Settecento Sipari Del Cuore - Jalal Al Din Rumi
Settecento Sipari Del Cuore - Jalal Al Din Rumi
Settecento Sipari Del Cuore - Jalal Al Din Rumi
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Nella collana Poesia:
1. Saffo, Tramontata è la luna
2. Emily Dickinson, Tu fammi un disegno del sole
3. Rainer Maria Rilke, Dalla misura delle stelle
4. Dino Campana, Preferisco il rumore del mare
5. Aa. Vv., Il Cantico dei Cantici
6. Charles Baudelaire, Tu, fata dagli occhi di velluto
7. Federico García Lorca, Se ne andrà il nostro amore cantando
8. Jalâl al-Din Rumi, Settecento sipari del cuore
9. Walt Whitman, Contengo moltitudini
Jalâl al-Din Rumi
SETTECENTO SIPARI
DEL CUORE
Traduzione e cura
di Stefano Pellò
In copertina: Mutation, illustrazione di Izumi Idoia Zubia
Art Direction: TheWorldofDOT
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maestro») o Mowlavi («mio maestro») sono i nomi con
i quali Rumi è generalmente conosciuto nel mondo di
lingua persiana, per quanto qualche orecchio occiden-
tale sia forse più familiare con l’esito turco Mevlana e
con la denominazione turca della famosa confraternita
sufi Mevleviyye, istituzionalizzata dal figlio Sultân Valad
alla fine del XIII secolo. Vissuto in un ambiente multi-
religioso e poliglotta, dove coesistevano e interagivano
fra loro greco, turco, persiano e arabo, Rumi compose
nel nativo persiano – medium cosmopolita per eccel-
lenza – le sue due opere principali: la grande raccolta di
odi nota come Divân-e Shams-e Tabrizi o Divân-e kabir
(«Canzoniere di Shams di Tabriz» o «Grande canzonie-
re», che contiene più di cinquemila componimenti) e
il lungo poema in distici rimati noto come Masnavi-ye
ma‘navi («Poema interiore», di circa ventiseimila versi).
Entrambi i testi, e in modo particolarmente evidente il
Divân, sono colorati – poeticamente e concettualmente –
dall’incontro fondamentale della vita del poeta: quello
con il derviscio itinerante e pensatore iconoclasta Shams
al-Din Tabrizi (o Shams-e Tabriz, il «Sole di Tabriz»),
suo mentore spirituale e ipostasi dell’oggetto mistico d’a-
more e di ricerca, apparso nella vita del poeta nel 1244 e
scomparso in circostanze misteriose nel 1247.
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SETTECENTO SIPARI
DEL CUORE
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e quest’oggi, col vino, si prepara
a sottrarci le vesti.
Sei l’invidia di Giove e della Luna
ma tu, come una fata, ti nascondi,
e con te dolcemente mi trascini
in territori ignoti.
Tu sei sempre con me
tu sei i miei occhi e tu sei la mia luce:
se lo vuoi, tu conducimi all’ebbrezza,
se lo vuoi, trasfigurami nel nulla.
È un Sinai, questo mondo,
e noi siamo Mosè nella ricerca:
ogni istante una nuova epifania
trasforma la montagna:
prato verde, biancore di narciso
e poi perla, poi ambra, poi rubino.
Se sei in cerca di lui
ai suoi monti si volgano i tuoi sguardi:
ora l’eco c’inebria
di quel vento che spira sulle cime.
O giardiniere, perché ci aggredisci?
T’abbiamo preso l’uva, questo è vero,
però tu ci hai rubato le bisacce.
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Nell’acqua fosca, se guardi,
non riesci a vedere la Luna né il cielo,
e se la nera caligine avvolge la Terra
scompaiono gli astri ed il Sole.
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trasporto quel tuo carico gravoso.
Continua, il mio digiuno, giorno e notte
fino al dì del Giudizio,
solo il tuo zucchero dolce lo rompe:
a quella mensa di grazia è una festa,
allora, la mia vita, giorno e notte.
Sei la vita del giorno
e della notte l’anima,
e io sono l’attesa, giorno e notte:
la grande festa si lascia aspettare
ma io come una Pasqua
giorno e notte festeggio la tua luna
e da quando m’hai promesso, una notte,
il giorno dell’unione
io conto i giorni, ogni giorno e ogni notte.
La mia anima amante è come un campo
assetato di pioggia:
di lacrime lo bagna
la nuvola degli occhi, giorno e notte.
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Dicevi una volta, fra i vezzi: «Non darmi fastidio, va’ via!»
