Vecchiato

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Francesco Vecchiato, Castelnuovo del Garda e il 1848 veronese

nella cronaca inedita di Gaetano Spandri


1. Premessa
2. Il memorialista Gaetano Spandri
2.1. Un benefattore dei Gesuiti
2.2. Profilo accademico
2.3. Testimonianze accademiche
2.4. Memorie accademiche
2.5. La scheda anagrafica di Gaetano Spandri e del figlio Giuseppe
2.6. Il figlio Giuseppe Spandri
2.6.1. Ricordo di consanguinei, maestri e amici
2.6.2. Elementi biografici in «Lamentazione a Virginia»
2.6.3. Lamartine e Napoleone III
2.6.4. Giuseppe Spandri, poeta incompreso
2.7. Gaetano Spandri, Giuseppe Spandri, San Gaspare Bertoni
3. Descrizione del manoscritto di Gaetano Spandri
4. Castelnuovo, don Antonio Oliosi e la Commissione Civica
5. Il carnefice di Castelnuovo cade a Vicenza
6. Sommossa popolare, Commissione e Guardia Civica
nelle prime giornate del ’48 scaligero
7. Il «fatto di Castelnuovo» in “appendice” alla “cronaca” di Spandri
8. L’arresto della Commissione Civica in “appendice” alla “cronaca” di Spandri
9. Il sacco di Castelnuovo del 24 luglio 1848 in “appendice” alla “cronaca” di Spandri

* * *
1. Premessa

Sul tema dell’eccidio di Castelnuovo e della deportazione di ostaggi veronesi, tra cui don
Antonio Oliosi, mi fu concesso d’intervenire in più di un’occasione. Ogni invito da parte
dell’amministrazione comunale di Castelnuovo si traduceva per me in un impegno ad allargare e
approfondire ricerche, che mi aprirono di volta in volta orizzonti inattesi, il più suggestivo dei quali
è rappresentato dal legame di Verona con la città di Salisburgo1. Testo fondamentale dal quale
partire furono le memorie di don Tommaso Netti, apparse nel 1888, e riedite in stampa anastatica
dal comune di Castelnuovo nel 19982. Quanto alle fonti inedite da me usate negli anni scorsi, le
notizie più originali mi vennero dalle memorie di don Leopoldo Stegagnini, che riportava
informazioni ricevute direttamente da ufficiali austriaci da lui frequentati in Verona.
Le principali fonti storiche - edite e inedite - cui dobbiamo informazioni sul ’48 nel
Quadrilatero e in particolare a Castelnuovo del Garda le dobbiamo dunque a sacerdoti. Le memorie
di don Tommaso Netti vedono addirittura coinvolti tre preti, Netti, Perlato, Pighi. Don Tommaso
Netti mise per iscritto quanto gli era stato confidato da don Felice Perlato, parroco di Castelnuovo;
don Antonio Pighi pubblicò il manoscritto Netti-Perlato, rimasto a lungo inedito. Ancora inedito è
invece il manoscritto di don Leopoldo Stegagnini, se escludiamo quanto da me fatto conoscere in un
saggio prodotto per un volume miscellaneo con cui la facoltà di Lingue nel 2004 volle onorare il

1
Un denso profilo della storia di Salisburgo nell’Ottocento si legge in ROBERT HOFFMANN, Salzburg im Biedermeier, in
HEINZ DOPSCH - ROBERT HOFFMANN, Geschichte der Stadt Salzburg, Salzburg, Verlag Anton Pustet, 1996, pp. 399-
443.
2
TOMMASO NETTI, Castelnuovo e gli Austriaci nel 1848, a cura di Antonio Pighi, Verona, Pozzati, 1888. Nel 1998,
150° anniversario della strage, il comune di Castelnuovo ha curato una ristampa anastatica della preziosa opera, con il
patrocinio della Casa di Cura "Dr. Pederzoli" di Peschiera del Garda.

1
suo professore più prestigioso, quel Elio Mosele, che all’epoca era rettore dell’università di Verona,
e che oggi qui ci onora della sua presenza come presidente della Provincia di Verona3.
Dunque, memorie stampate, quelle dei tre sacerdoti Perlato-Netti-Pighi, e memorie ancora
inedite, quelle del sacerdote don Stegagnini. Due dei miei contributi furono pubblicati per iniziativa
del sindaco di Castelnuovo, Ferdinando Emanuelli, nel 1999. Oggi sono qui a presentare, seppure in
maniera sommaria, un altro inedito, opera straordinaria di un personaggio - Gaetano Spandri - che
non è sacerdote, ma che fu molto vicino ai padri Gesuiti4. Gesuita era quell’Antonio Bresciani,
definito da Alessandro Manzoni «prima penna d’Italia», trentino, ma docente a Verona, e poi
redattore a Roma della «Civiltà Cattolica», che vergò pagine memorabili nel loro realismo
sull’eccidio di Castelnuovo, già da me riportate nella pubblicazione voluta dal sindaco Ferdinando
Emanuelli nel 19995

2. Il memorialista Gaetano Spandri

2.1. Un benefattore dei Gesuiti

Padre Aldo Aldegheri, nel ricostruire la storia del ritorno in Verona della Compagnia di
Gesù, cui nel 1839 il municipio di Verona riaffidava le scuole, dedica a Gaetano Spandri questo
riconoscimento:
Mentre ancora si sperava che il governo ci permettesse di aprire le scuole di filosofia, il signor Gaetano Spandri (gloria di
Verona per la sua erudizione, e in modo particolare per la gran perizia nella fisica) fece dono al collegio della sua ricca collezione di
strumenti di fisica, in parte inventati e costruiti da lui medesimo con arte maravigliosa. Egli ci fu sempre famigliarissimo, e si
studiava di darci continue prove del suo amore6.

3
FRANCESCO VECCHIATO, Un’esperienza scolastica nella Verona asburgica: Don Leopoldo Stegagnini (1821-1897), in
Variis linguis, Studi offerti a Elio Mosele in occasione del suo settantesimo compleanno, Verona, Edizioni Fiorini,
2004, pp. 551-567. Il tema è stato ampliato in FRANCESCO VECCHIATO, «I figlioli dei poveretti non hanno fortuna nelle
scuole». L’autobiografia di un prete del Regno Lombardo-Veneto. Don Leopoldo Stegagnini (1821-1897), «Ricerche di
storia sociale e religiosa», Nuova Serie, 66, 2004, pp. 177-234. Cfr. PINO SIMONI, Leopoldo Stegagnini personaggio
illustre dell’Ottocento, «Civiltà Veronese», 1, 1985, pp. 65-76.
4
GAETANO SPANDRI, Li Cento Cinquanta Giorni di Verona nell’Anno 1848. Memorie con Appendice, Manoscritto, Verona, 1848-
1858.
5
Ripropongo la memorabile rievocazione del Bresciani: «Io me ne sento raccapricciar tutto quanto, ove penso a quei
miseri terrazzani bruciati vivi entro le proprie case. Quelli poveretti poi che uscivano all'aperto cadean sotto una pioggia
di fuoco, né v'era schermo; chè le racchette incendiarie grandinavano da tutti i lati con code scintillanti, le quali
sprazzavan razzi e fiammelle che si sfioccavano a lembi, e cadendo in sul capo de' miseri borghigiani tutti li scottavano,
e le vesti delle donne incendiavano. Di che le meschine correndo piene di spavento tutte divampavano, e gli uomini
disperatamente gittandosi loro addosso e atterrandole, le convolgean per terra e pel fango; ma indarno, chè tutte incotte
e gonfie, straziandosi per ismania le carni, moriano arsicciate e fatte carboni. Altre spinte dalla furia del fuoco che le
investiva correan, colle mani innanzi e cogli occhi spaventati, a ripararsi nelle case e persin nelle stalle, e ne' pagliai, e
le secche materie pigliando fiamma, bruciavan rapidissime e vorticose le persone, il mobile, e tutto il casolare. Era cosa
orribile a veder quello strazio e intanto i razzi alla congrève, e i racchettoni fulminanti trascorrean sibilando e ruggendo
pe' tetti, per le vie, entro le case, e udiansi bombire le grosse palle delle granate, le quali scoppiando gittavan per le
finestre bitume, e pece e zolfo acceso, che appiccandosi agli arnesi, e ai vecchi palchi, in poco d'ora consumavano gli
edifizi… Il giorno appresso, venuti popoli del contorno a seppellire i morti, trovarono da oltre ottanta persone parte
stritolate sotto le ruine de' muri, i diroccamenti delle case e i frantumi delle bombe, e parte rosolate, arrostite e carbonate
dal fuoco. Si vedean madri serrare ancora colle rigide braccia i pargoletti al seno fatto vizzo e nero, e i bambini strinati e
coi visi contorti, e coi pugni chiusi, e le manine arse, e le braccia serrate al collo delle madri, che supine e rattrappite dal
furor della fiamma aveano il capo schiomato, grinzo e scotennato. Ah quella povera vecchia, la quale volendo riparare
in chiesa, bruciatelesi le vesti attorno, cadde, e con essa una nipotina che teneva ancora afferrata per mano, e tutta
abbronzita! E uomini disperati di spasimo, e carbonizzati fra le fumanti travi del tetto! E buoi e cavalli arsi con tutta la
stalla! E per tutto ruina, orrore e morte! A chi la colpa di tanto incendio? I tedeschi si mostraron barbari, e disumani più
de' ladroni». ANTONIO BRESCIANI, L'Ebreo di Verona, vol. II, Milano 1855, pp. 163-164. Cfr. FRANCESCO VECCHIATO,
Il martirio di don Antonio Oliosi, prete di Castelnuovo del Garda, nel 150° anniversario della morte. 1848-1998, in
FRANCESCO VECCHIATO, Il 1848 tra Castelnuovo del Garda e Salisburgo, Prefazione di Ferdinando Emanuelli, Verona,
Comune di Castelnuovo del Garda, 1999, p. 21.
6
ALDO ALDEGHERI, Breve storia della Provincia veneta della Compagnia di Gesù dalle sue origini fino ai giorni nostri
(1814-1914), Venezia, Premiata Tipografia Sorteni e Vidotti, 1914, p. 43.

2
Il «gabinetto o collezione di macchine fisiche» era stato lasciato con tanto di rogito del
notaio Giuseppe Donatelli al Collegio della Compagnia di Gesù il 10 marzo 18477. La consegna
effettiva si realizza però solo il 3 febbraio 1860, quattro mesi dopo la morte di Gaetano Spandri,
deceduto il 30 settembre 18598. Nell’operazione di cessione è coinvolta anche la moglie dello
Spandri, Virginia Monga, che ha contribuito alla formazione del gabinetto con proprio denaro.
Il Gabinetto di Macchine Fisiche del Sig. Gaetano Spandri fu procurato in parte con danari della di Lui moglie Sig.ra
Virginia Monga, che acquistò materie prime e pagò alcuni lavori, e in parte collo studio ed industria di esso Sig. Gaetano Spandri,
che ne ideò e costrusse parecchie9.

Spandri decideva quindi di lasciare fin dal 1847 tutto il materiale ai Gesuiti, riservandosene
però l’uso «vita sua naturale durante per continuare i relativi studj cui si trova specialmente
inclinato»10. Il catalogo elenca 122 oggetti, che tuttavia sono complessivamente molti di più in
quanto alcuni numeri contengono al loro interno una sottonumerazione romana. Riporto
esemplificativamente alcuni oggetti, usando la numerazione dell’elenco, senza tuttavia trascrivere
per intero la didascalia che li riguarda.
1 Macchina elettrica
10 Bottiglie di Leiden
26 Torre del fulmine con sua pistola di Volta
33 Elettroforo perpetuo
34 Soffietto di marrocchino per le figure di Licktemberg
36 Elettroscopio di Bohnemberger
42 Elettroscopio dinamico Zamboniano
43 Galvanometro
44 Rettangolo di Ampère per l’azione delle correnti magnetiche della Terra
46 Tornio di Ampère
50 Apparato elettromotore alla Wolluston di rame
58 Apparato pneumatico-chimico per la formazione del Gas Idrogeno all’effetto di gonfiare un aerostato
59 Macchina di Callan (dall’Accademia di Verona premiata con medaglia d’oro)
60 Grande microscopio
62 Telescopio
63 Cannocchiale di Ramsdem
69 Caleidoscopio di Brewster
116 Apparecchio galvanoplastico che servì alla formazione delle suddette matrici e rispettive medaglie
117 Elettromotore perpetuo Zamboniano
120 Orologio elettrico Zamboniano11.

2.2. Profilo accademico

Siamo debitori di un cenno biografico su Gaetano Spandri alla Storia dell’Accademia di


Agricoltura di Ettore Scipione Righi12. Questi, pur scrivendo quando l’unità d’Italia si è ormai
largamente realizzata, dedica le pagine introduttive alla repubblica di Venezia, cui lo stesso Spandri
fu molto legato, che per quattordici secoli ha meritato l’affetto e la stima dei popoli, e per «quasi
mezzo secolo dopo il suo scomparire» è stata «ingiustamente e codardamente insultata». La
calunnia fu alimentata - denuncia il Righi - per giustificare l’assassinio commesso nei confronti
dello Stato veneto da Napoleone, che «nel suo immoderato egoismo» ha «anteposto sempre sè
7
10 marzo 1847. Istromento. Rogito 2338 del Notaio Giuseppe Donatelli di Verona. Archivio Privato.
8
«Verona 3 tre Febbraio 1860 milleottocentosessanta», Archivio Privato.
9
10 marzo 1847. Istromento. Rogito 2338, cit.
10
10 marzo 1847. Istromento. Rogito 2338, cit.
11
«Elenco degli Oggetti spettanti il Gabinetto o Collezione di Macchine Fisiche», allegato all’Istromento. Rogito 2338,
cit.
12
ETTORE SCIPIONE RIGHI, Storia dell’Accademia di Agricoltura, Commercio ed Arti di Verona per il triennio 1857-58-
59, Letta il 2 aprile 1868, «Memorie dell’Accademia d’Agricoltura, Commercio ed Arti di Verona», 46, Verona, 1869,
p. 414. Un profilo di Ettore Scipione Righi come membro dell’Accademia di Agricoltura si legge in GIUSEPPE FRANCO
VIVIANI, Nell’Accademia e per l’Accademia di Verona, in GIAN PAOLO MARCHI (a cura di), Ettore Scipione Righi
(1833-1894) e il suo tempo, Atti della giornata di studio, Verona, 3 dicembre 1994, Verona, Fondazione Cassa di
Risparmio di Verona Vicenza Belluno Ancona - Accademia di Agricoltura Scienze Lettere di Verona, 1997, pp. 19-37.

3
stesso alla umanità tutta»13. Tra le benemerenze di Venezia c’è l’istituzione dell’Accademia di
Agricoltura14. Tramontato Napoleone, quale fu il rapporto tra i nuovi dominatori - gli Asburgo - e
l’Accademia? Questo il giudizio di Righi:
L’Austria lasciolla vivere perché non volle torsi nemmeno la pena di ammazzarla, ma non le diede ajuto di sorta; le contese
anzi i pochi resti de’ suoi proventi, e sperando che morisse da sè per inedia, non ismentì neppure a suo riguardo la natura matrigna di
straniera dominatrice15.

Quanto a Gaetano Spandri, lo si indica nato il 30 luglio 1796 e morto il 30 settembre 1859 a
Verona. Iscritto tra i soci attivi dell’Accademia il 10 dicembre 183816, queste le note caratteristiche:
«Agronomo, fisico, naturalista preclaro, lo Spandri fu pure tra i membri più rispettabili di questa
Accademia, che ne udì le Memorie, ed i Rapporti sopra svariati argomenti, e lo ebbe per nove anni
Osservatore Meteorologico. Amico del Cav. Giuseppe Belli professore di fisica nella Università di
Pavia, e dell’ab. Giuseppe Zamboni professore della stessa scienza nel nostro Liceo17, da loro
apprese anche il magistero nella costruzione delle macchine, così che l’insigne scopritore del Moto-
perpetuo preferiva sovente le sue a quelle costrutte in estraneo paese, delle quali era fornito il
Gabinetto dell’Istituto in cui professava»18.

2.3. Testimonianze accademiche

Giuseppe Zamboni ci fa sapere che l’orologio elettrico «posseduto qui in Verona dal signor
Gaetano Spandri, amatore coltissimo delle scienze naturali, misura il tempo medio con la sola
differenza di circa 8 minuti primi in tutto il corso di un anno»19. Le pile a secco usate per l’orologio
dello Spandri tramontarono presto dopo la morte dello Zamboni. «Ma non si può dimenticare -
scrive Friedrich Klemm - che alcune pile Zamboni… furono impiegate in Inghilterra nel corso della
seconda guerra mondiale per alcuni particolari strumenti di precisione, p. es. per i rivelatori
d’immagini a raggi infrarossi… Gli Americani preferirono queste minuscole batterie di tensione,

13
Gian Paolo Marchi fissa così la posizione di Ettore Scipione Righi nel contesto risorgimentale: «L’unità nazionale non
avrebbe dovuto risultare da una serie di annessioni, ma da un processo di aggregazione politica e culturale che
prevedesse anche l’inventario, per così dire, delle culture regionali». Quanto al curriculum del Righi, Marchi scrive:
«Direttore scolastico provinciale (dal 1867)… consigliere comunale… ispettore archeologico… membro della
commissione conservatrice dei monumenti… attento alla realtà monumentale e alle testimonianze storiche del
passato… il Righi ha legato la sua fama in modo particolare al Saggio di canti popolari veronesi (editi nel 1863 e
ristampati dal Cambiè nel 1981) e ad una cospicua silloge di testi popolari in prosa e in versi in gran parte inedita, come
inedito è rimasto il suo vocabolario del dialetto veronese». GIAN PAOLO MARCHI, Presentazione, in GIAN PAOLO
MARCHI (a cura di), Ettore Scipione Righi (1833-1894) e il suo tempo, cit., pp. 8-9.
14
In nota Righi ci offre queste coordinate: «Venne istituita dal Consiglio dei XII della Magnifica città di Verona colla
Parte del 23 dicembre 1768, presa in seguito alla Ducale 10 settembre anno stesso di Luigi Mocenigo. Il suo primo
nome fu di Accademia di Agricoltura; nel 1779 vi si aggiunse Commercio ed Arti estendendone di conformità le
attribuzioni». RIGHI, Storia dell’Accademia di Agricoltura, cit., p. 425.
15
RIGHI, Storia dell’Accademia di Agricoltura, cit., p. 425.
16
RIGHI, Storia dell’Accademia di Agricoltura, cit., p. 434.
17
Giuseppe Zamboni (Arbizzano, Verona, 1776 - Verona, 1846). Di lui scrive Ettore Curi: «Nel 1802 produsse la prima
pila a secco che gli diede enorme fama, in Italia e all’estero, in quanto ritenuta il prodotto dell’esperimento cruciale per
dimostrare che nella pila di Volta la corrente aveva origine dal contatto di due metalli diversi e non da una reazione
chimica. Viaggiò a lungo, invitato dai massimi scienziati del suo tempo, trattenendosi particolarmente a Parigi e a
Londra, e ovunque dovette illustrare il funzionamento delle sue pile ricevendone in cambio grandi onori e
riconoscimenti». ETTORE CURI, Antonio Maria Lorgna (con cenni biografici sui quattordici veronesi chiamati a far
parte dell’Accademia dei XL), «Studi Storici Luigi Simeoni», 2005, pp. 452-453.
18
RIGHI, Storia dell’Accademia di Agricoltura, cit., p. 414.
19
GIUSEPPE ZAMBONI, Sull’elettromotore perpetuo. Istruzione teorico-pratica, Verona, 1843, p. 91. Cit. da GIULIO
LENZI, La pila a secco dell’abate prof. Giuseppe Zamboni. Nota aggiunta alla comunicazione del Prof. Friedrich
Klemm, «Atti e memorie dell’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona», a.a. 1975-76, CLII, Verona,
1977, p. 172.

4
cosicché si può ben dire che le pile dello Zamboni hanno avuto ancora la loro parte nel nostro
tempo»20.
Angelo Cominzoni esamina un fungo parassita del baco da seta, utilizzando un
«microscopio d’Amici di proprietà dello studiosissimo e dotto Signor Gaetano Spandri»21.
Parla del microscopio di Spandri anche Giulio Sandri impegnato a studiare la malattia del
riso, chiamata caròlo, o brusòne22. Riconosce di essersi avvalso nelle sue osservazioni «di possente
fedel microscopio d’un ottimo nostro concittadino, e della grande abilità, pazienza ed esattezza di
questo nell’osservare». E poi in nota precisa: «Microscopio diottrico acromatico del Sig. Professor
Amici, posseduto dal Sig. Gaetano Spandri»23.
Giovanni Antonio Campostrini, nello stendere la storia triennale dell’Accademia di
Agricoltura, traccia un breve profilo del nuovo socio24 Spandri:
Il sig. Gaetano Spandri, uomo specchiatissimo, mostrò assai chiaramente il suo amore e lo studio nelle sperimentali
discipline, raccogliendo in sua casa non a boriosa vanità, ma a profitto di studj, un ricco gabinetto di fisica; chè in quelle cose nelle
quali hanno posto l’affetto sogliono gli uomini gettar l’oro e l’argento, e nello spendere, meglio che in altro, sé medesimi
manifestare25.
Giuseppe Beretta riferisce di un’indagine condotta a termine dallo Spandri. Nella relazione
presentata all’Accademia lo Spandri
dà i risultamenti dell’esame da lui fatto delle acque potabili, che discorrono per le basse campagne della nostra pianura, o
quivi da’ pozzi si attingono, e le materie ne mostra, che entrano nelle stesse a intorbidarle. Esame si fu questo commessogli in bello
studio per dar cagione a’ medici di ricercare le febbri, che di continuo prendono tanta gente, e vedere se tra le cause, onde procedono,
anche quella per avventura vi abbia dell’uso d’acque non sane26.

