (con infinito passato
che indica l’anteriorità di quanto avvenuto nella subordinata: la causa precede l’effetto).
Frasi relative e completive
Esistono inoltre frasi contenute entro un sintagma (nominale, aggettivale, preposizionale) della frase reggente: esse
sono le frasi relative e le frasi completive del nome e dell’aggettivo: il film che ho visto ieri sera è davvero
spettacolare. Il soggetto (il film che ho visto ieri sera) è un sintagma nominale che contiene una frase relativa, riferita
a un antecedente (film). Gli introduttori della relativa con antecedente esplicito sono che, quale (preceduto da
articolo), cui (spesso con preposizione). Nel registro più elevato di lingua che può sostituire solo soggetto e
complemento oggetto, ma l’abbassamento di registro può suggerire la creazione di subordinate relative introdotte da
un che che non svolge nessuna delle due possibili funzioni standard: è questo il libro che ti dicevo ieri; in particolare,
per le frasi temporali tale sostituzione tende a diventare grammaticale: dal giorno che ti ho visto, maledetto il giorno
che ti ho incontrato, ecc. Esiste una differenza tra relative restrittive e relative appositive. Tale differenza si ripercuote
anche sull’intonazione o sulla punteggiatura: gli studenti che sono interessati potranno partecipare al seminario, letta
senza pausa, limita la partecipazione ai soli studenti interessati; gli studenti, che sono interessati, potranno
partecipare al seminario, con la relativa appositiva incisa, comprende tutti gli studenti, perché tutti hanno manifestato
interesse.
Le completive del nome e dell’aggettivo si legano sempre a un sintagma della frase reggente, ma non si riferiscono a
un antecedente: la possibilità che il problema si risolvesse lo affascinava; Marco era contento di non avere mal di
testa
Lezione 10, 3 novembre 2021
Circostanziali (pt.2)
Le circostanziali finali descrivono lo scopo (il fine) di quanto enunciato nella frase reggente. Nella reggente deve
dunque essere indicato o sottinteso un agente. Le finali sono introdotte da perché, affinché, a che, ecc., oppure, se
all’infinito, da per, ma anche da a, di, da e alcune locuzioni come allo scopo di, al fine di, ecc.: ti suggerisco la
soluzione perché tu possa finire prima l’esercizio; sono andato alle terme per guarire dalla bronchite, ti lascio i piatti
da lavare ecc.
Le circostanziali consecutive esprimono un effetto, una conseguenza, la conclusione di un processo: ho mangiato così
tanto che mi è venuto mal di pancia; l’ha talmente esasperata che non gli risponde più al telefono. Entrambe queste
consecutive hanno un antecedente nella frase reggente (così, talmente), ma esistono consecutive senza antecedente:
vado lo stesso in palestra, tanto che poi sarò stanchissimo. Altri esempi: sono troppo intelligente per crederti; sono
abbastanza avanti per accontentarmi di quanto ho fatto; siete belli, al punto che potreste partecipare al concorso
Le circostanziali condizionali o ipotetiche descrivono l’ipotesi a cui è vincolata la realizzazione della frase reggente:
se non prenoti il ristorante, non troveremo posto; se non trovassimo posto, dovremmo andare in un altro ristorante;
se avessimo prenotato in tempo, non saremmo rimasti senza cena
Nel primo caso enunciato si dice che se non prenotiamo il ristorante, non troveremo posto; ma se lo prenotiamo,
troveremo posto? L’affermazione è solo suggerita, ma non davvero affermata: per farlo dobbiamo usare la struttura
30
solo se: troveremo posto solo se prenoti il ristorante. Le ipotetiche possono essere condizionate da un evento (qui: la
prenotazione), oppure soltanto all’atto di dire qualcosa. Per es.: se torni prima, la cena è nel forno. Ma anche se
l’interlocutore non tornasse prima, la cena sarebbe comunque nel forno
Oppure ci sono ipotetiche bi-affermative: se il compito di Maria è buono, quello di Marco lo è altrettanto; oppure se
il compito di Maria è buono, non posso dire altrettanto di quello di Marco. In entrambi i casi non c’è una condizione,
ma una costruzione che riunisce due affermazioni. Oppure la struttura può essere bi-negativa: se riesci a risolvere
l’enigma, io sono Napoleone; o anche se riesci a risolvere l’enigma, vado a piedi da qui a Mosca. In entrambi i casi si
suggerisce l’impossibilità della condizione, e anche dell’evento annunciato nella reggente. Oltre che dalla
congiunzione se, le ipotetiche possono essere rette da a meno che, a condizione che, a patto che, sempre che, laddove.
Le circostanziali concessive introducono una opposizione tra la frase reggente e la subordinata, risolvendola poi
favorevolmente a quanto indicato nella reggente: anche se hai studiato poco, hai passato l’esame. È sottinteso che
studiando poco non si passa l’esame abitualmente, ma questo caso costituisce una eccezione. In esempi come quello
precedente e questo successivo la concessione è diretta: sebbene sia una bella giornata, fa molto freddo. Ma ci
possono essere costruzioni con concessione indiretta: anche se questa classe è indisciplinata, ne fanno parte studenti
intelligenti e volenterosi. Non c’è qui opposizione tra le due informazioni. Le concessive sono introdotte dalle
congiunzioni anche se, benché, sebbene, malgrado (che), nonostante (che), ecc. Le concessive possono anche
descrivere un dato di fatto: sebbene ci fosse il sole, stava piovendo. Alcune possono suggerire una condizione: anche
se ci provassi io, non cambierebbe niente. Oppure possono assumere un significato globale, per esempio con la
struttura sia che: sia che mangi pesce o carne, sia che mangi verdure, continuo a ingrassare. Oppure: qualunque cosa
io dica, tu sei sempre contrario.
Le circostanziali temporali esprimono una relazione di tempo tra la reggente e la subordinata: mentre leggevo,
ascoltavo musica (contemporaneità); prima di cenare, ho letto il giornale (posteriorità); dopo aver cenato, ho lavato
i piatti (anteriorità).
Le circostanziali comparative mettono a confronto un termine espresso dalla reggente con un secondo termine di
paragone presentato nella subordinata: ho studiato per l’esame di linguistica quanto avevo fatto per l’esame di storia;
è tanto paziente quanto generoso, ecc. Le congiunzioni usate sono tanto, quanto, come, ma anche più e meno: sono
più intelligente di te; sono meno organizzato di te, ecc. Altre circostanziali esprimono significato limitativo (è
bravissimo per quanto riguarda la matematica), oppositivo (sono senza soldi, mentre lui è ricchissimo), modale
(mangia come se fosse senza cibo da mesi), eccettuativo (ho esaurito le cose da fare, eccetto che devo compilare la
dichiarazione dei redditi).
I rapporti tra enunciati
Consideriamo i rapporti tra frase e frase. Il contenuto del testo non è veicolato unicamente da informazioni espresse
esplicitamente: vi sono presenti anche informazioni implicite, che il destinatario interpreta servendosi di conoscenze
linguistiche, contestuali, situazionali, enciclopediche; deve fare delle inferenze. Usiamo queste implicite quando ci
sentiamo in imbarazzo, ad esempio, e non vogliamo esplicare bene le motivazioni di ciò che stiamo dicendo. Il caso
più tipico è quella dell’implicatura conversazionale, a cui abbiamo già accennato. Essa richiede nel destinatario uno
sforzo di interpretazione, di inferenza > non si decodifica. Per es., se alla domanda “mi accompagni al cinema?” si
ottiene una risposta “sono molto stanco, ho lavorato tutto il giorno”, si possono trarre diverse conclusioni:
- quella persona non mi accompagnerà al cinema;
- quella persona lavora molto;
- quella persona non è in vacanza;
- i colleghi di quella persona non lo aiutano nel lavoro;
- quella persona sta mentendo;
- quella persona esce con altri amici; ecc.
Solo la prima, però, è tecnicamente una implicatura, ossia il rifiuto. Le altre sono invece illazioni, inferenze. Noi
leggiamo poi il comportamento della persona.
31
L’implicatura si ricostruisce sempre in base a dati contestuali. Per esempio, l’espressione “che freddo!” può essere
interpretata dall’interlocutore come richiesta di chiudere la finestra se in quel contesto c’è una finestra aperta. Quindi
in base alla situazione. Però anche il contesto linguistico può suggerire una interpretazione dell’implicatura. Per es.:
Sei andato a letto presto ieri sera? Ieri sera c’era la mia serie preferita in tv. Non me ne perdo mai una puntata . A
partire dalla frase “non me ne perdo mai una puntata”, l’interlocutore deve identificare l’implicatura non sono andato
a letto presto considerando che proprio ieri sera in tv davano la serie preferita dall’emittente del messaggio. Infine, i
dati contestuali possono essere ricavati dall’enciclopedia mentale del destinatario. Per es.: Avresti una fetta di
Edamer? Non mi piacciono i formaggi olandesi. L’interlocutore deve sapere che l’Edamer è un formaggio olandese e
dunque inferire che l’emittente dell’implicatura non ne tiene nel suo frigorifero Attenzione: se cambia il contesto, le
implicature possono essere diverse, e perfino opposte. Di qui si creano equivoci. Per es.: Devo comprarvi qualcosa da
mangiare? Questo fine settimana siamo via. Quale sarà la risposta implicita? “Andiamo via, perciò non abbiamo
bisogno di nulla”, oppure “Andiamo via, e dunque non avremmo tempo di fare la spesa da soli?”. Solo in alcuni casi,
dunque, l’interpretazione delle implicature è univoca e certa.
Questa indeterminatezza fa parte del contenuto semantico di tutti i testi, tutti i testi ricadranno in casi in cui
l’interlocutore non ha qualcosa di pragmatico, enciclopedico o contestuale e per questo dovrà fare ipotesi, anche se a
seconda delle tipologie testuali essa è più o meno diffusa. I testi giuridici non fanno uso di implicature, mentre i testi
privati ne sono pieni. È anche vero però che le leggi dei testi giuridici sono interpretate, dai giudici. Il principio che
regola l’uso delle implicature prevede che la comunicazione sia razionale e cooperativa: parte dal presupposto che il
testo sia coerente, e dunque anche se il tema non è esplicitato il destinatario sceglierà di interpretare il testo secondo
razionalità. Tale atteggiamento è detto appunto cooperazione comunicativa.
La presupposizione
Un altro tipo di implicito è la presupposizione. Per es., la frase: Marco non fuma più, suggerisce che finora Marco
fosse un fumatore. La presupposizione è attivata da elementi morfologici, lessicali o sintattici: per esempio l’avverbio
più, la negazione, morfemi di ripetizione, parole che veicolano significati di inizio, fine, continuazione (iniziare, finire,
perdere, ecc.) o altri avverbi (anche, pure, adesso, prima, dopo, ecc.)
Nel testo la presupposizione può essere risolta: per es. sono contento del vostro comportamento... sono contento anche
del risultato della ricerca, in cui anche si giustifica come presupposto di qualcos’altro che aveva suscitato
contentezza. La presupposizione risolta consente la continuità tematica del testo. Oppure ci sono presupposizioni non
risolte: per es. La difficile situazione di Marco tarda a risolversi. Se non sappiamo nulla di Marco, possiamo accettare
la presupposizione (Marco si trova in una situazione difficile) e accomodarla, oppure chiedere spiegazioni (Che cosa
gli succede?), oppure rifiutarla (Impossibile! Che difficoltà potrebbe avere Marco?)
Con le presupposizioni si tende abitualmente a convogliare un punto di vista all’interno del testo, mascherando un
testo argomentativo da testo puramente informativo: sta al destinatario riconoscere la tipologia testuale e decidere se
schierarsi a favore della tesi o contestarla e rifiutarne gli argomenti.
Consideriamo ora quali tipi di relazione logica si possono instaurare all’interno di un testo: possiamo riconoscere:
a) relazioni di composizione testuale o di composizione logica del testo; b) relazioni di dispositio; c) relazioni tra
eventi
A) Chi scrive un testo procede elaborando una sequenza di atti linguistici, caratterizzata anche da atti illocutivi
(affermazioni, domande) e da funzioni testuali (esempi, contrasti, spiegazioni). Per es., nel testo: Michela è davvero
una persona attenta e sensibile: è stata l’unica a accorgersi che Marco era in crisi sono contenute due affermazioni
(che sono anche pareri personali dell’emittente), in cui il secondo giustifica il primo. Un testo è costruito come fitta
rete di relazioni tra le frasi, e ciò serve alla coerenza. Le relazioni presenti nel testo possono essere complesse, come
quelle di concessione: Il tuo compito mostra davvero molti miglioramenti. Ma non raggiunge ancora la sufficienza. O
semplici, come quelle di aggiunta: Che bora! Proprio nel weekend. Questo vento disturberà il mio desiderio.
B) La sequenza degli atti linguistici produce una disposizione, temporale o spaziale, degli enunciati e delle
informazioni. L’emittente può fare riferimento alla disposizione attraverso connettivi: prima di tutto, in seguito,
inoltre, in conclusione, ecc., che offrono l’idea di una sequenza di informazioni disposte secondo un ordine volontario
32
C) Le relazioni logiche che collegano le parti del testo possono essere temporali (prima accade un’azione e poi
un’altra), di causa/effetto (un evento è la causa di un altro, che a sua volta quindi ne è la conseguenza), di motivazione
(che spiega il comportamento di persone che agiscono all’interno del testo), di fine, condizione, comparazione,
esclusione. Il tipo di testo di solito determina quale relazione logica prevale: in un testo descrittivo sono più frequenti
relazioni di aggiunta, in uno narrativo le relazioni tra eventi (come causa/effetto)
Esistono diverse relazioni di composizione logica all’interno di un testo.
Una di esse è la relazione di consecuzione, in base alla quale si dà una affermazione come conseguenza di una serie di
premesse e di un ragionamento. Es.: Ho spiegato la lezione, ho chiesto se c’erano dubbi, ma poi non sapevano
rispondere alle domande. Perciò, non hanno studiato. Talora le premesse possono restare implicite; in altri casi, come
nel sillogismo, vengono esplicitate (come nel celebre: Tutti gli uomini sono mortali. Socrate è un uomo. Quindi
Socrate è mortale). Alcune consecuzioni sono contingenti: per es., Sono già le otto, Marco non viene più. In questa
frase non ci sono premesse universali, né conclusioni certe. Oltre alle congiunzioni che introducono subordinate
consecutive, la consecuzione è segnalata da altre parole: la semplice congiunzione e, la virgola (come nell’es.
precedente), connettivi testuali o preposizioni (allora, dunque, perciò, per questo, di qui) o anche da frasi (ne
consegue, è conseguenza di ciò il fatto che, ecc.).
La relazione di motivazione prevede una frase che giustifichi un’affermazione fatta in precedenza. Es .: Il bel tempo
non è ancora estivo. Infatti ieri ha fatto molto freddo. Questa relazione funziona esattamente all’opposto di quella di
consecuzione: in questo caso, infatti, prima si compie l’affermazione e poi la si giustifica. Anche la motivazione può
essere contingente: spesso, discutendo, si difendono opinioni fondate su argomenti che non sono indiscutibili o
addirittura universali. Oltre alle congiunzioni di tipo causale, la motivazione è introdotta da connettivi come infatti o
da espressioni come ora, prova ne sia, basti pensare a, ecc.
La relazione di illustrazione è usata per chiarire un’affermazione fatta in precedenza. Per esempio, si forniscono
esempi, o si offrono elementi che ridefiniscono in altre parole l’affermazione precedente. Questa relazione è, per
tipologia, molto vicina a quella di motivazione.
Molto vicina è anche la relazione di esemplificazione, che si verifica quando si sceglie una persona, una cosa, un fatto
che rappresentano un paradigma rispetto all’affermazione. Es.: Vai in vacanza al mare! Per esempio potresti visitare
il Conero.
La relazione di contrasto o sostituzione prevede invece l’accostamento di argomenti antitetici. Il contrasto può essere
assoluto (Queste mele sono ottime. Le pere invece sono disgustose), oppure modulato per categorie meno oppositive
(L’agricoltura è in flessione, ma la coltivazione della frutta consente tuttora buoni ricavi, e appare in ripresa anche il
valore dei cereali, mentre per le olive non è stato risolto il problema del parassita xylella).
Linguisticamente, il contrasto è espresso dalle espressioni al contrario, per contro, viceversa, all’opposto,
diversamente, invece, da una parte/dall’altra, oppure con subordinatori di solito impiegati per tempo e luogo come
mentre, ove, laddove, ecc.
La sostituzione prevede frasi a contrasto, in cui a un evento se ne sostituisce un altro. Per es.: Dovevo studiare. Invece
ho dormito tutto il pomeriggio. Si trovano dunque connettivi e congiunzioni come invece, anziché, piuttosto che (di),
al posto di, ecc. Per es.: Ieri ero in gran forma! Oggi, al contrario, non ho la forza di alzarmi dalla sedia. La relazione
di concessione prevede la soluzione di un contrasto attraverso l’uso di impliciti e conoscenze accettate: nella frase
Oggi è bello, ma fa molto freddo, l’implicito è che “nelle giornate di bel tempo fa caldo”. Questo tipo di concessione è
diretta e prevede un netto contrasto tra implicito e esplicito. Nella concessione indiretta, invece, il contrasto è tra due
impliciti. Per es.: Questa automobile è molto accessoriata, ma molto costosa. In questa frase gli impliciti sono: “la
compro, nonostante il prezzo” e “non la compro, nonostante la sua qualità”. La disposizione dell’esempio mostra la
prevalenza del secondo implicito. Viceversa, in Questa automobile è molto costosa, ma molto accessoriata prevale il
primo implicito. Non c’è comunque rifiuto di una possibilità: semplicemente, una di esse. non si realizzerà. La
relazione di concessione è particolarmente frequente nei testi argomentativi, nei quali possiamo sfruttare una strategia
dialettica di contrasto e motivazione, oppure quella di concessione, ammettendo che alcuni argomenti potrebbero
risultare contrari alla nostra tesi, ma sono comunque più deboli, non applicabili al contesto, ecc. In questo modo
l’opinione contraria non viene rifiutata, ma accolta nell’argomentazione e risolta, benché in fin dei conti non seguita.
33
La relazione di riformulazione e di rettifica è la ridefinizione in altre parole di un’affermazione precedente, oppure la
precisazione di quanto detto con parole più opportune. Una riformulazione è per esempio l’esercizio del riassunto, o
della condensazione di un testo in uno più breve. I segnali di riformulazione sono espressioni come cioè, vale a dire, in
altre parole, detto altrimenti, in breve, in sostanza, insomma, ecc. La rettifica modula un’affermazione, o la
ridimensiona: il tuo lavoro è fatto bene... insomma, meglio del solito.
Riformulazione e rettifica sono comunque usate anche per fini retorici, per attirare l’attenzione del destinatario e poi
ridefinire i contorni dell’affermazione.
Le relazioni di generalizzazione e di specificazione avvengono quando il contenuto di un enunciato è sottoposto a una
estensione o, viceversa, a un passaggio a un caso particolare. Un esempio di ciascun caso: la musica pop piace molto
ai giovani; in generale, piace a tutti coloro che amano divertirsi e invece i moderni smartphone sono molto utili: a
me, in particolare, piace usare le mappe. La specificazione può anche essere il ritardo nell’espressione del tema,
annunciato da caratteristiche generiche: gustosa, fredda, frizzante: è la bibita dell’estate, oppure la discesa nel
dettaglio riguardo a un tema: la morfologia è una struttura linguistica. In particolare, è lo studio dei morfemi, cioè
delle sottounità inferiori alla parola ecc.
La relazione di commento prevede che il locutore abbandoni la funzione principale del testo per dare una opinione
personale sul contenuto, un giudizio di valore, una informazione metalinguistica, una giustificazione su una sua scelta
linguistica: D’estate vado in vacanza al mare. Secondo me, poi, le spiagge della Romagna sono le più belle e ci si
diverte molto... per divertirsi intendo proprio che le giornate passano in fretta. Ho detto “spiagge” ma volevo dire
”discoteche”, “pizzerie” e tutto quello che c’è in quelle zone.
La relazione di background è l’aggiunta di pertinenza a un’affermazione, come una indicazione di spazio o di tempo:
L’Italia era una nazione poverissima. Lo era almeno in alcune sue regioni, e in quell’epoca ormai lontana dai fasti
della Magna Grecia e del Rinascimento, oppure una citazione: “il nostro attaccante migliore giocherà”, così almeno
afferma l’allenatore durante la conferenza stampa.
La relazione di aggiunta collega contenuti posti sullo stesso piano, che formano un’unità dal punto di vista logico: è
uscito senza ombrello. Pioveva a dirotto. È tornato a casa bagnato fradicio. Oppure per salti, con focalizzazioni: La
linguistica è una disciplina complessa. Complessa perché presenta molti termini tecnici. E i termini tecnici non hanno
sinonimi.
Tutte le relazioni illustrate suggeriscono che gli enunciati si raggruppino tra loro all’interno del testo, formando
relazioni. Un buon testo articola questi gruppi in capoversi, sfruttandone i rapporti gerarchici. Alcune relazioni danno
maggiore importanza al primo enunciato (motivazione, illustrazione, commento), altre al secondo (consecuzione,
rettifica, concessione, generalizzazione, background), altre prevedono una parità gerarchica tra gli enunciati
(contrasto, alternativa, aggiunta, riformulazione).
Lezione 11, 4 novembre 2021
SOCIOLINGUISTICA DELL’ITALIANO CONTEMPORANEO
La sociolinguistica è una disciplina che unisce l’uso sociale della lingua dei parlanti e le regole della grammatica, e
che ha aiutato a trasformare l’impostazione normativa degli anni 80, che era molto rigida, per arrivare a ciò che
vediamo ora.
La variazione diatopica
La variazione diatopica è una delle tante variazioni presenti in una lingua, che spiega la trasformazione della lingua
attraverso il luogo in cui viene parlata. Non investe però solo la lingua parlata, ma anche quella scritta: tutti noi
facciamo infatti uso di tratti regionali; noi parliamo una tipicità di italiano ben comprensibile in un territorio vasto, ma
non in tutta Italia, ad esempio la negazione mica, che è tipica del settentrione. In origine significa piccola quantità, e
viene utilizzata con doppia negazione, derivante dalla cultura celtica.
Le lingue di koinè e i volgari
Ci sono quindi diversi modi di parlare, e questo era ancora più ovvio secoli fa, all’epoca del De vulgari eloquentia di
Dante: nelle città medievali la vita dei ceti urbani non era così movimentata come è oggi, per questo si potevano
34
individuare varietà urbane diverse da quartiere a quartiere, come ad esempio per la città di Bologna. Dante parla
quindi di queste differenze di linguaggio in questa città. Fin dal primo 300 era noto che in Italia si parlavano lingue
diverse e si fronteggiavano persone con modi di parlare diversi. Da questa situazione, si sono originate delle parlate
sovralocali, chiamate nel 400 come lingue di koinè (dal greco). Erano soprattutto lingue scritte che permettevano la
comprensione di documenti cancellereschi tra le corti, ossia i centri di cultura maggiori.