Io voglio quel dolce scacciarmi, io voglio quei vezzi.
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Se tu manchi è un’angusta prigione, per me, la città:
io voglio rovine dirute, io voglio montagne e deserti.
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Non mi toccano più i desideri, ho placato ogni brama:
ora voglio lasciare le cose del mondo e cercare i principî.
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Tramonta, il sole, e cade, quando appare
la luce che è nell’anima dell’uomo:
agli estranei non devi far domande
quando gli intimi iniziano a tacere.
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Non più dolori, non più medicine,
non più contese, non più testimoni
non più flauti né dolci melodie
non più arpe a intonare le canzoni.
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Se qualcuno s’impegna col cuore
e si pente, tu il cuore gli strappi
ed infrangi il suo voto,
e pur se tu fai tutto questo
no, io senza te non so stare.
Il cosmo sarebbe sconvolto
in tua assenza e il giardino d’Eràm
sembrerebbe un inferno:
no, io senza te non so stare.
Se sei testa, io sono i tuoi piedi,
se sei mano, io sono quel drappo
che stringi nel palmo,
se svanisci, non sono più niente:
no, io senza te non so stare.
M’hai portato via il sonno,
hai lasciato sbiadire i miei tratti,
hai voluto staccarmi da tutto:
no, io senza te non so stare.
Se tu non mi fossi qui accanto
ogni cosa di me perirebbe in rovina.
Tu conforti e lenisci il dolore:
no, io senza te non so stare.
Senza te non m’è dolce la vita,
senza te non m’è dolce la morte,
la passione per te non si placa:
no, io senza te non so stare.
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Tutto quello ch’io dico, o mia roccia,
non è distaccato dal bene e dal male.
Sii dunque gentile e ripeti anche tu:
no, io senza te non so stare.
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né ogni mare ha le perle.
Intona il canto, usignolo soave:
siamo ubriachi ed il nostro lamento
si fa strada nel marmo e nel granito.
Se t’impaccia, tu perdi anche la testa:
non può passare, il filo,
nella cruna dell’ago
se è stretto un nodo là sopra il suo capo.
Il cuore risvegliato è una lanterna:
tu lo devi tenere sotto il manto
proteggerlo dal vento
dall’aria tempestosa che gli nuoce.
Lontano da quel vento
tu allora avrai dimora a una sorgente:
sarai l’intimo amico
d’un amico dal petto traboccante.
Sarà, per te, quell’acqua
come linfa che viaggia dentro il cuore
e tu sarai come un albero verde
rigoglioso di frutti sempre nuovi.
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Tu aiutaci, Sole di Tabriz, diletto maestro:
noi vogliamo vedere la luna, e svanire nel mare.
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Silenzio: una brezza ora soffia nel cuore,
nella luce che assiste ogni nascita nuova.
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sono più in alto dei quattro elementi
sono più eccelso dei sette pianeti
nella miniera io ero la gemma
che si rivela adesso.
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«Non ti sei cancellato»
mi disse, «non ti sei
nella gioia disciolto».
Quindi diedi la vita
di fronte a quel volto
che dona la vita.
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sono solo il tuo servo:
faccio quello che vuoi.
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io mi sciolgo, prostrato,
con il capo percosso
dai tuoi raggi possenti.
L’umilissima terra
rende grazie alla volta
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rovesciata del cielo:
«Io ne accolgo la luce
e lo devo soltanto
al suo sguardo che ruota».
E l’asceta sapiente
per avere raggiunto
l’eminenza ringrazia:
«Ora sono una stella
che risplende più in alto
delle sfere celesti».
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T’appartengo, mia luna
famosa senza pari:
guarda in me, guarda in te!
Le tracce del tuo riso
m’hanno fatto splendente
come un campo di fiori.
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Dalla terra che sta alla sua soglia
il mio cuore ha sentito
quel dolce profumo:
ora il nome dell’acqua m’offende.
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in questa evidenza assoluta
ch’io sono?» Poi dissi:
«Tu sei quello!» Rispose:
«Silenzio! Nessuno ha mai detto
che cosa io sono». Ed allora
conclusi: «Dal momento
che ancora nessuno l’ha detto
eccomi a te: senza lingua
io sono eloquente!
Io mi sono annientato
come usa annientarsi la luna:
senza piedi, sospeso nel nulla
io vengo correndo da te!»
Poi s’è alzata una voce potente:
«Perché corri? Tu guarda:
manifesto io sono, celato dovunque».
Da quando ho visto quel Sole
che nasce a Tabriz
io sono quel mare di perle
quel tesoro di gemme che sono.