Pietro degli Emilj nel tracciare la storia triennale dell’Accademia segnala uno studio
congiunto dello Spandri e di Iacopo Bertoncelli.
Il Bertoncelli, al diligentissimo collega nostro Spandri riunendosi, esperimenti a tentare si diede di un’arte, arte che
totalmente nuova è, la Galvanoplastica. E tosto ne vollero l’Accademia ed il pubblico addottrinati, narrandone come il professore
Giacobbi di Pietroburgo solo nell’anno 1837, a caso la scoperse, e indi alla presente perfezion la condusse.
Ci mostrano poscia come fisicamente succeda e per quali cause sul metallo la mirabile reimpressione. La utilità palesano,
che trarne può la Calcografia; e tessendo con eleganza pari alla scienza e verità la storia dell’incisione, veder ci fanno, che
prontamente e con vantaggio la Galvanoplastica sostituir vi si possa.

20
FRIEDRICH KLEMM, Zamboni e la sua pila a secco nel 200° anniversario della nascita. Verona, 1° giugno 1776, «Atti
e memorie dell’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona», a.a. 1975-76, CLII, Verona, 1977, p. 164.
21
ANGELO COMINZONI, Metodi profilatico e curativo a prevenire e curare la malattia del calcino nei bachi da seta,
«Memorie dell’Accademia di Agricoltura Commercio ed Arti di Verona», XV, Verona, 1834, pp. 95-96.
22
Il termine viene introduttivamente così spiegato: «Il nome di Carolo, che in veronese dialetto importa lo stesso che
tarlo, venne a questo male, io mi penso, o perché si supponesse causato da qualche insetto corroditore; o più veramente
per la polvere, di cui si copre la pianta, non diversa in apparenza da quella, che formasi dal baco abitatore del legno, la
quale pur tarlo si chiama». GIULIO SANDRI, Sulla vera causa del carolo del riso e sui mezzi di riparare a questo
disastro. Cenni letti… il 4 Gennajo 1838, «Memorie dell’Accademia di Agricoltura Commercio ed Arti di Verona»,
XV, Verona, 1834 (sic!), p. 148. Il lavoro del Sandri viene criticato in LUIGI POLFRANCESCHI, Argomenti e
considerazioni desunte da lunghe diligenti sperimentate osservazioni conducenti al riconoscimento delle cause
generatrici il carolo nelle risaje ed il modo di impedire la ricomparsa di così dannoso malanno, Memoria manoscritta
del 22 settembre 1848, in Archivio Aaslvr, B II 8.
23
GIULIO SANDRI, Sulla vera causa del carolo del riso, cit., p. 165.
24
Un elenco dei membri dell’Accademia fissa la data di cooptazione nell’organismo accademico tra i Sozj Attivi nel 10
dicembre 1838. Quindi Spandri è stato ammesso subito nel livello più alto dei due in cui si articola l’Accademia.
L’altro, inferiore, è quello dei Sozj Corrispondenti. Cfr. Elenco dei membri componenti l’Accademia di Agricoltura,
«Memorie dell’Accademia d’Agricoltura Commercio ed Arti di Verona», XIX, Verona, 1841, p. 297.
25
GIOVANNI ANTONIO CAMPOSTRINI, Storia degli anni 1836, 1837, 1838, «Memorie dell’Accademia d’Agricoltura
Commercio ed Arti di Verona», XVI, Verona, 1840, p. 131.
26
GIUSEPPE BERETTA, Relazione storica de’ fatti dell’Accademia veronese degli anni 1839, 1840, 1841, «Memorie
dell’Accademia d’Agricoltura Commercio ed Arti di Verona», XX, Verona, 1842, p. 136.

5
Caldi poi, siccome ambedue sono dell’amor patrio e d’ogni utile disciplina, trascelsero per esperimento colla nuova arte
tradurre, dirò così, la medaglia, che un re italiano ai dotti italiani donava in Congresso riuniti sulle pacifiche sonde della Dora reale 27.

Altre memorie presenta l’Emilj.


Lo Spandri tre volte di altrettante memorie parlò del celebre Sig. Canonico Bellani, scritte sui Bachi da seta, e sui Gelsi; e
lodandone tutto ciò che di lode degno trovò, e tutto brevemente riunendo, con quella cortesia, che all’accostumato animo s’addice di
lui, alla schiettezza unita, qualche neo dell’autore osservava: e dotto, siccom’egli è, cose aggiungea dal Bellani non dette, dal tesoro
dell’ampie sue cognizioni, e dall’esperienza togliendole28.

E che lo Spandri moltiplici ed estese abbia le cognizioni, talché la sapienza retaggio nobilissimo dir si possa della sua casa,
arra ne diede, profondamente favellando sopra ingegnosa memoria del fisico Gazzaniga, che della reciproca influenza tratta dell’un
occhio coll’altro nel veder chiaro e distinto. E quando il chiarissimo Padovano de-Zigno all’Accademia la rara inviò sua memoria
sopra alcuni corpi organici, che si osservano nelle infusioni, e di questa, tutto il merito per apprezzarne, riferitore lo Spandri
nominava29.

Luigi Morando de Rizzoni riporta la spiegazione di Spandri sul fenomeno della rugiada per
poi concludere con un invito ai contadini: «Gaetano Spandri parlando della rugiada ci fa conoscere
che Fusinieri vuole che essa ascenda perché vicino a terra vi è più freddo, e particolarmente rasente
ad essa vi è uno strato d’aria alto da due a tre pollici circa assai più freddo dei soprastanti; ma lo
Spandri dichiara che ciò avviene per il repente passaggio dell’acqua dal suolo allo stato aeriforme,
la quale s’appropria il calorico che ha vicino. Esso crede invece col Wels che la rugiada discenda,
perché i vapori innalzati ed elastici si condensano e si fanno globetti per lo freddo sopraggiunto al
cessare del sole. Ciò nulla a meno ammette lo Spandri che la rugiada è più abbondante nelle parti
più basse a cagione di quello strato d’aria più fredda notato dal Fusinieri. Agronomi badate a questa
teoria, ed esperimentate se vi giovi in terreni arsicci preferire alle alte la coltivazione di piante basse
perché sono più irrorate30.
Luigi Morando de Rizzoni ci illustra quindi l’opinione dello Spandri sul magnetismo
terrestre: «Lo stesso Spandri in una lezione sul magnetismo terrestre ci ha fatto conoscere
l’esperimento, che, due palle di eguale peso e volume, l’una magnetica, l’altra no, lasciate cadere da
un’altezza, la magnetica sempre lasciasi indietro l’altra, e ciò maggiormente quando il polo nord è
vôlto alla terra. Dichiarò ancora, che le variazioni magnetiche sono in istretta relazione colle
meteore. Ciò posto ci rese istrutti che da questi due fatti il professore Gazzaniga, nostro socio
onorario, trasse a comporre il bel ritrovato di una magnete posta in bilico su d’una bilancia col polo
nord vôlto alla terra, la quale offre nelle sue oscillazioni e cangiamenti di peso un indicatore
meteorologico il più delicato e fedele che possa desiderarsi: se v’ha calma o sereno scema il peso
magnetico; aumenta il peso se il cielo si rannuvola; e tanto più aumenta quanta più elettricità si
sviluppa; e l’indice della bilancia oscilla durante i temporali. Per questo, e per tanti altri fenomeni
ed esperimenti ammette lo Spandri che possa essere sufficientemente spiegata la tesi, che il nostro
Pianeta sia una magnete, che col sottilissimo etere tutti occupi a saturazione i vasti spazi del
firmamento: essere perciò assai probabile che Iddio nel dare il primo moto agli astri vi infondesse il
magnetismo qual primaria generale proprietà, che con sue forze reciproche provvedesse al
maraviglioso continuato ordine celeste. Umane aberrazioni mettono talvolta l’uomo al di sotto dei
bruti, Gaetano Spandri ci compensa, innalzandolo alla massima sua dignità, col metterlo sulla via
che discopre il magistero della creazione e dell’ordine del mondo»31.

27
PIETRO DEGLI EMILJ, Storia dell’Accademia d’Agricoltura, Arti e Commercio di Verona degli anni 1842, 1843, 1844,
Letta il 28 agosto 1845, «Memorie dell’Accademia d’Agricoltura Commercio ed Arti di Verona», XXI, Verona, 1846,
pp. 45-46.
28
EMILJ, Storia dell’Accademia d’Agricoltura, Arti e Commercio di Verona degli anni 1842, 1843, 1844, cit., p. 50.
29
EMILJ, Storia dell’Accademia d’Agricoltura, Arti e Commercio di Verona degli anni 1842, 1843, 1844, cit., p. 51.
30
LUIGI MORANDO DE RIZZONI, Storia dell’Accademia di Agricoltura Arti e Commercio di Verona degli anni 1845
1846 1847, Letta il 22 maggio 1851, «Memorie dell’Accademia d’Agricoltura Commercio ed Arti di Verona», XXV,
Verona, 1851, pp. 239-240.
31
MORANDO DE RIZZONI, Storia dell’Accademia di Agricoltura Arti e Commercio di Verona degli anni 1845 1846
1847, cit., pp. 240-241.

6
La terza memoria segnalata da Luigi Morando de Rizzoni riguarda l’elettricità applicata in
medicina: «Gaetano Spandri dà relazione del moltiplicatore di Faraday che a mezzo del bel
magistero della macchina del Callan induce una corrente di elettrico simile a quella poderosa della
pila del Volta, ma che può essere infrenata dall’esperto fisiologo, e condotta con più o meno forza
per la via ch’egli assegna: per tal modo non è mai molesta, non turba fluidi, non altera tessuti
animali, s’applica a un organo o ad una sola regione. A differenza degli altri farmachi l’azione di
questo è sempre eguale in ogni persona: e giova a paralisi, freddi tumori, disordinate secrezioni, e a
riconoscere la vita del feto, e lo stato degli organi. L’elettrico abbandonato a sè stesso è fulmine;
guidato dagli uomini è luce, potenza impellente, telegrafo, medicina. Questo è utile progresso che
non può mai mancare; questa è gloria a’ quei sommi ingegni non peritura»32.

2.4. Memorie accademiche

Raccolgo in un semplice elenco cronologico le memorie manoscritte di Gaetano Spandri,


lette e conservate presso l’Accademia di Agricoltura, eventualmente accompagnandole con qualche
riga esemplificativa e/o esplicativa, senza la pretesa di procedere a una presentazione dei loro
contenuti e ancor meno a formulare una valutazione scientifica delle stesse, operazioni che esulano
dagli scopi del presente contributo.

La macchina magneto-elettrica di Newman, Memoria letta il 4 agosto 184233. Premette alla


presentazione della macchina alcune nozioni di ordine generale sul magnetismo, sulla «grande
scoperta di Oersted del deviamento cioè di un ago magnetico appressato al filo congiuntivo di una
Pila voltiana si fu quella che rinforzò grandemente l’antico sospetto della identità dei due Fluidi
Magnetico ed Elettrico», e sulle scoperte del «celebratissimo Ampère scopritore del moderno
sistema», e del «grande inglese Sig. Faraday scopritore delle così dette Correnti d’Induzione». Le
scoperte di Ampère e Faraday hanno portato alla realizzazione della «macchina elettromagnetica»,
«per la quale si ottengono gli effetti tutti della Pila del Volta, con maggior energia… ed in modo di
gran lunga più semplice». «Una di queste Macchine costrutta dal medesimo Newman venne
acquistata da un Colonnello Comandante del Corpo dei Vigili, e di Londra recata a Roma, dove fu
comperata dal Gabinetto Fisico del Collegio Romano». Fece conoscere la macchina a tutta
l’Europa il Padre Pianciani con una sua relazione, tenuta nell’Accademia dei Lincei e pubblicata a
Roma nel 1836. Spandri prosegue, quindi, narrando del suo interessamento per la macchina:
«Essendomi fortemente invaghito di questa Macchina, mi si è messo in cuore il desiderio di
possederla, e quindi ne feci costruire una a Roma eguale a quella del Newman; la quale essendo
piaciuta assaissimo al su lodato nostro Sozio esimio Fisico Abate Zamboni, a Lui la cessi
accignendomi a costruirne altra simile per mio uso. E già posto l’occhio nel bravo artefice
Agostino Farinati, la cui perizia avea moltissime altre volte sperimentata, fu da lui accettato il
carico di quel difficil lavoro. Se non che fidato sulla provata maestria del Farinati non mi contentai
già d’una copia fedele della Macchina acquistata, ma procacciai soprattutto che aumentando di
poco le dimensioni, la nuova costruita desse effetti più forti e più luminosi».
«E veramente con questa nuova Macchina Magnetelettrica… ottengo per modo cospicuo gli
effetti tutti dell’apparato voltiano… Ottengo infatti una corrente elettrica si può dire continua,
oltrepassando il numero di 1680 correnti elettriche al minuto primo. Anche le scintille ad ogni
minuto primo vanno oltre le 840; di che ne viene uno scintillamento vivissimo. Le scosse son
vigorose ed a molti affatto insoffribili. La tensione elettrica indicata nell’Elettrometro a Pile secche
è veramente cospicua… Ma soprattutto riesce in questa nuova Macchina maraviglioso il vedere al

32
MORANDO DE RIZZONI, Storia dell’Accademia di Agricoltura Arti e Commercio di Verona degli anni 1845 1846
1847, cit., pp. 241.
33
GAETANO SPANDRI, La macchina magneto-elettrica di Newman, Memoria letta il 4 agosto 1842, pp. 8 [Aavr,
Manoscritto, B II 29].

7
primo urto della ruota roventarsi il Platino, al secondo il più delle volte fortemente scintillare e
subitamente liquefarsi»34.

Cenni intorno lo Scritto del Canonico Angelo Bellani sulle macchie delle foglie del gelso
dette il seccume, Memoria letta il 4 settembre 184235. Questo l’inizio della Memoria: «Intervenuto
l’anno 1840 al Congresso degli Scienziati in Torino il Chiarissimo Canonico Mons. Angelo Bellani,
uno de’ primi Fisici che illustrano il secol nostro, celebratissimo sopra tutto per le sue originali
scoperte nella teorica e pratica costruzione degl’Istromenti meteorologici, venne onorevolmente
invitato dalla Sezione di Agronomia e Tecnologia a voler manifestare lo stimato parer suo sopra
“La causa produttrice le macchie delle foglie del Gelso”, malattia che suolsi chiamare il Seccume,
e presso di noi col nome volgare di Fersa, al quale invito l’esimio Fisico plausibilmente rispose,
cessandosi però dal definire la questione»36.

Sopra la Galvanoplastica, Memoria letta il 12 maggio 184237. La galvanoplastica «ripete…


la propria genealogia… dalla pila del Volta». Inventore nel 1837 è il prussiano Jacobi
dell’Accademia imperiale di Pietroburgo. La memoria illustra il fenomeno chimico e poi
l’apparecchio, spiegando che «né l’opera della galvanoplastica si limita a riprodurne i lavori già
incisi… ed offre, volendosi, una piastra incisa con un disegno originale senza l’intervento
dell’incisore». Come esempio di prodotto realizzato si cita una medaglia fatta eseguire da re Carlo
Alberto. «Soggetto dei nostri lavori primo e più caro fu la medaglia che monumento al nome
italiano dedicò l’illustre Mecenate delle scienze e delle arti il Re Carlo Alberto, allorché nella
capitale dei suoi stati si congregarono a scientifico congresso i dotti d’Italia. Esimia per lavoro e
per mole, sacra pel titolo, non credemmo poterci occupare in opera a voi più gradita che nello
studio di riprodurla, e quindi l’originale, che dalla cortesia dell’egregio Prof. di Fisica Gazzaniga
fu messo a nostro beneplacito, servì a fornirci coll’apparecchio galvanoplastico le controprove, a
mezzo delle quali collo stesso apparecchio potemmo ricostruire l’esemplare modello che ora vi
presentiamo»38.

Rapporto della Memoria sui bachi e sui gelsi del canonico Angelo Bellani, Memoria letta
l’1 dicembre 184239. Il canonico Bellani, «socio onorario della nostra Accademia», ha pubblicato
nel 15° volume del «Giornale Agrario Lombardo-Veneto» un articolo sui bachi da seta e sui gelsi,
tema di enorme rilievo essendo l’area lombardo-veneta la «più ferace di seta» a livello europeo ed
asiatico. L’incarico avuto dall’Accademia di presentare ai soci il lavoro del Bellani gli provoca
imbarazzo in quanto «l’illustre Scrittore non fece in quasi tutta questa sudata sua Produzione, che
compilare una quantità grande di brani, qua e colà raccapezzati nei tre Volumi degli Annali del
Setificio, pubblicati a Parigi gli anni 1837-38-39, aggiugnendovi Egli alcune sue riflessioni. Non
essendo adunque tutto questo Lavoro che un Sunto per così dire dei tre Volumi dello stesso
Giornale Agrario Lombardo-Veneto, non che del Memorial Encyclopedique 1840, io mi vidi
condotto a dover trarre il Sunto da un altro Sunto»40.

34
SPANDRI, La macchina magneto-elettrica di Newman, cit., pp. 4-6.
35
GAETANO SPANDRI, Cenni intorno lo Scritto del Canonico Angelo Bellani sulle macchie delle foglie del gelso dette il
seccume, Memoria letta il 4 settembre 1842, pp. 9 [Aavr, Manoscritto, B II 21].
36
SPANDRI, Cenni intorno lo Scritto del Canonico Angelo Bellani sulle macchie delle foglie del gelso dette il seccume,
cit., p. 1.
37
GAETANO SPANDRI, Sopra la Galvanoplastica, Memoria letta il 12 maggio 1842, in collaborazione con Giacomo
Bertoncelli, pp. 13 [Aavr, Manoscritto, B III 21].
38
SPANDRI, Sopra la Galvanoplastica, cit., pp. 11-12.
39
GAETANO SPANDRI, Rapporto della Memoria sui bachi e sui gelsi del canonico Angelo Bellani, Memoria letta l’1
dicembre 1842, pp. 12 [Aavr, Manoscritto, B II 27].
40
SPANDRI, Rapporto della Memoria sui bachi e sui gelsi del canonico Angelo Bellani, cit., p. 1.

8
Cenni sulla Memoria del Dr. Cesare Leopoldo Gazzaniga professore di fisica e storia
naturale nell’Istituto filosofico privilegiato di Desenzano. Tratta della reciproca influenza dell’un
occhio coll’altro nel veder chiaro e distinto, Memoria letta il 9 febbraio 184341.

Rapporto della Memoria sui bachi da seta e sui gelsi del Chiarissimo Abate Angelo
Bellani Canonico, Memoria letta il 13 febbraio 184442. L’abate Bellani viene pubblicando sul
«Giornale Agrario Lombardo Veneto». Spandri parla degli articoli nei quali il Bellani si è scagliato
contro i «diversi scritti, stati presentati al Concorso pel premio proposto dalla Real Società Agraria
di Torino e dall’I. R. Istituto Lombardo; e (cosa che reca in ver maraviglia) non trovò in tutte quelle
Dissertazioni nulla che per utile novità fosse meritevol di lode; come dai processi eziandio rilevasi
delle Commissioni medesime, che ad esaminarle furono delegate: si restrinse perciò il Bellani a
farci conoscere il vôto, l’irragionevole, e qualche volta il ridicolo di alcuni dei loro precetti»43.

Alcune parole sul Discorso letto all’I.R. Istituto Lombardo dal Membro Effettivo Mons.
Angelo Bellani, «Sopra quanto ancor rimarrebbe a sapersi intorno la coltivazione dei bachi da
seta e dei gelsi», Memoria letta il 2 maggio 184444. Critica il Bellani in questo passaggio: «…nella
Memoria dell’egregio nostro Socio e Presidente di questa Accademia Nob. Signore De Campostrini
avvi la soluzione di molti argomenti, che dal Bellani vorrebbonsi incerti o sconosciuti, intorno a’
quali null’altro or più ci rimane a sapere; e le dottrine di cui essa Memoria va ricca hanno tutte
per base esperienze proprie, e quelle eziandio assai interessanti, e più fiate ripetute dal
diligentissimo e dotto nostro concittadino e collega Don Nicola Mazza, Uomo benemerito
sommamente delle Arti belle, dell’Umanità, e della Religione, e della Patria nostra decoro e
gloria»45.