Nell’italiano c’erano (e ci sono) quindi differenze di tipo regionale, ma si cercava di usare parole comuni tra i volgari,
sviluppando così anche la forza della letteratura come elemento unificante. Ad esempio, la letteratura toscana ha
diffuso tantissime parole al di fuori della regione stessa. C’erano questi volgari, ossia lingue parlate dal volgo, dal
popolo, che non erano registri di tipo elevato. I volgari ancora oggi non sono spariti, ma sono stati rilegati ai dialetti in
contesti familiari o colloquiali. Nel 500 il fiorentino ha preso il sopravvento sul panorama ed è diventato lingua
officiale della scrittura, mentre nell’oralità sono rimaste moltissime varianti; spesso non ci si comprendeva neanche tra
parlanti. Nel 1525 l’italiano ha raggiunto un modello chiaro a cui riferirsi, le Prose della volgar lingua, di Pietro
Bembo, mentre il resto è rimasto un codice che poteva essere usato solo nel colloquiale: queste varietà sono diventate
dialetti, che continuano il latino relativamente al territorio a cui si riferiscono. Per secoli molte comunità si sono rette
su questi dialetti.
I dialetti: dilalìa, diglossia
Funzionano esattamente come le altre lingue, ma dal punto di vista sociale non sono adatte per contesti di tipo elevato:
c’è quindi una differenza sociolinguistica. La differenza fondamentale è nella mancanza della grammatica per i
dialetti; o comunque non è esplicitata, ma solo mentale. Manca una standardizzazione del dialetto, nessuno insegna
come sia giusto parlare quel dialetto, mentre per la lingua italiana si ricevono questi insegnamenti, regole. La
situazione è stata catalogata con la parola dilalìa, ossia ‘doppio modo di parlare’. Potremmo distinguerla da un’altra
forma di duplicità, ossia la diglossia. Se abbiamo una lingua ufficiale per usi alti e una lingua per usi bassi abbiamo
una diglossia (parlo italiano all’università e con gli amici parlo il dialetto). In Italia non è così, perché ormai in
famiglia o con gli amici si parla sia italiano che dialetto, non c’è una risposta fissa. Questa situazione è detta dilalìa.
Esistono l’italiano e la lingua dialettale, ma non sempre tutti la usano, non è prevedibile cosa si userà nelle situazioni
comunicative. La diglossia invece è tipica del territorio anglosassone.
L’italiano regionale, venato da influssi che neanche riconosciamo come regionale, è stato definito da Pellegrini come
nato insieme alla scuola italiana: quando si è iniziato a studiare la lingua, nel 61. Anche se nel lombardo-veneto
esistevano corsi di italiano e manuali precedenti. I dialetti dell’italiano sono lingue italo-romanze, derivanti dal latino.
I primi studi hanno stabilito che esistono delle macroaree dialettali ben definite tra di loro, dette isoglosse, ossia con
una stessa lingua. Sono linee tracciate sulle carte geo linguistiche che uniscono punti in cui il fenomeno cessa di
manifestarsi: i parlanti del nord, ad esempio, non hanno una chiara conoscenza delle doppie, che sono poco intense.
Questo accade fino a dove? Più o meno fino all’appennino, poi la differenza tra consonante scempia e doppia è molto
più chiara. Queste linee di confine si concentrano su delle direttrici, o fasce isoglosse: una è la Massa-Senigallia (La
Spezia-Rimini), i dialetti settentrionali tendono ad espandersi su questa linea e verso sud (rappresentato da Senigallia).
La seconda è più stabile ed è la Roma-Ancona. Tra le due linee si parlano dialetti mediani. Ci sono poi i dialetti
meridionali estremi in Sicilia, Calabria meridionale e Salento.
Tra queste aree ci sono differenze di tipo fonetico, morfologico, lessicale (modi di chiamare gli oggetti tra regioni, ad
esempio cocomero e anguria) e sintattico.
La teoria del sostrato linguistico
Tutti questi cambiamenti linguistici sono dovuti a una teoria elaborata da un linguista di Gorizia contemporaneo a
Manzoni, la teoria del sostrato linguistico. Secondo questa teoria, la lingua che si parla su un territorio influisce
fortemente sulla lingua che arriva su quel territorio. La lingua che si parla mentre si apprende quella nuova, influenza
il nostro apprendimento. Quindi, le varianti del latino hanno influenzato i nostri attuali dialetti. Esiste una famiglia
detta gallo-italica e una veneta, parlando di dialetti settentrionali. Non si tratta di distinzioni puramente geografiche,
perché anche nella regione ci sono varianti. Mancano il friulano (diverso dal ladino, non si è raggiunto un accordo tra i
linguisti: sono geograficamente separate, il ladino si parla nelle vallate dell’alto adige e del trentino, e poi ci sarebbe
anche il romancio dalle parti della Svizzera italiana) e il sardo, che sono considerate come lingue diverse dall’italiano,
e non dialetti, perché la loro morfologia è troppo diversa.
35
Cosa accomuna i dialetti settentrionali? La sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche (fatica diventa fadiga),
scempiamento delle consonanti intervocaliche (mama invece che mamma), caduta di vocali finali diverse da -a (gat,
mulin); assibilazione dell’affricata palatale (zent/sento ‘cento’, zog ‘gioco’); uso del passato prossimo (due anni fa
sono andato in Francia); no articolo con i possessivi (mio papà è ricco). Diversamente dai dialetti veneti, nei dialetti
gallo-italici possono comparire le vocali “turbate” (/y/ e /ø/, come in lüna e föra). Nei dialetti veneti, inoltre, le vocali
finali sono più resistenti (cadono di solito solo dopo -l, -m, -n, -r). Nella maggior parte dei dialetti settentrionali è
obbligatoria l’espressione del soggetto: a pens ‘io penso’, i mangen ‘essi mangiano’, per questioni pragmatiche non
avendo le desinenze, mentre nella lingua italiana può essere sottinteso.
In area mediana è particolarmente rilevante la presenza dei dialetti toscani. Si caratterizzano per l’aspirazione delle
occlusive intervocaliche sorde (detta “gorgia”) e la spirantizzazione delle sonore. Non se ne conosce l’origine: per
alcuni sarebbe dovuta al sostrato etrusco, ma sembra non attestata prima del tardo Cinquecento. Altre caratteristiche
sono la monottongazione di bono, novo, e simili; la pronuncia fricativa delle affricate in bascio, rasgione; l’obbligo
dell’espressione del soggetto, che dà vita a forme come e’ pensa, la ride, le dicono. Nei dialetti mediani si verificano:
l’ASSIMILAZIONE PROGRESSIVA dei nessi latini ND e MB, che diventano /nn/ e /mm/: monno, iamme; la
sonorizzazione delle occlusive seguite da nasale: cambo, tando; l’affricazione di s dopo l, n, r: salza, penzo, corza; la
distinzione tra le finali -o (omo) e -u (ferru ‘spada’, contro ferro, neutro per ‘ferro’); il sistema dei dimostrativi a tre
elementi (questo, codesto – vicino a chi ascolta, lontano da chi parla- , quello).
Nei dialetti settentrionali, esclusa gran parte dei veneti, si verifica la METAFONESI. Si tratta dell’innalzamento della
vocale tonica per influsso di -i finale di parola. Per es.: fiore > fior, ma fiori > fiur. La o tonica è diventata u. Perché è
accaduto questo? Perché la parola finiva per i. All’interno di un sistema privo delle vocali finali, la metafonesi ha
valore morfologico: distingue singolare e plurale. Questo fenomeno si verifica anche in area mediana e meridionale.
Qui però può essere indotto anche da -u finale di parola: chistu ‘questo’, signuri. A Sud, invece della semplice
chiusura, può crearsi un dittongo, come in fierro o cuorpo. Questi dittonghi sono diversi da quelli toscani. Oltre a
molti fenomeni segnalati per i dialetti mediani (assimilazioni e sonorizzazioni), nei dialetti meridionali si può avere la
riduzione della vocale finale a schwa. Anche in questi casi la metafonesi assume un valore morfologico, perché
distingue maschile e femminile: russ’ contro ross’.
Altre caratteristiche sono; il possessivo clitico con i nomi di parentela: patrem’, soret’; l’accusativo preposizionale,
come in ho incontrato a Marco; l’uso del passato remoto anche in casi in cui si userebbe il passato prossimo:
stamattina piovve a dirotto; il raddoppiamento fonosintattico (presente anche in molte aree mediane: vado a ccasa). I
dialetti meridionali estremi hanno un sistema di cinque vocali toniche (sono privi di /e/ e /o/) e tre vocali atone (solo a,
i, u); hanno pronuncia retroflessa di -ll- (beddu) e, con l’esclusione del Salento, di -tr- (tipicamente in matri ‘madre’);
pongono spesso il verbo alla fine della frase: Montalbano sono. Gli studi consentono ormai di porre a confronto i
dialetti attraverso le epoche storiche, e per alcuni (fiorentino, romanesco) è dimostrata una profonda evoluzione.
Code-switching e code-mixing
In Italia, ancora oggi, c’è ancora il 2% delle persone che parla solo dialetto e non possiede l’uso elementare
dell’italiano nazionale. Il dialetto si usa in modo secondario in sistemi di alternanza con l’italiano (code switching) o
in frasi italiane in situazioni comunicative informali (code mixing). Il dialetto non è però più considerato segno di
incultura, ma una varietà di repertorio. I dialetti sono considerati sempre di più delle possibilità comunicative! Però,
dall’altro lato, i dialetti stanno piano piano scomparendo dalla tradizione culturale, perchè si parlano sempre meno
(anche con la perdita delle persone che lo sapevano bene). Ci si preoccupa quindi anche della futura scomparsa
dell’italiano a causa dell’utilizzo, in ambiti scientifici, di altre lingue, come l’inglese. Soprattutto chi non ha studiato
dizione usa l’italiano con pronuncia regionale: il numero 3 si pronuncia con e chiusa.
Di alcuni tratti c’è però maggiore consapevolezza, e dunque i parlanti che vogliono nascondere la propria provenienza
tenteranno di mascherarli. Per es., un romano che sorvegli la propria lingua non dirà tera o guera. Questo controllo
può generare ipercorrettismi: un napoletano potrebbe dire sto antanto a casa, invece di sto andando a casa, tentando
di mascherare la tendenza a sonorizzare.
36
Lezione 12, 5 novembre 2021
Le minoranze alloglotte
Altra importante differenziazione linguistica all’interno del territorio italiano è la presenza di consistenti minoranze
alloglotte. Le minoranze storiche sono tutelate dalla legge 482/1999, oltre che dagli artt. 3 e 6 della Costituzione. La
legge tutela 12 varietà territoriali e di antico insediamento. Le tutele previste sono: l’insegnamento scolastico impartito
anche nella lingua di minoranza, per esempio a Trieste in certe scuole si insegna lingua slovena; l’uso della lingua
nelle sedute comunali e nell’amministrazione pubblica attraverso dei traduttori; la toponomastica bilingue, quindi
cartelli stradali in doppia lingua; ecc.
A Settentrione si identificano varietà di confine: francese, provenzale (50.000) e franco-provenzale (100.000) in
Piemonte e Valle d’Aosta; tedesco di varietà bavaro-tirolese in Alto Adige (300.000), che in realtà è una maggioranza
linguistica territoriale; sloveno in Friuli-Venezia Giulia (60.000). In circa cinquanta comuni tra Trentino e Veneto si
parla il ladino (30.000), soprattutto nelle valli, poi tra Piemonte e Val d’Aosta il walser (di ceppo germanico). Inoltre,
c’è il friulano (700.000), che ha sue varietà dialettali vere e proprie: ancora non si è giunti a una norma ortografica
condivisa. Oltre al sardo, che è la minoranza più numerosa (1.600.000), nell’Italia centrale, meridionale e insulare si
identificano piccole o piccolissime isole linguistiche, dovute a migrazioni e spostamenti storici. Con la conquista
dell’Albania da parte dell’impero ottomano, a fine Quattrocento arrivarono in Italia gruppi di albanesi, che parlano la
varietà arbëresh (100.000) tra Abruzzo e Sicilia, e di croati (2.000) in Molise. Residui di greco (non è chiaro se dalla
Magna Grecia o dalla dominazione bizantina medievale) si trovano in Salento (grico) e in Calabria (grecanico), per un
totale di meno di 20.000 parlanti. Inoltre, ci sono isole franco-provenzali nel foggiano, provenzali nel cosentino, altre
varietà settentrionali sparse per il Meridione, e ormai contaminate. Resistono il catalano ad Alghero (20.000) e il
tabarchino (dialetto ligure; da Tabarca, isola tunisina) a Carloforte e Sant’Antioco (10.000). Si dicono invece
minoranze diffuse quelle antiche di rom e sinti, che parlano vari dialetti del romanés. Si stimano in circa 150.000
parlanti. Queste minoranze non sono troppo incoraggiate a confermarsi cittadini italiani e non sono purtroppo tutelate
dalla legge. Ad oggi sono presenti anche nuove minoranze linguistiche, purtroppo non tutelate dalla legge, derivanti
da comunità di immigrati giunte recentemente in Italia.
Il repertorio
Con repertorio si intende l’insieme delle risorse linguistiche a disposizione di un parlante o di una comunità
linguistica. Ci può essere una variazione interlinguistica, cioè la compresenza di lingue diverse, oppure
intralinguistica, cioè la compresenza di varietà diverse della stessa lingua. In Italia il passaggio storico dal latino ai
37
volgari non ha dato luogo a esiti classificabili con certezza. La presenza di due lingue su uno stesso territorio, oppure
la competenza di due lingue madri da parte di un parlante è detta bilinguismo. Se però una delle due lingue è di
prestigio inferiore il fenomeno è allora chiamato diglossia. Prestigio significa il valore che nella società quella lingua
ha assunto: l’inglese, ad esempio, è per noi una lingua di prestigio, per via anche degli anglicismi.
La variazione diamesica
La diamesia corrisponde alla variazione in base al mezzo di comunicazione, al canale; ossia oralità e scrittura. Anche
in questo caso, come nelle varietà dialettali, è impossibile trovare una linea di definizione netta. Esiste però un
continuum, cioè un’infinita varietà di esecuzioni, più che una distinzione rigida. La differenza più rilevante è che uno
scritto è soggetto al tempo di pianificazione del discorso, mentre nell’oralità restano le “tracce” di cambi di progetto di
frase, anacoluti (non c’è coesione sintattica, ma solo coerenza logica), ecc. e possono esserci sovrapposizioni di turni.
Nel parlato c’è poco tempo per pianificare un discorso, e dunque non è possibile riflettere a lungo sulla sintassi. Se
pensiamo allo strumento di comunicazione della chat, ci possono essere nuovamente sovrapposizioni tra persone. Quel
testo scritto ha caratteristiche dell’oralità: si tratta di una struttura a metà tra le due. Anche il destinatario, però, deve
affidarsi alla memoria per tenere traccia della sintassi del suo interlocutore, e perciò le frasi lunghe e complesse lo
metterebbero in difficoltà. Nella lingua scritta è importante valutare che il destinatario non è presente al momento
dell’enunciazione del testo: dunque il contesto non è condiviso, e la comunicazione deve superare ogni ambiguità;
nell’oralità si può invece chiarire e sopperire ad eventuali mancanze e difetti con una ricostruzione del discorso.
Scritto, orale
Lo scritto è (tendenzialmente) monologico, mentre il parlato è assai spesso dialogico, con eccezioni. Le condizioni
intermedie tra scritto e parlato sono però abbastanza numerose: una lezione universitaria è un esempio di parlato
monologico; la chat è un sistema di scritto dialogico. A queste tipologie si aggiungono il parlato trasmesso (televisivo
o radiofonico) e lo scritto trasmesso (blog, giornali), e in generale nelle varietà intermedie si ha uno scambio delle
caratteristiche tipiche dei due poli.
Nel parlato si può fare uso di mezzi CINESICI (gesti di assenso o di diniego, o altra gestualità), PROSSEMICI
(rispetto o violazione della distanza di cortesia), PARALINGUISTICI o SOPRASEGMENTALI (volume, tono,
enfasi, velocità). Abbondano connettivi pragmatici (segnali discorsivi), cioè congiunzioni, esclamazioni, sintagmi o
anche semplici verbi: dunque, insomma, ah, in altre parole, guarda, diciamo, ecc., ma anche DEMARCATIVI (se
segnalano parti di discorso), FATICI (vero?, rendo l’idea? figurati) e MITIGATORI (mi sembra, tipo, una specie di,
praticamente, tra virgolette). La sintassi è frammentaria, giustappositiva. Prevalgono coordinazione e paratassi. La
congiunzione che può essere usata anche oltre le sue normali funzioni grammaticali. Alcuni modi e tempi verbali sono
poco usati: trapassato remoto, futuro anteriore, condizionale. Molto rara nel parlato è la diatesi passiva. Spesso è usato
il presente anche per narrare fatti accaduti in passato (PRESENTE NARRATIVO), o al contrario cose pianificate per
il futuro (PRESENTE PRO FUTURO). Il passato (prossimo, o remoto) può sostituire il futuro: per es. quando ho
finito, vado via.
Il futuro assume valori modali: dubitativo, ad esempio (chi sarà alla porta?). L’imperfetto può essere controfattuale
(facciamo che io ero il ladro e tu la guardia). Si diffondono le forme enfatiche: un sacco di, una cifra, strabello; le
forme generiche: quello della caldaia, il coso per accendere il gas, le forme diminutivali: un attimino, una firmetta. Il
suffisso -ATA sta aumentando la sua produttività: calmata, porcata, stupidata; ci possono essere fenomeni di
ritrazione dell’accento, dovuti a ipercorrettismi (per parole latine, che si suppongono non parossitone): èdile, sàlubre,
persuàdere, al posto delle forme corrette. Si hanno poi fenomeni di ALLEGRO, come apocopi (ben, veniam) e aferesi
(’spetta, ’scolta).
Diversamente, lo scritto si caratterizza per la maggiore coesione, la scansione del testo in paragrafi, in generale per la
cura e per la variatio, cioè la ricerca di sinonimi e di forme sostituenti. Lo scritto può però essere influenzato
dall’italiano burocratico, che induce all’uso degli opachi addì, li (nelle date) – è un articolo, si usava nell’antichità
davanti ai numeri, obliterare, suddetto, soprascritto. E anche l’italiano giornalistico può dare un aspetto particolare ai
testi: aumento dello stile nominale, molti elativi, molte metafore e metonimie (Quirinale per ‘presidente della
Repubblica’), molti derivati, composti e prestiti (europeista, tangentopoli, tsunami). L’italiano TRASMESSO (alla
radio) ha contribuito all’unificazione linguistica. A oggi si potrebbero indicare come modelli le letture letterarie e il
bollettino meteo.
38
Il recitato, il trasmesso: televisione e radio
A teatro, e al cinema, il parlato è invece recitato. A volte si incontrano però forme di parlato non spontaneo, anche
nelle traduzioni: vengono quasi sempre eliminate le parolacce, e anche i localismi, che però garantiscono
l’immediatezza della comunicazione. Il trasmesso televisivo raggiunge il 94% delle case italiane, e il 64% degli
italiani ascolta la radio. Trasmessa è anche la CMC, cioè la “Comunicazione Mediata dal Computer”. Alcuni studiosi
preferiscono riferirsi a questa forma come a italiano digitato. Negli ultimi tempi il web ha consentito l’unificazione di
molte tipologie di comunicazione: i siti dei quotidiani contengono sempre più spesso notizie concepite per una lettura
veloce on line, non i pezzi pubblicati sul cartaceo. Inoltre si contaminano i linguaggi, ormai dagli anni Ottanta:
informazione, intrattenimento e divulgazione sembrano essere diffusi con le medesime trasmissioni, che fanno leva sul
lessico brillante e su una sintassi molto semplice.
I mezzi di comunicazione di massa hanno infatti influenzato molto gli usi linguistici della nazione, la televisione ha
sempre rappresentato il mezzo più seguito e che ha influenzato maggiormente, ma che col tempo è anche variato
parecchio.
Dai tempi della “paleotelevisione” (definizione di U.Eco (1983): poche ore di trasmissione, serate a tema fisso e
palinsesto (programmazione) settimanale), che aveva anche una forte connotazione pedagogica, i tempi sono cambiati.
La televisione pubblica esercitava un ferreo controllo sulla lingua: erano proibite parole volgari, il registro doveva
restare elevato, i presentatori frequentavano corsi di dizione. Nel 1969 la RAI affidò ai linguisti Migliorini, Tagliavini
e Fiorelli la realizzazione del Dizionario di Ortografia e Pronunzia. Furono prodotte trasmissioni dedicate
all’insegnamento degli adulti, come Non è mai troppo tardi, per recuperare alla lettura e alla scrittura gli analfabeti.
Per la divulgazione della cultura il teatro aveva un posto importante nel palinsesto, e la RAI produsse sceneggiati tratti
dai classici della letteratura mondiale (Odissea, Promessi sposi, Anna Karenina, ecc.). La cultura contava in
percentuale per oltre il 40% dei programmi.
Nel 1976 la RAI fu riformata; nel 1979 nacque Rai 3, destinata all’informazione regionale e dunque aperta alle
pronunce locali. Ai telegiornali si passò da un semplice annunciatore di notizie (speaker) al giornalista che guida lo
spettatore nel ragionamento (anchorman). Poi nacquero radio e tv private, che indussero anche la tv pubblica ad
adeguarsi, nel palinsesto e nella lingua, a una qualità ben inferiore. Il pubblico, negli anni Ottanta e poi con crescente
successo, entra nella tv: con i collegamenti, con le telefonate da casa, con i talk show, con i reality show. I modelli
forniti dalla tv sono sempre più bassi e da “modello” la tv diventa “specchio” (deformante) della nostra società.
39
Lezione 13, 10 novembre 2021
Grazie ai telefoni di fatto molte persone sono tornate alla scrittura, dopo molto tempo. Tutti questi network e sistemi
di messaggistica sono fatti per comunicare e favorire quest’ultima, per creare gruppi di discussione. Si può fare il
cosiddetto quoting, per farci rispondere immediatamente ad uno specifico messaggio della cronologia che si sviluppa
nella chat, si possono poi lasciare i like, condividere messaggi ed oggetti (pezzi multimediali di altri linguaggi come
foto e video). Questo sistema, che permette una forte interazione, si presta anche ad una più semplice manipolazione.
È anche vero che operare su testi come questi permette di passare su contesti diversi: possiamo copiare e incollare
testi, modificandoli per le nostre esigenze, come ad esempio chi tende a copiare da internet la propria tesi di laurea,
avvalendosi di database con vecchie tesi archiviate. Può accadere anche con testi online, opinioni legate all’attualità o
blog giornalistici se ne possono avvalere. Per quanto riguarda la posta elettronica, è un sistema burocratico, come era
la posta precedentemente, al di là di cartoline o amici di penna. Il sistema della posta elettronica è fortemente
burocratico, l’indirizzo email costituisce una doppia informazione: nome utente, separato con la chiocciola, e poi la
macchina che contiene tutte le informazioni della persona. La chiocciola deriva dalla preposizione inglese at, ossia
presso. Oggi la comunicazione è meno formale e non è veicolata attraverso la posta. Il fatto di indicare un destinatario
è burocratico, così come indicando un oggetto (come si fa ancora nelle lettere cartacee di stampo burocratico). C’è poi
anche la spam mail, un disturbo grave che occupa tantissime risorse ed energia: ci sono milioni di messaggi spam che
provoca un dispendio di tempo da parte delle macchine incaricate della distribuzione dei messaggi; esistono persino
macchine che ne producono in automatico: il sistema genera da sé il proprio disordine. L’etimologia della parola spam
corrisponde ad un nome proprio, di un prodotto alimentare inglese degli anni ’70. Si fa riferimento ad uno scetch di un
gruppo comico che prese in giro i primi scetch pubblicitari che facevano uso dei jingle che entravano nella testa degli
utenti, e venivano continuamente interrotti da un intramezzo con la canzoncina che diceva sempre spam.