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Sono scomparsi, poi, il deserto e il mare
in quel mutare d’ogni forma e modo
non so cos’è avvenuto, non so come:
nel senzacome ogni come è annegato.
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È un purissimo bacio
che non appartiene alla terra:
di me farà un’anima lieve
affrancata dal corpo.
Trasparente parlava
l’oceano: «Ci vuole uno sforzo:
tu hai la perla più rara, però
devi svellerne il guscio».
O mi sbaglio? Se siete
maestà, come Marte e la luna,
provate a non chiedere un bacio
a quel dolce selvaggio!
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Entra, luna celeste,
ché a te le finestre ho dischiuso.
Tu abbagliami il volto una notte,
col tuo labbro sul mio.
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per quanto cadute lontano.
Il ragazzo non può che invecchiare
per giungere là dove regna Ragione:
ma il vecchio, allo stadio d’amore,
diventa di nuovo un fanciullo.
O tu che sei il Sole a Tabriz:
chi sceglie umiltà, nel cercarti,
sarà altissimo, pari al tuo amore.
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La tua anima è persa nell’aria
per la nostra dolcissima fiaba:
come fanno gli amanti svanisci,
diventa una fiaba.
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Salomone t’esorta: «Tu ascolta
gli uccelli!», ché tu sei una rete
e ti sfugge la preda che vola:
diventa un bel nido.
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Quando parli t’aggiri sui tetti
sfiorando soltanto le mura.
Abbandona i discorsi, entra in casa,
diventa silenzio.
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ignoranza celando il segreto:
tu lo zucchero serba nel labbro
e continua il cammino.
Tu di’: «A me quella luna,
ed a voi tutto il resto:
io non cerco ricchezze ed averi»
e continua il cammino.
Ma chi è quella luna?
È un Sole che sorge a Tabriz:
la sua nobile ombra raggiungi
e continua il cammino.
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Un istante di gioia: io e te
insieme sotto il pergolato.
Due figure e due volti
ma un’anima sola:
io e te.
E scendono a guardarci
dal firmamento le stelle:
dobbiamo risplendere,
per loro, come luna,
io e te.
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E sarà dolce l’armonia
degli uccelli in paradiso:
s’accorderà al pulsare
del ritmo con cui sorridiamo
io e te.
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Poi chiesi: «E il volto, è d’un angelo
oppure d’un uomo?» Rispose:
«Né l’uno né l’altro, sta’ zitto!»
«Devi dirmi qualcosa» insistevo,
«altrimenti impazzisco». Rispose:
«Allora impazzisci, d’accordo, ma taci!
Te ne stai in questa stanza dipinta
d’immagini e forme illusorie:
è tempo di fare i bagagli ed andare
e non dire nient’altro». Io chiesi:
«Come un padre benevolo, o cuore,
tu dimmi: non è forse questo
il sembiante di Dio?» Mi rispose:
«È così, figlio mio, ma trattieni la voce».
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miriadi di roseti, cento nidi.
Una nave senz’àncora, sembrava:
andava traballando
e per lui si struggevano i sapienti.
«Di dove sei?» gli chiesi.
«Per metà sono turco» mi rispose,
«per metà del Ferghana.
Per metà sono fatto d’acqua e terra,
anima e cuore è il resto:
sono la perla e la riva del mare».
Gli dissi: «Stiamo insieme!
Siamo intimi, tu ed io».
Rispose: «So distinguere un parente
da chi mi è sconosciuto».
Ho smarrito il mio cuore ed il turbante
nella casa degli ebbri
e il mio petto ribolle di parole:
vuoi tu che te le spieghi?
Non te l’ha mai insegnato quel sapiente?
Se si sta con gli zoppi
bisogna zoppicare:
è questa una bellezza che ubriaca
anche i tronchi seccati.
Tu hai sconvolto la terra:
adesso perché fuggi dalla gente
o Sole di Tabriz?