Saggio sulla memoria del sig. Achille De Zigno «Sopra alcuni corpi organici che si
osservano nelle infusioni», Memoria letta il 22 agosto 184446. Nella sua memoria il De Zigno «si
accinge ad abbattere la proposizione della generazione spontanea di certi esseri vegetabili ed
animali sostenuta da alcuni Autori sì italiani come stranieri». Tra le opinioni contrastate c’è quella
di Biasoletto, il quale «annunciò aver Egli osservato alcune Alghe generarsi pegli infusi di varie
piante, la cui origine egli attribuiva alla sola chimica decomposizione di sostanze organiche sciolte
in un fluido. Quando invece la spiegazione più ovvia alla generazione delle sostanze osservate dal
Biasoletto e dallo stesso De Zigno si è quella da quest’ultimo addotta dello svilupparsi di sporule di
qualche vegetabile microscopico cadute per caso, e fissatesi sovra quelle piante e quelle foglie che
si sottoposero all’infusione»47.

41
GAETANO SPANDRI, Cenni sulla Memoria del Dr. Cesare Leopoldo Gazzaniga professore di fisica e storia naturale
nell’Istituto filosofico privilegiato di Desenzano. Tratta della reciproca influenza dell’un occhio coll’altro nel veder
chiaro e distinto, Memoria letta il 9 febbraio 1843, pp. 6 [Aavr, Manoscritto, B II 25].
42
GAETANO SPANDRI, Rapporto della Memoria sui bachi da seta e sui gelsi del Chiarissimo Abate Angelo Bellani
Canonico, Memoria letta il 13 febbraio 1844, pp. 7 [Aavr, B II 28].
43
SPANDRI, Rapporto della Memoria sui bachi da seta e sui gelsi del Chiarissimo Abate Angelo Bellani Canonico, cit.,
p. 1.
44
GAETANO SPANDRI, Alcune parole sul Discorso letto all’I.R. Istituto Lombardo dal Membro Effettivo Mons. Angelo
Bellani, «Sopra quanto ancor rimarrebbe a sapersi intorno la coltivazione dei bachi da seta e dei gelsi», Memoria letta
il 2 maggio 1844, pp. 6 [Aavr, Manoscritto, B II 26].
45
SPANDRI, Alcune parole sul Discorso letto all’I.R. Istituto Lombardo dal Membro Effettivo Mons. Angelo Bellani,
cit., pp. 4-5.
46
GAETANO SPANDRI, Saggio sulla memoria del sig. Achille De Zigno «Sopra alcuni corpi organici che si osservano
nelle infusioni», Memoria letta il 22 agosto 1844, pp. 9 [Aavr, Manoscritto, B V 54].
47
SPANDRI, Saggio sulla memoria del sig. Achille De Zigno «Sopra alcuni corpi organici che si osservano nelle
infusioni», cit., p. 3.

9
Sulla Nuova Macchina di Callan, Memoria letta il 7 agosto 184548. «L’anno 1842 ebbi
l’onore di offerirvi, o Signori, una nuova Macchina magnetelettrica, detta di Newman dall’Inglese
suo costruttore o perfezionatore; col mezzo della quale per la semplice presenza di una calamita
artificial permanente, senza concorso alcuno di meccanica o chimica azione, aveansi effetti fisici,
chimici, fisiologici, magnetici &; e fu in vero opera maravigliosa l’aver così felicemente saputo
dalle Correnti Indotte e Ricondotte del celebre Faraday trar gli effetti che ottengonsi dalla Pila di
Volta, e dalla macchina di Guerike»49. Ora ne presenta un’altra «della prima assai più semplice e di
un effetto sorprendente», ricavata da una acquistata in Milano dall’abate Zamboni. Dopo averla
descritta nella sua composizione meccanica, indica le applicazioni terapeutiche: «Se ne fece uso con
felice successo contro ogni maniera di Paralisi; si adoperò a promuovere la risoluzione di Freddi
tumori; ad aumentare o riordinare alcune secrezioni, a riconoscere ben anche la vita del Feto in
alcune gravi e delicate questioni di Ostetricia; ed alcune esperienze tendono a mostrarlo di
probabile utilità contro il Valvalo medesimo; e valevole eziandio a riconoscere lo stato degli
organi in certi casi di latenti malattie»50.

Il magnetismo terrestre. Memoria nella quale si dà il sunto di una Nota sullo stesso
argomento del Prof. Cesare Leopoldo Gazzaniga, Memoria letta il 25 febbraio 1847, pp. 13.
Dentro c’è a stampa la nota di Cazzaniga, datata Desenzano 9 marzo 1843, mentre il Gazzaniga si
dichiara di Pavia. Il Gazzaniga è socio onorario dell’Accademia La nota di Gazzaniga: CESARE
LEOPOLDO GAZZANIGA, Sopra il magnetismo terrestre, Desenzano, 1843, pp. 21, «Annali delle
Scienze del Regno Lombardo-Veneto», Bimestri V e VI, 184251.

2.5. La scheda anagrafica di Gaetano Spandri e del figlio Giuseppe

Riproduciamo quanto contenuto nelle anagrafi austriache in relazione a Gaetano Spandri e al


figlio Giuseppe. Lo stato anagrafico di Gaetano Spandri è molto semplice, avendo egli avuto una
moglie e un figlio. Nel primo rilevamento, all’interno dello stesso nucleo familiare vivono il
capofamiglia, Gaetano, con la moglie, il figlio Giuseppe con la consorte, e la sorella di Gaetano,
Teresa Spandri. Nel secondo rilevamento Gaetano Spandri non ha più né moglie né figlio. Vive con
la sorella e una domestica.
Ben diversa la situazione anagrafica di Giuseppe Spandri. Egli risulta aver avuto tre mogli,
Rosa Riva, Erminia Caneva e Amalia De Norcen. Le prime due gli hanno dato un figlio ciascuna e
sono morte a poca distanza dal parto. La terza mette al mondo sette figli. Una metà di questi è però
segnata da mortalità infantile. Oltre ai figli legittimi, Giuseppe Spandri potrebbe anche aver avuto
una figlia fuori dal matrimonio.

Anagrafi Austriache. Comune di Verona (1836-1855), Verona, foglio 10470/0

Spandri Gaetano, figlio di Tommaso e di Maddalena Bertini, nasce il 30 luglio 1796.


Possidente, il 16 agosto 1818 si sposa con
MONGA VIRGINIA, figlia di Domenico e di Teresa Frattini, nata il 25 novembre 1802.
In casa all’anno risultano iscritti nel suo nucleo familiare il figlio
Spandri Giuseppe, nato l’1 ottobre 1819, studente,
sposato il 12 ottobre 1846 con
RIVA ROSA, figlia di Antonio e di Maddalena Zampieri, nata il 10 luglio 1816, morta il 3 febbraio
1848 in «S. Maria Organis».

48
GAETANO SPANDRI, Sulla Nuova Macchina di Callan, Memoria letta il 7 agosto 1845, pp. 9 [Aavr, Manoscritto, B II
23].
49
SPANDRI, Sulla Nuova Macchina di Callan, cit., p. 3.
50
SPANDRI, Sulla Nuova Macchina di Callan, cit., p. 8.
51
SPANDRI, Il magnetismo terrestre. Memoria nella quale si dà il sunto di una Nota sullo stesso argomento del Prof.
Cesare Leopoldo Gazzaniga, Memoria letta il 25 febbraio 1847, pp. 13 [Aavr, Manoscritto, B II 24].

10
Spandri Teresa, sorella di Gaetano, nata il 12 marzo 1789.

Anagrafi Austriache. Comune di Verona (1856-1871), Verona, indigeni, foglio 1296/0

Spandri Gaetano cessò di vivere il 30 novembre 1859 nella parrocchia di S. Eufemia. Ora lo si
dice nato il 20 e non il 30 luglio 1796.
Spandri Teresa, la si indica ora nata il 12 marzo 1799 e non il 12 marzo 1789.
Bortolini Susanna, domestica, figlia dei fu Antonio e Rosa Castagna, nata il 9 marzo 1823.

Anagrafi Austriache. Comune di Verona (1856-1871), Verona, indigeni, foglio 3368/0

Spandri Giuseppe, nato l’1 ottobre 1819, figlio di Gaetano e di Virginia Monga, vedovo di Rosa
Riva, risposato dal 6 febbraio 1849 al 27 dicembre 1860, con
CANEVA ERMINIA, nata il 17 dicembre 1817, figlia di Antonio e Antonia Massari, “cessò di vivere”
il 22 ottobre 1859 nella parrocchia di S. Eufemia.
Spandri Carlo, figlio di Giuseppe e ROSA RIVA, nato il 21 gennaio 1848.
Spandri Alfonso, figlio di Giuseppe e ERMINIA CANEVA, nato il 13 settembre 1857.
DE NORCEN AMALIA, nata il 4 luglio 1835, figlia di Tommaso e Anna Ponzoni, sposata con
Giuseppe Spandri il 27 dicembre 1860.

Dal matrimonio di GIUSEPPE SPANDRI con AMALIA DE NORCEN nascono:


Spandri Virginia, nata il 31 ottobre 1863, «cessò di vivere» il 14 dicembre 1863 in S. Eufemia.
Spandri Eugenia, nata il 10 gennaio 1865.
Spandri Vittoria, nata il 29 novembre 1866, «cessò di vivere» il 24 novembre 1869 in S. Eufemia.
Spandri Vittorio, nato il 29 agosto 1867, «cessò di vivere» il 18 novembre 1869 in S. Eufemia.
Spandri Aurelia, nata il 25 dicembre 1868,
Spandri Arpalice, nata il 7 luglio 1870
Spandri Giulio, nato il 14 aprile 1871, morì il 13 maggio 1871 in S. Eufemia.

Nelle anagrafi esiste anche una Spandri Teodolinda, nata nel 1863, figlia di Giuseppe e di
Maria Turco, che però abita in altro nucleo familiare. Di Maria Turco sappiamo che è nata nel 1840
e che era vedova quando rimase incinta.

2.6. Il figlio Giuseppe Spandri

Come il padre, Gaetano, anche il figlio Giuseppe pare figura interessante e meritevole di
approfondimento. Purtroppo come per il padre, anche su Giuseppe Spandri non abbiamo studi che
ne abbiano ricostruito il profilo umano e letterario. Conosciamo lo stato di famiglia dalle anagrafi
austriache, le quali ci fanno sapere che la sua vita fu segnata da molti lutti. Quanto invece alla sua
attività professionale, in questa sede mi limito a fare un semplice cenno ad alcune sue opere a
stampa. All’interno di queste è possibile recuperare qualche frammento biografico. I testi da me
presi in considerazione ci parlano di un uomo, autore di poesie e di prose storico-politiche, le cui
ambizioni letterarie non trovarono adeguata soddisfazione nella società del tempo, che sembra
averlo ignorato quando non umiliato con valutazioni del tutto negative sui suoi versi e sulle sue
elucubrazioni storico-politiche.

2.6.1. Ricordo di consanguinei, maestri e amici

Nelle ultime pagine del volumetto contenente, in prosa, «Lamentazione a Virginia» e, in


versi, «Frammenti di un poema. Il cosmo. Divinazioni», Giuseppe Spandri offre profili di
consanguinei e concittadini52. Parlando di sé, si era definito così:
52
GIUSEPPE SPANDRI, Lamentazione a Virginia. Pagina delle mie confessioni e frammenti cosmici, Con dedica
all’amico di Padova Andrea Cittadella Vigodarzere, Milano, Pirotta, 1858.

11
Ov’io nelle cui vene il chiaro sangue
Corre dell’Avo liberale e pio53.

In appendice, dell’«Avo liberale e pio», Domenico Monga, traccia questo profilo:


Domenico Monga, mio avo materno, che sfortunatamente non conobbi, perché morto il 6 gennajo 1822, non molto dopo la
mia nascita, nell’anno sessagesimo terzo dell’età sua.
Fu dotto ed eloquente giureconsulto ed economista: nel 1797 il vincitore d’Arcole e di Rivoli chiamollo a Milano nei
consigli della Cisalpina Repubblica54: e Verona l’inviò deputato al congresso di Bassano per l’inutilmente divisata Unione delle città
venete, non voluta da quel Bonaparte, che meditava Campoformio. Quindi esulò in Francia, rimpatriò. - Fu membro dell’Agraria
Accademia55 e dell’Istituto. Sino all’ultimo il fido amico del mio valente maestro l’abate Venturi56, che obbliò di lasciarcene la vita57.
Buon marito, buon padre, l’onore della patria, l’amore de’ buoni.

Il nome del Monga mi richiama alla mente immalinconita pur quello dell’altro mio ottimo Consanguineo, il valente
matematico e fisico Pietro Maggi58 (discepolo egregio del classico Zamboni), che in età ancor fresca, precipitosamente si riunì nel
sepolcro all’infortunato Fratello!...59

E la ricordazion del Venturi, nostro bravo ed ultimo orientalista ed archeologo, a cui la patria vertiginosa niegò (come al
Zamboni) i meritati onori del Panteon, m’impedisce di tacermi al tutto dell’altro mio austero precettore l’abate Bertoni, di cui
(benché da me poco amato!) pur sempre ammirai l’acuto ingegno, la dottrina, le virtù; ultimo lustro (col nostro P. Camillo

53
GIUSEPPE SPANDRI, Lamentazione a Virginia. Pagina delle mie confessioni e frammenti cosmici, cit., p. 61.
54
Domenico Monga fu chiamato a far parte dell’Istituto Lombardo, fondato da Napoleone per incrementare le arti e la
scienza. L’Istituto era suddiviso nelle sezioni di scienze fisiche e matematiche, di scienze morali e politiche, di
letteratura e belle arti. Tra i primi 31 membri nominati da Napoleone il 6 novembre 1802, accanto a Domenico Monga
figurano personalità illustri come Alessandro Volta, Andrea Appiani, Vincenzo Monti. Nel 1810 Napoleone approvava
la nuova denominazione di Istituto Reale di Scienze, Lettere ed Arti con sede a Brera, Milano, e con sezioni a Venezia,
Padova, Verona, Bologna.
55
Cfr. GIOVAMBATISTA ZOPPI, Storia dell’Accademia per gli anni 1821, 1822, «Memorie dell’Accademia d’Agricoltura
Commercio ed Arti di Verona», IX, Verona, 1824, pp. 144-145.
56
Giuseppe Venturi (Verona, 1766 - 1841). Personalità complessa, tra il 1797 e il 1805 fu secolarizzato. Fu fervente
massone e giacobino, fino alla conversione cui non fu estraneo San Gaspare Bertoni, in seguito alla quale fu «sacerdote
di vita intemerata». Brillò, tra l’altro, come archeologo, storico, filologo, poliglotta. PINO SIMONI, Nota sulle opere a
stampa dell’Abate Giuseppe Venturi, «Studi Storici Luigi Simeoni», 1990, pp. 117ss. Vedi anche il capitolo «Giuseppe
Venturi e la sua collezione d’antichità» in GIAN PAOLO MARCHINI, Antiquari e collezioni archeologiche dell’Ottocento
veronese, Verona, Edizioni di Vita Veronese, 1972, pp. 61-72.
57
Giuseppe Venturi fu autore di innumerevoli opere, tra cui GIUSEPPE VENTURI, Compendio della storia sacra e
profana di Verona, 2ª edizione accresciuta di ciò che riguarda la letteratura e gli edifici con figure in rame, Verona,
Pietro Bisesti, 1825.
58
Pietro Maggi nasce a Verona nel 1809, penultimo dei nove figli del medico Antonio. A nove anni entra nel Ginnasio
Vescovile, dove frequenta i quattro anni delle scuole di grammatica. Passa quindi al Ginnasio comunale di San
Sebastiano per il biennio di umanità. Entra poi al liceo, dove ha come docente l’abate Giuseppe Zamboni, che lo fa
innamorare delle materie scientifiche. Nel 1827 a Padova si iscrive alla facoltà di matematica. La conclusione degli
studi padovani ci è testimoniata dal prof. Rafaele Minich nell’elogio pronunciato alla morte di Pietro Maggi. Il
panegirista Minich ci ha lasciato questo spaccato dei costumi accademici e goliardici dell’epoca: «Nel luglio 1829
Maggi venne insignito della laurea di dottore nelle matematiche. Era costume in quell’epoca di promuovere in adunanza
generale e con apparato festivo alla fine di ogni anno scolastico i candidati a’ tre gradi della laurea in queste scienze, e
si eccitava con forte stimolo l’emulazione degli allievi, pubblicando al cospetto del Collegio dei Professori e d’un
numeroso ed eletto uditorio, le qualificazioni dei gradi riportati. Dopo quella solennità il giovane dottore si congedò dai
compagni in lieto simposio, indirizzando in loro onore alcuni suoi componimenti poetici». Pietro Maggi completa la sua
formazione frequentando lezioni anche a Pavia, quindi rientra a Verona, ove si dedica a studi che lo impegneranno per
tutta la vita, in parte nella solitudine della villa di Palazzolo, ereditata dai genitori. I primi lavori sono pubblicati nel
periodico il Poligrafo, curato dal conte Giulio Orti Manara. Pietro Maggi fu membro dell’Accademia di Agricoltura di
Verona, dell’Accademia Italiana delle Scienze detta dei Quaranta, e dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti. Dal
1850 è chiamato a ricoprire la cattedra di matematica applicata all’Università di Padova. Muore il 17 marzo 1854. La
bibliografia degli scritti editi e inediti di Pietro Maggi si legge in GIAMBATTISTA BIADEGO, Pietro Maggi matematico e
poeta veronese (1809-1854), Verona, H.F. Münster (C. Kayser succ.), 1872, p. 123 ss. Un breve profilo di Pietro Maggi
si legge in ETTORE CURI, Antonio Maria Lorgna (con cenni biografici sui quattordici veronesi chiamati a far parte
dell’Accademia dei XL), «Studi Storici Luigi Simeoni», 2005, p. 453.
59
Il fratello è Giuseppe Maggi, di cui parlo più avanti.

12
Bresciani60) della sacra veronese letteratura: il cui magistrale, degno dei Padri, Zenoniano discorso nel 1839, non sarebbe indegno
(ardisco dirlo) della penna istessa del Cesari61.

La stampa di «Lamentazione a Virginia» lo aveva trattenuto a Milano ospite dell’amico


veronese Innocenzo Fraccaroli, cui dedica un ricordo riconoscente nella stessa appendice in cui ha
evocato il nome di due suoi consanguinei, Domenico Monga e Pietro Maggi, intrecciati con quello
di due suoi maestri, Giuseppe Venturi e Gaspare Bertoni.
Verona a’ nostri giorni, più che in altre cose, brilla nell’arti, grazie all'aureo mio Amico il celebre Innocenzo Fraccaroli62:
per giudizio dell’Europeo giurì, che fregiollo nel 1855 della grande Medaglia, primo degli scultori dell'alta Italia: forse successore
futuro del Tenerani63 in quella Roma, che fu seggio al Canova; e in cui egli si confida poter attuare in marmo gigantesco il già
modellato suo gruppo d'una Deposizion dalla Croce; che piacque a migliori artisti d'Italia - senza dubbio predestinato ad ornare uno
de’ più gran Tempj della cristianità!
Il Fraccaroli attende ancor da più anni che la sua patria risolvasi alfine a non voler esser da meno dell’altre italiane città
onoratrici de’ lor Grandi; e decreti l'effettuazione del monumento a Sammicheli ch’Ei sì nobilmente ideò! Benché prima che a quello
del prode Architetto, doveasi pensare al simulacro di Colui che solo dal mondo intero è chiamato per eccellenza il Veronese!

E s'abbiano l'illustre Artista, e la sua eccellente e culta signora Felicita i miei pubblici omaggi per la generosa ospitalità di
cui mi rallegrarono i giorni difficili, ne' quali per l'impressione di queste pagine, dovetti sostare nella per me sì splendida, sì cara, sì
malinconica Milano! (Giugno l858)64.

2.6.2. Elementi biografici in «Lamentazione a Virginia»

Elementi biografici si ricavano nella «Lamentazione a Virginia», un colloquio con la donna


amata, morta da dieci anni dando alla luce il loro figlio. A lei confida il percorso intellettuale e gli
inutili tentativi di affermarsi sulla scena letteraria italiana. Con lei lamenta le sue difficoltà
economiche, aggravate dalla necessità di far crescere il figlio, a motivo dell’indifferenza della città
natale nella quale non trova un posto come insegnante non avendo egli titoli accademici legali.
La patria mia, matrigna [...] anziché incoraggiare chi scrisse le sole pagine ardenti ispirate originali […] ch’ella possa
vantare dopo la morte di Cesari e del Pindemonte, saggiamente riserba i suoi municipali magisteri alle grandi celebrità di cui
ribocca!... La carriera delle alte eloquenti Cattedre, mia vera vocazione, mi è fatalmente preclusa dall’esser io sfornito de’ necessarj
diplomi: e se finora vissi, grettamente sì, ma pur vissi, insegnando alcun poco delle dotte lingue e delle matematiche mie gradite, […]
omai anche questa fonte per me inaridissi del tutto; […] l’ultimo chierico mi è preferito!... Onde io mi veggo propriamente astretto a
limosinare. […] M’avvicino a gran passi ai tristi 40 anni […] nella brutta inopia […] e nella turpe assiderante oblivione65.