Anche i forum (come yahoo answer), che ad oggi in realtà sono meno sviluppati, sono dedicati spesso a pubblici
molto ristretti: ad esempio quelli medici dedicati alle malattie rare, che coinvolgono gruppi ristretti di persone. Può
succedere che persone che vivono con un problema di salute poco noto debbano formare la propria coscienza: devono
farsi una competenza medica. Oltre questo però, si deve anche saper scrivere: altrimenti non si capisce il tema
principale, non c’è punteggiatura (la segmentazione che da il lettore è diversa per ognuno), le abbreviazioni come
xchè o cmq non sono adatte al contesto, non è scorrevole (dovuto alla paratassi: la presenza di frasi giustapposte e non
subordinate.) dal punto di vista semantico non è coerente, non si capisce perché si introducano certe informazioni
senza premettere nulla. Un’altra cosa che può infastidire chi cerca una risposta in un forum su testi informativi è la
personalizzazione del racconto: il testo da informativo diventa narrativo.
Elementi dell’oralità irreplicabili nello scritto
L’ellissi, cioè la negazione di una informazione: è il caso in cui l’interlocutore non risponde ad una domanda, ma
cambia discorso. Per esempio, quando l’interlocutore non risponde a una domanda e cambia discorso (anche
scherzosamente, per confermare un sospetto). È una violazione della regola cooperativa di quantità.
Il silenzio, nello scritto sono sempre necessarie parole per descriverlo, come il personaggio restò muto. Il silenzio vale
però come un testo, perché può essere carico di sottintesi: la possibilità di tacere è una possibilità semantica da non
trascurare.
Tullio De Mauro aveva parlato però, già nel 1967, della scarsa affidabilità dell’opposizione tra ”scritto” e “parlato”:
«Le nozioni di “stile scritto” o “lingua scritta” e di “stile parlato” o “lingua parlata”, che risultano equivoche o
intrinsecamente contraddittorie (come quando si discorre di uno scrittore che “si serve del parlato” o di un parlante che
adopera “la lingua scritta”) possono essere utilmente sostituite con le nozioni di stile formale, adoperato
preferenzialmente nella scrittura, e stile informale, adoperato preferenzialmente nel parlato».
Quando parliamo di stili ci riferiamo alla variazione diafasica, di registro espressivo. Quelli formali sono i più elevati,
ovviamente.
La variazione diafasica
È la variazione della lingua secondo la situazione comunicativa in cui ci si trova: dipende dall’interlocutore, dal
contenuto, da quanto siamo abili ad adeguarci a ciò che vogliamo esprimere. La diafasia è la variazione della lingua
determinata dalla scelta del REGISTRO, o dello STILE, da adottare nella situazione comunicativa. Il CONTINUUM è
40
in questo caso rappresentato dall’infinita serie di esiti pratici della scelta del registro: aulico, sorvegliato, sostenuto,
confidenziale, colloquiale, familiare, trascurato. Si tratta di una combinazione di lessico, sintassi e regionalità per dare
un unico mix di elementi giudicati dal destinatario sulla base di certi parametri anche molto personali. Oltre ai registri
usati nella comunicazione quotidiana possono influenzare l’uso anche le LINGUE SETTORIALI e le LINGUE
SPECIALI (che hanno anche una propria modalità di comunicazione diversa dalla lingua comune), cioè di
SOTTOCODICI (l’italiano è la lingua codice, i sottocodici non sono i dialetti, ma lingue inerenti uno specifico
ambito, come l’informatica, la moda, lo sport), impiegati solo per discutere di argomenti molto circoscritti. Tutti noi
siamo esperti di sottocodici. La scelta del registro dipende principalmente dalla familiarità tra emittente e destinatario
del messaggio; in secondo luogo, dalla specificità del messaggio.
Esempio di variabilità di registro, riferito al verbo “morire”, fondamentalmente per scaramanzia: rendere l’anima a
Dio, defungere, perire, estinguersi, trapassare, spirare, chiudere gli occhi, esalare l’ultimo respiro, passare a miglior
vita, spegnersi, mancare, scomparire, andarsene, andare al Creatore, tirare le cuoia, andare all’altro mondo,
rimanerci, lasciarci la pelle / le penne, crepare. Sono tutte possibilità usate però solo in certi contesti. Notiamo diversi
aspetti di questa variazione di registro con l’utilizzo di parole non comuni, come defungere, o latinismi, derivati per
affissazione come trapassare, metafore, verbi pronominali come andarsene (con 2 pronomi personali: il ne e il se, in
questo caso per rendere ancora più riflessiva sul soggetto l’azione), ma anche rimanerci. L’uso di questi pronomi
consente di creare un significato che rispetto al verbo primario è leggermente diverso e si può specializzare in registri
colloquiali.
Stili alti e bassi
Lo stile alto si caratterizza per bassa velocità di eloquio e pronuncia accurata, oltre che per lo scarso uso di modi
impliciti (e soprattutto del gerundio). Nello scritto si marcano i paragrafi e si usano i connettivi. La sintassi è elaborata
e ricca di subordinate. Sono pochi mediamente i riferimenti al contesto comunicativo (deissi). Per il lessico, lo stile
alto si caratterizza per l’ampia variazione dei termini usati, con scelte improntate all’appropriatezza e alla tecnicità.
Non necessariamente la comprensibilità del testo è migliore: il destinatario può trovarsi in difficoltà sia per via del
lessico usato, sia per “leggere” la struttura sintattica. Negli stili alti possono essere più abbondanti i forestierismi (ma
anche, viceversa, parole più letterarie e di basso uso). L’aggettivazione è più sviluppata e ricercata, e così la scelta di
figure retoriche (dittologie, ripetizioni, chiasmi o parallelismi, similitudini).
Lo stile basso è invece caratterizzato da una velocità di eloquio più sostenuta, con diffuse semplificazioni, come le
apocopi (fan, son, veniam) e le aferesi (’sto caldo), oppure fusioni (presempio) e assimilazioni anche a carattere
regionale (arimmetica). Questo per velocità ed economia della lingua. Regionali possono essere anche la pronuncia e
il tono di voce. Rispetto ai registri alti, è accentuata la gestualità. Abbondano i modi impliciti, anche al limite della
correttezza, e i riferimenti contestuali. Si usano pochi connettivi, e di solito sempre gli stessi (dunque, allora).
Nella sintassi, le frasi sono di solito brevi, e possono diffondersi strutture a bassa coesione. Il lessico tende a ripetersi,
e a caratterizzarsi per forme generiche (coso, roba) e abbreviate (prof, bici). Abbondano le forme colloquiali e il focus
si concentra sull’io (mi sono imbarcato in un progetto rischioso, ne ho rimorchiata un’altra ecc.) È importante
sottolineare lo stretto rapporto con la variazione diastratica: se un parlante è basso in diastratia faticherà a gestire i
registri alti.
Lingue settoriali e speciali
La variazione diafasica comprende inoltre lo studio dei codici specialistici della lingua: gli usi che si fanno per parlare
di argomenti “tecnici” o “quasi tecnici”: si parla di lingue speciali e di lingue settoriali. Se i registri sono «modi
diversi di dire la stessa cosa», i sottocodici sono «modi di dire cose diverse» (Berruto 2011)
Le lingue settoriali e speciali sono varietà funzionali e istituzionali: servono per parlare di argomenti specifici e si
usano per determinate situazioni comunicative. Le lingue speciali hanno un alto grado di tecnicizzazione: sono le
lingue scientifiche. Le lingue settoriali sono meno “tecniche” (per es.: la lingua dello sport, della moda, della critica
letteraria), ma condividono con le lingue speciali alcune proprietà.
Lingue speciali e settoriali hanno una terminologia specifica (TECNICISMI), il cui significato è univoco e definito
con rigore. Tale proprietà è detta MONOSEMIA. Anche la morfologia lessicale è interessante: prefissoidi e suffissoidi
sono molto usati, e i prefissi assumono valori specifici: -ite ‘infiammazione’ in medicina.
41
Le lingue speciali si caratterizzano inoltre per la MANCANZA DI SINONIMIA: non esiste un sinonimo di “acido
solforico”. Tuttavia, nella lingua comune possono esistere degli equivalenti. Per es., rinite allergica è il ‘raffreddore da
fieno’, i lepidotteri sono le ‘farfalle’. Sono lingue precise, denotative, nelle quali prevalgono funzioni informative
anche relativamente alla testualità. Altre caratteristiche sono l’uso di ACRONIMI (DNA, SMS, DOC, ecc.) e di
EPONIMI (teorema di Pitagora, macchina di Watt ecc.), anche nelle unità di misura: watt, ampère, volt. I rapporti con
la lingua comune sono però complessi: alcune parole possono tecnificarsi (così fece Galileo per il lessico della fisica,
per es.: forza, lavoro, momento) e altre detecnificarsi (nevrosi, paranoia) o passare ad altra lingua speciale (rivoluzione
in politica).
È inoltre opportuno distinguere tra tecnicismi specifici (morfema, elettroforesi, rastremato) e tecnicismi collaterali,
<<legati non a effettive necessità comunicative bensì all’opportunità di usare un registro elevato, distinto dal
linguaggio comune>> (Serianni 2005). Per es.: il proiettile ha attinto la vittima alla mano, il ferito ha accusato un vivo
dolore, o ancora sporgere denuncia, surrogare un mutuo, ecc. Potremmo dire che sono particolari collocazioni, più
tecniche. Nella sintassi sono accettate ripetizioni, allo scopo di evitare le ambiguità di contenuto; il discorso è
articolato. I verbi sono più scarsi e lasciano spazio a una diffusa NOMINALIZZAZIONE, che sposta il nucleo
informativo sul nome (di solito un derivato, deverbale). Aumentano dunque le locuzioni: a base di, ad alta densità di,
ecc.
Lezione 14, 11 novembre 2021
Si realizza la deagentivizzazione (spersonalizzazione) del discorso, con l’uso di strutture impersonali o passive: si è
individuata la sequenza del DNA; è stata individuata la sequenza del DNA; l’individuazione della sequenza del DNA,
e simili. Oppure si usa un “noi” generico. Nelle definizioni è usato il presente atemporale. Le lingue speciali
assumono un prestigio crescente, e hanno ormai sostituito la lingua letteraria nel porsi come modello per gli usi colti.
Parole ed espressioni tecniche tendono a uscire dal loro ambito per entrare nella lingua comune, anche attraverso la
divulgazione scientifica (lingua dei mass media).
Il burocratese
Si tratta di un’etichetta ironica, riguardante le istituzioni. Ci soffermiamo sull’impervietà del messaggio. L’italiano
istituzionale, e quello burocratico, sono altre varietà linguistiche, segnate dal difetto di oscurità del messaggio, che
tende a non farsi comprendere dai destinatari diretti: i cittadini, che faticano a comprendere il messaggio a causa di
parole disusate e facendo perdere la chiarezza comunicativa. L’italiano burocratico fu chiamato “antilingua” da Italo
Calvino per la sua caratteristica non comunicativa, e si tratta della peggiore etichetta. Ciò si deve principalmente alla
persistenza nell’uso di termini antiquati (vieppiù -inoltre- , all’uopo -allo scopo-, addì -per la data-) e all’impiego di
forme sostituenti inutilmente opache, ossia forme che stanno al posto dei nomi già espressi, opache perché antiquate
(suddetto, sottoscritto, medesimo). Questo studio burocratico viene imitato per il prestigio dell’ente che crea questi
testi, inoltre ci sono alcune caratteristiche che accomunano queste varietà alle lingue scientifiche: lo stile nominale
(uso di suffissati), l’impersonalità (uso di forme con il si, passivo), i modi impliciti (gerundio), l’ipotassi. Lo scheletro
sintattico di questi testi assomiglia a quello delle lingue scientifiche. Vediamo un esempio di trasformazione di un
testo in lingua comune in “burocratese”: Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti
quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo (registro basso) a cena. Non ne sapevo
niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata (dislocazione a destra).
Versione “da verbale”: Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per
eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un
quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile,
di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non
essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante.
L’informazione principale del testo è che il vino è stato preso senza sapere che fosse stato rubato.
Dagli anni Novanta del secolo scorso iniziarono le sollecitazioni a semplificare il linguaggio amministrativo: fu steso
un “Codice di stile” (1994) con indicazioni pratiche e esempi di riscrittura per leggi e regolamenti. Michele Cortelazzo
ha riscritto le istruzioni per gli operatori degli uffici elettorali. Ecco un esempio:
Testo Unico, art. 66, comma 1: <<Il presidente, udito il parere degli scrutatori, si pronunzia in via provvisoria,
facendolo risultare dal verbale, salvo il disposto dell’art. 87, sopra i reclami anche orali, le difficoltà e gli incidenti
42
intorno alle operazioni della sezione>>. Istruzioni, testo originale, par. 6: <<Il presidente decide, udito, in ogni caso, il
parere degli scrutatori, sopra tutte le difficoltà e gli incidenti che siano sollevati intorno alle operazioni della sezione, e
sui reclami, anche orali, e le proteste che gli vengono presentati, nonché sulle contestazioni e sulla nullità dei voti (art.
66, primo comma, ed art. 71, primo comma, del Testo Unico 30 marzo 1957, n. 361). La sua decisione, peraltro, è
provvisoria. Infatti, il giudizio definitivo su tutte le contestazioni, le proteste e, in generale, su tutti i reclami presentati
agli uffici delle singole sezioni è riservato, rispettivamente, alla Camera dei Deputati (art. 87 del Testo Unico n. 361)
ed al Senato della Repubblica (art. 27 del Decreto Legislativo 20 dicembre 1993, n. 533). [...]>>.il problema è
nell’efficienza del testo: contiene info inutili, riferimenti di legge che non servono in casi che richiedono
un’operatività rapida.
Istruzioni, testo riformulato, par. 5: «Spettano al presidente le decisioni su:
- difficoltà e incidenti nello svolgimento delle operazioni;
- reclami;
- proposte;
- contestazioni;
- nullità dei voti.
Gli scrutatori possono dare pareri al presidente su tali questioni. La decisione del presidente è provvisoria. Il giudizio
definitivo spetta alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica».
Sono stati eliminati i riferimenti alla legislazione precedente, irrilevanti a fini pratici; sono state riunite le informazioni
e eliminati i contenuti ridondanti, come ripetizioni, commenti e digressioni. Altre possibilità di riscrittura sono date
dalla titolazione di paragrafi brevi; uso di elenchi puntati; riduzione dell’ipotassi, degli incisi, degli impliciti, degli
impersonali.
L’aziendalese
Una varietà deteriore in forte crescita è il cosiddetto “aziendalese”, cioè una lingua modellata sullo stile comunicativo
delle aziende private, ricco di tecnicismi economici ma soprattutto di parole del marketing e di anglismi anche
generici. Si sono così diffuse, anche in ambito burocratico, parole come implementare (che in realtà significa
potenziare, usato per riempire frasi vuote di significato), ottimizzare (rendere ottimo ciò che è già buono, è un caso di
eufemismo: nascondo un processo che comporta rinunce e contrasti attraverso questa parola), posizionarsi,
monitorare. Forse anche peggiore è l’influsso degli anglismi (boss, manager, briefing, mission, vision -adattata con
visione, che sarebbe proiezione dell’azienda nel futuro- , evidence, impact factor) in operazioni amministrative
quando questi sono adattati (evidenze, visione) o quando sostituiscono parole esistenti e chiare (jobs act, welfare, front
office, best practices). Così facendo, si creano le basi per una nuova diglossia, tra inglese e italiano, in cui l’inglese
sarebbe considerato varietà di prestigio “a prescindere”, come direbbe Totò, e l’italiano varietà inferiore, destinata a
essere privata dei suoi usi ufficiali.
L’italiano colloquiale
L’italiano colloquiale è, tra le varietà basse in diafasia, probabilmente la più diffusa e usata. Ha come equivalenti in
altre lingue il colloquial English o la Umgangssprache tedesca. Più che un registro ben identificato, l’italiano
colloquiale è una sorta di “superregistro” molto ampio. Il lessico usa parole substandard e interregionali, che possiamo
rintracciare sul dizionario come marcate volg., pop., fam., gerg., scherz., o anche reg. Alcune equivalenze:
automobile-macchina; fuggire-scappare; recare-portare; salire-montare su; ira-rabbia ecc.
Ecco un elenco di parole e locuzioni o fraseologie dell’italiano colloquiale: è andata!, è andato ‘si è rotto’, andare
via, attaccare bottone, attaccare una malattia, balla, bazzicare, beccare, bellino, ben bravo, bestiale, cagnara,
casino, cesso, cocco, cotta, culo, far fuori, far su, fare il letto, fare in fretta, fare pace, fare senza, farsi, fifa, frana,
fregare, imbranato, che palle!, pappare, partire con la testa, pizza, prendere (es.: quanto ti ha preso?), rompere,
sagoma, sbafare, scalcinato, scassare, sfegatato, sfottere, spago, tanto non ci vado, tappabuchi, tirar su ‘allevare’,
zucca. Altre forme caratteristiche sono quelle a doppio clitico (anche detti verbi procomplementari): cavarsela,
farcela, filarsela, fregarsene, mettercela tutta. Poi, una generica terza persona plurale: dicono che..., l’hanno messa a
43
posto; perifrasi: i bambini sono lì che giocano; dimostrativi: mi ha fatto una testa così; superlativi di nomi: un
ragazzo a postissimo, occasionissima. In molti casi ci sono infrazioni alla grammatica, ma entrano nell’italiano
quotidiano e non ce ne accorgiamo.
La variazione diastratica
La variazione diastratica, o diastratia, concerne la variazione linguistica influenzata da fattori sociali e socio-
economici. Nelle società di antico regime la mobilità sociale era ridotta o inesistente; oggi la mobilità è certamente
maggiore, ma va preso atto che esistono situazioni diverse anche all’interno dell’Italia.
Il CONTINUUM è in questo caso rappresentato dall’infinita serie di esiti pratici della situazione sociale; si va dalla
perfetta esecuzione della fonetica italiana fino alla stentata produzione dei semicolti. Si avrebbero quindi: un italiano
colto e formale, parlato da imprenditori, professionisti docenti; una categoria intermedia, molto sfuggente (non
sussiste una consequenzialità precisa tra professione e lingua) e un livello inferiore. In questa ultima fascia i parlanti
mescolerebbero competenze di dialetto, di italiano regionale e di italiano popolare (anche detto italiano dei semicolti).
Il concetto di diastratia sia applica anche, con parziale successo, alle categorie del sesso e dell’età: ci sono alcune
differenze nell’uso linguistico di donne e uomini, e anche (queste decisamente più marcate) fra giovani e anziani.
L’italiano popolare
Con italiano popolare (categoria in continua ridefinizione, e probabilmente soggetta a un futuro cambio di
denominazione) si intende una varietà di italiano dalle caratteristiche ben individuate, ma sulla cui origine ci sono
diversità di opinione. De Mauro 1970: «il modo d’esprimersi di un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza
addestramento, maneggia quella che ottimisticamente si chiama la lingua nazionale»
Manlio Cortelazzo 1972: «il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto».
In particolare, De Mauro parlò di “italiano popolare unitario”, cioè di un’unica varietà, con caratteristiche comuni a
tutto il territorio nazionale, segnata dallo sforzo di superare l’emarginazione linguistica, la dimensione locale;
Cortelazzo invece considerò preponderante l’influsso delle varietà diatopiche sulla competenza dei parlanti, con
un’unificazione apparente e solo scolastica.
Tipicamente, questa varietà si ritrova nello scritto di chi ha una minima scolarizzazione. Per esempio, sono stati
studiati i corpora testuali delle lettere dal fronte di guerra (I e II conflitto mondiale), le testimonianze di emigrati, i
temi dei bambini delle scuole elementari. Mancano però studi sull’oralità. Alcune caratteristiche di questa varietà
sono: gli errori nella coniugazione dei verbi irregolari: facci, stassi, vadi, venghino (per lo più analogici sulla prima
coniugazione) per il congiuntivo, o potiamo ‘possiamo’ all’indicativo presente, e potavamo all’imperfetto; il
rafforzamento pronominale: fargli un regalo a lui.
Particolare caratteristica dell’italiano popolare è la diffusione di MALAPROPISMI, cioè di parole simili
foneticamente a quelle corrette, ma in realtà di altro significato (dalla commedia di Richard Sheridan, Mrs. Malaprop,
1775). Qualche esempio: una ricerca esaudiente (invece di esauriente); difese umanitarie (invece di immunitarie),
altrite (invece di artrite), un anno costernato di infortuni (invece di costellato), palqué (invece di parquet) . Frequenti
sono poi gli errori di grafia: uso di H non pertinenti, scambi e/è, scambi a/ha, casi quali Itaglia, gnente, squola, celo,
errori nell’uso di accenti (persuàdere, centrifùga) e anche nella separazione delle parole: per questo caso si hanno
deglutinazioni come all’avoro, lo rigano, in cinta, e viceversa conglutinazioni come per lelefante, o anche
un’annullità, l’aradio. Ci sono casi (regionali) di epentesi, come per pissicologo, e di epitesi (giue, gollo).
Compaiono anche IPERCORRETTISMI, cioè forme che reagiscono all’abitudine all’errore ma per parole che non
presentano quella difficoltà. Nella rappresentazione delle consonanti doppie, un settentrionale può scrivere baccio,
votto, proffessore.
La morfologia è meno legata alla variazione diatopica. Alcuni esempi di errore sono: dai zii, un spazio, più ottimo, il
geometro.
La sintassi dell’italiano popolare contempla la possibilità di rintracciare strutture a tema libero, con scarsa coesione:
voialtri nuovi arrivati, non ci sarebbe nessuno che mi aiuta?; mangiare, mangio un po’ in un posto e un po’ in un
altro; o anche tipiche sono le costruzioni del periodo ipotetico con doppio condizionale o doppio congiuntivo: se
44
sarebbe stato oggi, sarebbe nato un processo; se fossi ricco, mi comprassi una casa. Compare un uso di CHE
POLIVALENTE decisamente diffuso: se mi presti la bici che vado in centro; partiamo che staremo in macchina due
ore.