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Anziché evocare il rassicurante cliché esotico dei dervi-
sci rotanti, conviene disorientarsi subito pensando Rumi
attraverso l’immagine europea e mediterranea della città
di Mostar: qui, non molti anni prima che il veneziano
Giovan Battista Donà riconoscesse il prestigio del persia-
no paragonandolo al «Toscano, ò sia Senese» fra le lingue
utilizzate dagli Ottomani (Della letteratura de’ turchi, 1688,
p. 126), il bosniaco Dervish Pasha fondava una delle
tante Dâr al-Masnavi («Casa del Masnavi») dei Balcani,
centri pubblici dedicati alla lettura e al commento delle
opere del Maestro. Non lontano, nella città europea e
alpina di Sarajevo, si leggono ancora oggi, fra le rose,
belle iscrizioni calligrafiche dei versi di Mowlavi, che
campeggiano sulla parete del convento sufi della Hadži
Sinanova tekija, rivolta alle montagne delle olimpiadi
del 1984 e dell’assedio del 1995. Nato nel Khorasan, os-
sia nell’Oriente iranico, a poche centinaia di chilometri
dall’odierno confine cinese, e vissuto in Anatolia, ossia
nell’Oriente greco, non troppo distante dalle rive del
Mar Mediterraneo, Rumi è un autore eurasiatico e co-
smopolita a partire dalla propria biografia e dalla lingua
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adottata, quel persiano letterario a proprio agio a Co-
stantinopoli come a Delhi per buona parte del Secondo
millennio dopo Cristo. Studiato, tradotto e pensato nelle
varie dimensioni culturali dell’Oriente mediterraneo e
islamico, da quella greca dei dervisci mevlevi di Creta a
quella kasmhira dei brahmani persianizzati di Srinagar, il
poeta di Iconio è stato a tutti gli effetti un autore mon-
diale ben prima di essere scoperto dai farangi, gli europei
occidentali, alla fine del Settecento. A partire dai pochi
versi tradotti in inglese da Sir William Jones e pubblicati
in Asiatick Researches nel 1794, e soprattutto con le ricre-
azioni tedesche di Friedrich Rückert apparse dal 1819 in
poi, un Rumi sempre più romanticizzato inizia a fare il
suo ingresso, come esotico cantore dell’amore universa-
le, nel Canone Occidentale; fino a trasformarsi, soprat-
tutto nel mondo anglosassone contemporaneo, in un
vero e proprio campione d’incassi e di fraintendimenti,
vessillo per eccellenza della cosiddetta World Literatu-
re. Come scrive il persianista americano Franklin Lewis,
forse il miglior traduttore di Rumi in lingua inglese, se
l’autore del Divân-e Shams probabilmente non è, come
pure si ripete talora anche in contesti accademici, il poe-
ta più venduto negli Stati Uniti, egli è senz’altro, con
una stima comunque al ribasso, il poeta del Duecento
più letto a livello mondiale. Se ne leggono, però, so-
prattutto versioni di seconda o terza mano, spesso di
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autori del tutto digiuni del codice espressivo originale,
che passano attraverso lingue terze oppure propongono
libere interpretazioni delle versioni europee ottocente-
sche. Se a questo aggiungiamo il proliferare di fantasiosi
pseudo-Rumi sulla rete, che formano a loro volta un
nuovo canone apocrifo telematico in continua e babelica
espansione, il rischio è che, pure in presenza di numero-
se traduzioni di buon valore sia filologico sia poetico, a
prevalere sia l’immagine edulcorata di un Rumi consola-
torio, ecumenico sacerdote dei buoni sentimenti, natu-
ralmente un po’ naïf in quanto «orientale». A differenza
di Omar Khayyâm, però, «orientale» anche in Oriente
perché britannico e coloniale è il suo mito, Rumi è, al-
meno in Iran, tutt’altro che fatalismo e spiritualità a buon
mercato. Il suo Poema interiore, che la tradizione definisce
il «Corano in persiano» (e di cui non ci occupiamo in
questa antologia), elabora poeticamente le prerogative
del sufismo classico e le mette in scena, rinnovandole e
ri-narrandole senza sistematicità, in dialogo con le nuove
tendenze speculative incarnate a quei tempi dal moni-
smo teosofico di Ibn ‘Arabi di Murcia: moltitudine di
storie e riflessioni, esemplari e paradossali insieme, che
si fanno teologia estatica (o sua provocatoria decostru-
zione) e testo didattico, oggetto di studio e commento
rigoroso dal Duecento a oggi. Analogo, anche se non
identico, è il discorso sull’opera di cui presentiamo qui
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qualche sparuta scintilla, il Canzoniere di Shams-e Tabri-
zi: diverse migliaia di componimenti lirici che ruotano