Con linguaggio allusivo ripercorre alcune esperienze vissute con l’amata, donna dalle
«formosissime membra». A lei rammenta il saggio giovanile, «Sapienza»66, da lui scritto «imberbe
ancora, e uscito appena dalle fasce seminarili, e dal chiostro Benedettino», un’esperienza monastica
accennata anche là dove, evocando la «virginea tua prima giovinezza», le rammenta come «io ti
ridiceva le monastiche agitazioni e pedestri amaritudini della mia»67. Altra esperienza fondamentale

60
ANGELO BRUSCO, P. Camillo Cesare Bresciani fondatore della provincia lombardo-veneta dei chierici regolari
ministri degli infermi (camilliani), Milano, Il Pio Samaritano, 1972.
61
GIUSEPPE SPANDRI, Lamentazione a Virginia. Pagina delle mie confessioni e frammenti cosmici, cit., pp. 65-66.
62
Innocenzo Fracccaroli (Castelrotto, Verona, 1805 - Milano, 1882). Studia a Venezia, Milano e Roma alla scuola di
Bertel Thorwaldsen e Pietro Tenerani. Vive prevalentemente a Milano, salvo l’intermezzo in cui fu chiamato, a partire
dal 1842, a insegnare nell’Accademia di Firenze. Allgemeines Künstlerlexikon, 43, 2005, p. 202. Cfr. MONICA DE
VINCENTI, Scultori veronesi del primo Ottocento, in SERGIO MARINELLI (a cura di), L’Ottocento a Verona, Verona,
Cariverona, 2001, pp. 162ss.
63
Pietro Tenerani (Carrara, 1789 - Roma, 1869). Fu allievo di Antonio Canova e di Bertel Thorwaldsen. La sua
produzione è sparsa in tutto il continente.
64
GIUSEPPE SPANDRI, Lamentazione a Virginia. Pagina delle mie confessioni e frammenti cosmici, cit., pp. 66-67.
65
GIUSEPPE SPANDRI, Lamentazione a Virginia. Pagina delle mie confessioni e frammenti cosmici, cit., pp. 27-28.
66
Così il Dalle Vedove: «E’ una specie di somma che abbraccia teologia e filosofia, scienze ed arti. In essa lo Spandri
palesa una ardente passione per la ricerca del vero, una grande brama di giungere realmente alla verità prima ed eterna.
Sul frontespizio della copia inviata alle Stimmate vi appone la dedica autografa: “Al suo Onorando Precettore Sig. Don
Gaspare Bertoni in segno di riverente gratitudine. L’autore Giuseppe Spandri”». NELLO DALLE VEDOVE, San Gaspare
Bertoni e l’istituto delle “Stimmate” nella prima metà dell’800 veronese (1816-1855), Parte III (1839-1855), Volume 6,
Roma, Postulazione generale Stimmatini, 1991, p. 282.
67
GIUSEPPE SPANDRI, Lamentazione a Virginia. Pagina delle mie confessioni e frammenti cosmici, cit., pp. 14-15.

13
della sua vita è quella dell’enteismo, da lui stesso spiegato in nota, precisando: «Enteismo (in tutto è
Dio), ben diverso dal Panteismo (il tutto è Dio), e dal Misticismo (Dio è tutto)». Un enteismo,
abbracciato fin dal primo lavoro, ma di cui si arricchì nel corso di soggiorni effettuati insieme alla
donna amata a Milano e a Torino.
Ispirato dall’amor tuo e dal senno, proseguii alacre le mie lucubrazioni e scoperte sull’Enteismo: mia nuova filosofia, solo
accennata incomprensibilmente e di volo, nel mio primo lavoro: che abbozzai quindi fra le tue braccia, e non presago, ahi! della
vicina tua morte, nella capital dell’Insubria; dopo una rapida e mesta corsa a quel troppo vantato Piemonte, che ad ambedue ispirò
una profetica antipatia, perché più che dell’italiane speranze, focolare dell’italiano delirio!68

Nello sfogo con la donna amata, morta da dieci anni, Spandri torna alla sua condizione
fallimentare. A nulla è servito il suo impegno di pensatore e di cantore della creatura femminile
amata. Il mondo lo ignora.
Ma come potrò io tacerti, Ben mio! l’ognor crescente desolazione della mia anima, e la pressoché disperata condizion di
mia vita; come a motivo de’ lunghissimi studj inutili e ruinosi le mie tenui fortune si emunsero per modo, da vedermi propriamente a
due dita dalla miseria?... Ecco, ecco, o mia Cara, il frutto doloroso di ben 18 anni di meditazioni disinteressate conscienziose,
perseveranti; e soprattutto di questi ultimi 10 anni, da che Tu mi lasciasti in un mare di lagrime: e in cui sol m’occupai di glorificar
Te, o mia Prediletta, e secondo le poche mie forze onorare l’Italia!... Frustra laboravimus!69

Oltre all’indifferenza, o addirittura al sarcasmo dei critici, Spandri lamenta le difficoltà


incontrate con la censura austriaca. Lo fa scrivendo nel 1867 al direttore del giornale fiorentino La
Speranza, che aveva ospitato una «satira indiavolata» contro il suo opuscolo Dov’è un Filicaja?,
apparso l’anno prima. Al direttore invia uno scritto di protesta per la recensione negativa,
accompagnandolo però con l’omaggio di due suoi opuscoli, così descritti:
Il primo: Dante, Lamartine, Virginia: Divinazioni e Pensieri dell’Incivilimento, Fiore d’un Poema Il Cosmo; che
pubblicai nel 1857 a Torino, con infinite difficoltà e patimenti, fu tosto proibito in Austria e mi costò qualche persecuzione.
Il secondo intitolato: Lamentazione a Virginia e Frammenti cosmici, è in parte la mutilata riproduzione dell’opuscolo
torinese, che con grandi fatiche ottenni a Milano nel Giugno 1858, mentre pur durava il sequestro di un’antecedente edizione, che
avea tentato in Gennajo, perché non mutilata abbastanza. Ed io n’ebbi un nembo di giornalistici scherni, soprattutto dal mediocre
borioso Crepuscolo, e le caricature dell’Uomo di Pietra70.

2.6.3. Lamartine e Napoleone III

Il culto di Giuseppe Spandri per Lamartine è fondato sulla mitizzazione di un personaggio


che è stato per breve tempo capo di un governo repubblicano, presto spazzato via dalle ambizioni di
Napoleone III, impegnato a restaurare in Francia un potere dispotico, analogo a quello di Napoleone
I. Ciò che Spandri auspica è la caduta di Napoleone III e il ritorno in Francia di una repubblica, che
dovrà tra i suoi primi atti cancellare il concordato, ridimensionando la chiesa, effettuare un
decentramento amministrativo, e abolire l’esercito, sostituito da milizie sul modello svizzero. A
Napoleone III addebita la responsabilità per quanto patito dagli italiani, la cui riunificazione è stata
ritardata dall’armistizio di Villafranca e dal veto a un colpo di mano contro ciò che rimaneva dello
stato pontificio. La veemente avversione di Giuseppe Spandri nei confronti dell’imperatore
liberticida, Napoleone III, ormai da quasi vent’anni al potere, viene espressa così:
Quanto a me, mente ed anima piuttosto europea che italiana (colpa, gran colpa, per tanti fanatici e angusti cervelli de’ miei
compatrioti!) francamente dirò, che infinito sterminato è l’antico mio aborrimento pei Bonaparte, pel gesuitesco Nipote ancor più che
pel belligero Zio. Mazzini e i proscritti del 2 Dicembre non mi possono in questo certamente soverchiare. Ma io lo odio ed esecro più
specialmente pel lungo lungo e quasi eterno suo regno, ahi, seminato per me di tanti domestici e patri lutti, le agonie del Maggi nelle
prigioni di Mantova71, il palco di Montanari!72, regno ventenne, che (lo confesso) non prevedea, […]; regno machiavellico che

68
GIUSEPPE SPANDRI, Lamentazione a Virginia. Pagina delle mie confessioni e frammenti cosmici, cit., p. 13.
69
GIUSEPPE SPANDRI, Lamentazione a Virginia. Pagina delle mie confessioni e frammenti cosmici, cit., p. 27.
70
GIUSEPPE SPANDRI, Che sarà nel 1868? Confessione e presentimenti sul Washington europeo. Cantico dell’avvenire
ad Alfonso di Lamartine ed Inno dei secoli italiani, Ristampato e corretto con filosofiche esplicazioni, Firenze, Civelli,
1867, p. 17.
71
Il medico Giuseppe Maggi, fratello di Pietro Maggi, fu arrestato nell’ambito delle operazioni di polizia che portarono
ai martiri di Belfiore. Visitato nel carcere di Mantova dal fratello Battista Maggi, questi ne riportò un’impressione tale
per cui nel raccontare ai familiari le condizioni di Giuseppe «si commosse… sì fortemente che rimase fulminato da

14
seppellì quasi tutta l’eroica generazione del ’48 […], coll’augusto e quasi ottuagenario lor Capo. Ma soprattutto io t’odio ed aborro, o
Bonaparte, per aver, quasi un ventennio, versato a torrenti nel tuo generoso Parigi la gigantesca corruzione dell’oro e delle libidini
(panem et circenses!) per modo da trasformar quasi la predestinata Atene dell’Europa moderna, in una sordida Roma imperiale, in
un’altra Babilonia. […] Oh, come i Francesi alla tua omai certa, e non lontana caduta, dovranno rammentarsi la famosa sentenza di
Tacito: Dedimus profecto grande patientiae documentum! (In verità noi demmo straordinaria prova di pazienza)73.

Una volta restaurati gli ordinamenti repubblicani in Francia, chi ne sarà la guida -
Lamartine, forse ormai troppo vecchio, oppure una nuova figura - dovrà agire come uno
Washington per l’Europa. Molte le piaghe europee da sanare. Lo Spandri, tra le altre, indica il
necessario ridimensionamento della Russia, che deve restituire la libertà alla Polonia, il
completamento nazionale della Grecia, l’arretramento turco, l’indipendenza da concedere
all’Irlanda. Il quadro si completa con la vaticinazione della grandezza degli Stati Uniti, appena
usciti dalla guerra civile, ma destinati al ruolo di faro di democrazia per l’intero pianeta. Che cosa
chiede allo Washington europeo?
Compier l’opera dal Bonaparte interrotta a Sebastopoli, per dispotico egoismo; l’opera, io dico, di collegare il libero
Occidente civile contro le barbare europee ambizioni della Russia , e ferirla mortalmente nel cuore, cacciandola oltre il Dnieper, e
gridando al secolare crocifisso e sbranato Polacco: Lazare veni foras! […]
Cooperare alla compiuta instaurazione della Grecia risorta e vacillante, a cui già ricca delle Isole Jonie debbonsi al più
presto ricongiungere l’Epiro, la Tessaglia, Candia e l’Isole: come è pur destino, io penso, che nella Danubiana federazione
predestinata al governo trasformato dell’Austria, entrino i Rumeni della Valachia e della Moldavia, e gli Slavi tutti oppressi
dall’Ottomano; la cui brutale tirannide di quattro secoli dee in giorno non lontano spegnersi affatto in Costantinopoli, rigenerata
metropoli dell’Oriente cristiano74.

La parabola europea di Napoleone III tracciata da Spandri nel 1867, prevede una non
lontana caduta del francese, travolto dall’astro nascente, Bismarck. La sua previsione si sarebbe
avverata con la guerra franco-prussiana del 1870-71. Questo il quadro della quasi ventennale azione
europea di Napoleone III tracciata dallo Spandri:
Il secondo Napoleonico impero surto dal sangue del 2 Dicembre 51, toccò in soli cinque anni di velocissima immeritata
fortuna, il vertice della sinistra sua gloria a Sebastopoli, e nel Parigino Congresso del 56. Nel 58 parve un poco impallidire, pel non
troppo felice scioglimento delle cose Ruméne: ma eccolo tosto nel 59 ricomparire a Solferino, nella pienezza del suo lugubre
meriggio. Se non che nel 60 egli sosta, anzi incomincia il suo declino; quando pel subdolo conquisto di Savoia e di Nizza, tuonarono
nel Parlamento Britanno le memorande parole di Russel: «Noi siamo stati ingannati da Lui, e cercheremo nuove alleanze» […]. Nel
61 pei misteriosi moti polacchi, favoriti dalla Francia, sfugge a Napoleone l’intimità d’Alessandro, stretta nel celebre abboccamento
di Stoccarda (1857) […]. Nell’anno istesso (61) muore Cavour, il buon genio del francese Autocrata […]. Nel 62, spunta dagli
ardenti orizzonti dell’Alemagna la sibillina cometa del dittatorio Bismarck, (Cavour ingigantito e capovolto, non giocato, ma
Giocatore): che io ammiro non solo, ma amo altresì; non per sé stesso, ma perché destinato ad offuscare e disperdere dal politico
cielo del tormentato Occidente, il maligno Astro Bonapartiano, peste dell’Europa. […] Nel vegnente anno, il Richelieu della Prussia
compirà la politica unificazione dell’Alemagna, passando il Rubicone del Meno, lacerando il trattato di Praga, e risuscitando il
vecchio Impero, non più Austro-Germanico, ma Germanico-Prusso. Necessariamente Napoleone domanderà degli equi compensi sul
Reno, forse il neutralizzamento della sponda sinistra: - legittima domanda, ma intempestiva; bisognava farla l’anno scorso, colla
miccia in mano, al momento fatidico di Sadowa: ora è troppo tardi. Bismarck momentanea incarnazione dell’affratellata superba
ribollente Alemagna, risponderà un no implacabile. A nulla potendo riuscire Conferenza o Congresso, il Bonaparte tenterà a

apoplessia cerebrale». Giuseppe fu visitato in carcere anche da Pietro Maggi, il fratello professore a Padova. Troppo
tardi arrivò per lui un decreto imperiale che concedeva la grazia ai detenuti. «Lo stato del paziente era disperato - narra
don Gregorio Segala - e fu reso peggiore il 19 marzo successivo in cui si volle annunziargli con grande fracasso la sua
liberazione. Fu portato fuori dal carcere; ma la commozione affrettò la sua fine e dopo cinque giorni, il 24 marzo 1853
morì». GREGORIO SEGALA, Verona e Mantova nella cospirazione contro l’Austria e nei processi politici del 1850-53,
Verona, P. Apollonio, 1892. Cit. da FRANCESCO VECCHIATO, Il culto per la patria, una religione condivisa, in DANIELA
BEVERARI - MARISTELLA VECCHIATO (a cura di), Monumenti celebrativi dell’età risorgimentale nella provincia di
Verona, Verona, Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici, 2008, p. 33. La vicenda di Giuseppe Maggi è
lumeggiata anche in GIAMBATTISTA BIADEGO, Pietro Maggi matematico e poeta veronese (1809-1854), cit., pp. 34-40.
72
Cfr. Carlo Montanari nel centenario del martirio. Belfiore, 3 marzo 1853 Verona, 3 marzo 1953, Verona, Istituto
Magistrale Statale «Carlo Montanari», 1953. In commemorazione di Carlo Montanari nel I centenario della morte,
Verona, Accademia di Agricoltura, 1955, pp. 135. Contiene: PIERLUIGI LAITA, L’attività di Carlo Montanari
nell’Accademia; ANTONIO SCOLARI, Carlo Montanari e la Società Letteraria di Verona; ANTONIO AVENA, Il viaggio
d’Italia di Carlo Montanari con Carlo Alessandri (1838-1839); RAFFAELE FASANARI, Carlo Montanari di fronte
all’auditore Krauss; VITTORIO FAINELLI, La sepoltura di Carlo Montanari.
73
GIUSEPPE SPANDRI, Che sarà nel 1868?, cit., pp. 24-25.
74
GIUSEPPE SPANDRI, Che sarà nel 1868?, cit., pp. 26-27.

15
malincuore, ma stretto dagli atroci destini, dar di piglio alle armi; ondeggiando tristamente fra il sogno cruento d’un’altra Jena, e i
terrori d’un possibile Waterloo […]. Ma spero ch’Egli udirà ben tosto rimugghiare al suo atterrito orecchio l’ululo dell’assennata
furente Parigi - Non guerra, pace e libertà!... e la formidabile parola: Abdicazione!...75

E dopo aver vaticinato la caduta di Napoleone III preannuncia la conquista di Roma,


finalmente liberata dalle tutele francesi. Questo il suo sogno, realizzatosi il 20 settembre 1870:
Può essere che m’inganni, ma un istinto profondo mi dice, che atterrato il Bonaparte, non ostante l’immensa gratitudine che
a lui lo stringe, il Re Vittorio dirà francamente alla sua Italia: Il laccio è spezzato, e noi siam liberati!... e volte accortamente le spalle
ai dottrinarj Consorti, chiamerà al suo fianco Mordini, Crispi e i lor saggi amici, soli nocchieri possibili nell’Europea burrasca e nei
principeschi naufragi: e in compagnia di Garibaldi, portato quasi sulle spalle dell’intera Italia, entrerà trionfalmente in Roma; di cui si
vedrà innanzi spalancate le porte dal popolo esultante ed insorto al contraccolpo rigeneratore della Rivoluzione vittoriosa in Francia,
e della rinata Repubblica.

Quanto al destino di Pio IX, la sua previsione è quella di un ritorno della chiesa alla purezza
delle origini, una volta liberata dal fardello del potere temporale, che ha fatto del Vicario di Cristo
un «maledetto teócrata tinto di sangue». Così lo Spandri in riferimento al Pontefice, al quale chiede
anche la convocazione di un concilio ecumenico:
Volte per sempre le spalle alle Cesaree pompe del passato, fisso per sempre lo sguardo nei sublimi tempi Apostolici,
ritornerà in quella Roma, da cui era partito maledetto teócrata tinto di sangue - ritornerà tutto trasfigurato, rimondo dalle turpi scorie
della terra, per la prima volta dopo tanti secoli rifatto veramente Cristiano, vicario non indegno del Cristo, emulato dai cardinali e dai
vescovi, non più ufficiali in mitra, ma veri pastori, - venerato da tutti anche da quelli che non credono in lui!... E sapientemente
adunato, dopo tre secoli di silenzio e di letargo, più felice riformatore Concilio, potrà dir col Profeta, senza che i fatti smentiscano le
sacre parole: Zelus domus tuae comedit me!... (Lo zelo della tua casa, o Signore, mi ha divorato)76.

2.6.4. Giuseppe Spandri, poeta incompreso

Giuseppe Spandri pubblica e commenta recensioni e lettere di personaggi cui egli inviò
copia del libro «Venti anni» o che comunque lessero l’accoglienza fatta ai suoi versi su qualche
giornale.
A un primo approccio al personaggio Giuseppe Spandri si ha l’impressione di trovarsi di
fronte a un uomo smanioso di considerazione e deluso nella sua inappagata sete di riconoscimenti e
onori. E’ questo l’aspetto che mi limito a recuperare senza entrare nel merito del suo valore poetico,
su cui pesa tuttavia un oblio quanto mai eloquente.
Le recensioni firmate da Francesco Giarelli per giornali di Roma e Torino fissano i contenuti
dei componimenti poetici di Spandri, evidenziando come essi siano «ispirati dai trionfi civili della
patria, ed anelanti alle grandezze future delle stirpi latine»77, per poi concludere:
Son due le caratteristiche speciali delle poesie dello Spandri: una profonda simpatia per la Francia; un istinto di divinazione
fenomenale. - La simpatia per la Francia si identifica in lui nel culto a Lamartine. Per lo Spandri, Lamartine arieggia il Washington
deIl’Europa! Quanto all’altra caratteristica del senso divinatorio, […] il poeta figge gli occhi della mente nel velo tenebroso del
futuro; esso è precorritore78.

Il Giarelli non trascura di denunciare, però, la scarsa considerazione in cui il mondo delle
lettere tiene la produzione poetica dello Spandri.
Sono vent’anni che un uomo sapiente e modesto, in un angolo di terra italiana maturava canti nobilissimi. […] Pochi
sommi lo conobbero […]. L’uomo sapiente e modesto non si smarrì d’animo: egli continua a lottare: lotta contro la turba degli invidi,
che gli cospirano contro coi codardi silenzi79. Cantò e scrisse politicamente per la nazione e il popolo. Non lambì, non si inchinò al
cospetto dei potenti, e fu lasciato in disparte; e i suoi libri passarono inosservati; e fu sventurato80.

75
GIUSEPPE SPANDRI, Che sarà nel 1868?, cit., pp. 60-61.
76
GIUSEPPE SPANDRI, Che sarà nel 1868?, cit., p. 69.
77
FRANCESCO GIARELLI, Recensione al libro «Venti anni», apparsa sulla Riforma di Roma del 27 agosto 1873,
riproposta in GIUSEPPE SPANDRI, Venti anni di poesia e filosofia politica. Divinazioni di un italiano. 1850-1875. Con
lettere ad esso indiritte da Lamartine, Thiers (Saint Hilaire), Quinet, V. Hugo, Rolland, Mittermaier, Gioberti,
Guerrazzi, ecc., ecc., Edizione seconda accresciuta di un’introduzione, Milano, Francesco Barbini Editore, 1875, p. 6.
78
GIARELLI, Recensione, cit., p. 7.
79
GIARELLI, Recensione, cit., pp. 8-9.
80
GIARELLI, Recensione, cit., p. 6.