Il CHE funziona anche come rafforzativo delle congiunzioni: siccome che, mentre che, quando che, ecc. Per tutti i
pronomi personali obliqui di terza persona si usa CI: ci ho detto che (= ‘a lui’, ‘a lei’, ‘a loro’). I pronomi personali di
I e II persona plurale sono rafforzati nelle forme noialtri, voialtri
Il lessico è generico: roba, coso, affare, lavoro, macello, oppure concede spazio a forme semiburocratiche: il
prolungo, la spiega, e a forme a metà tra il malapropismo e il fraintendimento della parola: dispiacente ‘spiacente’,
spensierato ‘pensieroso’. Bruni 1984 ha ridefinito questa varietà come ITALIANO DEI SEMICOLTI, eliminando
l’etichetta ambigua di “popolare” e invece limitando al solo aspetto culturale la causa prima della differenziazione dei
parlanti. Bruni ha analizzato dati relativi a documenti presentati alle amministrazioni da parte dei cittadini (con esempi
quali: il sottoscritto Mario Rossi chiedo...), scritture a parenti e amici, diari, ecc.
Lezione 15, 12 novembre 2021
I gerghi
I gerghi sono lingue parlate oggi da gruppi sociali marginali (vagabondi, mendicanti, malviventi), ma che storicamente
hanno avuto un uso molto largo e perfino sovranazionale. Non bisogna confondere i gerghi con le lingue tecnico-
scientifiche o con le lingue settoriali, che hanno storia e condizioni di impiego completamente diverse. Il gergo è una
lingua oscura, opaca, parlata dai “dritti” e non dai “gagi”. Si trova in letteratura nel Morgante di Luigi Pulci e nelle
commedie di Ruzante (’400-’500). Sinonimo di “dritto” è ‘furfante, intelligente’, oppure guappo ‘pazzo, sciocco’. Il
gergo è costruito sulla struttura fonetica e sintattica di una lingua ospitante, e vi si innesta soprattutto per il lessico. In
francese è detto argot, in inglese cant, in tedesco Rotwelsch, in spagnolo germanía.
In Italia il gergo è parlato per esempio tra i pastori bergamaschi, i calderai comaschi e anche cosentini, i cordai
cremonesi. Era usato dagli arrotini, dagli spazzacamini, dai venditori di pozioni miracolose. Alcune caratteristiche
tipiche del gergo sono: il pronome personale metonimico, che prevede l’indicazione della persona con una perifrasi
(io si può dire ul mé vél ‘il mio vello’, cioè ‘pelle’, oppure con parole che contengono la M: monello, simone,
monarca, mia madre. Questa strana e primitiva sinonimia utilizza i PARAFONI, cioè suoni che identificano
significati. Per esempio, la negazione è espressa con parole che iniziano per N-: nisba, nicolò, nieti, neca, ecc., e
l’affermazione con parole che iniziano per S-: sedeci, siena, ecc.
C’è ampia suffissazione. In -oso: fangose ‘scarpe’, calcosa ‘strada’, verdosa ‘erba’, ma si formano nomi e non
aggettivi; in -engo: fratengo ‘buono’, ramengo ‘bastone’; in -aldo: rufaldo ‘ladro’; in -arda: spingarda ‘paglia’; in -
one: birbone, barone, guidone, tutti sinonimi per ‘vagabondo’. Ci sono frequenti troncamenti: pula ‘polizia’, caramba
‘carabinieri’. Una forte componente germanica si manifesta nel lessico: trabucco ‘girovago’, grinfie ‘mani’, stecca
‘quota della refurtiva’; e anche dall’arabo arrivano termini
come zufar ‘prendere’, mafia ‘sfarzo’, zaraffo ‘complice’. La
semantica delle parole è spesso negativa, autosvalutativa:
pattume è il ‘letto’, ciospa ‘vecchia’ indica la ‘madre’. Lo
strato arcaico del lessico è evidente nelle onomatopee: farfara
‘furbo’, guanguana ‘amante’, ecc.
Il gergo si presenta come un polo complementare della lingua
ufficiale, a cui questa può attingere per i bassi registri, allo
scopo di cercare nuove soluzioni espressive. Il gergo unisce la
lingua delforestiero, del rozzo, dell’infante, del balbuziente,
perfino degli animali. Il gergo è oggi in forte contrazione per la
diminuzione dei girovaghi: non ci sono più i magnani itineranti,
i venditori di icone, gli acciugai, i cantastorie, ma le
organizzazioni malavitose ne fanno uso come di un codice
cifrato. Nella lingua comune ha invece un valore ironico-
scherzoso, anche se alcune parole possono lessicalizzarsi, cioè
entrare nell’uso della lingua usata dalla comunità più ampia.
45
Italiano standard e neostandard
Gaetano Berruto (1987 e 2012) e Giuseppe Antonelli (2014), sullo stesso schema del predecessore, hanno disegnato
uno schema che rappresenti l’architettura dell’italiano contemporaneo. Sull’asse delle ascisse si colloca la
diamesia, su quello delle ordinate la diastratia, su una diagonale la diafasia, mentre la diatopia è soggiacente a tutto lo
schema. All’interno dei quadranti sono collocate singole varietà: italiano formale e informale, colloquiale e aulico,
burocratico e letterario.
Con Antonelli trova diversa collocazione quello “digitato”, che si sposta verso il parlato, e compaiono l’italiano
aziendale, scolastico, giornalistico. Va evidenziata, in entrambi gli schemi, la presenza di varietà chiamate standard e
neostandard. Il nome richiama una varietà “tipica”, “normale”: una varietà di riferimento per i parlanti nativi, che la
userebbero come punto di partenza per la scelta di quale italiano usare nella situazione comunicativa in cui si trovano.
Le etichette denunciano già una evoluzione del concetto.
La distinzione di una varietà standard e di una
varietà neostandard è stata una svolta decisiva per la
linguistica e per l’insegnamento della lingua italiana.
La varietà neostandard è soprattutto parlata, ma
anche scritta in testi di bassa e media formalità. Le
sue caratteristiche non sono nuove, ma di diffusione
crescente.
48
la frase scissa. Meno universalmente accetta è la dislocazione a destra. Non è del tutto vero che nel parlato l’ipotassi
sia ridotta: per lo più arriva fino al primo o secondo grado di subordinazione. Il 46,6% delle subordinate è di tipo
relativo; le completive e le altre subordinate con che ammontano a un ulteriore 26,3%; le ipotetiche con se sono
l’8,1% e le causali con perché il 6,6%.
Norma e uso: vicende dell’educazione linguistica
Una base pragmatica per l’accettazione di una varietà di uso, o di uno standard “nuovo”, “diverso”, risiede anche nella
difficoltà a dominare lo standard da parte dei parlanti. Si potrebbe affermare che ciascun parlante possiede un proprio
IDIOLETTO, costituito da un particolare incrocio sugli assi di variazione, combinato con usi preferiti di lessico, tic
linguistici, ecc. Ci si potrebbe allora chiedere se sono consentiti tutti gli usi (e gli abusi) o se invece esiste un metro di
giudizio, un’altra norma oltre a quella standard. Oppure più di una. Ed esiste ancora l’ERRORE? La presenza di uno
standard e di un neostandard come riferimenti conduce di fatto a un conflitto tra grammatiche: la prima prescrittiva, la
seconda descrittiva.
Chi insegna il modello?
L’insegnamento del modello, attraverso gli esercizi di grammatica, avviene a SCUOLA. Tradizionalmente, la scuola
fornisce (o ha fornito) dei modelli di analisi grammaticale e analisi logica, e ha incentivato la produzione di prove
scritte chiamate temi. Per lo più questi esercizi sono di catalogazione della lingua, si servono di categorie rigide e non
possono configurarsi come apprendimento attivo. Bisogna aggiungere che le categorie grammaticali sono definite in
modo poco “tecnico” e che non sono UNIVERSALI (cioè, non ricorrono in tutte le lingue: in latino non c’era
l’articolo, in tamil non c’è l’aggettivo, ecc.): ogni definizione delle categorie può dunque essere solo parziale, limitata
a una lingua o a un gruppo ristretto, ecc. Nella lingua c’è un SISTEMA che definisce la grammaticalità; da qui una
norma (correttezza) e un uso (accettabilità).
Malgrado tutte le varietà, prevale comunque l’elemento unificante dell’italiano: Luca Serianni ha definito ITALIANO
COMUNE l’uso della lingua, scritta e orale, da parte di parlanti colti in circostanze non troppo informali. Il principale
elemento dialettico è l’italiano letterario. Serianni ha tracciato una linea non rigidamente normativa nella sua
Grammatica italiana (1988, ried. 2000 con un glossario e soluzioni a dubbi linguistici). Un altro strumento molto
importante è la Grande Grammatica Italiana di Consultazione, pubblicata in tre volumi tra il 1988 e il 1995 a cura di
Lorenzo Renzi, Giampaolo Salvi e Anna Cardinaletti. L’opera è strutturata secondo i principi dettati da Noam
Chomsky e dalla grammatica generativa, e distingue usi normali e usi marcati secondo le circostanze.
Ma perché l’italiano è tradizionalmente prescrittivo? Perché la lingua non è nata dall’accordo della comunità dei
parlanti, bensì per l’imposizione dell’esempio dei letterati. Si comprende dunque bene che, scegliendo la lingua adatta
per UNA situazione comunicativa, si è avuta una varietà che non ammetteva usi difformi. Si è insomma separata,
storicamente, la “farina” della lingua dalla “crusca”. La scuola è stata a lungo l’istituzione incaricata di eseguire
questo progetto linguistico e sociale: si è schierata contro i dialetti, contro le varietà regionali, contro il parlato, contro
la variabilità, difendendo a oltranza il conformismo linguistico. Alcuni esempi: ora posso dormire tranquilla ->
tranquillamente; non avrò da lamentarmi verso di loro -> verso loro ecc. Il dibattito linguistico partito negli anni ’80
e continuato fino a oggi ha consentito di stabilire alcune definizioni fondamentali riguardo al concetto di NORMA
linguistica.
NORMA è l’uso statisticamente prevalente che i parlanti fanno della lingua al momento dell’osservazione compiuta
dal linguista (Berretta)
NORMA INTERIORIZZATA è la regola di comportamento linguistico stratificata in ciascun parlante, basata
soprattutto sull’immagine impressa dagli anni di scuola (Serianni)
NORMA SOMMERSA è la regola di comportamento linguistico trasmessa dal docente di italiano alla classe,
indipendentemente dalla sua fondatezza. Al prestigio della fonte (l’insegnante) si accompagna l’effetto della sanzione
(correzione e abbassamento del voto).
Ma già Antonio Gramsci, nei Quaderni del carcere, aveva scritto che la norma è definita «dal controllo reciproco,
dall’insegnamento reciproco, dalla ‘censura’ reciproca». Azioni e reazioni «confluiscono a determinare un
conformismo grammaticale, cioè a stabilire ‘norme’ o giudizi di correttezza o di scorrettezza. Ma, a parte le correzioni
puramente grammaticali, la scuola ha coltivato l’abitudine all’uso dell’eufemismo e della perifrasi contro la parola
49
schietta (argomento più volte ripreso da don Milani, con il celebre caso della “merda”), praticandolo nei temi. Negli
ultimi anni, tuttavia, la formazione di una comunità di parlanti e di scriventi ha consentito la diffusione di un uso
condiviso, e l’uso ora determina la norma. I linguisti si limitano a raccogliere testimonianze e dati, a interpretarli, a
capire quali forme crescono nell’uso e quali declinano: la trasformazione è continua. La GRAFIA di una lingua è il
suo polo di massima stabilità, mentre quello più variabile è la PRONUNCIA. Molti insegnanti considerano la grafia
un’abilità indispensabile per passare all’approfondimento di lessico e sintassi, ma questo è un pregiudizio.
Lezione 18, 19 novembre 2021
La lingua, infatti, è prima di tutto oralità; poi viene la convenzione della scrittura. Poiché abbiamo detto che la grafia è
l’elemento più stabile e la pronuncia quello più variabile, ci saranno sempre incoerenze tra sistema grafico e fonetico:
ecco perché si fanno errori di ortografia. Un’altra fonte di errori è il paradigma. Si può studiare una regola dell’italiano
e poi applicarla a tutti i casi, ma esistono sempre eccezioni, perché la lingua è un prodotto storico, non è
completamente logica. Per es.: la negazione si deve esprimere con un solo elemento, perché due negazioni
equivalgono a un’affermazione. Ma non si possono usare forme come c’è niente, vedo niente ecc. Ancora: dal latino
DOMINAM ‘padrona di casa’ si sviluppa l’it. donna. Ma è logicamente possibile formare la locuzione nom. Donna
di servizio ‘colf’?
È perciò difficile indicare oggi un modello: ogni insegnante di lingua deve continuamente studiare, migliorarsi e
rappresentarlo per i propri allievi, lasciando tuttavia sempre un margine di probabilità alternativa. Ed esiste l’errore?
Si può definire errore un’espressione inadatta alla situazione comunicativa. In particolare, se in una situazione formale
si produce un’espressione troppo colloquiale. Per gli insegnanti sono ora suggerite queste fasi:
- descrizione sociolinguistica delle varietà dell’italiano;
- scelta di situazioni vicine all’esperienza degli allievi;
- identificazione della norma corrispondente;
- suggerimento di nuove situazioni comunicative e nuove norme corrispondenti;
- applicazione di una super-norma della lingua italiana.
Ovviamente, la scuola non ha comunque bisogno di insegnare i registri informali, e può dedicarsi a quelli più formali.
La critica alla grammatica e alla linguistica tradizionale
L’addestramento alla catalogazione della lingua, peraltro condotto su basi non scientifiche, non è motivante (perché
noioso) e non è produttivo. Si potrebbero distinguere infinite serie di aggettivi e complementi, ma questo non ha
ricaduta positiva sull’apprendimento dell’italiano. Invece, l’esercizio era utile per studiare la grammatica latina. Dagli
anni ’70 i linguisti hanno iniziato a elaborare una nuova proposta grammaticale. Lorenzo Renzi ha parlato di
“grammatica ragionevole per l’insegnamento”; Raffaele Simone di “grammatica nozionale”: come esprimere tempo,
spazio, quantità, ecc.
Se la grammatica è nata contemporaneamente al pensiero occidentale, la pedagogia linguistica si sviluppa nel corso
degli anni Settanta del XX secolo, anche se alcuni pedagoghi avevano già lasciato pagine importanti: Francesco
D’Ovidio, Giuseppe Lombardo Radice. All’inizio del decennio, però, si avverte l’inadeguatezza della scuola.
Nella sua tesi di laurea, pubblicata nel 1963 con il titolo Storia linguistica dell’Italia unita, Tullio De Mauro pubblicò
alcune interessanti statistiche sullo stato della lingua italiana. Ha poi continuato nel tempo queste ricerche,
pubblicandone periodicamente gli esiti (l’ultimo è St. ling. dell’Italia repubblicana, 2014)
Nel 1861 l’italiano era parlato da circa il 10% della popolazione residente nello Stato. Ma la percentuale è ottimistica
e comprende tutti i toscani. L’unità linguistica si realizzò per una serie di fattori unificanti.
De Mauro identifica questi fattori in:
- la centralizzazione amministrativa e burocratica;
- la leva militare obbligatoria;
- l’industrializzazione, che portò masse di persone dalle campagne alle città, e dal Sud verso il Nord;
50
- lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa (giornali, radio, cinema). Poi è arrivata la televisione;
- la scuola pubblica
La scuola
Le indicazioni di Manzoni erano volte al superamento dei dialetti; altri studiosi (Ascoli, De Sanctis, D’Ovidio),
invece, non volevano disperdere il patrimonio locale
Con l’Unità fu estesa a tutto il territorio nazionale la legge Casati del Regno di Sardegna, risalente al 1859, che
decretava l’obbligo scolastico di 4 anni di elementari, 2+2. Dovevano essere costruite scuole per il primo biennio in
tutti i paesi con almeno 50 bambini, e per il secondo in paesi con almeno 4000 abitanti
Chi continuava dopo le elementari frequentava 5 anni di ginnasio, 3 di liceo e poi l’università; oppure, 3 di scuola
tecnica e 3 di istituto tecnico. Tuttavia, l’obbligo scolastico veniva eluso, anche perché le sanzioni previste non erano
applicate.
Nel 1877 entrò in vigore la legge Coppino, che limitava l’obbligo a 3 anni (scuola fino ai 9, pena sanzioni per i
genitori) ma sanciva la nascita dell’istruzione pubblica gratuita. Per aspettare statistiche confortanti sulla frequenza,
però, si dovranno aspettare gli anni Dieci
Nel 1923 entra in vigore la “riforma Gentile”: la struttura prevede 5 anni di elementari, poi 5 di ginnasio e 3 di liceo
(classico, scientifico o femminile), oppure elementari, 3 anni di istituto tecnico e 4 di corso superiore, oppure liceo
scientifico, oppure elementari, 4 anni di magistrali e 3 di liceo, oppure elementari e 3 anni di avviamento
professionale. Fu sancito l’obbligo scolastico ai 14 anni. Molti guardano con nostalgia l’ordine imposto da questa
riforma: ma va chiarito che questa scuola ribadiva una netta divisione in classi sociali, e infatti Mussolini la definì “la
più fascista delle riforme”. Furono chiuse le scuole delle minoranze tedesche, slovene e croate. Dopo il 1925, però,
l’impostazione laica iniziò a essere criticata, e la politica di riavvicinamento alla Chiesa culminata nei Patti
Lateranensi di fatto allontanò Gentile e Lombardo Radice dal progetto.
Dal 1925 fu introdotto il libro di testo unico. Dopo il 1929 la religione cattolica divenne materia di insegnamento
scolastico, e tutta l’impostazione complessiva del disegno fu decisamente cambiata fin dalla sua ispirazione laica
La Costituzione italiana ribadisce più volte la centralità della lingua nella vita sociale. Gli articoli più importanti al
proposito sono il 3 e il 34
Art. 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di
razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione
politica, economica e sociale del Paese». Va notata l’alta posizione di “lingua” nell’elenco, e il coincidere del
concetto con le espressioni di libertà e di eguaglianza.
Art. 34: «La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica
rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere
attribuite per concorso».
Questi articoli, scritti in stile non burocratico, comprensibile a tutti, costituiscono la legge fondamentale dello Stato
relativamente alla questione della lingua.
Tre anni dopo, al censimento del 1951, risulta analfabeta il 13% della popolazione, e privo di licenza media il 59% (il
17% in città, il 19% in montagna, il 24% in campagna)
Nel 1962 entra in funzione la scuola media unica, e vengono abolite le separazioni per sesso e l’avviamento
professionale. Arrivano alla scuola media anche studenti dialettofoni, che non conoscono l’italiano. Gli insegnanti,
abituati a insegnare al ginnasio, vedono messo in discussione il loro prestigio e procedono a bocciature di grandi
numeri di studenti: c’è chi è nato per studiare e chi è nato per zappare.
51
Lo stato delle cose, e la mancata applicazione della Costituzione, sono denunciati nel 1967 nella Lettera a una
professoressa, scritta da don Lorenzo Milani e dalla scuola di Barbiana, piccolo paese di montagna nel Mugello. Il
libretto contiene anche statistiche, ma è soprattutto una dura denuncia di come studenti anche diligenti e operosi siano
respinti per una questione di rispetto delle classi sociali. Don Milani insegna una pedagogia molto “classica”: la
creazione di un testo collettivo, attraverso i “foglietti” e l’espansione graduale del pensiero. Critica gli eufemismi e
crede che la scuola sia emancipazione. La cultura borghese parla una lingua ipocrita e non insegna a scrivere. Don
Milani invece applica inventio e dispositio come i vecchi maestri di grammatica.
Alla fine degli anni Sessanta nacquero altre tecniche pedagogiche poi molto diffuse: la pedagogia cooperativa, il testo
libero orale, il quaderno dei testi migliori da portare a casa e leggere con la famiglia. E nacquero in parallelo anche
fenomeni sociali molto gravi, come la presenza nelle zone periferiche delle grandi città di masse di popolazione che
non parlano più il dialetto (perché lontane dai propri luoghi di origine) ma non hanno imparato l’italiano: è il
fenomeno della deprivazione linguistica. Un’indagine del 1970 evidenzia peraltro come le rinunce al conseguimento
del diploma di licenza media siano pari a circa il 50% degli iscritti.
Un altro fronte di lavoro linguistico, e di elaborazione pedagogica, è la Società di Linguistica Italiana (SLI), fondata
nel 1967. Nel 1973 Tullio De Mauro fonda, all’interno della SLI, il Gruppo per l’Intervento e lo Studio nel Campo
dell’Educazione Linguistica (GISCEL), che pubblica nel 1975 le Dieci Tesi per un’Educazione Linguistica
democratica. Le Tesi ribadiscono la centralità del linguaggio nella società e si articolano in una pars destruens molto
articolata, che critica la pedagogia linguistica tradizionale, e in una pars construens meno interessante, e più
sviluppata nel dibattito che seguì alla pubblicazione del documento. Si arrivò a definire un nuovo curriculum per gli
insegnanti, che per esempio prevede lo studio di lingua e grammatica a livello universitario.
Negli anni, i programmi sono stati cambiati e ridefiniti, la pedagogia è cambiata anche se alcuni insegnanti non si sono
rassegnati a cambiare il loro metodo. Peraltro, solo nel 1979 i programmi delle medie sono stati adeguati a quanto
stabilito fin dal 1962; e solo nel 1985 è avvenuto alle elementari. Ma dal censimento del 2001 traspare che quasi il
37% della popolazione non possiede la licenza di scuola media. Resta fondamentale un insegnamento delle Dieci Tesi:
educazione e scuola sono diritti conquistati, e la classe politica deve salvaguardarli. Inoltre, la discussione linguistica
non è mai scollegata da una profonda discussione politica, di rapporti sociali.
Lezione 19 approfondimento professoressa Sciumbata
Lezione 20, 25 novembre 2021
Le dieci tesi per l’educazione linguistica democratica
Le tesi 5, 6 e 7 sono la parte distruttiva della vecchia pedagogia. La tesi 8 è molto teorica e annuncia il dibattito sulla
questione; la conclusione è la frase di Gramsci. La parte centrale è quella più forte, c’è un tono estremamente
polemico.
55
Recita: ista cartula est de caput coctu ille adiuvet de ill[u] rebottu qui mal consiliu li mise in corpu
È una specie di forma di scongiura, si deve tenere questa carta per tenere lontano il diavolo che mette in corpo cattivi
consigli.
La testimonianza di Travale
Guaita, guaita male; non mangiai ma mezo pane, la guardia sviene per la fame durante il turno perché ha mangiato
poco.
La dichiarazione di Paxia
Pascia, genovese, moglie di Giovanni parla. È famoso per la presenza di molti nomi di oggetti quotidiani per la casa.
TESTI LETTERARI:
Raimbaut de Vacqueiras (con Domna, tant vos ai preiada) è un trovatore e cerca di sedurre la donna genovese, lei è
detta domina e lui dominato. La loro amicizia è cortese, lui chiede a lei che lo ami, lui darà alla donna più di quello
che un ricco genovese avrebbe potuto darle; lui parla in provenzale. Lei risponde in genovese, dicendo che lui in realtà
non è cortese, lo insulta (sporco, mancante di una mano e senza capelli). Ha un marito più bello; lo manda quindi via
perché ha un tempo da trascorrere in modo migliore. Lui continua la seduzione e lei lo insulta nuovamente, giurando
che mai starà con lui.