intorno ai due poli tematici dell’unità sostanziale dell’Es-
sere e dell’energia cosmica chiamata ‘eshq, amore, forza
di attrazione che, in una delle immagini dominanti nel
testo, richiama noi creature, innumerevoli atomi lucci-
canti perduti a fluttuare nell’infinito, verso il sole, nostra
origine unica e ultima. Ma possiamo essere anche canne
recise che si lamentano, divenute flauto, nel desiderio
del ritorno al canneto natio, falconi che ambiscono a po-
sarsi sul braccio del re, gocce d’acqua che, riconoscendo-
si nient’altro che mare, si trasformano in perla e quindi
nell’essenza dell’oceano stesso, e così via: il mondo della
manifestazione è uno scenario caleidoscopico, fatto di
infinite trasformazioni, dove l’amore sopra menzionato
è forza ebbra, destabilizzante, imprevedibile, che appare
nelle albe o nei crepuscoli col bel volto di un coppie-
re a risvegliare col suo vino i dormienti o a togliere ai
pensatori le loro fragili certezze. Il Rumi del Divân è un
poeta della materia cangiante, della bellezza delle cose e
dell’energia inestinguibile insita in esse, del fenomeno
e dell’allusione, che indaga, col linguaggio, i limiti del
linguaggio e dell’identificazione, mettendo in discussio-
ne ogni istanza egoica: «unione» (con l’oggetto d’amore,
con l’Uno) diventa così disgregazione del soggetto in
quel silenzio che non è un oltre del linguaggio ma la
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sua impossibilità stessa, in assenza dell’aggregato che lo
produce. Si può pensare ai ghazal – liriche brevi spes-
so paragonate al sonetto della traduzione europea – di
Rumi come a frammenti di specchio che riproducono
ciascuno, in miniatura, uno sprazzo di questa vicenda
cosmica dell’Uno e dell’Amore: giardini testuali colloca-
ti fuori del tempo e dello spazio (il richiamo al neoplato-
nismo non è certo fuori luogo, ma resta una scorciatoia)
dominati da una nota meditativa ed entusiastica insieme,
e marcati da un ritmo danzante, cantato, che rimanda tra
le altre cose a un loro uso performativo. V’è anche, però,
qualcosa di ossessivo e tortuoso, nelle ripetizioni e nei
ritornelli, nelle visioni e nelle reticenze, di refrattario alla
norma e alla definizione; una dimensione psichica che
pare non poter essere contenuta né raggiunta, un «re-
sto» semantico sempre presente che spesso ha come esito
quella fusione necessaria nel Sole di Tabriz, il Maestro,
l’alter-ego, l’ipostasi divina della bellezza.
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caso di difficile comprensione per il lettore meno esper-
to di cose persiane e islamiche, sono sciolti o adombrati
direttamente nel testo. Segnaliamo soltanto che la notte
d’Avvento del ghazal 2130 allude alla Notte del Destino
cui è dedicata la sura 97 del Corano; che la Pasqua del
ghazal 302 fa le veci dell’altrettanto felice festa islamica
del sacrificio; che il Giuseppe coranico (il figlio di Gia-
cobbe, che appare nei ghazal 441 e 1393) incarna, nella
tradizione poetica persiana, soprattutto l’immagine della
bellezza assoluta; e che re Salomone (ghazal 441 e 2130)
è ricordato, in quella stessa tradizione, in modo partico-
lare per la sua capacità di comprendere – grazie al suo
magico sigillo – il linguaggio degli uccelli e degli altri
animali, inclusa l’upupa che gli fa da messaggera nella
sura 27.
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Stefano Pellò, novarese, è professore associato di Lette-
ratura persiana presso l’Università Ca’ Foscari di Vene-
zia, dove insegna dal 2005. I suoi vasti interessi di ricer-
ca includono i codici estetici e concettuali della poesia
persiana e le dimensioni eurasiatiche di quello spazio
testuale. All’attività filologica affianca, senza contrasto,
quella di traduttore. Tra i suoi principali lavori mono-
grafici segnaliamo qui Le gemme della memoria, antologia
commentata del Jawâmi‘ al-hikâyât wa lawâmi‘ al-riwâyât
del duecentesco Muhammad Sadid al-Din ‘Awfi (To-
rino, 2019), Tutiyan-i hind. Specchi identitari e proiezioni
cosmopolite indo-persiane (1690-1856), (Firenze, 2012) e,
in collaborazione con Gianroberto Scarcia, la traduzio-
ne completa dei ghazal di Hâfez di Shiraz (Canzoniere,
Milano, 2005), di cui una scelta rielaborata è poi apparsa
come Ottanta canzoni (Torino, 2008).
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Fotocomposizione: Alessio Scordamaglia
Finito di stampare
nel mese di marzo 2020
per conto di Adriano Salani Editore s.u.r.l.
da Stamperia Artistica Nazionale, Torino
Printed in Italy