16
Particolarmente gratificante fu per lo Spandri la lettera a lui indirizzata dal filosofo Giuseppe
Allievo, che gli scriveva:
Sono oltremodo lieto delle splendide e meritate lodi, tributate dalla pubblica stampa e da grandi pensatori italiani e stranieri
ai lavori del vostro ingegno; tardo ma pieno compenso alle ingiurie di certi critici sleali e faziosi81.

Il cenno dell’Allievo alle critiche viene ripreso da Spandri, ammettendo «le ignobili
contumelie lanciate da qualche giornale contro i Venti Anni», meno gravi però del silenzio della
critica:
Inevitabile riscontro a questi plausi italiani, non mi mancò la fortuna de’ consueti dileggi, che interruppero di quando in
quando il glaciale e quasi eterno silenzio a mio riguardo82.

Importanti certo per lui gli «italici encomi» ricevuti nel 1873 per l’opera «Venti Anni», ma
ancor più esaltanti i riscontri francesi, tra cui su tutti le righe vergate dal critico Giulio Forb e
l’attestato di Thiers, «Presidente primo della terza Francese Repubblica». Questo il commento dello
Spandri:
Non voglio dissimularlo: la bella pagina del signor Forb, improntata di tanta benevolenza compensatrice dei silenzj e degli
scherni italiani, fu dopo la prima epistola di Lamartine nel 51, la suprema consolazione letteraria della mia vita: «io aveva sino allora
tristamente vegetato; da quel felice istante incominciai a vivere!» E alla mia ben giusta contentezza pose inaspettato suggello il primo
de’ politici viventi, - migliore se non maggiore di Bismarck, l’illustre Thiers, colla sovrana epistola, che dopo il trionfale suo viaggio
in Italia, egli m’inviò da Nizza, valendosi della celebre penna del suo fido Barthélemy Saint Hilaire83.

La disistima dei veronesi nei confronti di Giuseppe Spandri è bene interpretata da don Pietro
Zenari, il quale gli riserva uno spietato attacco in versi, motteggiandolo con pesante ironia.
Nell’introduzione lo Zenari dice di essere stato ispirato dal libro di Cesare Lombroso, Genio e
Follìa84, nel quale lo scienziato distingue tra pazzi di genio e genî alienati, non dimenticando di
inserire tra i casi oggetto delle sue valutazioni anche lo Spandri. Così Zenari esponendo Lombroso:
E nella Appendice seconda intitolata: Biblioteca dei mattoidi, che l’Autore [Lombroso] chiama pseudo-letterati, pseudo-
scienziati, pazzi incompleti, pazzi a mezzo, dice di loro:
«Tutta la loro infermità consiste appunto nello scombiccherare una serie di periodi riuniti fra di loro, soltanto dalla sintassi
grammaticale. Essi si occupano dei più svariati argomenti, più specialmente, di politica, di teologia, di poesia».
In questa biblioteca l’Autore mette anche il veronese Spandri:
«figlio d’illustre scienziato… mandò fuori, a 16 anni… un’opera di 360 pagine, che gli stranieri lodarono, questa volta,
ingiustamente; è, a guisa dei Magni organi del Medio Evo, un compendio di tutte le scienze… ei crede d’averla dettata in ispirazione,
e vi lascia capire che quella è la prima opera del mondo»85.

Questi alcuni versi del poemetto di don Pietro Zenari.


O Spandri! che mai valse al poveretto
Il raro merito
D’aver tratto e ridotto a un sol concetto
L’intero scibile!
E mostrarsi dottissimo fra i dotti
Sol d’anni sedici!

O caro Ombroso, certi professori
Non starien meglio,
Piuttosto che agli studi superiori,
Al manicomio?

81
GIUSEPPE ALLIEVO, Sono oltremodo…, in GIUSEPPE SPANDRI, Venti anni di poesia e filosofia politica. Divinazioni di
un italiano. 1850-1875, cit., p. 15.
82
GIUSEPPE SPANDRI, Venti anni di poesia e filosofia politica. Divinazioni di un italiano. 1850-1875, cit., p. 15.
83
GIUSEPPE SPANDRI, Venti anni di poesia e filosofia politica. Divinazioni di un italiano. 1850-1875, cit., p. 25.
84
CESARE LOMBROSO, Genio e follia in rapporto alla medicina legale, alla critica ed alla storia, 4ª edizione con nuovi
studi sull’arte nei pazzi, sui grafomani criminali, sui profeti e sui rivoluzionari, Torino, Fratelli Bocca, 1882.
85
PIETRO ZENARI, Trezza e Spandri. Parallelo contemporaneo, Verona, G. Civelli, 1879.

17
Se ai matti giustamente Spandri è messo
Per un sol numero,
Perché al Trezza onor tal non è concesso
Con tanti numeri?86

2.7. Gaetano Spandri, Giuseppe Spandri, San Gaspare Bertoni

Don Antonio Pighi in un suo cenno biografico indica Gaetano Spandri alunno delle
Stimmate, confondendolo con il figlio Giuseppe. Quest’ultimo, effettivamente, frequentò le
Stimmate dal 1829 al 1836, ed ebbe per due anni nel corso di umanità come insegnante proprio don
Gaspare Bertoni. Correttamente don Antonio Pighi sottolinea invece il legame tra Gaetano e don
Gaspare, affermando: «Ma i vincoli più saldi di affetto e venerazione strinsero lo Spandri per tutta
la vita a quel santo uomo che fu Don Gaspare Bertoni, fondatore dei Preti delle Stimmate»87.
Nel 1847 Gaetano Spandri faceva dono a don Gaspare di un libro devozionale, su cui aveva
vergato la dedica: «Al Molto Reverendo Don Gaspare Bertoni in segno di gratitudine e di
ossequio»88. «L’opera - ci fa sapere Dalle Vedove - contiene le preghiere per ogni ora del giorno e il
Bertoni nelle sue diuturne sofferenze, che lo relegavano nella solitudine della stanza, trovò il
conforto di recitare, giorno e notte, come appare dai segni dell’uso nella parte italiana del libro,
quelle sublimi elevazioni dell’anima composte da un Santo»89.
Gaetano Spandri è indicato come una delle due persone che si attivarono dopo la morte di
don Gaspare Bertoni per ottenere al santo fondatore degli Stimmatini dall’autorità austriaca il
privilegio della sepoltura nella propria chiesa alle Stimmate, quando invece la bara era già destinata
al cimitero monumentale. Il biografo don Gaetano Giacobbe testimoniò in questo senso: «La
ragione per cui fu dilazionata tanto la sua tumulazione fu perché varii dei suoi devoti e specialmente
il Signor Spandri e credo il Commendatore Cartolari ora defunti, vollero presentare istanza al
governo imperiale di Vienna, allora qui dominante, per potergli dare una sepoltura particolare nella
sua chiesa»90. La supplica, firmata da tutte le componenti del clero veronese per ottenere dalle
autorità il consenso alla sepoltura nella chiesa delle Stimmate, venne stesa direttamente da Gaetano
Spandri che la articola in due momenti. Dapprima riassume il profilo del fondatore e poi formula
l’istanza di sepoltura privilegiata.
Nella sua lunga età di 75 anni, si adoperò egli con zelo instancabile per il bene delle anime. Fondò in Verona, prima nella
parrocchia di S. Paolo di Campo Marzo, appresso in quella di S. Fermo, e poi in molti paesi della Diocesi gli Oratori, affinché in essi
i giovanetti crescano nella pietà e nel timor di Dio, riuscendo così ottimi cittadini e fervorosi cristiani. Né di ciò pago, rivolse l’animo
all’educazione dei giovanetti nelle lettere aprendo a sole sue spese, nella casa ch’egli innalzò, Scuole Elementari e Ginnasiali per il
lungo corso di presso a trent’anni, coadiuvato in questa pietosa e profittevole opera dallo zelo di alcuni ottimi Sacerdoti ch’egli a tal
fine raccolse e mantenne nella detta sua casa, e che lo riguardano come loro Padre ed Istitutore.
Né a questa sola opera intesero quei zelanti Sacerdoti, ma sotto la sua direzione gratuitamente amministrano la parola di
Dio, assistono i condannati a morte, si recano alle prigioni a confortare, istruire, confessare i prigionieri, e si adoperano in ogni altro
uffizio del loro santo ministero con tanto ardore e pietà, che formano l’edificazione di tutti i Cittadini.
Ora i sottoscritti, interpreti dei voti e desideri di tutta la Città, si rivolgono a questo onorevole Municipio acciò voglia
impetrare dalla I.R. Luogotenenza la grazia di poter dare al corpo di D. Gaspare Bertoni sepoltura nell’Oratorio contiguo alla sua
Casa, ch’egli di sue spese ristorò, migliorò e aperse al pubblico Culto, qual Casa e Oratorio sono di sua proprietà.
E’ soverchio dire come la sua insigne pietà, la sua rara dottrina, la sua singolare prudenza, e le altre doti particolari onde era
fornito, gli avevano guadagnato l’amore e la stima di tutti i Veronesi, che lo apprezzavano qual vero modello di piissimo Sacerdote91.

Gaetano Spandri fu non solo al centro della successiva trattativa con le autorità, ma anche
direttamente impegnato nelle operazioni che prevedevano tra l’altro la collocazione della cassa di
legno contenente le spoglie del santo Gaspare Bertoni dentro una in zinco.

86
ZENARI, Trezza e Spandri. Parallelo contemporaneo, cit., pp. 9, 15.
87
ANTONIO PIGHI, Cenno biografico, «Verona fedele», anno XXXVIII, n. 223. Cit. da NELLO DALLE VEDOVE, San
Gaspare Bertoni, cit., p. 281.
88
Il libro offerto in dono era Preces Sancti Nersetis Clajensis Armeniorum Patriarchae viginti quattuor linguis editae,
Venetiis, In Insula S. Lazari, 1837.
89
DALLE VEDOVE, San Gaspare Bertoni, cit., p. 391.
90
DALLE VEDOVE, San Gaspare Bertoni, cit., p. 685.
91
DALLE VEDOVE, San Gaspare Bertoni, cit., pp. 687-688.

18
La primitiva cassa di legno venne rinchiusa in una seconda cassa di zinco. Prima che questa fosse ermeticamente otturata,
fra l’una cassa e l’altra vi fu introdotto un tubo metallico, contenente un altro tubo di vetro, a cui fu tolta l’aria per opera del fisico
prof. Gaetano Spandri, affine che assicurasse perennità alla pergamena rinchiusavi sulla vita e le virtù del Bertoni descritte dal
Giacobbe92.

San Gaspare Bertoni era morto il 12 giugno 1853. Per un anno e 48 giorni la sua salma
venne custodita nella chiesa della SS. Trinità in attesa dell’espletamento di tutte le pratiche
necessarie alla sua collocazione nella chiesa delle Stimmate, che avvenne il 30 luglio 1854. Felice
Cinguetti ha lasciato questa testimonianza:
Io fui presente al collocamento del cadavere nel sepolcro che sta in mezzo alla Chiesa, ove attualmente si trova; io stesso
vidi lo Spandri (il fisico) estrarre l’aria dal sepolcro (meglio: dal tubo per la pergamena), che vidi essere profondo circa un metro,
collocarvi la cassa, e di sopra, per quanto è a mio ricordo, vi fu collocata una sola pietra, sopra la quale vi è un’iscrizione latina93.

3. Descrizione del manoscritto di Gaetano Spandri

Autore: Gaetano Spandri


Titolo: Li Cento Cinquanta Giorni di Verona nell’Anno 1848. Memorie con Appendice di Gaetano
Spandri, 1848.
Proprietà: E’ conservato in un archivio privato.
Dimensioni: Trattasi di 560 pagine manoscritte, di densità varia, come più sotto verrà specificato.
Valore storico: Il valore storico dell’opera è straordinario, 1) per il contenuto; 2) per l’epoca
trattata (quella della Prima guerra d’indipendenza, 1848-1849); 3) per la limitata conoscenza del
manoscritto, per lo più disatteso dagli studiosi.
Contenuto: L’autore, Gaetano Spandri, tiene un diario di quanto accade in Verona dal 18 marzo
1848 in poi per 150 giorni, e di quanto in Verona, città in stato di assedio, era dato di sapere della
situazione politica e delle operazioni militari italiane ed europee. Nel successivo decennio - fino al
1858 - Gaetano Spandri ha corretto il manoscritto e lo ha arricchito di una serie di note esplicative,
con notizie di cui solo a guerra finita poté disporre, oltre che di due appendici documentali.
Obiettività storica: Il diario è una miniera di informazioni di assoluto interesse per il taglio
impresso all’opera, che si presenta in parte come registrazione in presa diretta di quanto accade, e in
parte si arricchisce di una documentazione tratta - nei mesi e negli anni successivi - dagli atti
ufficiali delle parti in conflitto, che serve per chiarire e supportare quanto asserito o quanto risultava
oscuro nel momento in cui le vicende accadevano. L’autore è un veronese contrario alla guerra e
alle violenze, cui le parti in conflitto si abbandonano. La sua condanna del duro governo austriaco e
degli eccessi di cui le truppe austriache si macchiano è senza riserve. L’autore non è però certo
animato da spirito risorgimentale, anche se non dimentica di essere italiano e i suoi accenti per i
connazionali sono di pietà quando soffrano e di simpatia o almeno di lucida ed oggettiva
registrazione di quanto vissuto per la maggior parte delle vicende riportate. Critico invece o talvolta
ironico è nei confronti dei propri concittadini veronesi animati da «spirito italiano», contro i quali si
esprime apertamente quando si macchino di eccessi ingiustificati come quelli di cui rimasero
vittime i Gesuiti, contro i quali fu scatenata la piazza nella rivolta del 18 marzo 1848 e che poi
dovettero abbandonare la città per evitare violenze anche contro le loro persone.
Articolazione in parti del manoscritto:
1° le pagine 1-336 sono occupate dal diario di quanto accaduto dal 18 marzo 1848 al 14 agosto
1848;
2° le pagine 337-394 contengono il diario della ripresa della guerra nel 1849: 18 marzo 1849-14
aprile 1849;
3° le pagine 401-527 contengono l’appendice Iª, che «riferisce una scelta di Fatti principali
appartenenti ai medesimi centocinquanta giorni»;
4° le pagine 528-542 esistono, numerate, ma sono bianche;
92
DALLE VEDOVE, San Gaspare Bertoni, cit., p. 694.
93
DALLE VEDOVE, San Gaspare Bertoni, cit., p. 700.

19
5° le pagine 543-555 contengono l’«Indice delle cose più notabili delle Memorie dei CL giorni»;
6° le pagine 555-556 contengono l’indice dell’appendice Iª;
7°Le pagine 557-560 contengono l’«indice dei Documenti stampati componenti l’Appendice IIª
legati in Fascicolo a parte». L’Appendice IIª è andata dispersa.
Densità grafica:
394 pagine sono vergate su singola colonna. Ciascuna occupa circa mezza facciata. Spesso
però accanto alla singola colonna diaristica di mezza facciata, l’autore appone una colonna a
margine, più ridotta, ma fitta di annotazioni o commenti. Su 394 pagine, quelle con doppia colonna
(diaristica e note a margine) sono 38.
Le pagine 395-527 sono a facciata intera.
Le pagine 543-560 sono occupate dagli indici che hanno una densità grafica disomogenea.
Ricapitolando la densità grafica:
Le facciate a singola colonna....................356
Le facciate a doppia colonna......................38
Le pagine a facciata intera........................132
Le facciate a indice.....................................17
Totale……………………………..543
4. Castelnuovo, don Antonio Oliosi e la Commissione Civica

Spandri ci ha lasciato un diario in cui registra quotidianamente quanto vissuto in Verona, e


quanto in Verona si riesce a sapere, ma anche a vedere e udire, di quello che accade sulle colline
moreniche che fasciano la spianà veronese a partire dal rialzo punteggiato dai sobborghi di Tomba,
S. Lucia, S. Massimo, Croce Bianca e Chievo. Sulla cintura morenica che cinge la città a sud e a
ovest si è attestato il grosso dell’armata austriaca ritirata dalla Lombardia. Così Spandri all’11 aprile
‘48:
Intanto il grosso dell’armata s’accampa in Verona e su tutta la linea che forma il parapetto della Fortezza, cioè da Tomba
per S. Lucia al Chievo.

Scorrendo il diario dello Spandri è possibile sapere preliminarmente che cosa si sia percepito
a Verona della tragedia di Castelnuovo dell’11 aprile ‘48. Tutta Verona è resa consapevole che
qualche cosa di straordinario si sta verificando nell’area di Castelnuovo dalle esplosioni che fanno
vibrare la terra anche in città e soprattutto dalle colonne di fumo che si alzano nere sull’orizzonte. Si
udì, annota lo Spandri l’11 aprile 1848,
alle 4 ¾ pomeridiane una tremenda detonazione nella lontana direzione di Castelnuovo, e tale ne fu la scossa, che la terra
tutta ondulò come per terremoto e l’oscillazione propagossi sino alle nostre case che traballarono fortemente.
Noi spaventati montammo tosto i comignoli più elevati della casa a conoscer per avventura la causa di un fatto così
pauroso, e ci atterrì la vista di immensi vortici di nero fumo che s’innalzavano sino alle nubi dalla parte appunto di Castelnuovo,
ma della causa nulla potemmo sapere.
A parecchie case di campagna fu dato fuoco da soldati. La vista di queste colonne di fumo che alto si alzano qua e colà
per l’ampia distesa dalla città verso il Lombardo, una fredda parola del cuore che ce ne indica la cagione, e qualche volta la vista
altresì col mezzo del cannocchiale, delle vive fiamme che divorano alcun rustical fabbricato giacente solingo nel mezzo della muta
campagna abbandonata, ci agghiaccia il sangue, e ci tiene ansiosi e frequenti sulle nostre alte terrazze. Ma che! Sulla maggior torre
di Castelvecchio stan tutto giorno co’ cannocchiali esplorando i Militari, i quali adocchiatici e loro venuta in uggia la curiosità
nostra, un offiziale recossi alle case nostre, da quei vigli più distintamente marcate, a renderci seriamente avvisati di tenerci abbasso,
se non vogliamo incorrere in qualche disgrazia.
La voce di questa militare intimazione, comecchè fatta ad alcune case soltanto, rapidamente si divulgò; e noi, cui cale la
nostra quiete, ci vedemmo stretti a rinunziare a quest’unico, benché amaro conforto, che nelle nostre sciagure ci rimanea.

L’addensarsi di gente sui tetti viene invano represso dall’autorità militare. Spandri ci
assicura che tanti veronesi nonostante la diffida dei soldati continueranno a seguire gli eventi che si
sviluppano sulle colline moreniche che fasciano la città.
Siccome però non era tutta curiosità quella che ci faceva montar colà su, ma altresì un desiderio, e dirò meglio un bisogno
di veder un po’ lontano il pericolo che ogni dì più ci si avvicinava; bisogno al quale sentiamo uno stretto dovere di soddisfare, così fu

20
da noi facilmente trovato modo di deludere l’importuna militar vigilanza su fatti nostri domestici, ed abbiamo sempre continuato,
benché con minor agio, a stare alle vedette di ciò che dalle alture di Sommacampagna, Palazzolo, ecc., in qua, andava accadendo.

L’indomani, 12 aprile 1848, «festa di S. Zenone, principal protettore di Verona e però festa
di precetto», Spandri registra che
il supplemento della Gazzetta di Verona d’oggi ci fa nota la cagione di quegli immensi vortici di fumo, che jeri vedemmo
sorgere dalla parte di Castelnuovo, e che questa mattina alle ore 10 non erano ancora dileguati.

La cronaca della «Gazzetta di Verona» viene riprodotta integralmente dallo Spandri, che
rimarca due passaggi sconvolgenti. Il primo è da lui segnalato così:
Considera Lettor cortese queste parole del Bollettino Sì che andò in fiamme il paese.

Il secondo passaggio è richiamato con analogo invito:


Por mente, lettor mio, a questa espressione del Bollettino il paese non offeriva più ricovero.