In Eras quan vey verdeyar invece parla del periodo in cui tutto fiorisce, del fatto che vuole parlare d’amore. La
seconda strofa è in italiano settentrionale. La terza strofa è invece francese antico, lingua d’oil. C’è poi catalano,
galiziano, vicino al portoghese antico. Alla fine mette insieme tutte le lingue e fa un verso in ogni lingua. Questi sono
testi lirici, mentre la Chansons de Geste è epica. I cantori epici prendono il nome di ‘trovieri’.
Ritmo bellunese
Per ritmo intendiamo un componimento che non punta sulla metrica, bensì sul ritmo stesso sintattico; quindi, non
necessariamente ci sono versi della stessa lunghezza. In questo caso i bellunesi hanno battuto i trevigiani a Castel
d’Ardo e hanno gettato i nemici nel fiume. È estremamente settentrionale e poco simile al veneto odierno.
Ritmo laurenziano
È un testo toscano letterario prima della poesia dei siculo-toscani. Più che strofe, ci sono delle lasse: cioè strofe con la
stessa rima. All’inizio le lasse cambiavano argomento col cambio della vocale tonica, per lo più nella Chansons de
Geste, poi ci si dedica più alla rima. Il vescovo di cui si parla nel ritmo è stato celebrato molto più di altri esempi di
moralità, e come consigliere personale il Papa se lo teneva stretto: inoltre, il suo vescovato è migliorato grazie a lui.
Ritmo su sant’Alessio
Sant’Alessio si sposa, ma proprio la sera delle nozze rivela alla famiglia che vuole prendere i voti. È un ritmo
marchigiano.
Quando eu stava in le tu’ cathene
Testo ravennate, recuperato. Sono strofe di 10 versi con rime alternate. Si parla di pene d’amore.
Laudes Creaturarum, San Francesco D’Assisi
Il Cantico delle Creature di San Francesco. È Il primo testo del genere delle laudi, che segna la vicenda dell’Italia
centrale.
Passiamo poi in pieno ‘200..
Rosa fresca aulentissima, Cielo d’Alcamo
È un testo di basso registro, nonostante all’inizio l’incipit sembri molto lirico attraverso la rosa. Dante lo prende come
un esempio negativo della letteratura siculo-toscana. Si nota il sistema di ‘coblas cap finidas’, in cui c’è un elemento
finale di una strofa, che si riprende all’inizio della successiva: in italiano è detto ‘prendi e lascia’, e venne utilizzato da
56
Ariosto nell’Orlando Furioso. Si tratta di un dialogo tra corteggiatore e donna, la quale non vuole concedersi: piuttosto
si taglierebbe i capelli. Sono presenti molti condizionali siciliani antichi (pèrdera).
Madonna, dir vo voglio, Giacomo da Lentini
È una delle sue più famose canzoni, con questo testo si stabilizza il metro della poesia italiana. È sempre con tema
amore; il cuore dell’uomo soffre e muore perché la donna non ricambia l’amore.
Pir meu cori alligrari, Stefano Protonotaro
Abbiamo la possibilità di leggere la versione vicina al siciliano originale, non toccata dall’area toscana. Ci sono molte
u ed i, il sistema infatti è di 5 vocali toniche e 3 atone. Lo stesso esempio siciliano è presente nel testo di Re Enzo
(S’eo trovasse Pietanza), che esiste sia in versione siciliana originale che in versione siculo-toscana. Dante certamente
non ha conosciuto i testi siciliani originali, ma ha letto le versioni toscanizzate.
Al cor gentil rempaira sempre amore, Guido Guinizzelli
Tema amore, natura, cuore nobile. In questo caso l’amore occupa lo spazio della nobiltà nello stesso modo perfetto in
cui il fuoco espande il suo calore. Guinizzelli fa rime identiche, che potrebbero poi essere state considerate non tanto
eccelse a livello dello stile. Dante, nell’episodio di Paolo e Francesca, riprende un verso in onore di Guinizzelli stesso.
A me stesso di me pietate vène, Guido Cavalcanti
Non ci sono particolari differenze di parole, ma di sentimento, negativo, dato dal fatto che la delusione d’amore
sopraffà l’amante fino ad avvicinarlo al sentimento di morte. Gli aggettivi: nova, è una donna non conosciuta perché
l’amore non corrisposto non gliela fa conoscere, nova per lui indica ostile, straniero. Le parole sono tematicamente
interessanti; l’amore diventa crudele e lui perde la virtù; la donna non contraccambia e il cuore dell’amante perde la
virtù. Dante risolve con lo sguardo di Beatrice, che lo salverà.
De elymosinis, Bonvesin da la Riva
Fuori dall’ambito lirico e nell’ambito didattico succede altro, questo in campo milanese. Si tratta di un’opera morale, i
titoli sono in latino e i testi in milanese antico. Il tono è descrittivo e al tempo stesso è un testo che da consigli di
morale: come comportarsi per il buon funzionamento della società.
Il novellino
Raccolta di novelle anonime toscane. L’introduzione è molto semplice da comprendere, a differenza del Decameron.
Sembra quasi un italiano contemporaneo.
Novella su Taddeo di Bologna: era un filosofo morale e biologo, insegnava all’università e faceva lezione.
De arte loquendi et tacendi, Albertano da Brescia
Albertano da Brescia scrive in latino, ma per divulgare al meglio il testo viene volgarizzato: ci sono più di 10 versione
volgarizzate da altre persone in Toscana.
Libro de la destructione de Troya, volgarizzazione
È l’antenato del romanzo attuale, che in Francia si era già diffuso superando la Chansons de Geste; in cui c’era
pluralità. Nel romanzo invece c’è solo un protagonista, e tutto si centra su di lui. Questa è la volgarizzazione in prosa
di un testo epico riguardante la distruzione di Troia che era in versi.
Lezione 22, 1 dicembre 2021, professor Veronesi, la tradizione del 'De viris illustribus' di Petrarca volgarizzato da
Donato degli Albanzani
Lezione 23, 2 dicembre 2021
Il Trecento
Pensando al 300: Dante, Petrarca, Boccaccio (Commedia, Canzoniere, Decameron). In realtà però il ‘300 non
appartiene solo a queste tre corone, ci furono altri grandi autori.
57
Dante
Dante, “padre” della lingua italiana, fu grande poeta ma anche grande teorico, perché espresse nelle sue opere anche
l’attenzione per le scelte linguistiche. Tullio De Mauro ha osservato che quando Dante cominciò a scrivere la
Commedia il vocabolario fondamentale dell’italiano era costituito al 60%, e che il poema di Dante fece proprio questo
patrimonio e lo trasmise nei secoli. Nel Convivio Dante sostiene che il volgare sia il «sole nuovo» destinato ad
allargare il pubblico della letteratura. Anche chi non conosce il latino, pur reputato superiore per dignità, potrà
comunque leggere in una lingua di grandi potenzialità. Il Convivio e il De vulgari eloquentia non sono stati terminati:
il primo fu il De vulgari eloquentia per coloro che frequentavano l’università, poi se ne andò da Bologna verso
Verona, dove gli intellettuali interessati alla sua figura erano diversi e cambiati. Lì la conoscenza e disponibilità del
latino erano minori, concepisce quindi il Convivio; si paragona ad una specie di profeta per i suoi discepoli. Qui fa un
commento in volgare ai suoi testi e canzoni filosofiche: al momento dell’esilio Dante è l’autore della Vita Nova, un
racconto di poesie tenute insieme da una trama in prosa (prosimetro) in cui racconta la storia del suo amore per
Beatrice, il fatto che dopo la morte di lei lui ha tentato di farsi prendere da altri amori, ma alla fine ha continuato il suo
amore per Beatrice in una vita nuova, nella Caritas, nella carità in senso religioso e cristiano. Poi diventa uno studioso
di teologia e filosofo, scrive, si accosta a Cavalcanti e progettano una raccolta di testi più negativi, in cui si riflette
sulle conseguenze dell’amore non corrisposto, ossia catastrofiche; poi va in esilio. Il Convivio è una sorta di compenso
in cui lui rilegge le canzoni che scrive dopo l’esilio (sulle donne) e in cui commenta queste canzoni. Dovrebbe quindi
essere un lungo trattato di critica letteraria, filosofica e storica che inizia e però non finisce: non arriva nemmeno a un
quarto dei 14 commenti alle canzoni; ne scrive solo 3. Questi 3 erano preceduti da un libro introduttivo teorico. Si
interrompe per la Commedia, che è un grandissimo progetto che gli darà fama eterna, e poi perché non era letterato di
professione: si doveva dedicare ad altre richieste delle corti che lo cercavano come figura rappresentativa della corte
stessa. Nel De vulgari eloquentia (scritto in latino) il latino è considerato una lingua “di stimolo” per il volgare. Il De
vulgari eloquentia è il primo trattato sulla lingua e sulla poesia volgare: eppure esso rimase sconosciuto fino al
Cinquecento. Dante ripercorre l’origine delle lingue, partendo dal racconto biblico della Torre di Babele e chiarendo
che la grammatica è una creazione artificiale, intesa a fermare la continua variabilità delle lingue. Senza una
grammatica, afferma Dante, non sarebbe possibile nemmeno una letteratura: anche il volgare, per diventare letterario,
deve distinguersi dal parlato.
Nominando le lingue a seconda del modo in cui si dice sì, Dante distingue gli idiomi europei partendo dal Nord e dal
Nord-Est, passando al Centro-Sud, dove identifica lingua d’oc (provenzale), lingua d’oïl (francese) e lingua del sì
(italiano) e finendo con Grecia e zone orientali. L’italiano è poi distinto in varie parlate locali, che egli esamina
cercando il volgare migliore. Dante cerca una lingua con le seguenti caratteristiche: deve essere illustre, cioè raffinata
e capace di ‘illuminare’ i dotti; cardinale, cioè punto di riferimento (cardine) di tutte le altre lingue; aulica, quindi di
alto registro e adottabile presso una corte regale (lat. AULA, che indica la sala del trono, una sala in cui si trova il re)
ancora inesistente in Italia; curiale perché adatto all’amministrazione (curia) del potere politico. L’esame delle 14
varietà locali individuate da Dante, divise dal Po e dall’Appennino, si conclude però senza l’identificazione di una
varietà migliore, anche perché in Italia non esiste un’unità > per Dante questa cosa della lingua diventa un problema
politico. Nonostante alcune parlate abbiano anche una tradizione letteraria (siciliano -anche se quello che conosceva
lui era contaminato dal toscano-, toscano, bolognese), esse non sembrano soddisfare tutti i quattro criteri proposti: il
siciliano gli sembra una lingua barbara, il toscano ed il bolognese invece gli sembrano di basso registro. Chi si è più
avvicinato all’obiettivo sono i poeti toscani della sua generazione e di quella precedente, fino ai siciliani, ma non è
possibile sviluppare una lingua illustre se non si ottiene l’unità politica italiana. Infatti, il pensiero di Dante congiunge
sempre letteratura e politica; e il trattato resta incompiuto perché non avvenne mai quanto l’autore auspicava, vale a
dire non si realizzò, lui vivente, l’unificazione degli stati e la scelta di un’unica lingua per la letteratura.
La Commedia segue infatti un diverso principio linguistico, che si allontana dalla teoria del De vulgari eloquentia:
Dante usa decisamente il plurilinguismo, utilizzando le lingue per la caratterizzazione dei personaggi che incontra
lungo il cammino. L’opera può accogliere latinismi, sia scritturali sia scientifici, ma anche forestierismi e perfino
brevi parti in altri volgari. Dante inoltre è anche “artiere” della lingua (da Carducci), e dà vita a molti neologismi,
alcuni dei quali usati fino ai giorni nostri. Crea verbi parasintetici (intuare, ossia farsi te stesso). Ma, nel complesso, la
lingua della Commedia è fiorentina, nella sua varietà di registri (da quelli infimi, tipici dell’Inferno, a quelli più alti del
Paradiso); ma talvolta, giusto per non smentire le critiche fatte al fiorentino nel De vulgari, compie scelte arcaizzanti,
utilizzando forme non più in uso a Firenze. Nella Commedia Dante condensa tutte le sue esperienze di poeta: dalle
“rime petrose” (dai provenzali), utili nell’Inferno, fino a quelle stilnovistiche, ma aggiunge nuovi toni, anche
58
filosofici, al suo stile. Mostra il fatto che lui aveva sperimentato tantissimi stili, far vedere tutte le cose che sapeva, è
stato incredibilmente bravo nel prendere un po’ da tutti e mettere insieme facendo apparire tutto originale. Dà
testimonianza dei suoi modelli, ma non cita Guittone d’Arezzo, che per lui sarebbe scomparso ben presto di fronte al
Dolce Stil Novo. Il suo linguaggio è anche figlio del suo tempo: lui scrive in un fiorentino un po’arcaico, della sua
formazione.
Il linguaggio di Dante può quindi essere definito con il termine ‘plurilinguismo’, accoglie infatti termini di
provenienza disparata, a differenza del monolinguismo lirico di Petrarca.
Petrarca
Petrarca è opposto a Dante, è poeta selettivo in fatto di lessico e stile: pratica un genere più strettamente lirico, e
dunque esclude dal proprio uso parte delle parole impiegate da Dante nella Commedia. Lui si intende come un poeta
di vario stile, nel confronto tra i due però Dante, per esigenze narrative, ha capacità e necessità di orientarsi su stili
disarmonici e vari tra di loro, mentre Petrarca pratica un genere soltanto: il genere lirico, sul quale si sente di poter
variare in estensione. Il Canzoniere inizia ad essere progettato come raccolta di poesia, poi in realtà si deve intendere
come un poema narrativo: è un anno della sua storia d’amore per Laura, con poesie varie, ma che in sostanza di
Petrarca racconta una capacità di entrare nella letteratura italiana attraverso un progetto. Infatti, lui si rende conto di
avere un centinaio di testi pronti ed isolati, che trasforma in un racconto d’amore per Laura, deve diventare un
progetto narrativo: per questo crea anche delle poesie a tavolino, per unire i vari testi lirici che aveva e dare vita a
questo progetto organico. Il progetto del Canzoniere conobbe diverse fasi di esecuzione, fino ad arrivare a comporsi di
366 testi, uno di proemio più uno per ogni giorno di un anno. La grande maggioranza (317) sono sonetti. Petrarca
scrisse dapprima singoli testi, e poi abbozzò il progetto, distinguendo le rime in vita e in morte di Laura, e poi
completando il progetto con le parti mancanti, che dovevano tracciare la storia della sua passione per la donna amata.
Se dunque la poesia, già forte di una tradizione duecentesca illustre, conta su due grandi autori, la prosa era ancora alla
ricerca di un modello. Dalla lirica si passa quindi a narrativa.
Gran parte della produzione scritta di Petrarca è in lingua latina: ai versi in volgare, che lui chiamò Rerum vulgarium
fragmenta (latino del Canzoniere), dedicò attenzione e cura, anche se non affidava a essi la sua fama. Se pensiamo che
molte sue postille ai testi poetici sono in latino, capiamo meglio come le poesie in volgare facciano parte di una
convenzione raffinata e colta, ricca di figure retoriche. A differenza di Dante, di cui non abbiamo nessun testo
autografo, di Petrarca abbiamo molti documenti. Per Petrarca il latino rappresenta una lingua più naturale, infatti gli
costa anche meno fatica ed è la lingua con la quale lui stesso scrive con più facilità: paradossalmente il volgare diventa
non lingua naturale, ma lingua di un raffinato gioco poetico, in omaggio ad una tradizione che arriva dai siciliani.
Con lui nasce la stagione dell’umanesimo. Questo lavoro di Petrarca diventa un modello di comportamento per la
poesia, fin da subito Petrarca diventa famoso per il canzoniere, e non per I trionfi o le opere latine. Non esisteva però
ancora un modello di prosa.
Boccaccio
Boccaccio non scrive solo prosa, ma anche poesia: probabilmente è l’inventore, o comunque è uno dei primi autori,
del poema narrativo in ottave, un testo che utilizza la struttura delle strofe di 8 versi. Lui partecipò ad un’epoca di
traduzione e volgarizzamento dei classici latini da parte della borghesia alta e della classe notarile fiorentina.
La sua opera principale, tuttavia, è il Decameron (10 giornate, dal greco), una raccolta di cento novelle (canti di
Dante) divise in dieci giornate, raccontate da dieci giovani fuggiti da Firenze per evitare la terribile pestilenza del
1348. I racconti sono narrati entro una cornice di ambientazione campestre, che Boccaccio introduce e descrive con
uno stile molto aulico, curato nella sintassi e latineggiante per forme e lessico. Più volte in realtà Boccaccio ha copiato
dei manoscritti da altri autori, tra cui alcuni di Dante. A Venezia copia anche una parte del Canzoniere di Petrarca. Lo
spirito che anima Boccaccio nella scrittura del Decameron è uno spirto polemico nei confronti dei predicatori, una
classe del periodo. I predicatori usavano l’oralità: tra questi uno aveva prognosticato ed invocato una punizione divina
per la corruzione di Firenze, che prende forma nella peste. Polemicamente, Boccaccio parte dal sagrato di Santa Maria
Novella, dove era stata fatta la profezia, per far si che da lì potesse nascere un futuro positivo. Nelle novelle, invece, i
registri si alternano, da quelli bassi a quelli colloquiali o anche più curati, e non mancano inserti di lingue diverse dal
fiorentino: veneziano, senese, napoletano, ecc. Il Decameron, perciò, pur essendo destinato a diventare un modello per
la lingua esibita nella cornice (parte esterna in cui prende parola in narratore), è anche una ricca miniera di moduli di
59
parlato, che furono molto apprezzati dal vastissimo pubblico a cui l’opera si rivolgeva, e assai meno dai teorici della
lingua successivi. La sintassi è complessa quindi nella cornice; è un autore caratterizzato da una complessa ipotassi.
La letteratura trecentesca non può prescindere dai tre grandi autori, dalle “Tre Corone” toscane, nascono imitatori
della poesia: Francesco da Barberino compone i Documenti d’amore (1313), un testo enciclopedico in versi in volgare
(e da lui stesso commentato in latino, all’interno dell’opera stessa) nel quale per la prima volta è menzionata la
Commedia dantesca, di cui cita brani dell’Inferno e dei primi canti del Purgatorio. A fine secolo, Antonio Pucci scrive
il Centiloquio, la trasposizione in terzine della Cronica di Giovanni Villani: unisce l’imitazione dantesca al gusto per
la narrazione storica, che costituiva il maggior contributo alla prosa in volgare. Relativamente alla prosa, i generi più
importanti sono appunto la cronaca, o racconto storico, nel quale si distinguono Giovanni Villani e i suoi continuatori,
il fratello Matteo, e il figlio di questi, Filippo; e la predicazione, un genere di scritto-parlato, o di parlato-scritto, in cui
eccelle fra Giordano da Pisa. Le altre aree italiane si distinguono per una produzione scientifica comunque intensa.
Un’opera interessante sono: il volgarizzamento del De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, fatto da Vivaldo
Belcalzer, mantovano, o le palermitane formule magiche per guarire i cavalli. Si diffonde la pratica di scrivere in
volgare gli statuti cittadini: nei testi allegati si potranno leggere due brani che mostrano l’evoluzione della lingua a
Perugia e a Sassari nella prima metà del Trecento. Merita infine un commento a parte la Vita di Cola di Rienzo,
volgarizzamento dal latino compiuto dallo stesso autore (purtroppo anonimo: ci sono varie attribuzioni, tutte insicure),
di area romana. Il testo è databile circa al 1360 ed è uno dei più belli scritti nel XIV secolo.
A ciascun’alma presa e gentil core, Dante
È la poesia d’esordio di Dante, che chiede un parere riguardo a questa cosa che ha scritto: racconta un sogno in cui
Amore tiene in braccio questa donna, che mangia un pezzo del cuore di Dante. Non fa sentire un ritmo serrato, il verso
e la sintassi non corrispondono. Erano passate 3 ore dal cuore della notte ed improvvisamente gli appare Amore in
sogno; questo gli reca orrore e fastidio. Amore aveva tra le braccia questa donna dormiente, che si sveglia e mangia
questo suo cuore, che bruciava. Dante chiede cosa pensino le persone di questo sogno. Cavalcanti risponde dicendo
che è come se la donna consumasse il cuore dell’amato, gli risponde anche un altro uomo che gli indica di andare dal
dottore perché probabilmente è malato e sta delirando. Questa poesia rimane alla storia come la poesia delle tensioni
aggressive tra poeti, che si rispondevano anche in rime.
Così nel mio parlar voglio esser aspro, Dante
Dante poi evolve: questa poesia mostra rime della poesia provenzale, con contenuti blasfemi riguardo alla magia. Il
poeta paragona la sua donna ad un “petra”, una pietra che è simbolo di un legame sofferto, e di una personalità dura
ed inscalfibile come il “diaspro” (v. 5); la stessa amata lo colpisce poi frecce che divengono “colpi mortali” (v. 10) per
lo sventurato poeta. In netta antitesi con ogni dogma stilnovista, la donna-petra rifiuta a Dante qualsiasi clemenza (vv.
18-19), ed anzi quasi si compiace del tormento del poeta, cui viene meno anche la capacità stessa di comporre poesia.
Dante sa poi essere violento (come si vede in anche alcuni punti della Commedia), dicendo proprio che se potesse
prendere la donna per i capelli, la frusterebbe da mattina fino a tardo pomeriggio, senza essere né pietoso né cortese.
Si vuole vendicare della sua sofferenza d’amore. Guarderebbe la donna fissa negli occhi per vendicarsi, poi con
l’amore farebbe la pace con lei. L’ultima strofa è invece la dedica della poesia, alla donna.
Vita Nuova, Dante, estratti
Si racconta una storia diversa, si abbandona la strada dell’amore che fa soffrire e prende piede la riflessione
dell’amore cristiano, della Caritas che si esprime come fratellanza o sorellanza. Il nome del testo viene subito spiegato
da Dante stesso: la prima volta che incontra Beatrice è a 9 anni, ma non ricorda bene. Quel punto però per lui è l’inizio
della sua vita nuova, perché Beatrice rappresenta per lui la salvezza. Vuole raccontare la morale derivante
dall’esperienza con Beatrice. Dante cuce insieme i pezzi del racconto: mette le sue poesie in antologie, ma spiega
anche perché le ha scritte e la circostanza alla base; sono tutte nate da episodi della sua vita in cui era con Beatrice.