Il Bollettino fu pubblicato anche in appendice alle memorie di don Tommaso Netti94. Poche
le variazioni rispetto a quanto trascritto dallo Spandri. Tra parentesi quadra, per un opportuno
confronto, si riporta in corsivo quanto si legge in più nel volume del Netti. Questo il testo del
bollettino emesso dal comando austriaco in data 11 aprile 1848 e riprodotto dallo Spandri:
Essendosi avuta notizia che un ragguardevole numero d’insorgenti partito di Lazise aveva occupato Castelnuovo, onde
interrompere la comunicazione con Peschiera; fu spedita verso colà una forza militare composta di un Battaglione Piret, e di alcune
Compagnie del Reggimento Haugwitz d’Infanteria, con alcuni pezzi di cannone e un Drappello di Cavalleria sotto il comando del
General maggiore Principe Taxis. Nell’altura dell’Osteria del Bosco si mostrarono prima grosse turbe di armati contadini, che dai
nostri Bersaglieri furono respinte a Castelnuovo. Trovammo [noi] questo paese gagliardamente sbarrato e abbarricato, ma [con
animo ardito] il piccolo distaccamento Haugwitz sotto il [bravo] Capitano Mauler si scagliò contro il fuoco degli insorgenti e prese
d’assalto la prima barricata, dove il nemico soggiacque a [una] grave perdita. Furono allora fulminate dal fuoco alcune case
vigorosamente occupate, ed il campanile, sì che andò in fiamme il paese95. Il battaglione Piret investì il luogo nella sua fronte, e
due altri distaccamenti lo presero al fianco destro e sinistro; [Nulla poté resistere all’impeto delle nostre valorose truppe; una
barricata dopo l’altra, una casa fortificata dopo l’altra furono prese d’assalto] tutto il paese fu preso d’assalto; coll’occupazion
della Chiesa terminò la conquista del luogo. Gli Insorgenti ebbero gran numero di morti; i sopravvissuti sbaragliati fuggirono verso
Lazise. [I morti dei nostri sommano a quattro, i feriti a pochissimi]. Intanto sopraggiunse la notte, il paese non offeriva più
ricovero96, talchè la truppa fece [da Castelnuovo] ritorno al [suo] Campo. A detta dei prigionieri il Capo degli Insorgenti era certo
Manara di Milano.

Giovedì, 13 aprile 1848, viene diffuso un proclama del Feldmaresciallo Radetzky di


denuncia delle violenze di cui sarebbero vittime i contadini costretti dagli insorti a comportamenti
che scatenano l’inevitabile rappresaglia dell’esercito austriaco. E’ un proclama che anticipa di un
secolo quelli emessi dalle forze di occupazione germanica tra il 1943 e il 1945, i quali ugualmente
ammonivano che le operazioni dei partigiani si sarebbero ritorte contro le persone e i beni delle
persone nei cui paesi essi operavano. La rappresaglia, sappiamo, non fece desistere i partigiani, cui
stavano più a cuore i loro progetti di conquista del potere che la vita delle popolazioni civili. Così
Radetzky:
Le turbe vaganti degli Insorgenti sforzano i Comuni a barricare le strade e impedire i movimenti delle mie Truppe. Non
è in mio potere impedirne le fatali conseguenze che ne risultano, per quanto mi rincresca il vedere esposta alla morte e alla
devastazione la vita e le proprietà del pacifico cittadino. Invito quindi i Comuni a far resistenza per il loro ben essere a così
criminosi eccitamenti delle orde accozzate a danno, a seduzione, a violenza. L’esempio maleaugurato di Sorio, Montebello, e
Castelnuovo insegnerà al popolo che l’inutile resistenza ad un’armata ha per effetto la rovina del ribelle insieme e del pacifico
cittadino.

94
NETTI, Castelnuovo e gli Austriaci nel 1848, cit., pp. 207-209.
95
Spandri annota: «Considera Lettor cortese queste parole del Bullettino sì che andò in fiamme il paese». SPANDRI, Li
Cento Cinquanta Giorni…, cit., c. 76.
96
Spandri annota: «Por mente, lettor mio, a questa espressione del Bullettino il paese non offeriva più ricovero».
SPANDRI, Li Cento Cinquanta Giorni…, cit., c. 77.

21
Nello stesso 13 aprile abbiamo un commento accorato dello Spandri, che si interroga sul
perché di una rappresaglia, a suo parere del tutto ingiustificata, ritenendo che gli abitanti di
Castelnuovo siano stati costretti a collaborare con il corpo di spedizione lombardo.

Le notizie particolari che ci vanno giungendo del fatto di Castelnuovo ci fanno rabbrividire. Considerasti, Lettor mio,
sul Bullettino di jeri quelle tremende parole: Il paese non offeriva più ricovero. O Dio! Dunque fu tutto arso, smantellato, distrutto!
Tutto saccheggiato, persino la casa di Dio!, che quale ultima conquista pose fine alla terribile spedizione. Ma, Santo Iddio! Se, come
dice lo stesso Bullettino, un ragguardevole numero d’Insorgenti occupato il paese e, come è evidente, ingannati, sedotti o
strascinati a forza gl’inesperti abitanti, i quali d’altra parte poteano essere nella impossibilità di potersi opporre alla forza
preponderante di essi insorgenti in numero ragguardevole, invase le loro case, barricate le strade, avevano fatto resistenza alle truppe
tedesche; e quale colpa ne aveano quegl’infelicissimi terrazzani da ardere e consumare indistintamente tutto il paese e distruggerlo
così da non offerir più ricovero e da doverlo per ciò abbandonare? Erano egli da mettere al fil delle spade e trucidare spietatamente
tanti inermi innocenti, e commettervi tutti gli orrori di una ferocissima rappresaglia? Era egli da manumettere, profanare, spogliare
d’ogni sua più minuta suppellettile il Tempio stesso di Dio, quasi fosse Lui pure un insorgente e capo dei rivoltosi?
Che fiero colpo di coltello ci fu al cuore il veder noi, cogli occhi nostri nelle man dei soldati reduci da quella miserevole
spedizione le biancherie della chiesa, gli apparamenti sacri, i calici e le pissidi d’argento, e venderli qui in Verona al più vil prezzo ai
Giudei!

Il primo accenno a don Antonio Oliosi lo abbiamo solo il 20 aprile 1848, quando lo Spandri
annota la registrazione di sacerdoti privi dei necessari lasciapassare, il cui destino contrasta però
con quello del vecchio curato di Castelnuovo.
Oggi sono entrati in Città fra Gendarmi e soldati un Prete, un Chierico con due borghesi: furono condotti nelle prigioni
militari di S. Tommaso: saranno indi tradotti al cospetto del Feld Maresciallo, poi al Comandante di Piazza a far vidimar le loro carte
di passo, indi lasciati liberi. Ciò incoglie oggidì ognuno, cui manchi qualche semplice vidimatura al Passaporto, al quale fanno delle
novità ogni giorno.
Pochi dì sono vedemmo con indicibil dolore tra soldati trarsi a stento un vecchio sacerdote don Oliosi fatto prigione
nell’eccidio di Castelnuovo, al quale per dileggio si facea da soldati portare al collo una giberna97.

Il 23 aprile 1848 è Pasqua. L’indomani, 24 aprile ‘48, lunedì di Pasqua, abbiamo l’arresto di
alcuni componenti della Commissione civica di Verona, che avrebbero condiviso con don Antonio
Oliosi il destino della deportazione a Salisburgo. Spandri ci offre particolari che non avevo ancora
trovato nemmeno nell’Autobiografia di Giulio Camuzzoni, che pure della Commissione civica era il
segretario. 300 soldati circondano il palazzo, sede del Municipio di Verona; un capitano invita i
presenti - Pietro Emilei, Giovanni Scopoli98 e Giulio Camuzzoni - a salire su una carrozza, che
attraverso corso Portoni Borsari li conduce a Castelvecchio. Gli altri membri della Commissione
Civica vengono prelevati nelle loro abitazioni. In tutto si arrestano 13 persone, che l’indomani, il 25
aprile 1848, sono avviate verso il Tirolo. Nel raccontare le vicende della Commissione Civica, nei
confronti della quale ora usa espressioni di affettuoso apprezzamento anche se capeggiata da quel
Pietro degli Emilj, bollato il 18 marzo 1848 come «gran partigiano del liberalismo italiano»,
Spandri sottolinea lo stridente contrasto tra la severità del Radetzky, da cui è dipeso l’arresto, e il
proclama del conciliante D’Hartig. La cronaca del 24 aprile 1848, giorno dell’arresto della Civica, è
incastonata entro due proclami, quello diplomatico di D’Hartig, e l’altro, duro, di Radetzky, che
torna ad ammonire, richiamando ancora una volta l’esemplare punizione inflitta a Castelnuovo, ma
anche a Montebello, Sorio e Bevilacqua.
Mucchi affollati di gente legge su pei canti delle maggiori contrade un Proclama lunghissimo; egli è appunto quel desso
che si attendeva dal Conte D’Hartig: capo d’opera invero della più squisita diplomazia.
Il Conte D’Hartig, inviato del Ministero di Vienna, si studia in questo Proclama, colle più belle e sode ragioni, di
ricondurre i popoli italiani alla soggezione del loro Sovrano. Ottimo intendimento ed opera santa; ma solo un po’ tarda, e della quale
pare assai poco pensiero prendersene il Maresciallo medesimo. E ne volete una prova? Sentite!

97
Giberna, in tedesco Patronentasche, ovvero borsa per le cartucce, è la cartucciera. Trattasi di astuccio di cuoio o tela
per riporvi le cartucce, portato alla cintura o alla bandoliera.
98
LUIGI GAITER, Elogio del Co. Cav. Giovanni Scopoli, letto il 29 novembre 1855, «Memorie dell’Accademia
d’Agricoltura Commercio ed Arti di Verona», XXXIII, Verona, 1856, pp. 5-41. Il padre, originario di Cavalese, fu
professore di metallurgia e mineralogia a Chemnitz, dove nacque il figlio Giovanni. Sposa Lauretta, una delle figlie di
Elisabetta Mosconi, dalla quale ha sei figli e due figlie, andate spose, queste, a due membri della Commissione Civica.
Paolina è sposa dell’avvocato Francesco Guerra, Isabella di Giuseppe Biasi (pp. 11, 35).

22
Erano le ore 11 antimeridiane di questo stesso giorno ed un corpo di 300 soldati armati di tutto punto circondano il palazzo
della R. Delegazione. Una carrozza di posta con cavalli attaccati sta ferma nel cortile. Un drappello di Gendarmi con carabina
guarda la porta del Municipio: il Capitano di questi entra e presentasi al Conte Pietro degli Emilj ed al Cav. Conte Giovanni
Scopoli, due dei principali della benemerita Commissione Civica, che soli in quel momento col loro Segretario Dottor Giulio
Camuzzoni stanno occupati in servigio della Città e dell’Armata, e requisite tutte le carte d’ufficio intima lor di seguirli.
Il Conte degli Emilj sorpreso a questa novità proferisce alcuna incerta parola a conoscere la ragione di questo strano
procedere, e il Capitan freddamente: «Elle sapranno della loro destinazione tra poco; ora montino meco questo calesse». Si monta e
via, giù dal Corso per la porta dei Borsari e dentro in Castel Vecchio scortati da 6 Gendarmi a cavallo.
Non è possibile descrivere la costernazione di tutti i Cittadini a questa notizia, a questa vista. Pare che a ciascuno dei
Veronesi sia stato rapito il padre, il fratello. La gratitudine pei benefizj fatti dalla Commissione alla Città raddoppia di forza
l’universale cordoglio.
Una indignazione generale s’eccita contro il Proclama del Conte D’Hartig, che in quel momento fa l’antitesi più infelice
colle operazioni del Maresciallo. Ma, e si limiteranno poi a questi soli gli arresti?…
Il Feld Maresciallo nel Bullettino d’oggi accusa l’incendio del Palazzo della Bevilacqua ad una racchetta colà caduta per
accidente. Prende quindi argomento da questo fatto a ribadir la lezione del giorno 13 del corrente, riproducendo l’esempio di Sorio,
di Montebello e di Castelnuovo, associandovi la Bevilacqua nel suo Proclama che sta sotto il torchio.

L’indomani, martedì, 25 aprile 1848, «terza festa di Pasqua», abbiamo la partenza verso il
Tirolo della Commissione Civica, arrestata quasi al completo dopo i primi tre fermi, operati il 24
aprile nella sede del comune di Verona.
Come temevam jeri, così successe.
Aveva l’aurora di questo festivo dì rallegrato appena dei suoi albori dorati l’orizzonte che trepida e smarrita Verona versava
lagrime di profonda tristezza.
Undici Cittadini eran caduti in poter della forza militare: tredici in tutti coi due di jeri. Pietro Conte degli Emilj -
Giovanni Conte Cav. Scopoli - Carlo, Bartolomeo, Giovanni ed Antonio Sparaveri - un Conte Giusti - Rafaele Dottor Pincherli
- Vittorio Monga - Giacomo Meriggi - Francesco Dottor Guerra - Giuseppe Biasi e Pietro Arvedi.
L’ordine dell’arresto era dato per li due fratelli Conti Giusti: ma uno era ammalato. A questo fu lasciata al letto una
guardia, la quale fu tolta il giorno appresso mediante sicurtà del padre, Conte Carlo.
Colti quasi contemporaneamente nella quiete delle loro famiglie, tradotti in mezzo alle Guardie di Polizia in Castelvecchio,
componeano alle 8 circa di questa mattina un lugubre convoglio, che per la porta di Campagnuola dirigevasi al Tirolo. Il
Maresciallo D’Aspre, cui furono affidati questi nobili prigionieri, si segnalò per umanità e gentilezza. Verona per sua natura sempre
festevole, la terza festa di Pasqua si è mutata in un convegno di mute larve.
Così dopo 37 giorni di vita operosa e benefica la Commissione Civica cessò di esistere.

L’allontanamento dalla città dei membri della Commissione Civica, la cui azione è stata
«operosa e benefica» al dire di Spandri, che pure non nutre certo simpatie filoitaliane, si spiega
così:
La sera di questo giorno nelle nostre conversazioni analizzando sottilmente il fatto degli arresti della mattina e di jeri,
accertammo non altro esser questi deportati che semplici ostaggi per contener la Città in soggezione.
Le persone deportate furono tutte di quelle che con parole o con fatti si segnalarono sopra le altre facendosi conoscere delle
più ardenti del partito italiano.
Uno di questi Signori, la cui fama risparmierò non nominandolo, entrando nel Collegio di S. Sebastiano subito dopo espulsi
i Padri Gesuiti e trovando nelle cantine dei tini di vino, ebbe a dire ai compagni sorridendo: Questo vino lo daremo a bere ai soldati
Piemontesi. Ab uno disce omnes.

Nella giornata del 25 aprile 1848 Spandri ci propone anche il testo del proclama Radetzky, il
cui contenuto era stato anticipato il 24, giorno in cui aveva specificato che esso «sta sotto il
torchio». Così Radetzky:
Col Proclama del 13 corrente ho diffidato i pacifici abitanti di non dare ascolto alle istigazioni dei rivoltosi, e di non
opporre un’inutile resistenza alle mie Truppe.
Ho allora accennato per salutevole esempio il destino di Sorio, di Montebello e di Castelnuovo. Ora debbo purtroppo
aggiungere a quei luoghi altresì Bevilacqua, il cui Castello (secondo che ne fa particolare pomposa menzione la Gazzetta di Venezia)
venne dai proprietarj espressamente ceduto ai così detti Crociati come punto di difesa; ed all’assalto delle mie Truppe restò esso con
tutto il paese preda delle fiamme.
Ripeto la mia diffida, e tanto più sia ella efficace considerando che i traditori e stranieri intrusi dopo aver ingannato con
ogni genere di promesse gli abitanti pacifici, all’accostarsi delle mie Truppe si mettono in fuga, e codardamente abbandonano la
popolazione alla miseria ed al meritato castigo.
Verona il 23 Aprile 1848. Il Comandante in Capo Feld Maresciallo Conte Radetzky.

Spandri torna a parlare di Castelnuovo solo il 6 maggio 1848, giorno della battaglia di S.
Lucia, quando ormai già da dieci giorni la Commissione Civica è stata allontanata da Verona. Le

23
persone catturate a Castelnuovo sono invece ancora in città. Tra loro don Antonio Oliosi, che però
sappiamo sarà solo in un secondo momento deportato a Salisburgo. Questo è il primo degli indizi
offerti dallo Spandri sulla netta separazione tra il destino della Commissione civica e quello di don
Antonio Oliosi. Al 6 maggio don Oliosi è dunque ancora in città e lo Spandri esterna la sua
indignazione per il trattamento riservato a lui e agli altri arrestati di Castelnuovo con queste parole:
Con i nostri occhi ci assicurammo di un fatto assai compassionevole. Avendo la Divisione reduce dal Fatto di Castelnuovo
condotti in Verona alcuni di quei poveri abitanti stati presi a mo’ di prigioni e con essi il vecchio curato Don Oliosi, vengono questi
infelici sostenuti entro la cieca stanza d’un basso Forte mezzo sepolto sotterra precisamente rimpetto la Porta Vittoria e subito
fuori di questa marcato del N. XXVII. E come veggono i custodi che per la malsania dell’umido luogo vengono enfiando e
minacciano di aver a soccombere a quel patimento, a prolungar loro l’agonia più che la vita ogni giorno li cavan di là, e due ore la
mattina, due il popranzo li tengono sotto buona guardia a respirar l’aria libera entro la fossa che circonda quel piccolo Forte.

L’evento di sabato 6 maggio 1848 è però la battaglia di S. Lucia, che i veronesi seguono in
diretta per quanto riguarda le cannonate e i colpi di moschetto, nonché per le immense nuvole di
fumo che si elevano dal campo di battaglia e che richiamano alla memoria quelle prodotte
dall’incendio di Castelnuovo. Efficacissime le immagini cui ricorre Spandri per rendere l’idea di ciò
che la città ha vissuto in termini di suoni.
Il Feld Maresciallo alle mosse del nemico capiva da qualche giorno che Carlo Alberto meditava qualche gran fatto
decisivo, e che le maggiori sue forze andavale disponendo contro il punto di S. Lucia, conciosiachè avesse conosciuto esser questo la
chiave delle posizioni dei tedeschi. Con tutto ciò una decisiva battaglia pare che Radetzky almeno allora non l’aspettasse: però tenne
sempre le sue truppe disposte così, che colto all’improvviso nol fosse mai; contento di star sulla difesa sino a che, raggiunto da
Nugent, potesse prendere l’offensiva, lo che sapevamo essere il suo maggior desiderio.
Quando alle ore 8 circa di questa mattina i Bersaglieri Piemontesi appiccarono appunto a S. Lucia il primo foco.
La creduta da principio piccola scaramuccia di avamposti addivenne in breve una formidabile battaglia, che in poco d’ora si
distese da un braccio all’altro dell’Adige, prendendo tutta la cortina, cioè da Tomba al Chievo.
Otto ore continuate durò la lotta affrontata, ardente, sanguinosa. Alto tuonavano i cannoni a spessi e poderosi colpi, e nel
fragor continuo e innumero del moschetto tu sentivi il fracasso della grandine estiva quando in sul meriggio asciutta e dal vento
sospinta precipita sui tetti; ovvero quello dei sassi quando dai pieni carretti vengono a furia rovesciati sul suolo. Massi enormi di
fumo alto saliano, e una caligin fosca presto ravvolse tutta quella lunga distesa e ce la tolse alla vista; e questo è tutto quello che noi
dai più elevati nostri comignoli potemmo osservare.
Sul declinar del sole, dai reduci soldati e dalle lunghe file dei carri di feriti ci fu dato di far qualche giudizio di questa
battaglia che fu sanguinosissima. Un Generale Austriaco, Salis, rimase morto sul campo: due gravemente feriti; circa 60 uffiziali tra
feriti e morti, e da oltre mille soldati parte rimasti sul campo e parte allo spedale tradotti.

Ulteriori dettagli sulla battaglia di Santa Lucia del 6 maggio 1848, ci vengono proposti
l’indomani, 7 maggio 1848, quando Spandri rimarca il comportamento della popolazione veronese,
in parte sui tetti a godersi lo spettacolo, ma in maggioranza impegnata negli affari quotidiani,
apparentemente indifferente a quanto si sta sviluppando sotto le mura della città. Spandri, in
particolare, non manca di segnalare l’accordo esistente tra Piemontesi e alcuni veronesi. Questi
ultimi, nel caso in cui gli Austriaci fossero stati costretti a battere in ritirata, avrebbero sobillato la
popolazione per dar vita a una sollevazione analoga a quella milanese del 18 marzo 1848.
Jeri durante il combattimento di S. Lucia molti curiosi, non curanti il verbale divieto di non montare sui ballatoj a spiare le
mosse degli Austriaci, si tennero liberamente buona pezza sui tetti a vedere, quanto poteano, lo spettacolo, non certo indifferente per
noi, del forte combattimento un miglio solo al di là dalle mura; ma tutto il rimanente dei cittadini, salvo quel piccolo numero in
confronto di tutta la popolazione, si tennero tutto il santo dì quieti e tranquilli ai loro lavori, le botteghe aperte, e la gente ai propri
interessi pacifica ed anche tranquilla dell’animo quanto lo permettevano le contingenze del giorno.
Ma se dirò che a tutti noi Veronesi stava jeri stesso a piombo a piombo pendente sul capo l’acuta punta della spada del
Tiranno di Siracusa appesa dal pomo a un sottil crine! che ne direte?
Iddio per la intercession certo della Madonna del Popolo con tanti tridui da noi e meglio dal Santo nostro Vescovo
supplicata, ci volle salvi, e dell’esserne usciti così netti, solo dopo cessato il pericolo cel fu conto.
Sappi adunque, Lettor mio cortese, e tienti dal fremere se puoi, Carlo Alberto o il suo Ministero demagogo, come vuoi,
teneva appostati proprio in Verona alcuni dei nostri pur demagoghi Cittadini, i quali doveano al primo presentarsi la truppa
piemontese sotto i bastioni della Città, e quindi al precipitar dei Tedeschi dentro in Verona, doveano, saltar fuori armata mano (e non
dubitare che le armi se le aveano in pronto i maladetti con tutto il proclama del 3 di Aprile) eccitar la popolazione ad una sommossa
peggiore senza confronto di quella del 18 Marzo e in tutto simile a quella dei Milanesi, e dar addosso ai Tedeschi, e così tra i
Piemontesi di fuori e i Veronesi di dentro, schiacciarli tutti a meno che non avessero invocata una capitolazione. E Carlo Alberto quel
bravo uomo (e nota, Lettor mio, gli è che lo conta e pubblica lo stesso Bava uno dei primi generali in questa guerra di quel caro Re)
vedendo che non veniva mai a capo di far retrocedere gli Austriaci dalla cortina, che duri al cozzo si teneano pur saldi in non voler
perdere il punto di S. Lucia ad ogni costo, antiveggendo troppo bene Radetzky che la perdita di quella posizione avrebbe con sé tirata
la perdita di tre quarti di Verona, rimanendogli però in mano quell’ultimo quarticello che sono tutti i Forti che ci stan sopra capo per

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subissarci da quelli e seppellirci sotto un mucchio di rovine, come più volte l’avea giurato, nel caso che si fosse veduto strascinato da
noi a quest’ultima disperazione; Carlo Alberto, dico, stava da S. Lucia col cannocchiale e le orecchie a pennello a vedere o sentire
se dai Veronesi, impazienti di aprirgli le porte e riceverlo in trionfo, si dasse effetto alla concertata sommossa. Guai a noi se gli
Austriaci solo per poco retrocedevano! La nostra Città vedeva una giornata di carnificina e di orrori.
Ma sia ringraziato il Signore, e dopo il Signore anche Radetzky, che stette saldo, e fermò di non abbandonare al nemico
Santa Lucia sino a che un soldato anche solo rimanessegli a difenderla. Dio prosperò l’armi sue, e noi non pur fummo salvi, ma non
ci fu palese il tremendo pericolo in cui dimorammo tante ore, che solo allora che udendolo potemmo con lieto animo farne subbietto
di conversevoli discorsi.

Gaetano Spandri un paio di giorni prima della battaglia di Santa Lucia aveva criticato Carlo
Alberto non riuscendo a comprendere il suo attendismo, quando invece dopo la vittoria di Pastrengo
avrebbe dovuto puntare immediatamente verso Verona. A Gaetano Spandri un simile giudizio sorge
spontaneo essendo egli stato testimone oculare della fulmineità delle manovre militari di Napoleone
Bonaparte. Tale valutazione si accompagna a una critica anche sul dispiegamento lungo una linea
più avanzata rispetto a Castelnuovo, ma che congiungendo Mantova a Pastrengo risulta troppo
lunga per essere solida in ogni punto. I suoi giudizi sono formulati sulla base di quanto riferito da
persone entrate in Verona, essendo ai veronesi impossibile avere informazioni, rinchiusi come sono
in una città in stato d’assedio, dove il coprifuoco costringe a rientrare nelle case quando invece
sarebbe più piacevole trattenersi all’aperto a godere della buona stagione ormai avanzata.
Dopo il fatto d’arme avvenuto a Pastrengo il lettore amerà almeno sapere le nuove posizioni dei Piemontesi: ma quali
notizie potrem dar noi del di fuori tenuti così sotto buona custodia e stretti entro la cerchia della città non solo, ma assai in qua dalle
mura, e per quanto fia possibile abbasso dalle nostre specole; che altrimenti ci buscheremo quattro soldati in tansa, spediente trovato
di molta efficacia. Ciò nulla ostante per relazione sicura fattaci da alcuni che men paurosi riuscì loro penetrar in città sappiamo i
Piemontesi occupare tutta la lunga linea che corre da Mantova a Pastrengo, ed esser questa la presente loro frontiera: Mantova,
Roverbella, Villafranca, Sommacampagna, Sona, Palazzolo, Piovezan e Pastrengo, il quale a picco sovrastà all’Adige. Distesa troppo
lunga per esser forte in tutti i punti.
Noi ci attendevamo che i Piemontesi dopo la vittoria di Pastrengo continuassero ad inseguire gli Austriaci già in ritirata su
tutti i punti, ricordevoli noi siccome siamo, e testimoni oculari della tattica Napoleonica: ma quella di Carlo Alberto è tutt’altro da
questa, e il suo procedere così a rilento fa che noi, che da tanto tempo siam sulle vive brage, ci andiamo ogni dì meglio frigendo e
consumando; pagando così il fio della valorosa nostra riscossa.
Oggi vedemmo per la Porta di S. Zeno entrar cinque carra di feriti, indizio che le scaramucce continuano. L’Adige però non
è dai Piemontesi varcato, né resa Peschiera.
La notte scorsa le molte pattuglie che rondano per le contrade arrestarono ben 20 persone. Il dover in maggio troncar sì di
buon ora le amichevoli brigate per chiuderci in casa, scotta forte.

Pochi giorni dopo - il 9 maggio ’48 - abbiamo l’annuncio di lettere già giunte da Salisburgo,
spedite dagli ostaggi veronesi, che confortano i loro cari rassicurandoli sulle proprie condizioni e
sul trattamento ricevuto.
I nostri concittadini Ostaggi ci rallegraron più volte delle lor Lettere da Salisburgo assicurandoci goder tutti buona salute
ed esser dell’animo bastantemente tranquilli; le lunghe ore del giorno passando in dolce conversazione tutti uniti occupandosi della
lettura di Dante, e passeggiando pel cortile di quel castello, in cui sono strettamente guardati; il quale situato come il nostro S.
Pietro a cavaliere di un’alta prominenza, stende loro sott’occhio tutta la città sottoposta, della cui vista con quella delle severe
solitudini pittoresche dei suoi dintorni assai si ricreano.
Ci contarono anche come lor piaccia chiamare col dolce nome di Padre il buon vecchio Scopoli, e quanto di questo caro
nome ci si compiaccia, e come tutti si fan dovere di conformare ai suoi i lor desiderj.
Ciò nulla ostante non ci possono tener occulto quanto lor gravi la lontananza dai loro cari e dalla patria.
Il Governo di Vienna profferse loro a dimora una delle tre città, Salisburgo, Linz e Vienna. Eglino scielser quest’ultima,
ove giunti, siamo assicurati, che verran messi a pie’ libero.

Dunque, mentre don Oliosi marcisce nella mefitica cella lungo l’Adige, fuori Porta Vittoria,
i veronesi, membri della disciolta Commissione civica, godono della saluberrima aria che si respira
sulla sommità della fortezza di Salisburgo e della vista stupefacente che la stessa offre.
Le loro condizioni miglioreranno ulteriormente nel giro di qualche giorno, come lo Spandri
ci riferisce il 22 maggio.

Abbiamo da lettere dei nostri concittadini Ostaggi che non più si trasferiranno in Vienna, attesi i subbugli di quella
Capitale, ma si terranno in Salisburgo e che fino dal giorno 14 del corrente mese sono stati messi a pie’ libero, dopo sedici giorni di
stretta detenzione in Castello.

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I membri della Commissione continueranno a fare notizia anche dopo la morte di don Oliosi,
spirato l’8 giugno a Reichenhall, e giunto cadavere a Salisburgo. Il 27 giugno 1848 si parla di
un’anticipata liberazione degli ostaggi scaligeri, ma anche di una visita loro fatta da un inviato di
Pio IX.

Un Inviato austriaco si presentò il giorno 17 corrente al Governo Provvisorio di Milano a trattare il cambio degli Ostaggi.
Il trattato fu conchiuso il dì seguente a mezzanotte. Si assicura che cogli Ostaggi lombardi sieno compresi anco i Veronesi, i quali
dandoci questa notizia da Salisburgo ci significarono che sperano di giorno in giorno i passaporti. Ci scrivono che si condurranno a
Milano, e vi si terranno fino che i Tedeschi non abbiano evaso. Sogno infelice! Temono i cattivelli di cader una seconda volta
nell’ugne della Polizia. Deh! con quanto miglior consiglio non sarebbero in quella vece rientrati nel caro seno delle loro Famiglie
che dolenti li sospira, e quivi attendendo alle domestiche cure, o punto non immischiandosi degli affari politici, godersi la quiete del
cittadino che attende a sé e non riceve molestia da chicchessia. Alcuno però di questi Signori così la ebbe a pensare; tornò fra noi, e
vide in prova non essersi apposto.
Monsignor Morichini inviato da Pio Nono ad Innsbruck, cominciate quivi le trattative, si trasferì a Vienna per quella Dieta.
Passò per Salisburgo e manifestò desiderio ai Conti Scopoli e Degli Emilei (che in nome di tutti i soci lo ossequiarono) di vederli
tutti. Gli si presentarono adunque e con Lui si trattennero circa due ore. Monsignore li consolò assicurandoli che le trattative erano
felicemente inoltrate, e davano a sperare una conclusione felice. Infelice lusinga!

Pochi giorni dopo, nuove lettere mettono in dubbio l’ipotesi di un inserimento dei veronesi
nello scambio di ostaggi, in via di definizione tra l’Austria e il governo milanese. Così ne fa cenno
lo Spandri il 1° luglio 1848.

Lettere da Salisburgo dei nostri Ostaggi ci addolorano forte. Ci fan sapere come inutile torni loro lo sperare i Passaporti
che rimettali in libertà. Pare che gli ostaggi veronesi non sieno compresi nel cambio, e che per questi continui l’esilio: pena che
rendesi loro ogni dì più insopportabile, e per la lontananza dalla lor patria, e per l’eterna noja d’un ozio, cui nessuna distrazione vale
a ingannare.

La pessimistica previsione viene però presto smentita dai fatti. Già due giorni dopo - il 3
luglio 1848 - lo Spandri ci dà notizia della partenza degli ostaggi veronesi per Milano.
Inaspettatamente i nostri Ostaggi di Salisburgo ci rallegrarono coll’annunziarci che i sospirati Passaporti sono loro
arrivati, ed essi in sul partir per Milano, prendendo la volta lunga della Svizzera

Una volta giunti a Milano, invieranno lettere alle famiglie sul cui contenuto Spandri il 18
luglio 1848 inizia a riferire mettendo in primo piano l’impressione che della città lombarda hanno i
veronesi reduci da Salisburgo:
Gli Ostaggi ci scrissero da Milano che quella Capitale poc’anzi cotanto sfarzosa e superba oggi più non la si conosce. Tutti
li divertimenti dismessi; chiusi i teatri; non più una carrozza di tante che ogni giorno faceano brillare il corso: la diresti un convegno
di ascetici; se non fosse che ogni giorno si dà scuola di esercizio militare ai novelli coscritti: ed è diporto delle Signore l’assistere di
presenza a queste manovre. Talune più entusiaste dell’altre vestono all’italiana, con un giuboncino di velluto, cinto da una fascia da
cui pende uno stiletto (!) V’hanno poi dei Signori, i quali vendono le loro pitture più preziose per ritraer danaro a sostegno delle
grandi spese per la guerra. Dicesi che sieno state fuse delle campane in cannoni.

Il 24 luglio 1848 tra i paesi segnalati come vittime della brutalità della guerra e della
barbarie croata brilla Sommacampagna, che comunque - tiene a precisare Spandri - non ha
conosciuto le devastazioni inflitte a Castelnuovo.
Ma un’altra notizia ci voleva a mettere il colmo alla nostra afflizione, ciò fu il saccheggio di Sommacampagna; la qual
terra infelice quantunque non accusata di cui vennero Sorio, Montebello, Castelnuovo e gli altri infelici paesi, fu non pertanto
spogliata di tutto cominciando dai Casini, sino all’ultimo abituro, riportandone il bottino a pieni cariaggi.
Per dare un’idea al mio lettore di questo saccheggio dirò che nel palazzo Venier, il primo alla preda fu il Generale, il quale
caricò il suo cocchio di orologi preziosi da tavola e di tutte le magnifiche bisutterie di Parigi ed altri oggetti di sommo pregio e
valore. Indi sottentrarono i Capitani e gli Ufficiali a spogliarlo del meglio. Poi i soldati a non risparmiare neanche la cappella privata,
e noi ne vedemmo in Verona venduti i metallici candelabri99.

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Don Tommaso Netti riporta quanto pubblicato dal Foglio di Verona il 24 luglio 1848: «Notizie, jer sera qui giunte dal
quartier generale dell’armata a S. Giorgio in Salice, recarono, che l’attacco delle trinciere nemiche poste sulle alture di
Sommacampagna, Madonna del Monte, Sona e S. Giustina, fu coronato del più brillante successo. Esse vennero tutte
espugnate a carica di bajonetta, e le truppe piemontesi furono sopra ogni punto messe a sbaraglio. Una quantità di
prigionieri fra cui il Generale Mauton, il suo aiutante e vari ufficiali, la presa di due cannoni da 16, molti carri pieni di

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Spandri tornerà un’ultima volta a parlare di Castelnuovo non più in riferimento a don
Antonio Oliosi, il quale ormai non fa più notizia se non nello scambio di fedi di morte che
intercorre tra Salisburgo e Verona, ma accennando all’altro prete-martire, don Felice Perlato,
sopravvissuto non solo al primo eccidio, quello dell’11 aprile 1848, ma anche al rientro degli
Austriaci - il 23 luglio ’48 - episodio al quale gli storici prestano una scarsa attenzione. Dopo il
secondo «atrocissimo e nuovo spettacolo» del 23 luglio ‘48100, don Felice Perlato abbandona
definitivamente il paese. Così di lui parla Spandri il 2 agosto ’48:
Oggi vedemmo in Verona l’infelice Arciprete di Castelnuovo R. Don Felice Perlato. Ci pare cavato fuor dal sepolcro.
Egli ebbe a narrarci cose da far arricciare i capegli. Siccome ho descritto in qualche modo nell’Appendice Prima li due Fatti di
Castelnuovo, così ora io mi passerò senz’altro di questo abbastanza amaro argomento101. Dico solo che oggimai questa non è più
causa dei popoli contro i Sovrani o viceversa; ma causa di Dio contro i popoli ed i Sovrani.

Come spiegare l’accanimento austriaco contro i sacerdoti e in particolare il trattamento e la


deportazione riservati a don Antonio Oliosi? Spandri dedica molta attenzione alle sofferenze e
persecuzioni subite dai preti cattolici. Una giustificazione la offre a commento di un proclama
austriaco, in cui si diffidano parroci e conventi dall’offrire protezione ai soldati disertori.
L’essersi il Clero in iscandalo gravissimo immischiato, nella Lombardia segnatamente ed alcuni anche nella Venezia, negli
affari della Rivoluzione, e cavata la stola, e abbandonato l’Altare, preso il fucile e la sciabola fattisi capitani e condottieri dei
Reggimenti Italiani e delle legioni dei Crociati: questo eccesso che sarebbe al tutto incredibile ove non si fosse effettuato sotto gli
occhi nostri, ingenerò nell’animo degli Austriaci tanta avversione ai Preti da riputarli senza meno Capi e fautori della Ribellione: e
nessuno può cacciar loro dalla mente che anche i nostri sacerdoti veronesi non sieno per eccitare, se venga loro il destro, i soldati alla
diserzione, proferendo le case loro medesime e i Conventi a nascondiglio e a sicurezza.

Sacerdoti cattolici, dunque, nella denuncia dello Spandri, che si sono messi alla testa dei
volontari impegnati al 1848 nella lotta contro lo straniero, ma anche sacerdoti che in ogni caso, pur
non imbracciando un’arma, condividono l’impegno risorgimentale. Tra questi, i preti che ci hanno
lasciato righe dedicate a Castelnuovo e al nostro don Antonio Oliosi. Su tutti brilla don Antonio
Pighi, cui - ripeto - dobbiamo la pubblicazione delle memorie di don Felice Perlato, parroco di
Castelnuovo, raccolte da don Tommaso Nitti. Ma a don Antonio Pighi dobbiamo anche tutta una
serie di controlli e verifiche dell’accaduto, nonché il recupero delle righe che altri sacerdoti hanno
dedicato alla tragedia di Castelnuovo. Tra costoro, brillano don Bortolo Oliosi, don Antonio
Zandomeneghi, parroco di Castelnuovo succeduto a don Felice Perlato, don Bortolo Bazzoli, l’abate
Giuseppe Zanchi e don Pietro Zenari. Una storia insomma, quella di Castelnuovo e di don Antonio
Oliosi, scritta da semplici parroci o da sacerdoti professori del seminario, che non si sono limitati a
raccontare i fatti, ma che hanno travasato negli scritti la loro indignazione umana e sacerdotale per
gli eccessi di cui si macchiarono i soldati asburgici.
Richiamo la notissima lettera di don Bortolo Oliosi, che informa della fine di don Antonio
Oliosi.
Dirò a V. S. che il viaggio da Verona ad Innsbruck lo dovette fare a piedi, e soltanto q uando non si poté più reggere in
piedi gli procacciarono un carretto su del quale spirò quell’anima innocente sette miglia prima di arrivare a Salisburgo senza avere la
grazia del minimo soccorso, perché l’Ufficiale d’ordinanza volle proseguire il cammino benché vi fosse chi pregasse pel Curato
attesa l’estrema sua angoscia!!!102

Quando don Bortolo Oliosi scrive tale lettera non sono ancora arrivate comunicazioni
ufficiali. Egli desumeva la sua informazione dalla testimonianza di ostaggi rientrati a Verona, tra
cui un Giacinto Gaburro di S. Giorgio in Salici. Ci vorrà più di un anno prima che si chiarisca

munizione, e lo spingersi avanti del nostro esercito fino a San Giorgio, Castelnuovo e Oliosi furono i frutti di questa
gloriosa giornata, dovuta alla sapiente combinazione del piano strategico e al valore indomabile de’ nostri combattenti».
NETTI, Castelnuovo e gli austriaci nel 1848, cit., pp. 162-163.
100
NETTI, Castelnuovo e gli austriaci nel 1848, cit., p. 160.
101
Spandri annota: «N. 8 pag. 78. N. 25 pag. 275». SPANDRI, Li Cento Cinquanta Giorni…, cit., c. 305.
102
NETTI, Castelnuovo e gli austriaci nel 1848, cit., p. 89.

27
ufficialmente la posizione di don Antonio Oliosi. Infatti da Salisburgo arrivano inizialmente
dichiarazioni che sbagliano sia il cognome che il luogo di residenza del defunto.
Il 10 febbraio 1849 il cappellano di guarnigione di Salisburgo in una lettera al vescovo di
Trento, che evidentemente è stato coinvolto da Verona nelle ricerche del deportato, allega una fede
di morte corretta, spiegando che gli errori sono da attribuire o ai compagni di viaggio, ostaggi
insieme a don Antonio Oliosi, o a chi ha riempito le finche del registro dei morti dell’ospedale
militare di Salisburgo, dove il cadavere fu portato e visitato prima che venisse redatto l’atto di
morte. Morto l’8 giugno, il funerale fu eseguito il giorno 10 dal cappellano del reggimento di linea
n. 26 secondo il rito cattolico e il cadavere inumato nel cimitero militare103.
Ripropongo conclusivamente le parole di don Felice Perlato tramandateci da don Tommaso
Netti e pubblicate da don Antonio Pighi, indirizzate al defunto don Antonio Oliosi:
Povero veglio! Il pensiero di questa tua fine mi strazia l’anima! Tu non avrai dagli uomini neppur un avello, neppur un
sasso che parli del tuo iniquo destino, che chiami sul labbro del pellegrino una prece, un compianto, un addio!... Iddio t’abbia in
pace!!!104

5. Il carnefice di Castelnuovo cade a Vicenza

Il responsabile del massacro di Castelnuovo riaffiora nella cronaca spandriana al giugno


1848 nel contesto delle vicende di Vicenza. Il 12 giugno 1848 si è avuto conferma da un bollettino
ufficiale austriaco della vittoriosa battaglia per la riconquista di Vicenza. Il cronista non nasconde il
suo stupore e la propria partecipazione alle sofferenze dei protagonisti. Così Spandri il 12 giugno
1848:

Dopo tre giorni di affannoso aspettare notizie sulla sorte di Vicenza, oggi finalmente a mezzo giorno esce il Bullettino
XIVmo dell’Armata. Eccolo a verbo:

«Verona il 12 Giugno 1848


«L’esercito sotto il comando di S.E. il Feld Maresciallo Conte Radetzky ha la mattina del 10 Giugno attaccato da tutte le
parti Vicenza. Tutte le alture e trincee occupate intorno a quella città dal nemico furono prese d’assalto.
«E’ stipulata una convenzione colle truppe pontificie in virtù della quale devono esse ritirarsi di là dal Po, e sgomberare il
territorio veneto. Entrarono i nostri valorosi soldati in Vicenza».

Egli non è a descriversi la sorpresa, lo sbigottimento, la profonda tristezza incussa nei Veronesi per questa inaspettata
notizia. Conciossiachè s’affacciò al pensiero l’orrendo quadro del saccheggio, delle carnificine, delle sacrileghe profanazioni
commesse dalla ferocia brutale del soldato e del Croato peculiarmente in tutte quelle infelici terre ove mise piè vittorioso. O Dio! tutti
noi veronesi abbiamo a Vicenza chi i parenti, chi gli amici, tutti i fratelli, e questo immaginato disastro tremendo ci fu un coltello nel
cuore.