Racconta del valore della sua donna molto spesso. Il lettore poi non viene mai lasciato sprovvisto di commento, Dante
spiega al lettore come deve leggere la poesia e lo sprona, lo stuzzica anche a volte. Nel 30esimo estratto si annuncia la
morte di Beatrice, improvvisamente propone un versetto dell’Apocalisse. Dante non racconta della sua morte, per tre
motivi: nel primo capitolo disse che voleva raccontare della Vita Nuova (e non della morte), poi non potrebbe farlo
con parole umane per spiegare il mistero della morte, ed infine, se anche fosse capace di farlo, non lo potrebbe fare lui
come poeta > ne ricaverebbe gloria lui, controsenso. Inoltre, si presenta spesso il numero 9: fanno parte della tipica
concezione medievale della numerologia. Il 43esimo è l’ultimo testo: Dante soffre e una donna lo vede, soffrono
60
insieme attraverso una finestra. Lui vorrebbe iniziare una nuova storia d’amore, ma non si cura di questo sentimento e
decide di continuare questo percorso nella Caritas. Nel Purgatorio, quando Virgilio sparisce e Dante incontra Beatrice,
lei stessa lo rimprovera e lo chiama per nome: cosa molto trana nel medioevo, perché nessuno poteva mettere la sua
firma sulla sua opera; inganna però il lettore attraverso le parole della donna amata. Lei dice che questa Vita Nuova di
Dante non aveva segnato un grande ravvedimento, ma lo prende nel suo peccato > Dante ha condannato Paolo e
Francesca per le loro pene d’amore, allora è come se condannasse anche la sua stessa storia di pena d’amore. Dante si
è costruito anche e quindi una biografia romanzesca, sulla quale gioca nelle sue opere. Al di là di questo, nell’ultimo
testo della Vita Nova si promette di non parlare più di Beatrice. Termina con una frase in latino, la Vita Nuova viene
poi messa nei libri proibiti perché la figura di Beatrice ha un canone angelico che diventa troppo per la chiesa.
Convivio, Dante, estratti
La sintassi è molto complicata e difficoltosa, ci sono parti in cui manca il testo. Ci sono molti nomi e catalogazioni.
Mette anche una traccia: fa capire che è lo stesso autore della Vita Nuova. È un trattato più filosofico, rispetto alla Vita
Nuova, che è per lui un’opera giovanile. Lui non rinnega ciò che scriveva lì, ma nel Convivio mostra la sua maggiore
maturità. Spiega che il senso letterale delle cose sarà alla base, poi fa riferimento all’aspetto morale e al senso ancor
più complesso, ossia il senso anagogico, che posseggono le Sacre Scritture (motivo per cui anche questo testo è stato
proibito) > il senso anagogico diventa la verità. Il credere al dogma, trasposto alle canzoni liriche di Dante, diventa
blasfemo per la chiesa.
Lezione 24, 3 dicembre 2021
Commedia, Inferno, Canto V, Dante
È la versione di un filologo del 2000, è il canto di Paolo e Francesca. Ci sono molte forme notevoli che riguardano il
fiorentino o comunque casi particolari della lingua, tra cui primaio invece che primario, luoco invece che loco
(siciliana, in toscano dittonga) oppure l’inversione di pronome e verbo: si tratta di una regola dell’italiano antico che
impedisce al pronome di stare a inizio frase, ma deve essere enclitico, quindi attaccato al verbo. Anche la parola
peccata è un latinismo, e fa riferimento alla parola peccato. Ancora cingesi, col pronome enclitico; la forma vol al
posto di vuol. Oppure l’uso dell’articolo lo suo fatale andare, questa regola dell’italiano antico non è mai stata
grammaticalizzata: mentre le tre corone vengono imitate, non viene del tutto imitata la lingua dai contemporanei
perché la sanno già usare. La grammaticalizzazione della lingua avviene su piani diversi e con idee diverse. Questo
articolo lo, mentre ad oggi ci viene insegnato che si usa in certi casi, in italiano antico il suo uso dipendeva dal suono
che lo precedeva (a differenza di oggi che si usa in base al suono che lo segue: per lo meno, per lo più – in passato
avrebbero detto per il meno, per il più. Ad oggi si usa questa forma perché è un relitto dell’uso dell’italiano del ‘300).
Una lingua si compone quindi di fenomeni che si tramandano o meno nel tempo. C’è poi l’espressione le dolenti note,
che è diventata un’espressione dell’italiano contemporaneo derivante da Dante; così come fare tesoro di, sempre
inventata da Dante nel Purgatorio. Oppure ancora: spirti, ossia spiriti, si tratta di una forma sincopata > si riduce il
corpo di una parola attraverso l’eliminazione di un fono. Voi per vuoi, allotta per allora (forma antica toscana ad oggi
scomparsa), biasmo per biasimo (non è una forma sincopata, anche se si potrebbe ricondurre a spirti; in realtà però si
deve fare riferimento all’etimologia della parola. Spirti viene dal latino spiritus, mentre biasmo viene dal francese
blasmé, se oggi noi diciamo biasimo non facciamo più riferimento alla forma sincopata, ma all’epentesi, cioè
all’aggiunta di suono all’interno di parola). Oppure anche forme del fiorentino genuine, come truovo, priega. Solo
quando la vocale è tonica può dittongare in questo modo. Il filologo che ha analizzato questo testo si è reso anche
conto che il testo è stato letto in tante versioni diverse, in base a quanti errori venivano fatti da chi possedeva quella
versione. Ci sono anche delle rime siciliane: sono 7 i casi in cui Dante le utilizza, maggiormente nell’ Inferno. Non
dobbiamo però abbinare lo stile alla cantica > in questo canto dell’Inferno il registro è poetico ed elevato. Prevale un
registro basso per molti personaggi dell’Inferno, ma non per tutti. Poi però ci sono anche scelte di stile particolari:
come la ripetizione della parola amor nei versi in cui parla Francesca.
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: la parola Galeotto è il nome proprio di un autore francese, che scrisse questo libro;
al tempo il nome dell’autore era ricollegato al nome dell’opera.
Ci sono anche vari polimorfismi che vengono grammaticalizzati, stabilendo la duplicazione di parole tra la forma
prosastica e quella poetica. L’ultimo verso del canto è fatto di bisillabi, che dà un certo ritmo. Alla fine, non usa la
parola cadavere, ma corpo morto: perché è un latinismo che a quell’epoca non esisteva ancora, il corpo morto si
chiamava solo così, non esisteva ancora cadavere, che arrivò in italiano dopo.
61
Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, estratti
Primo testo sembra quasi una denuncia di quello che non sarà il canzoniere, sembra prenderci in giro. Attua
espressioni di modestia verso sé stesso. Ci sono allitterazioni (ripetizioni di uno stesso suono, qui quasi
onomatopeico). Vergogna è una parola tematica molto ripetuta > si vergogna di essere preso in giro perché Laura non
lo ricambia. Poi, si presenta in un altro sonetto (Solo e Pensoso), la dittologia (coppia di aggettivi, nomi o verbi, che
tutti gli copieranno: Solo e pensoso (…); monti e piagge) e dei chiasmi (ultimo verso, incrocio, corrispondenza del suo
sentimento con quello di Amore personificato). E poi ancora nei Capei d’oro a l’aura sparsi: Laura è bionda, Beatrice
non si sa: Dante non fa mai parola del suo aspetto fisico, la stilizzazione della figura femminile è tale e non ci sono
descrizioni fisiche, mentre Petrarca è uno dei primi a farlo. Riprende il paradigma della donna angelicata. C’è una
stilizzazione degli oggetti: la rosa, ad esempio, era sempre o bianca o vermiglia: è tutto molto simbolico; poi con
l’ingresso in una fase successiva si da uno sguardo realistico > l’angelo coi capelli biondi di Petrarca.
Petrarca viene riscoperto nell’800 da Rossetti, che si adoperò per far arrivare a Trieste dei suoi manoscritti. Perché
Trieste? Perché sia lui che Dante sono intesi come i poeti politici, Dante e la sua polemica vs Firenze; Petrarca vs
coloro che tengono divisa l’Italia in tanti staterelli con dei giochi di potere. Inoltre, Trieste non era italiana
politicamente. Ricorda guerre civili passate, fa riferimenti che richiamano il presente, ma applicabili a molte epoche.
Alla fine, fa un auspicio ai posteri: è necessario che tu (la canzone) diffonda il tuo significato tra le persone che
vogliono fare guerra, perché si deve fare pace (bisillabo in chiusura: pace, pace, pace).
Giovanni Boccaccio, Decameron
Nel proemio: sintassi complicata (inversioni, subordinate fino all’ottavo livello). Se però il narratore vuole coinvolger
e il suo pubblico, non può usare questo stile, che poi diventa più semplice e varia a livello di registro in base alla
situazione comunicativa. Dedica una novella a Cavalcanti, al quale viene fatto uno scherzo. Ci sono forme del
fiorentino moderno, la e (plurale, come se fosse una i attuale). Leggiadrissimo: non ha una connotazione positiva per
Dante, indica qualcosa di superficiale; tende a caricarsi di positività col tempo, con Boccaccio è già più positivo.
Riassunto: Un giorno, vicino a san Giovanni, dove erano radunati molti sarcofaghi, la brigata, vedendo Cavalcanti
camminare, decise di disturbarlo. Gli chiesero cosa avrebbe ottenuto dopo aver dimostrato che dio non esiste. Guido
gli rispose che a casa loro avrebbero potuto dire ciò che volevano, e se ne andò. La brigata cominciò a prenderlo in
giro chiamandolo stolto, ma Brunelleschi gli rispose che gli stolti erano loro poiché Guido, con belle maniere, li aveva
presi in giro. L'uomo, infatti, voleva dire che la casa dei morti era proprio la loro, poiché erano ignoranti. Da quel
momento nessuno prese più in giro Guido e considerarono Betto un intelligente cavaliere.
Poi c’è anche una novella in una lingua molto bassa e volgare, la storia del prete da Varlungo. Nella descrizione ci
sono elementi di basso registro. Ci sono malapropismi del lessico giuridico.
Francesco da Barberrino, Documenti d’Amore, estratti
È l’autore che recupera per primo Dante e recupera in poesia alcuni precetti morali che erano in prosa, tra cui 11 cose
che gli uomini fanno e non dovrebbero fare: tra cui disertare la battaglia, spendere i soldi per sé stessi quando
andrebbero alla città, coloro che sono religiosi solo quando gli fa comodo, indugiare sulle proprie disgrazie, chi parla
solo di donne e rapporti sessuali, ecc. Questi difetti non sono però vizi delle donne. È particolare l’alternanza
dell’endecasillabo settenario.
Antonio Pucci, Centiloquio, estratti
Anche lui imita Dante, e scrive un canto sulla sua morte. Lo celebra come fosse un profeta, la scrittura è profana!!!
C’è una serie di muse che interpella e che si rammaricano di Dante.
Fra Giordano da Pisa, Predica
Si prende un passo del vangelo: spiega questo passo attraverso 4 parole; ossia il fatto che in primo luogo ci si debba
fondare sulla figura di cristo, avere fede in lui (porta anche un esempio con lettura allegorica e poi realistica, porta
esempi di chi si fonda su cose sbagliate e non sulla figura di Cristo).
Giovanni Villani, Nuova Cronica
Riprende Boccaccio, le sue storie.
62
Ci sono poi altri documenti giuridici in volgare del tempo, oppure documenti nei quali si spiegano azioni quotidiane
come, per esempio, guarire un cavallo infortunato, ecc.
Lezione 25, 9 dicembre 2021
Il Quattrocento
Si tratta di un secolo abbastanza trascurato, schiacciato tra le tre corone e le figure del 500, tra cui Ariosto e Tasso. È
però il secolo in cui si afferma la forza modellizzante di Dante, Petrarca e Boccaccio: chiunque voglia pubblicare delle
opere deve fare i conti con queste tre personalità della letteratura. Boccaccio diventa un modello per la prosa in
generale, letteraria ma anche filosofica e trattatistica. Dante invece resta un modello difficile da eguagliare, molti
hanno tentato: la poesia narrativa si trasferisce in un altro sistema di articolazione in versi, ossia l’ottava narrativa,
forse inventata da Boccaccio stesso, che poi ha assunto una modalità detta ‘canterina’: prevedeva infatti un’esecuzione
cantata e recitata. Lo stesso nome dei generei letterari (sonetto, ballata, canzone) ci indicano la modalità di
trasmissione.
Il ‘400 viene definito come secolo dell’umanesimo, da un lato, con una dedizione aggiunta dei letterati verso il latino;
d’altra parte, però il volgare veniva considerato come una lingua svilita, con dei modelli letterari poco vivi e pronti.
Per questo il latino aveva assunto maggiore importanza, era la lingua della cultura e della letteratura. Nel ‘600 si
arriverà poi ad una rigida distinzione tra le lingue, dove ogni lingua avrà una materia specifica. Salutati e Valla
chiamavano le canzoni in volgare come cantiunculas, ossia ‘canzoncine’.
Fu però importante la discussione sulla nascita del volgare, che coinvolse Biondo Flavio e Leonardo Bruni. Secondo
Biondo Flavio al tempo degli antichi si parlava solo il latino, e il volgare nacque dalla sua corruzione per opera dei
popoli barbari, in particolare dei Longobardi; per Bruni esistevano due livelli di lingua latina, uno colto e uno
popolare, e l’italiano si sviluppò da quest’ultimo, senza che i “barbari” avessero un ruolo nel processo. La tesi di
Biondo Flavio ottenne grandi consensi, tra cui il favore di Pietro Bembo, che la riprende nel secolo seguente nelle
Prose della volgar lingua (1525). La tesi di Bruni fu travisata dai contemporanei, che arrivarono a credere all’esistenza
di un italiano parlato fin dai tempi antichi. Il rilancio del volgare, e il preludio a quello che sarebbe poi stato chiamato
Umanesimo volgare, si deve a Leon Battista Alberti, grande architetto e convinto teorico della lingua volgare. Alberti
scrisse diversi trattati in una lingua nobile e ricca di latinismi, sia lessicali sia sintattici. Ad Alberti si deve la prima
grammatica della lingua toscana (oggi conosciuta come “grammatichetta vaticana”), scritta attorno al 1440 ma senza
alcuna fortuna presso i contemporanei. Il toscano di Alberti è legato all’uso contemporaneo e non all’imitazione di
modelli letterari: ma la grammatica dimostra che il volgare ha una struttura ordinata. Nel 1441 Alberti organizzò il
Certame coronario, una gara poetica in lingua volgare; tuttavia la giuria, composta da umanisti, ostacolò il progetto e
decise di non assegnare il premio per indegnità del volgare. Si dovette attendere la signoria di Lorenzo de’ Medici, dal
1469, perché il toscano si affermasse e fosse promosso culturalmente, anche grazie al suo maestro Cristoforo Landino
e al segretario Angelo Poliziano Landino pubblicò un commento moderno alla Commedia dantesca e nel 1476
pubblicò una traduzione della Naturalis historia di Plinio, un testo difficile perché ricco di parole tecniche: la lingua
toscana era ormai matura per ogni argomento.
Nello stesso anno Lorenzo incontrò a Pisa Federico d’Aragona, erede al trono di Napoli, e nell’anno successivo gli
inviò un prezioso manoscritto di poesia italiana dai siciliani (toscanizzati) fino a Lorenzo stesso. È nota come
Raccolta aragonese. Va notato che, sebbene da qualche anno si fosse diffusa la stampa, invenzione che avrebbe
radicalmente cambiato la modalità di diffusione della cultura, Lorenzo decide di inviare un manoscritto come regalo di
rappresentanza. Alla corte medicea il volgare è anche un colto esercizio letterario: accanto alla scienza, ai trattati e alla
lirica tradizionale viene praticato anche lo stile comico, popolare e realistico. Lo stesso Lorenzo è autore della Nencia
da Barberino, un testo ricco di contenuti e parole popolari.
Da Boccaccio in poi si era diffuso il cantare cavalleresco, un genere di poema narrativo in ottave che godeva di grande
fortuna e veniva recitato dai cantastorie nelle piazze, per un pubblico medio-basso. Anche questo genere viene
riveduto e trasposto su un piano colto, grazie a Luigi Pulci e al Morgante, concluso all’inizio degli anni Ottanta del
secolo. Si tratta di un testo comico, di una parodia del genere. Importanti sono anche le Stanze per la giostra di
Poliziano, un altro poemetto in ottave (che restò incompiuto) creato dal poeta combinando tessere lessicali rare, prese
da fonti letterarie e volgari. Si tratta non esattamente di un “centone”, cioè di una composizione di scarsa originalità e
frutto di copia, ma piuttosto di un gioco intellettuale, che sollecita il lettore o l’ascoltatore a ricercare la eco dei
precedenti citati.
63
I testi in prosa, di ogni genere, sono ricchi di latinismi, sia grafici sia lessicali. Da varie aree geografiche provengono
testi ancora abbastanza diversi nella forma, anche se in molte aree si tende al fenomeno del conguaglio linguistico.
L’insieme di caratteristiche grafiche della lingua riferita a un territorio, o a un luogo di produzione, si chiama
SCRIPTA. Le cancellerie sono i principali produttori di lingua scritta, e sono dunque i punti dell’atlante in cui si
formano comportamenti scrittori più fissi. Vengono cioè eliminati i tratti più locali, e le lingue tendono ad
assomigliarsi su basi regionali, o sovraregionali: si formano le lingue di koinè. Presso le corti e presso le cancellerie si
assiste dunque a azioni di unificazione linguistica, sempre parziali: il volgare è usato per la corrispondenza e per la
stesura di atti e decreti, cronache, scritture mercantili, ecc. Le principali corti sono padane: Milano, Mantova, Ferrara,
ma anche Venezia e Urbino. Volgare e latino si affiancano, e il volgare prende dal latino molte parole che gli servono
per descrivere situazioni ufficiali.
Il Quattrocento è secolo ricco di esempi di letteratura religiosa: il genere delle laude si espande anche al Nord; le sacre
rappresentazioni sono un genere di letteratura di grande successo nelle piazze; la predicazione è attività
importantissima per la diffusione del volgare (Bernardino da Siena, Bernardino da Feltre, Savonarola, quest’ultimo
obbligato a toscanizzarsi).
Come accennato, dagli anni Sessanta del secolo si diffonde la stampa, soprattutto a Venezia (con un rapporto di 3 libri
veneziani su 4 totali in Italia, fino a metà del Cinquecento). I libri stampati entro il 1499 si chiamano INCUNABOLI,
e sono principalmente in lingua latina. Il primo libro stampato in volgare arrivato fino a noi è un’edizione dei Fioretti
di san Francesco (1469), probabilmente stampato a Roma. I primi assoluti sono un Cicerone e un Lattanzio datati
1465 (Subiaco). Il primo Canzoniere petrarchesco è del 1470, mentre Decameron e Commedia vanno sotto il primo
torchio nel 1472. La prima edizione di un testo è chiamata editio princeps, e solitamente è importante perché si serve
di un antico manoscritto. La vicinanza di latino e volgare condusse a esperimenti noti con i termini di macaronico e
polifilesco.
Il macaronico consiste nella deformazione dialettale di parole latine, e nella commistione di parole plebee e di una
struttura grammaticale latina (oltre che retorica: si usano gli esametri di stampo virgiliano). L’effetto è ovviamente
comico, straniante. Il principale autore di macaronico è Teofilo Folengo, autore del Baldus.
Il polifilesco o pedantesco non è comico, ma è un processo di latinizzazione del volgare portato all’esasperazione. Nel
1499, a Venezia, il grande editore Aldo Manuzio pubblicò la splendida edizione della Hypnerotomachia Poliphili
‘guerra d’amore in sogno dell’amatore di Polia’. È certo il più bel libro dell’Umanesimo italiano, scritto in una lingua
stravagante e rara, che ci testimonia come avrebbe potuto essere la lingua letteraria italiana.
Nelle biblioteche degli uomini del Quattrocento compaiono le Tre Corone, molti testi latini, un po’ di testi francesi. A
Milano si era diffuso il culto dei toscani, grazie a Filippo Maria Visconti e a Ludovico il Moro. La letteratura volgare
vede affermarsi Matteo Maria Boiardo, conte di Scandiano, che pubblicò a Ferrara L’inamoramento de Orlando, in
lingua di koinè padana, e gli assai più toscanizzati Amorum libri. Per ragioni cronologiche Boiardo non è sensibile
all’attività di Lorenzo de’ Medici, e dunque i suoi modelli sono petrarcheschi. Dell’Orlando non possediamo originali
e nemmeno le prime due edizioni! Lo leggiamo nell’edizione del 1487, giunta in un’unica copia, a testimonianza del
carattere popolare del testo, letto e consumato, e poi velocemente invecchiato con il sorgere di Ariosto. A Sud, con gli
aragonesi, fiorì una poesia di corte modellata su Petrarca. Il principale autore è il napoletano Jacopo Sannazaro, autore
della bucolica Arcadia, un prosìmetro (come la Vita nuova dantesca) che alterna poesie e prose. Quella di Sannazaro è
la prima prosa d’arte scritta fuori dalla Toscana, e in una lingua appresa da un non nativo. È anche il primo esempio,
di una lunga serie, di autore che rivede e corregge il suo testo cercando di migliorarne l’aspetto “toscano”: la prima
edizione dell’Arcadia è databile 1484-1486, la seconda 1504. Il libro ebbe fortuna italiana ed europea e fu imitato
anche nella lingua.
Lorenzo il Magnifico, Ove madonna volge gli occhi belli
È un sonetto molto aggraziato e stiloso, che aderisce alle norme di composizione petrarchesche. C’è un continuo
accoppiamento di nome-aggettivo (occhi belli, timide ninfe, bella bocca, ecc.).
Lorenzo il Magnifico, La Nencia da Barberino, estratti
Non necessariamente lo stesso autore adotta lo stesso registro, qui c’è uno stile più basso, con forme anche abbastanza
rustiche. C’è un accostamento tra la donna ed il cavallo. C’è l’idea di un fiorentino della campagna, non un fiorentino
64
aggraziato come nel sonetto precedente. La donna ha gli occhi neri, è una contadina, ha i capelli ricci (che non erano
una caratteristica di bellezza).
Angelo Poliziano, Stanze per la giostra di M.Giuliano de’ Medici, 1.1
Fa riferimento al quadro della Nascita di Venere di Botticelli. Il modello di bellezza di botticelli diventa modello di
bellezza nella società.
Pier Jacopo de Jennaro, Fra scogli in alto mar mostrar Carena
Sonetto, allude a Dante con la ‘nova Beatrice’. Lo stile è petrarchesco (dittologie); ma c’è qualcosa che non va dal
punto di vista linguistico.
Francesco Colonna, dall’Hypnerotomachia Poliphili
Non è divisa in paragrafi, richiede una certa continuità al lettore. È ricca di latinismi, tra cui luco, dal latino locum,
bosco. Lui si sforza di uscire dal bosco, nel quale vagava, diventando sempre più scuro. Questa lettura era solo per
pochi, coloro che conoscevano abbastanza bene il latino.
Jacopo Sannazaro, Arcadia, estratti
In endecasillabi, è un testo piuttosto lungo. Questa poesia, ritmicamente, è molto veloce, per la rima interna, che
velocizza proprio l’andamento e bilancia il fatto che è una poesia solo descrittiva, nella quale non accade nulla.
Matteo Maria Boiardo, Orlando innamorato
È irriducibile alla norma toscana. Si inizia subito con un presente di 2 persona in i, che è pienamente settentrionale +
altre desinenze invece toscane. Il grande successo di Ariosto, però, lo cancellerà.
Il Cinquecento
Il Cinquecento è il secolo della definitiva affermazione del volgare: lo dice la disputa linguistica, lo dicono i grandi
autori della letteratura, lo dicono le statistiche della stampa, che vedono il sorpasso dei libri in volgare nei confronti di
quelli in latino. È il secolo delle grammatiche e della regolamentazione del volgare: nei primi esperimenti si fondono
insieme lessico e grammatica, come nel caso de Le tre fontane di Niccolò Liburnio (1526) o del Vocabolario,
grammatica et ortographia de la lingua volgare di Alberto Acarisio (1543). Pur essendo stata ed essendo ancora viva
la speculazione linguistica, ai lettori premeva più di tutto l’aspetto pratico, la ricerca di concrete soluzioni ai problemi
di resa del toscano avvertiti da chi toscano non era, per non indulgere in dialettismi e latinismi.
Verso la metà del secolo tramontano dunque le lingue di koinè, i contaminati esperimenti di fusione tra parlata locale e
latino: essi verranno intesi ormai come prodotti dei semicolti, rozzi. All’alba del secolo l’editore più importante del
Rinascimento è il veneziano Aldo Manuzio, inventore nel 1501 del corsivo aldino (ancora oggi i caratteri corsivi sono
noti come italics), utilizzato per l’edizione tascabile di Virgilio e Orazio (collana di classici latini), ma anche per Le
cose volgari di messer Francesco Petrarca curate da Pietro Bembo, che introduce Petrarca tra i classici. Su questo
testo si sarebbe fondata, di lì a pochi anni, la riflessione di Bembo Tipografia e grammatica si rinforzano nella
razionalizzazione della lingua e dell’ortografia: compare l’apostrofo, ispirato alla grafia greca e destinato ad avere
fortuna nella scrittura della lingua italiana.
L’anno seguente (1502) Bembo cura per Manuzio le Terze rime di Dante Alighieri, cioè la Commedia; e intanto lavora
agli Asolani, una prosa filosofica. Bembo si ispira, per quest’opera, allo stile di Boccaccio: in particolare, allo stile
lussuoso e sintatticamente complesso della cornice del Decameron. E intanto inizia a scrivere la sua grammatica. Le
teorie letterarie e linguistiche, note come questione della lingua, stanno entrando nel pieno della discussione, di pari
passo con il crescere dell’industria tipografica. Il testo più importante nel dibattito saranno le Prose della volgar
lingua, scritte da Pietro Bembo probabilmente tra il 1502 e il 1512, ma pubblicate solo nel 1525 a Venezia per i tipi di
Giovanni Tacuino.
Non si tratta di una grammatica come oggi la intenderemmo: non è schematica e metodica, ma elenca varie norme
all’interno di un dialogo che sostiene anche una teoria complessiva. La situazione comunicativa è ambientata nel
1502: partecipano al dialogo Giuliano de’ Medici, figlio del Magnifico, che sostiene la continuità con l’Umanesimo
volgare; Federico Fregoso, che è esperto di storia del volgare; Ercole Strozzi, umanista e poeta in latino; Carlo
65
Bembo, fratello dell’autore, che espone le idee di Pietro Bembo difende, come volgare modello, il toscano letterario
trecentesco dei grandi autori, in particolare di Petrarca per la poesia e di Boccaccio per la prosa. Il punto di vista è
prettamente umanistico, tanto che Bembo ritiene i toscani svantaggiati rispetto agli altri parlanti, perché soggetti
all’uso di parole plebee. La lingua non è dunque acquisita dal popolo, dalla comunità dei parlanti, ma attraverso lo
studio dei modelli scritti della letteratura. L’impianto della riforma è dunque fortemente classicistico. Così come
Virgilio e Cicerone erano i modelli classici per il latino, tali erano per il volgare Petrarca e Boccaccio. Solo imitandoli
si sarebbe potuto riportare il volgare ai fasti del Trecento, alla sua “età d’oro”. La proposta di Bembo si impose; o, di
fatto, si era già imposta, perché in tutta Italia chi cercava di ampliare il proprio pubblico lo faceva toscanizzando, e in
particolare cercando di imitare le Tre Corone. L’imitazione ora poteva giovarsi di un libro di testo, e non doveva più
essere improvvisata e spontanea. Ma anche altre teorie circolavano, e alcuni letterati manifestarono posizioni
inconciliabili con il classicismo (ossia che esistono particolari autori che sono oggetto di imitazione).
Secondo Vincenzo Calmeta il volgare migliore era quello già in uso presso le corti, e in particolare presso quella
romana; il modello dei toscani poteva essere appreso e poi affinato a Roma, divenuta città cosmopolita.
I papi Medici, Leone X e Clemente VII, che regnarono tra il 1513 e il 1534, con un breve intervallo, favorirono infatti
lo scambio di culture, e dunque lo sviluppo di una lingua disponibile ad apporti anche non toscani.
Mario Equicola scrisse in una lingua “commune”, capace di accogliere vocaboli di tutte le regioni, ma non plebea e
anzi latineggiante. Di lingua “commune” parla anche Baldassar Castiglione nel Cortigiano (1528): non ci si poteva
limitare al fiorentino trecentesco, sarebbe servito anche l’esempio vivo. Ma Bembo indicò proprio nella disomogeneità
delle corti il punto debole della “teoria cortigiana” della lingua.
Gian Giorgio Trìssino riscoprì il De vulgari eloquentia di Dante e lo pubblicò in traduzione italiana (1529),
aggiungendovi di proprio il Castellano (stesso anno), in cui sosteneva che la lingua di Petrarca era non fiorentina, ma
italiana: Trìssino si appellava anche alla condanna del fiorentino fatta da Dante, e a cui credeva che Dante avesse
tenuto fede anche nella Commedia. Tuttavia, la maggior parte dei letterati non credeva possibile che Dante avesse
criticato in tale maniera il fiorentino; e non miglior fortuna ebbe la proposta di riforma ortografica di Trìssino, che
propose di introdurre nell’alfabeto i segni grafici di epsilon e omega per indicare le esecuzioni aperte di è e ò.
La principale risposta a Trìssino fu scritta da Machiavelli, che scrisse il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua.
In quest’opera dialogano Dante e Machiavelli: Machiavelli non sostiene che il De vulgari sia falso (come fecero molti:
Martelli, Gelli, Varchi, ecc.), ma presentò Dante in atto di fare ammenda per i propri errori. Il testo accusa anche i
maestri non toscani di lingua, e in particolare i “vicentini” (Trìssino era di Vicenza), e rivendica il primato linguistico
di Firenze contro le teorie dei settentrionali (Bembo era veneziano). Il Discorso, di cui anche in anni recenti alcuni
studiosi hanno tentato di dimostrare la non paternità machiavelliana, senza riuscirci, fu pubblicato però solo nel 1730,
e non ebbe dunque alcuna influenza nel dibattito. I fiorentini, nonostante la loro avversione alle teorie bembesche, non
riuscirono comunque a contrapporsi alla dilagante moda del classicismo e dell’imitazione del Trecento toscano.
Il mutamento principale è datato 1570, anno di pubblicazione dell’Hercolano di Benedetto Varchi. Varchi, fiorentino,
aveva conosciuto personalmente Bembo, e frequentato a Padova l’Accademia degli Infiammati. Poiché repubblicano,
fu esiliato al ritorno dei Medici e poi graziato nel 1543. Da quella data introdusse a Firenze il bembismo, riuscendo a
scongiurare il pericolo di un’emarginazione di Firenze dalla “questione della lingua”. Claudio Tolomei, nel frattempo,
con il Cesano (1555), esaltò il senese e promosse un modello toscano, e non solo fiorentino. Gli sforzi di rilettura di
Varchi finirono per tradire il classicismo bembiano, privilegiando il parlato e il fiorentino vivo, o per lo meno
affiancandolo all’ideale della lingua scritta teorizzato da Bembo. Accanto ai grandi scrittori esisteva perciò un’autorità
popolare.
Più di tutto, però, faceva presa sui lettori la disponibilità di uno strumento normativo pratico. Furono compilati
vocabolari e grammatiche, fin dal 1516, quando Francesco Fortunio pubblicò le Regole grammaticali della volgar
lingua, un’opera davvero utilizzata almeno fino all’uscita delle Prose. Nel 1550 Lodovico Dolce pubblicò le
Osservazioni nella volgar lingua; nel 1562 Francesco Sansovino fece uscire le Osservationi nella lingua volgare,
ripubblicando Fortunio, Bembo, Acarisio, Jacomo Gabriele e Rinaldo Corso. Molte cose uscirono a Venezia, e quasi
nulla a Firenze, dove non c’era necessità di grammatiche. Fa eccezione la grammatica di Pierfrancesco Giambullari
(1552), pubblicata con il titolo De la lingua che si parla e scrive in Firenze e di scarso successo.
Lezione 26, 10 dicembre 2021, professor Ondelli, l’italiano delle traduzioni
66
Lezione 27, 15 dicembre 2021
Basterà ricordare, per dare conto del successo dell’opera di Bembo, che Ludovico Ariosto pubblicò tre edizioni del
suo poema, nel 1516, nel 1521 e nel 1532, aumentando via via il grado di toscanizzazione e ispirandosi direttamente
alle Prose, e a personali discussioni con Bembo, citato anche nell’Orlando furioso, 46 15: «Là Bernardo Capel, là
veggo Pietro / Bembo, che ’l puro e dolce idioma nostro, / levato fuor del volgare uso tetro, / quale esser dee, ci ha
col suo esempio mostro»
Il Cinquecento è anche il secolo delle Accademie: nel 1540 erano nati gli Infiammati a Padova: un frequentatore era
Sperone Speroni, autore di un dialogo Delle lingue (1542), che affrontava con un certo relativismo la questione della
scelta del volgare: per Speroni ogni lingua era buona, purché servisse a diffondere la cultura e la filosofia. Nel 1541 fu
la volta dell’Accademia fiorentina, divenuta presto organo ufficiale del duca di Toscana Cosimo de’ Medici; ma nel
1582 fu fondata l’Accademia della Crusca, ancora oggi attiva. Dal 1583 Leonardo Salviati aizzò una ferocissima
polemica contro Torquato Tasso e il suo stile epico e si impegnò a “purgare” il Decameron dei tratti censurabili
(1584-86). Già nel 1573 i Deputati dell’Accademia fiorentina avevano pubblicato un’edizione censurata, ma si ritenne
opportuno aumentare la portata dei “tagli” con una seconda “rassettatura”. La Crusca si occupò poi di Dante,
pubblicandone una nuova edizione nel 1595 e celebrandolo come “la migliore parte della nostra favella”, in aperta
polemica con le posizioni classicistiche. L’Accademia dunque si rafforzò filologicamente. Il lessico della prosa si
ampliò enormemente nel XVI secolo: basterà citare gli esempi del volgarizzamento del De architectura di Vitruvio da
parte di Cesare Cesariano, lombardo; delle Vite di Giorgio Vasari e dell’autobiografia di Cellini per la trattatistica
d’arte; della traduzione degli Annali di Tacito da parte di Bernardo Davanzati (1596-1600), in una vera e propria gara
di concisione con il modello (proprio mentre iniziavano le schermaglie con i francesi circa le possibilità della lingua
italiana); del Principe di Machiavelli per la saggistica politica-cancelleresca. Enorme è poi l’importanza, per il lessico
e per i contatti tra italiano e altre lingue, dei resoconti dei navigatori e degli esploratori nei nuovi mondi. Il principale
compendio sono le Navigazioni e viaggi (Venezia, 1550-59) curate da Giovan Battista Ramusio.
La commedia si rivela nel Cinquecento il genere ideale per la pratica del plurilinguismo e dei tanti volgari. Ariosto è
criticato da Machiavelli per la scelta di usare un toscano non parlato, e dunque insincero. La Mandragola del
segretario fiorentino è certo uno dei vertici del secolo letterario, così come la purtroppo anonima Veniexiana, in cui i
personaggi parlano uno spontaneo dialetto, diversificato in moltissime variabilità a seconda del registro e della cultura
dei parlanti. La poesia lirica segue i canoni del petrarchismo. Perfino Tasso, così osteggiato per la poesia epica, nella
lirica è quasi indistinguibile dagli altri autori. Nell’epica, Tasso è considerato oscuro, aspro, sforzato: usa troppo
latino, troppe parole forestiere e pedantesche. Inoltre, rende necessaria una lettura personale e non un’esecuzione in
pubblico.
Soprattutto, però, Tasso era un altro grande autore non fiorentino, e che oltretutto rifiutava di rifarsi al fiorentino (lui
diceva di scrivere in “lingua italiana” o “toscana”). Addirittura, Tasso chiarì che Dante era stato più fiorentino e meno
poetico di Petrarca, che invece era stato meno fiorentino e più poetico. Così, a volte, Tasso sceglie un latinismo
laddove starebbe un fiorentinismo, e fa arrabbiare Salviati. Il Concilio di Trento segna una svolta decisiva per l’uso
del volgare da parte della Chiesa: è vietato il possesso senza licenza di Bibbie in volgare. La predicazione, tuttavia,
doveva proseguire in volgare, per raggiungere i fedeli (e così l’omelia all’interno della messa in latino: sarebbe stato
così fino al Concilio Vaticano II, 1962-65). E perfino la predicazione non è immune dal bembismo: Cornelio Musso
era stato allievo di Bembo a Padova.
Il Seicento
L’Accademia della Crusca riuscì a restituire a Firenze il primato nella questione della lingua: grazie all’opera del
Vocabolario (pubblicato nel 1612 dall’editore veneziano Giovanni Alberti) la Toscana si riprese il ruolo di controllore
del codice letterario. Fin da subito il ruolo della Crusca fu criticato e anche avversato: ma per almeno due secoli essa
rimase il punto di riferimento di ogni questione linguistica, almeno fino a Manzoni. I lavori del Vocabolario iniziarono
nel 1591, quando gli accademici stabilirono quali testi spogliare e si divisero i compiti di schedatura e compilazione.
L’impostazione fu decisamente antibembiana: si presero in considerazione tutti gli autori del Trecento, perché la
forma (cioè la lingua) poteva avere qualità elevata anche in presenza di contenuti modesti. Malgrado la morte
prematura di Leonardo Salviati, avvenuta nel 1589, il gruppo dei cruscanti continuò a separare il fior di farina (la
buona lingua) dalla crusca (lo scarto, le forme linguistiche deteriori). Anche i numeri confermano che gli accademici
fornirono un lessico della lingua trecentesca, con molti esempi di forme dialettali fiorentine: assempro ‘esempio’,
calonaca ‘canonica’, brobbio ‘vergogna’ serqua ‘dozzina’. Un grande merito fu invece l’aggiornamento della grafia,
67
liberata da molte forme etimologiche e latineggianti. Nonostante le critiche, il Vocabolario divenne oggetto di
riferimento e di uso per i non-toscani: l’Accademia stessa fu legittimata come organo di controllo della lingua e si
pose l’obiettivo di aggiornare di continuo il proprio strumento: nel 1623 uscì la seconda edizione. Nel 1691 uscì la
terza edizione, la prima pubblicata a Firenze: era in tre volumi e mostrava un consistente aumento del numero delle
voci. Nel corso del secolo erano entrati nel gruppo alcuni scienziati, tra i quali Francesco Redi e Lorenzo Magalotti,
che iniziarono una timida apertura verso le voci “tecniche” (anche Galileo entrò nel canone degli autori spogliati). È
stato tuttavia scoperto, all’inizio del Novecento, il ruolo di falsario di Redi: per dare conto di voci diffuse nell’uso, ma
non attestate negli autori (ciò era all’epoca indispensabile per giustificare la presenza di una parola nel vocabolario)
finse di possedere manoscritti da cui traeva esempi, in realtà inventati da lui: si tratta soprattutto di forme suffissate in
-zione e -mento, di scarso uso letterario ma diffuse negli scritti pratici, ancora poco usati per fini lessicografici. Tra gli
oppositori il più immediato fu Paolo Beni, autore dell’Anticrusca, che uscì nello stesso anno del Vocabolario (1612):
la critica più forte riguardava il canone, e in particolare deplorava l’esclusione di Tasso dal novero dei citati. Beni, da
posizioni “cortigiane”, notava gli elementi plebei di Boccaccio, autore che considerava molto sopravvalutato.
Alessandro Tassoni, modenese e autore del poema eroicomico La secchia rapita, inviò alla Crusca una serie di
Postille, in cui criticava l’impostazione trecentista e il primato di Boccaccio: per esempio, esaltava lo stile di
Guicciardini, paragonabile a quello di Giovanni Villani. Propose una “marca d’uso” per distinguere voci attuali e voci
arcaiche, e con ironia traspose alcuni incipit letterari del “buon secolo” a documenti contemporanei. Il gesuita
Daniello Bartoli pubblicò nel 1665 un’opera grammaticale intitolata Il torto e il diritto del Non si può, aggiornata nel
’68. Bartoli è contrario al rigore della grammatica, e si esprime con gusto polemico e ironico, invitando ad
ammorbidire le regole.
Il Seicento è, per il volgare, un secolo decisivo per lo sviluppo del linguaggio scientifico. Personaggio centrale è
Galileo Galilei, toscano e inoltre attento alla divulgazione della scienza. I toscani sono senz’altro più sicuri, rispetto
agli autori delle altre regioni, nell’indicare oggetti, animali, piante, ecc. con i nomi. La prima opera di Galileo, il
Sidereus nuncius, è in latino. Poi il latino divenne la lingua dei suoi avversari, e Galileo scrisse in volgare il
Saggiatore (1623), confutando le tesi (scritte qui in latino) dei suoi oppositori. Il toscano di Galileo è di tono medio,
anche se a volte ci sono note di “colore” e qualche battuta, o perfino frasi idiomatiche. Gli elementi più colloquiali,
comunque, non intaccano il rigore logico della dimostrazione scientifica e la chiarezza dei termini. Galileo preferì non
coniare nuovi vocaboli, ma tecnificare termini già di uso comune. Si diffusero così i termini cannocchiale (cannone +
occhiale), macchie solari, leva, forza, momento, ecc., alcuni dei quali usati ancora oggi nella fisica. Entrarono inoltre
nell’uso scientifico molti grecismi nella lingua scientifica europea: telescopio, microscopio, termometro, barometro
(detto già tubo di Torricelli). Nel 1657 fu fondata a Firenze (Palazzo Pitti), da parte del cardinale Leopoldo de’ Medici
e del fratello granduca di Toscana Ferdinando II, l’Accademia del Cimento, la prima associazione scientifica a usare il
metodo sperimentale in Europa. Partecipavano alle sedute, tra gli altri, Torricelli e Viviani, allievi di Galilei. Anche
Redi e Magalotti furono soci dell’Accademia del Cimento; e di Galileo accentuarono il gusto per la narrazione
scientifica, anche con eccessi. Il motto dell’Accademia era “Provando e riprovando”.
Altro settore in cui l’Italia costituiva un esempio di eccellenza europea fu quello del melodramma, cioè dell’opera
lirica che unisce teatro e musica. La poesia, durante il Medioevo, era accompagnata dalla musica; ma il melodramma
vi unì il tentativo di riprodurre la tragedia greca, che era recitata con accompagnamento musicale. L’istituzione
fiorentina della Camerata dei Bardi (dal 1573) elaborò gli stilemi del nuovo genere, che presto raggiunsero gli altri
centri italiani, e in particolare Mantova e Venezia. Se culturalmente il melodramma fu destinato a un successo
straordinario, che ancora oggi persiste, l’aspetto linguistico è però meno innovativo. La lingua del melodramma si
inserisce nella linea petrarchesca, rivista attraverso Tasso (in particolare del suo poema pastorale Aminta): ci sono
molte duplicazioni e dittologie sinonimiche, concatenazioni, opposizioni.
Il Seicento non è considerato, in letteratura, un secolo di rilievo. Ma la lingua poetica ebbe un’evoluzione notevole
con Giovan Battista Marino, che allarga in misura rilevante il numero degli oggetti che possono essere trattati nel
verso. Metro e ritmo non sono rivoluzionati (qualche novità tassiana in fatto di accenti è però recepita); lessico, temi e
situazioni invece aumentano: per es., alla rosa si affiancano amaranto, acanti, clizia, anemone, croco... La prosa
scientifica in volgare costituisce un utile serbatoio anche per i poeti, che vedono moltiplicarsi la nomenclatura
disponibile per gli animali e le piante. Nella sua grande opera in ottave (ben 5123), Adone (1623), Marino descrive le
parti del corpo umano con un’attenzione anatomica senza precedenti nella poesia (nervi, pupilla), oppure spiega la
luna e perfino gli strumenti galileiani (cannone, cristalli).
68
Iniziò a fine secolo la cattiva fama del barocco, considerato a posteriori uno scadimento del gusto. Soprattutto durante
l’Illuminismo fu perpetuata questa fama, divenuta poi luogo comune: certo, è uno dei periodi più distanti dal classico e
dalla razionalità. Il gesuita Dominique Bouhours iniziò una polemica antiitaliana (e antispagnola) che sarebbe presto
culminata nella celebre querelle des anciens et des modernes. Bouhours, nel 1671, pubblicò un saggio in cui riservava
ai soli francesi la capacità di “parlare”: infatti, gli spagnoli “declamavano”, gli italiani “sospiravano”, i tedeschi
“ragliavano”, gli inglesi “fischiavano”. Il pregiudizio tradizionale dell’italiano “poetico” o “musicale” era così
ribaltato, esasperandone la sdolcinatezza. Il francese era invece lingua universale, cesariana e tacitiana per
caratteristiche.
Secondo Bouhours l’italiano (anche dopo Galileo!) era incapace di esprimere in modo ordinato il pensiero ed era
dunque buono solo per il melodramma. Nasceva il dibattito sul “genio delle lingue”: ogni idioma avrebbe una naturale
disposizione caratteriale, strutturale, per usi particolari e non per tutti. Purtroppo, la decadenza politica degli stati
italiani si accompagnava a una debolezza culturale. Nessuno, infatti, rispose in modo adeguato a Bouhours: solo gli
eruditi del primo Settecento tentarono una difesa, quando l’influsso del francese sull’italiano si fece molto rilevante.
Nel XVII secolo nasce anche la “letteratura dialettale riflessa” (secondo una fortunata definizione di Benedetto
Croce), cioè una letteratura consapevolmente scritta per allontanarsi dal toscano, restando fedeli alle tradizioni locali.
Tra i tanti autori che si potrebbero ricordare, il migliore è Giambattista Basile, napoletano di Giugliano, che pubblicò
il Cunto de li cunti (1634-36, postumo) un’opera favolistica in dialetto di straordinaria forza espressiva. Importanti
sono anche le opere teatrali in versi di Michelangelo Buonarroti il Giovane, pronipote del grande artista, che scrisse la
Tancia (1611) e la Fiera (1619), inserendosi nel genere rusticano toscano e usando moltissimi termini rari e inusuali.
Il Settecento
La crescita di prestigio del francese si impose sullo spagnolo, e anche sul portoghese, che aveva avuto un buon
successo tra i viaggiatori in terre esotiche nel Cinque e Seicento. Le lingue slave non avevano alcun prestigio
all’epoca, e scarso era l’influsso di tedesco e inglese, anche a causa del disinteresse degli inglesi per quello che
chiamano il “continente”. Così, gli scienziati inglesi (Newton) scrivevano in latino; e i filosofi (Locke) erano di solito
letti in traduzione francese; Leibniz scriveva in latino, o direttamente in francese. Voltaire scrive da Potsdam, nel
1750, che ovunque sente parlare francese. Magalotti, ambasciatore di Firenze a Vienna, scriveva nel 1675 che “ogni
galantuomo sapeva l’italiano”. Metastasio e Lorenzo da Ponte, alla corte absburgica, non avevano bisogno di imparare
il tedesco; invece Goldoni, a Parigi, deve necessariamente perfezionare il proprio francese. Il francese eredita dunque
dal latino la funzione di lingua universale: non è solo una moda, ma anche un’esigenza di comunicazione europea. Ed
è anche la lingua ufficiale di alcuni intellettuali del Nord Italia (Alfieri), che la aggiungono al loro dialetto. La
splendida Encyclopédie di Diderot e D’Alembert viene ristampata anche in Italia, a Lucca e a Livorno, con grande
successo: ed era in versione francese, non in traduzione (il che sarebbe forse stato superiore alle forze intellettuali ed
editoriali italiane). Nel 1784 uscì, per cura dell’Accademia di Berlino, il saggio di Antoine Rivarol intitolato De
l’universalité de la langue française. Al francese si attribuivano caratteristiche di razionalità dovute alla necessità di un
più rigido rispetto dell’ordine sintattico SVO, mentre l’italiano ha una posizione meno obbligata e la sua storia aveva
condotto a un abuso di inversioni.
Tra il 1729 e il 1738 uscì la quarta edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, ampliata ma pur sempre
ispirata al toscanismo cinque-seicentesco. Gli illuministi italiani reagirono con veemenza: celebre è la Rinunzia avanti
notaio al V. della C. scritta da Alessandro Verri, per conto dei milanesi che collaboravano alla rivista letteraria «Il
Caffè». Si tratta di un documento sarcastico, che critica il perdurare dell’attenzione esclusiva per la forma. La
posizione più avanzata dal punto di vista teorico è però quella di Melchiorre Cesarotti, che pubblicò nel 1785 il Saggio
sopra la lingua italiana, poi rivisto nell’88 e definitivamente nel 1800, quando ebbe il titolo definitivo di Saggio sulla
filosofia delle lingue. Molte idee di Cesarotti sono tanto moderne da essere ancora oggi scientificamente accettabili, o
perfino all’avanguardia nei confronti di rigurgiti puristici.
Poggiato su basi sensistiche di ispirazione francese, il Saggio comincia con alcune enunciazioni teoriche che poi
vengono spiegate. Si articolano in 8 punti principali:
1 - Tutte le lingue nascono e derivano: non ha senso il concetto di “barbarie” linguistica;
2 – Nessuna lingua è pura: tutte si compongono di elementi eterogenei;
3 – Tutte le lingue sono formate da combinazioni casuali di elementi, e non per progetto;
69
4 – Nessuna lingua può essere governata da un’autorità;
5 – Nessuna lingua è perfetta: tutte sono soggette a miglioramenti;
6 – Nessuna lingua è abbastanza ricca da non avere mai bisogno di nuove ricchezze (lessico, sintassi, ecc.);
7 – Nessuna lingua è inalterabile;
8 – Nessuna lingua è parlata in modo uniforme all’interno di una nazione
Cesarotti passa quindi a confrontare lingua orale e lingua scritta, attribuendo maggiore dignità allo scritto, perché
richiede maggiore riflessione ed è usato dai dotti. La lingua non è dunque esclusiva espressione del popolo, ma
nemmeno dei migliori scrittori, non è fissabile in un modello rigido di un secolo né regolabile da un istituto regolativo
(un “tribunal dei grammatici”). Queste riflessioni costituiscono ancora oggi il fondamento degli studi linguistici; su
altre questioni (formazione del linguaggio, significato delle onomatopee, ecc.) il pensiero di Cesarotti è invece
inesorabilmente invecchiato. La polemica del Saggio è però più articolata, e costruttiva, e potrebbe essere definita
“norma illuminata”.
Mentre gli illuministi del «Caffè» invocavano un’astratta libertà da ogni regola, Cesarotti affida la regola al “consenso
universale”. Tuttavia, ci possono essere casi di consenso non unanime. In tal caso, non valgono gli esempi storici e le
auctoritates riconosciute, ma si possono usare parole antiche tornate utili oppure inventare parole nuove. Per Cesarotti
il preziosismo arcaico non è utile alla lingua: lo sono di più i dialetti, malgrado la loro posizione in diastratia sia in
continuo abbassamento. Molto più cauto è l’atteggiamento di Cesarotti verso i forestierismi, ammessi con prudenza
per evitare di suscitare reazioni troppo polemiche. Cesarotti distingue un genio grammaticale e un genio retorico: il
primo deve essere conservato, il secondo adattato alle necessità. Ne consegue che le parole non guastano una lingua
finché non intaccano il primo livello.
La quarta parte del trattato ritorna sulla “questione della lingua”, con una proposta interessante e tipicamente
illuministica: l’istituzione di un Consiglio nazionale della lingua, o Consiglio italico, con sede a Firenze, incaricato di
rinnovare il lessico tecnico di arti e mestieri e delle scienze, anche con contributi regionali o locali, che sarebbero stati
vagliati anche attraverso un confronto con le altre lingue europee. Questo formidabile studio lessicografico avrebbe
portato a un vocabolario ampio, complessivo, e a uno ridotto destinato a usi pratici. Inoltre, il Consiglio avrebbe
dovuto progettare un piano di traduzioni di autori stranieri. A parte la futura pubblicazione del saggio di Madame de
Staël, sulla maniera e utilità delle traduzioni, uscito sulla rivista «Biblioteca italiana» nel 1816, le idee di Cesarotti
rimasero inascoltate, e si perse del tutto la portata europea delle sue riflessioni
Il didascalismo degli illuministi, e la diffusione del pensiero democratico, sollecitarono nel XVIII secolo un’attenzione
per l’educazione dei ceti subalterni. Anche gli stati italiani iniziarono a organizzare un sistema scolastico laico,
espellendo i gesuiti. La divisione politica, comunque, accentuava le diversità. Sorse poi una polemica contro il latino,
accusato di frenare il progresso dei commerci e dell’industria. Nel Lombardo-Veneto prese piede con Maria Teresa
d’Austria una politica di scolarizzazione nell’ambito di una classe di alunni. Padre Francesco Soave, traduttore di
Locke in italiano, fu anche autore di molti manuali per l’insegnamento dell’italiano (fu anche precettore di Manzoni).
Nel primo Ottocento Lombardo-Veneto e Piemonte istituirono le prime scuole comunali moderne, da cui sarebbero
derivate le scuole elementari italiane.
Comunque, non si arrivò all’unità linguistica: molti autori scrivono dell’esistenza di una lingua “mercantile”, o della
necessità di usare il dialetto per essere compresi nei propri luoghi di origine. Manzoni ricorda la modalità
settentrionale del “parlar finito”, aggiungendo una vocale ai termini dialettali (che di solito terminavano per
consonante). L’italiano suonava sempre un po’ letterario, troppo colto: non si poteva definire, come hanno fatto alcuni
studiosi anche recentemente, una ‘lingua morta’, ma suonava comunque come antiquato e poco aggiornabile. Ma, per
esempio, nei tribunali veneziani le arringhe erano pronunciate in una lingua illustre non lontanissima dal toscano.
Eppure all’estero l’italiano era apprezzato come lingua della musica, e usato in registri alti da molti scrittori. Pietro
Metastasio, e poi Lorenzo Da Ponte con i libretti mozartiani de Le nozze di Figaro (1786) Don Giovanni (1787) e Così
fan tutte (1790), eternarono la gloria dell’italiano per il melodramma. Carlo Goldoni non fu certo un teorico, ma
l’interesse per la lingua era in lui necessario: non esisteva in Italia un codice di conversazione informale, e dunque era
necessario scrivere in dialetto o fare dei pastiche. Goldoni rinunciò anche ai dettami della Commedia dell’Arte e delle
“maschere”, in cui ogni personaggio parlava nel proprio idioma locale, ed ebbe grande successo soprattutto con le
commedie dialettali. Dalla messinscena all’edizione delle commedie (da cui è tratto il brano) si elimina quindi, per es.,
70
il dialetto bolognese, sostituito da un italiano “lombardo” (cioè ‘settentrionale’) che ha tratti indefiniti, pescati dall’uso
regionale veneto e lombardo o anche dal francese.
Così scrisse Goldoni nel 1750: «Quanto alla lingua, ho creduto di non dover farmi scrupolo d’usar molte frasi, e voci
Lombarde, giacché ad intelligenza anche della plebe più bassa, che vi [a teatro] concorre, principalmente nelle
Lombarde Città dovevano rappresentarsi le mie Commedie. Ad alcuni vernacoli Veneziani, ed a quelle di esse che ho
scritte apposta per Venezia mia Patria, sarò in necessità di aggiungere qualche notarella, per far sentire le grazie di
quel vezzoso dialetto a chi non ha tutta la pratica. Il Dottore che recitando parla in lingua Bolognese, parla qui nella
volgare Italiana»
È importante notare che non ci sono preoccupazioni di purezza linguistica: la lingua di Goldoni non è mirata
all’eleganza, ma è viva e innovativa, in particolare nella sintassi molto semplificata, adatta alla rappresentazione del
parlato (ripetizioni di pronomi, dislocazioni, ecc.)
Nel 1690 era stata fondata a Roma l’Accademia dell’Arcadia, che aprì numerose “colonie” in Italia allo scopo di
diffondere un genere poetico pastorale e idillico, spesso irriso già dai contemporanei. I poeti che vi aderirono furono
molti, quasi nessuno rimasto famoso, e la produzione di versi fu imponente. L’Arcadia nacque come reazione al
barocco, e rifacendosi nuovamente a modelli petrarcheschi. In più aggiunse un continuo riferimento alla mitologia, nei
nomi di personaggi e luoghi, e un voluto e consapevole, nonché aristocratico, distacco dall’uso. La lingua dei poeti
arcadi (e anche di Metastasio) usa per esempio molti troncamenti, inesistenti in prosa, che sono utili per le arie e per i
settenari; dice brando e non spada, o talamo invece di letto. Solo con le avanguardie la poesia italiana si libererà di
queste affettazioni. Comunque, il Settecento è anche un secolo di poesia non lirica. Un esempio importante è il
didascalismo di Parini, che utilizza forme classiche (modificando tuttavia il lessico, che accoglie tecnicismi) per
fornire un insegnamento morale (nelle Odi ma anche nel Giorno). Ma anche gli oggetti comuni sono nobilitati.
Riguardo alla prosa, è rilevante lo sviluppo delle riviste letterarie: la «Frusta letteraria» di Baretti, il già citato «Caffè»,
ecc. Tuttavia, perfino i più accaniti oppositori della Crusca, come A. Verri, non sono del tutto coerenti: egli scrisse le
Notti romane, testo con ambizioni letterarie in cui fa sfoggio di latinismi e lingua oratoria, anche se effettivamente non
si potrebbe definire vicino alle prescrizioni dei cruscanti. Decisamente in controtendenza rispetto al diffuso
razionalismo è la prosa di Giambattista Vico. Allievo di Leonardo Di Capua, filosofo e scienziato fondatore di un
movimento arcaizzante a Napoli, Vico usa arcaismi e latinismi, in una sintassi ben lontana dall’equilibrio classico di
Bembo: alcuni periodi sono ricchissimi di subordinate, altri sono brevi e fulminanti. Originale è anche l’esito di
Vittorio Alfieri, autore del Misogallo (1799, poi 1814 in forma completa) in cui si scaglia contro la lingua francese.
Imparò il toscano attraverso una dura disciplina che si autoimpose, iniziando nel 1777 a scrivere la sua Vita in
italiano, dopo averla iniziata in francese. Le sue tragedie si allontanano dalla lingua comune, e sono molto spezzate
nella sintassi. Per il nostro gusto si leggono con molta difficoltà, ma già i contemporanei le trovarono aspre;
l’esperimento non fece scuola.
L’Ottocento
L’avversione per l’egemonia del francese, che ebbe risvolti politici rilevanti durante il periodo napoleonico, si
tradusse in un movimento che prese il nome di Purismo, esterofobo e antimoderno. I puristi tornarono a richiamarsi al
culto del Trecento toscano; il movimento ebbe un buon successo, malgrado i contemporanei sviluppi della filosofia
linguistica incarnati da Cesarotti. Il principale esponente del Purismo fu il veronese Antonio Cesari, che nella sua
Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana (1808) scrisse la celebre frase: «Tutti in quel benedetto
tempo del 1300 parlavano e scrivevano bene». Quindi, accanto ai grandi autori avevano valore anche le umili scritture
quotidiane, contabili e mercantili; ma dalle pagine di Cesari non si capisce esattamente in che cosa consista questa
“bellezza” della lingua. Una figura particolare fu quella del napoletano Basilio Puoti, maestro di Francesco De
Sanctis, che teneva a Napoli una scuola privata e il cui purismo era disposto ad accogliere gli autori del Cinquecento.
Un oppositore tenace del Purismo fu Vincenzo Monti, che nel 1813 definì Cesari, in una lettera privata pubblicata solo
alcuni anni fa, il “grammuffastronzolo di Verona”. In particolare, Monti criticò l’edizione del Vocabolario della
Crusca curata da Cesari tra il 1806 e l’11, nota come “Crusca veronese” e contenente solo voci ricavate dagli autori
del Trecento Monti poi allargò la propria protesta anche al vocabolario nella versione fiorentina, nella sua Proposta di
alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, uscita tra 1817 e 1824, con un’appendice del ’26, che
conteneva molte correzioni a errori compiuti dai lessicografi fiorentini
La riflessione linguistica più importante del XIX secolo fu però compiuta da Alessandro Manzoni, che in prima
persona provò la difficoltà di dover impiegare, per la comunicazione familiare, non la lingua italiana ma il dialetto, o
71
addirittura il francese. Le sue idee maturarono durante gli studi necessari alla stesura dei Promessi sposi, e diventarono
poi una teoria linguistica vera e propria, offrendo un nuovo modello. Il dibattito poi continuò anche dopo la sua morte,
e anzi alcuni scritti rimasti inediti per un secolo furono pubblicati dai filologi Poma e Stella solo nel 1974 con il titolo
Della lingua italiana: è un trattato a cui Manzoni lavorò per trent’anni di cui non fu mai definitivamente soddisfatto,
ma del quale pubblicò alcuni capitoli separatamente. Dal 1821 Manzoni iniziò la stesura del suo romanzo, intitolato
dapprima Fermo e Lucia, che non fu mai stampato. Qui faceva uso di una lingua “eclettica”, utilizzando un linguaggio
antipuristico che faceva spazio a milanesismi e francesismi in abbondanza. Già nel ’23, però, Manzoni si dichiarò
insoddisfatto dell’esperimento e passò a una fase che definì “toscano-milanese”, che condusse alla pubblicazione, a
dispense, della prima edizione dei Promessi sposi (1825-27), chiamata “ventisettana”. Manzoni imparò il toscano
attraverso i libri, e consultando il vocabolario di Cesari riempiendolo di annotazioni. In particolare, Manzoni si
lamentava perché non riusciva a capire con certezza, attraverso gli strumenti lessicografici, se le parole cercate erano
ancora in uso oppure no. Il suo concetto di “uso” non riguardava la letteratura soltanto, ma era molto più nuovo, vitale.
Nel 1827 Manzoni andò a Firenze, e poté ascoltare direttamente la voce dei parlanti. Manzoni disse di andare a
«sciacquare i panni in Arno», e il viaggio fu decisivo per la riflessione linguistica complessiva. Manzoni iniziò a
scrivere il trattato Della lingua italiana, ma il frutto del cambiamento fu prima di tutto una nuova edizione del
romanzo, pubblicata negli anni 1840-42 (sempre a fascicoli) e detta “quarantana”. L’ideale perseguito era una lingua
privata di latinismi, dialettismi ed espressioni letterarie arcaiche, modellata sul fiorentino dell’uso colto. Solo nel 1868
Manzoni rese pubbliche le sue posizioni linguistiche, esplicitandole: il ministro dell’Istruzione dello Stato italiano,
Emilio Broglio, che era un suo seguace, gli chiese di stendere una relazione riguardante le possibili strategie di
diffusione della lingua italiana tra il popolo. La questione della lingua diventava sociale. Manzoni scrisse allora
Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, nel contesto di varie opposizioni: Niccolò Tommaseo, dalmata, e
Raffaello Lambruschini, genovese, rifiutarono il primato fiorentino e la mancata considerazione di un canone di
scrittori, e anche altre voci si levarono contro la proposta. La posizione manzoniana aveva però il vantaggio pratico di
disporre già del modello del romanzo, una prosa colloquiale ma anche elegante, che non aveva precedenti nella storia
letteraria italiana e che era frutto di lunghe riflessioni linguistiche. Soprattutto, era una prosa finalmente libera dalla
retorica. Per molti scrittori divenne abitudine fare un viaggio a Firenze per ascoltare la lingua viva; e dopo la morte di
Manzoni molti suoi seguaci, interpreti più o meno coerenti del suo pensiero, furono vivaci nel prendere posizione nel
campo dell’educazione linguistica
Un esempio è quello di Edmondo De Amicis, noto per Cuore, che espose la dottrina linguistica ne L’idioma gentile
(1905), divulgando con esempi pratici ed esercizi l’insegnamento manzoniano (anche se non sempre in modo
coerente). Feroci oppositori furono invece Carducci, contrario all’uso letterario della lingua del popolo, e Croce,
avversario di ogni modello. Se fino al primo Ottocento il Vocabolario della Crusca era l’unico strumento disponibile
in ambito lessicografico, poi il secolo si arricchisce di una messe di strumenti. Uno dei più importanti fu il
Vocabolario universale italiano, della tipografia Tramàter di Napoli, che dava molto spazio alla lingua tecnica e a
definizioni specialistiche, simile a quelle delle odierne enciclopedie. Per qualità, il miglior dizionario del XIX secolo è
però il Dizionario della lingua italiana (1861-1879) di Niccolò Tommaseo, poi terminato da Bernardo Bellini
Benché il dizionario sia uno strumento per certe voci ancora importante e attuale, non mancano casi curiosi, cioè
parole per cui Tommaseo si lascia prendere dalla passione stendendo le definizioni e i significati. È un dizionario
storico, che, pur privilegiando il significato moderno delle parole, aggiunge anche l’evoluzione storica delle stesse,
con esempi d’autore Emilio Broglio e Giovan Battista Giorgini raccolsero il suggerimento manzoniano di compilare
un dizionario del fiorentino dell’uso vivo, e pubblicarono il Nòvo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di
Firenze (1870-97), sostituendo agli esempi d’autore delle frasi inventate, ed eliminando le voci arcaiche. Il Giorgini-
Broglio, però, non riscosse un grande successo: gli furono preferiti lavori simili e contemporanei, come il Rigutini-
Fanfani (1875) e il Petrocchi (1887- 91).
L’Ottocento è anche importante perché furono compilati tanti vocabolari dialettali, sull’onda del Romanticismo e della
riscoperta delle tradizioni locali, ma anche per via della nascente curiosità per i dialetti. Le idee manzoniane, o meglio
dei manzonisti, furono contestate da Graziadio Isaia Ascoli, lo studioso considerato il fondatore degli studi linguistici
e dialettologici in Italia. Nel 1873, lo stesso anno della morte di Manzoni, Ascoli avviò la pubblicazione della rivista
scientifica «Archivio Glottologico Italiano» con uno studio polemico che prendeva le mosse dal titolo del Giorgini-
Broglio, che si diceva “nòvo”, con il monottongo al posto del dittongo storico. Ascoli rifiutava di considerare
l’italiano una semplice riproduzione del fiorentino dell’uso vivo, ma anche di assecondare l’aspirazione alla lingua
unitaria: il panorama linguistico era fatto di tante varietà. Secondo Ascoli non era possibile controllare dall’esterno il
72
variare della lingua: ciò sarebbe stato possibile solo quando il paese fosse diventato moderno, e avesse creato da sé la
propria lingua d’uso. La lingua, secondo Ascoli, non esiste di per sé, ma è conseguenza di fattori extralinguistici.
Peraltro, la Toscana era economicamente stagnante, e Firenze, che era stata anche capitale prima della presa di Roma,
una “terra fertile di analfabeti”. Ascoli era molto ottimista sul fatto che Roma potesse avere un ruolo di guida
linguistica della nazione. Venendo alla letteratura, i nomi dei prosatori principali sono certamente quelli di Manzoni e
Verga; ma prima di Manzoni la scena è dominata dal contrasto tra puristi, difensori del Trecento toscano, e classicisti,
che invece si rifanno alla prosa del Rinascimento (Monti, il Leopardi delle Operette morali, ecc.)
Di certo, l’opera di Manzoni ebbe importanti conseguenze sulla lingua della prosa: lui e lei soggetti si diffusero,
all’imperfetto si adottò la desinenza di prima persona -o, analogica sul presente, iniziarono a sparire le preposizioni
articolate pel ‘per il’ e col ‘con il’ (quest’ultima tuttavia ancora oggi ben attestata nel parlato), si eliminò la -d
eufonica della congiunzione ed salvo che davanti a e- (oggi si tende a usare sempre e). Altre correnti, però minoritarie,
sono quella toscana popolare di Collodi, con Le avventure di Pinocchio (1883), che ebbe un successo straordinario
come libro per bambini; e la corrente “scapigliata”, soprattutto milanese, i cui esponenti furono Carlo Dossi, il
piemontese Giovanni Faldella, il napoletano Vittorio Imbriani: tutti mescidano toscano arcaico e moderno, dialetto e
“italiano” comune, con risultato molto espressivo e spesso personale, difficile da imitare.
Verga è narratore invece assai più importante, in particolare per l’espediente sintattico del discorso indiretto libero: in
questo modo il narratore riferisce le parole dei personaggi, ma conservandone le forme del parlato: Si sentiva allargare
il cuore. Gli venivano tanti ricordi piacevoli. Ne aveva portate di pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel
magazzino! E ne aveva passati dei giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba! (da Mastro-don Gesualdo).
La lingua della poesia si mantiene più a lungo fedele alla tradizione aulica e illustre, sulla scia del neoclassicismo, a
cui si adeguano Monti, Foscolo, Leopardi (questi ultimi con tratti romantici). La lingua è fatta di parole nobili, diverse
da quelle usate nel registro colloquiale. Per Leopardi l’arcaicità è uno dei termini del “vago”, un concetto
fondamentale della sua poetica. Non “termini”, ma “parole” suggestive.
Anche Manzoni, nella poesia, non pratica innovazioni: i suoi inni e le canzoni non sono al di fuori della tradizione
italiana. È dunque difficile introdurre elementi realistici nel testo: e così Monti, per parlare di “rane”, deve usare una
perifrasi: le rauche di stagno abitatrici; o Leopardi chiama i “fucili” ferree canne. Rilevante è il successo della poesia
dialettale, soprattutto grazie al milanese Carlo Porta e al romano Giuseppe Gioachino Belli, quest’ultimo importante
per l’uso di parole poi entrate nel linguaggio volgare-colloquiale come fregarsene, cazzata, fesso.. Porta, invece, era
favorevole all’uso della poesia dialettale come modo di avvicinarsi al popolo e diffondere la cultura tra i ceti umili.
Anche lui si colloca, come si vede, all’interno della “linea lombarda” partita con la letteratura didattica di Bonvesin.
73