L’indomani, 13 giugno 1848, ritorna su Vicenza con nuove espressioni di dolore e l’accenno
al responsabile della tragedia di Castelnuovo.

Era scritto che Vicenza cadesse; e sotto il dominio austriaco, comechè odiato, dopo tanti sagrifizj di danaro e di sangue suo
malincuore tornasse.
Vicenza, lacero il seno per tante piaghe, con sott’occhio i sanguinosi cadaveri di tanti suoi figli, Vicenza s’arrende, e piega
lagrimosa di nuovo il collo al giogo che, più assai pesante che innanzi, l’Austria le calca in collo.
Quando saremo in istato di dare con sicurezza il dettaglio del gran fatto di Vicenza lo faremo: intanto annunciamo la morte
del Tenente Maresciallo Principe Thurn e Taxis rimasto sui campo di Vicenza confuso tra cadaveri e gittato con quelli degl’Italiani
senza onore nella comun fossa; Lui che soli due mesi innanzi concesse, se non comandò, ai suoi soldati il saccheggio, l’incendio, gli
orribili massacri di Castelnuovo: “Dio giudice giusto retribuisce, fedele, ciascuno secondo le opere sue”.

6. Sommossa popolare, Commissione e Guardia Civica nelle prime giornate del ’48
scaligero

Dopo aver riportato i passaggi dedicati da Gaetano Spandri direttamente a Castelnuovo, ai


suoi sacerdoti e alla Commissione Civica di Verona per la parte relativa alla deportazione della

103
ARCHIVIO DELLA CURIA DI VERONA, Castelnuovo.
104
NETTI, Castelnuovo e gli austriaci nel 1848, cit., p. 87.

28
stessa a Salisburgo, recupero altri momenti utili per inquadrare il contesto nel quale matura la
tragedia del paese di don Antonio Oliosi e di don Felice Perlato.
La cronaca dello Spandri prende avvio sabato 18 marzo 1848 con l’arrivo in città del viceré
Renieri, fuggito da Milano. Nelle stesse ore in cui hanno inizio le 5 giornate di Milano anche i
veronesi scendono in piazza, aizzati da un gruppetto di cittadini che danno vita a una Commissione
civica, formalmente riconosciuta l’indomani dal Renieri, che concede anche l’istituzione di una
Guardia Civica. La sollevazione popolare, che si accanisce in particolare contro il collegio di S.
Sebastiano - oggi biblioteca comunale di Verona - da cui però i Gesuiti sono riusciti a fuggire
mettendosi in salvo, verrà dispersa alla sera del 18 da un violento temporale, che impedisce ulteriori
eccessi popolari.

18 marzo 1848

A Milano, non appena partito il Viceré, scoppiò la più terribile rivoluzione; ma di questa siamo ora al bujo.
Questa medesima sera qui pure irruppe una paurosa sommossa, che aveva aspetto di Rivoluzione.
Il Conte Pietro degli Emilj, quel gran partigiano del liberalismo italiano, quel nemico giurato dei Gesuiti, con altri
Veronesi Cavalieri del suo medesimo taglio, e pochi cagnotti Lombardi e Veronesi, di piccola nascita, ma di grandi fumi liberali, alla
testa di una stretta di popolo tumultuoso (il più compro a danaro) si recarono ad un’ora circa di notte al Palazzo del Podestà Orti
con grida e schiamazzo grande, con bandiera italiana e torce a vento, intimandogli che pel vegnente dì alle 10 antimeridiane si
dovesse rappresentare al Vicerè per fargli quelle domande in favore del Popolo, delle quali sarebbe indettato.
Partita la sediziosa turba dal Palazzo del Podestà, passò alle Due Torri, sotto le finestre del Vicerè a chiedere con grande
fracasso di urla la Costituzione.
Il Vicerè, chiuso nelle sue stanze, punto non lasciavasi vedere, temendo che si venisse a cose peggiori: se non che di lì a
poco la calca del popolo, capitanata sempre dal Conte degli Emilj e socj, spiccossi dall’albergo del Vicerè e si condusse difilato al
Collegio dei Padri Gesuiti, e con un chiasso da inferno si diedero a furia di sassi a fracassare le vetriate di quelle finestre, urlando a
gola: Abbasso i Gesuiti! Infamia ai Gesuiti! Morte ai Gesuiti!
La storia fedele dee qui ricordare con dolore e vergogna come la prima di queste reprobe voci fosse di un Cavalier
veronese. Copriamone il nome e usiamo in suo servigio la carità di quel Vangelo cui egli, miserabile!, disconosce.
Fu anche notato il maggior numero delle voci tra il popolo essere state di forestieri lombardi, e le nostre poche, isolate, e
seguite dal silenzio della disapprovazione.
La mattina appresso (19.) i muri delle case attorno al Collegio si vider gremite di scritti infami in onta di quei Reverendi
Santissimi Padri105.
Intanto che queste infamie accadevano, accorse la sera stessa (18.) assai milizia tedesca d’infanteria e di cavalleria a dare
addosso ai tumultuosi e reprimere esso fatto la sedizione.
Sieno rese immortali grazie alla nostra Madonna del Popolo, che in tanto trambusto e pericolo non accadde il menomo
accidente funesto, ed un istantaneo, inaspettato rovescio di pioggia con forti tuoni e grossa grandine, così a quell’ora (le 10 circa
della sera), che da tutti fu tenuta un prodigio del cielo, mise termine pronto ad ogni tumulto e tutta quella rea marmaglia disperse.

19 marzo 1848

(Domenica) Dopo il rovescio dell’acqua e della gragnuola, fatte le nubi l’uffizio cui dalla Divina Providenza furono
destinate, eransi dileguate e il giorno del glorioso S. Giuseppe sorgea sereno.
La mattina, sino dalle prime ore una paurosa mestizia occupava altamente l’animo dei pacifici e religiosi cittadini, ed una
cupa gioja quello dei rivoltosi. Numerose pattuglie di Dragoni a cavallo colla sciabola nuda rondavano per la città a mantenervi la
quiete.
Alle ore 10 antemeridiane presentasi una Commissione, capitanata dal Conte Pietro degli Emilei e dal Signor Antonio
Radice, milanese, negoziante, da assai anni domiciliato in Verona, al Vicerè a chiedergli francamente, con modi urbani però, la
Guardia Civica. Fu anche detto che gli si chiedesse lo sgombro della milizia dai Forti: ma io non credo possibile in quella
Commissione tanta sciempiaggine.
Il Vicerè così in su due piedi, pro bono pacis, concesse la Guardia Civica composta di soli 400 individui.
All’istante medesimo manuscritti affissi per la Città fecero conoscere al popolo (che di bel nuovo cominciava a concitarsi)
la concession lusinghiera del Vicerè. A questa notizia, versatile com’egli è sempre, cangiò tosto di tumultuoso in baccante, e dalle 10
del mattino sin’oltre la mezza notte, fe’ uno schiamazzo così sformato e strano (impossibile a descriversi), gridando a gola Viva
l’Italia!, che ne fummo intronati sino a perderne il cervello.
La maggior parte dei cittadini, chi per pazzo delirio, chi per paura seguendo l’esempio dei primi, sfoggiò nappa106 tricolore
o bianca, seguendo l’esempio de’ capurioni.
Partita la Commissione dal Vicerè, contenta della grazia ottenuta, si recò al Caffè Morati in Piazza delle Erbe, sulla così
detta bina degli orefici, e da una finestra immediatamente sopra la bottega, il Conte degli Emilj con a destra Radice, ed a sinistra

105
Sulle vicende dei Gesuiti, dal rientro in Verona nel 1837 alle vicende del 1848, abbiamo memorie storiche in
ALDEGHERI, Breve storia della Provincia veneta della Compagnia di Gesù dalle sue origini fino ai giorni nostri (1814-
1914), cit., pp. [54-62], [246-253].
106
Fiocco, coccarda.

29
Vittorio Monga (giovane in sui 27 anni, di belle speranze, ma per sua mala sorte ciecamente perduto dietro al fantasma della
Libertà italiana) proclamò l’istituzione della Guardia Civica.
Alle 3 pomeridiane la Commissione, composta dalli Signori Pietro conte degli Emilj, Girolamo conte Orti Manara,
podestà, Cav. Giovanni Scopoli, Antonio Radice, Avvocato Pietro Malenza, Giuseppe Biasi, Dottor Antonio Conati, Alessandro
Alessandri, Avvocato Francesco Guerra, organizzarono nell’Arena il principio di questa Guardia Civica, di cui gli ascritti
volontarj datisi la mattina stessa in nota al Municipio erano stati quivi invitati con altro avviso pur manuscritto affiso per la Città.
A Capitano primo di questa Guardia, in guiderdone delle solenni prodezze da lui operate negli or ora descritti
avvenimenti e della sera innanzi, fu eletto un Domenico Cesconi, venditore di libri, e questi pure insieme coi sopraddetti signori sul
verone dell’Arena sopra la porta verso Bra faceva l’appello dei suoi soldati che gli stavano dinanzi, marmaglia insolente che
brulicava nel mezzo dell’area del anfiteatro.
Era poi grazioso vedere il venditore di libri, non avente più che 40 anni, Capitano della nuova Guardia, e il vecchio
Dottor Celsi, avvocato fiscale, sergente, e tanti nobili e ricchi signori soldati o tutt’al più caporali.
Intanto che sì fatte capestrerie avvenivano i RR. PP. Gesuiti vittime del furore d’un popolo compro da pochi tristi
comechè signori e cavalieri, trafitti nell’anima dal dolore, benché al divin beneplacito rassegnati disponevansi alla partenza dal loro
Collegio; la più parte erano già travestiti in abito secolare.
Il popolo, con alla testa la Banda civica, con bandiere allusive la libertà107, ebro di matta gioja percorreva dalla Piazza de’
Signori alla Bra e viceversa, assordando l’aria di Viva l’Italia. Le Signore dalle finestre per tutto dove passava il civico baccanale,
festose agitavano sopra la moltitudine del popolo che agitando in mano il cappello, loro corrispondeva, fazzoletti bianchi e sciarpe
tricolorate, e non si vergognavano di accordare le loro graziose vocine alle urla del popolazzo.
Anche taluni dei soldati medesimi furono uditi gridare lo stesso motto Viva l’Italia, quali per ischerno di noi, quali per
tema di un popolo furibondo.
La sera di questo giorno tremendo processionalmente la folla dei sediziosi sempre capitanata dagli antesignani, nemici della
Compagnia di Gesù, torna al Collegio di S. Sebastiano (al Noviziato alla Porta Nuova accadde assai poca cosa, ma di là pur si
partirono i Padri per conseguenza del Collegio), e qui nuove urla e bestemmie vituperose, buse alla porta che parean volerla atterrare,
ed alle finestre sassate da capo.
Le incondite grida per tutte le strade della Città continuarono sin presso giorno: Viva l’Italia, Viva Pio Nono, Viva la Luna
tricolorata: la luna di fatto quella notte per un’eclisse totale mostravasi tutta di color cinereo, rosso cupo, e verdastro.

20 Marzo 1848

(Lunedì) Pattuglie di Militi Civici, vestiti già s’intende degli usati lor abiti cittadini, armati di sciabole e schioppi di tutte
le generazioni, vecchi, ruggini e inetti a far foco, che moveano a riso a vederli, ed un largo nastro bianco di tela (benda da salassi)
sul cappello, segno convenuto a dinotar che appartengono alla Guardia Civica, sotto una continua lenta pioggia fecero la ronda per
la Città tutto il giorno.
La notte scorsa s’erano allontanati dal Collegio tutti i Padri, meno tre, il P. Cicoterri Rettore, il P. Bonetello Prefetto degli
Studj, il P. Peribelli, e due fratelli coadiutori108.
Alle dieci antimeridiane, d’ordine della Commissione Civica, che con questo bell’atto primo inaugurava la sua
installazione, fu chiusa la Chiesa e due Guardie Civiche faceano sentinella innanzi le tre maggiori porte di essa Chiesa. Fino dalla
sera innanzi fu inchiodata (per suggerimento dicesi del Capitano Domenico Cesconi) una grande asse a traverso le imposte, già
chiuse, della Porteria del Collegio con su scrittovi a grandi caratteri Proprietà Comunale.
Frattanto pattuglie di Cavalleria tedesca colla scimitarra sguainata giravano pur esse la città, ed altre pattuglie
d’Infanteria pur tedesca, ma guidate da due officiali della Guardia Civica rondavano esse ancora.
Otto Guardie Civiche, nell’uniforme ridicola ed armatura sopradescritta, facevano sentinella alla porta della Delegazione.
Quasi tutti i cittadini per eccitamento del Conte Pietro degli Emilj si fregiarono della nappa bianca; alcuni, più liberali e più caldi
italiani, della tricolorata. Costui, il Conte degli Emilj, aveva il giorno innanzi proclamato dal poggio dell’Arena, che il portare la
nappa bianca sarebbe stato un segno di approvazione a quanto dalla Civica Commissione verrebbesi operato. Ma vi era chi
altamente disapprovava l’operato della Commissione e questi si astennero francamente dal farsi vedere insigniti di questo vil
contrassegno.
Alle ore 2½ pomeridiane uscì una Notificazione di Sua Ferdinando I colla quale abolisce in tutta la Monarchia la censura
sulla stampa, accorda la Guardia Civica, e promette la Costituzione della Patria (in lettere grandi) per la quale al più presto, e prima
sempre del 3 Luglio prossimo si uniranno le deputazioni di tutto il Regno Lombardo-Veneto a Vienna. La maggior parte dei cittadini
tien questa Notificazione in conto di belle ciance.
Sulla Porteria del Collegio dei Gesuiti e sopra la iscrizione Proprietà Comunale, fu incollata una grande carta su cui
manuscritto leggevasi Caserma della Guardia Civica. Ecco il bel cambio che dà Verona ai benefizj che ricevette dalle apostoliche
fatiche di questi dotti e zelanti Inviati del Signore!
Uscì verso sera un avviso manuscritto con cui si notifica brevemente aver il Vicerè dato ferma parola al Vescovo ed alla
Commissione Civica, che fino a tanto che i Cittadini si manterranno tranquilli non si partirà di Verona: sottoscritto Orti e tutta la
Commissione.

107
Spandri annota: «Due moderni fazzoletti grandi, su l’un de’ quali v’aveva l’effigie di Pio IX, sull’altro due soldati
Piemontesi, fermati questi due fazzoletti ciascuno sopra due bastoni, erano portati da due giovinoni a mo’ di gonfalone
(uno di costoro era l’ebreo Rafaele Dottor Pincherli). Probabilmente la bandiera portata la sera innanzi al palazzo Orti
fu uno di questo fazzoletti». SPANDRI, Li Cento Cinquanta Giorni…, cit., c. 12.
108
La grafia dei nomi sembrerebbe errata. Lo storico Padre Aldo Aldegheri ci informa, infatti, che rettori del collegio di
Verona sono stati Padre Antonio Benetello (1844-1847) e Padre Felice Cicaterri (1847-1848). ALDEGHERI, Breve storia
della Provincia veneta della Compagnia di Gesù dalle sue origini fino ai giorni nostri (1814-1914), cit., p. 53.

30
E qui deesi sapere come la maggior parte dei cittadini niente avversa al Governo Austriaco vivamente desiderava che il
Vicerè si trattenesse in Verona; perocchè alla sua presenza assegnavamo la tranquillità e il benessere della Città; e lui partendo
temevamo gli orrori di una rivoluzione.
Le acclamazioni e gli eviva di jeri sono affatto cessati. La Commissione Civica non li vuole, e basta. Il popolo comincia a
riguardare questa Commissione qual la padrona benemerita della Città e l’angelo suo tutelare.

21 Marzo 1848

(Martedì) In piazza delle Erbe sopra il Caffè Morati sventola sin da jeri una grande bandiera bianca, e sotto evvi un
cartello che dice: Caffè ove la prima volta fu proclamata la Guardia Civica.
In piazza dei Signori, sopra la Loggia del Palazzo detto del Consiglio, un lungo cartellone dice Guardia Civica. Con ciò
essa Loggia è addivenuta il Corpo di Guardia di questa nuova milizia improvvisata.
Alla porta dell’albergo delle Due Torri ove alloggia il Vice-Re fanno sentinella dì e notte due Guardie Civiche: sotto
l’atrio le due militari. Alle 10 ore circa del mattino di questo stesso giorno le Guardie Civiche a questo albergo accrebbero sino ad
otto. Da esse tengonsi lontano il popolo, tutto all’intorno a gran raggio, e si fa fare un perfetto silenzio, e si vieta persin di passar per
colà con rotabili. Tanta è la cura che si prendono i Veronesi della rispettata persona del Vice-Re.
I Padri Gesuiti travestiti vennero tutti accolti in casa dei loro amorevoli, ove si tengono occulti, non per lo timore del
popolo che li ama, sì dei pochi malvagi commettitori di tutto lo scandalo.

7. Il «fatto di Castelnuovo» in “appendice” alla “cronaca” di Spandri

Nell’«Appendice» Gaetano Spandri sviluppa singoli episodi, cui abbia fatto cenno nelle
pagine della «Cronaca», da lui ritenuti degni di una più approfondita e particolareggiata
conoscenza. Tra questi “approfondimenti” troviamo il «fatto di Castelnuovo». La narrazione del
«fatto» è preceduta e seguita da riflessioni, introduttive e conclusive, dello Spandri. Egli assicura
che quanto si accinge a narrare è frutto di una lunga indagine, nel corso della quale ha raccolto la
deposizione di numerosi testimoni oculari, le cui affermazioni servono a sbugiardare la versione
fornita da uno scrittore “celebre”, il cui intento fu di «togliere una macchia alle armi austriache».
Nella conclusione Spandri torna a ribadire con forza l’autenticità di quanto narrato. Chi sia il
«celebre Scrittore», cui lo Spandri accenna, non è dato sapere. Non è escluso che possa riferirsi al
gesuita Padre Antonio Bresciani. Questi non nega l’evento, ma semplicemente scarica ogni
responsabilità su chi decise di trasformare Castelnuovo in un campo trincerato, contro il quale
inevitabilmente sarebbe staccata la controffensiva degli austriaci. Le truppe austriache nella loro
rabbiosa reazione contro una squadra di irregolari - i patrioti lombardi - finiscono col non
distinguere più tra combattenti senza divisa e popolazione civile109. Questo l’eccidio di Castelnuovo
nell’Appendice dello Spandri:

Vorrei scrivere più colle lagrime che coll’inchiostro questo luttuosissimo avvenimento. Lasciarlo nol comporta la natura
della mia Storia, che quei Fatti peculiarmente ha preso a narrare che caddero sotto gli occhi nostri. Poteva bene ometterlo un
celebre Scrittore la cui Storia d’indole libera non l’obbligava a contarlo: ma Egli avvisò riportarlo, e travisandolo togliere una
macchia alle armi austriache. Ma che avvenne? Una voce si levò di disapprovazione da ben cento e cento testimonj contemporanei e
oculari. Egli dispiacque ai presenti, ingannò i lontani, e la macchia sta. Consiglio infelice! Adoriamo piuttosto chinando il capo sino
a terra le imperscrutabili dispensazioni di Dio, che volendo affliggere quella Terra, ritrasse alquanto la mano dal soldato, il quale
nel furor suo si fece senza saperlo ministro della divina giustizia: e nell’umile contrizione del nostro cuore supplichiamo al Signore

109
Così Antonio Bresciani: «Io compatisco al vostro dolore; ed io che ne vidi appresso le ruine, piansi, e dovetti volger
gli occhi altrove; ma voi chiedete di chi è la colpa di tanto incendio, ed io la dirovvi, o almeno lascierollo a voi
giudicare. Agostino Noaro, ufficiale piemontese, con un grosso drappello di volontari lombardi e napoletani diede
improvviso sopra Castelnuovo, in cui furono sorpresi cento foreggeri austriaci del reggimento italiano di Geppert, e
fatti prigionieri. Il Noaro bastionatosi nella terra, scassinando le vie che danno a Verona, a Mantova, ed a Peschiera;
diroccando ponti, abbattendo alberi per asserragliare il contorno e le sbarre messe in capo a tutte le strade del
villaggio, e sterrando sott'esse carbonaje, bocche di lupo, ed altre fosse profonde e scarpate, con pali e spuntoni e
spinate in sul terraglio degli spaldi, a tôrre ogni adito alla cavalleria. Fin qui il Noaro fece quanto s'avviene a buono e
esperto capitano; ma visto che i paesani volean diloggiare e porre a salvamento sé e le mogli e i figliuoli e il bestiame,
crudelmente loro contese: almeno lasciasse ricoverare a Colà, e a Lazise le donne, i putti e i poveri vecchi. Non volle;
ma con piattonate e co' calci de' fucili percotendo que' miseri contadini, li forzava a portar cofani di terra e piote e
tronconi e fascinacci a imbragar le sbarre, e incatenare i barbacani, e spaldare le controscarpe». BRESCIANI, L'Ebreo
di Verona, vol. II, cit., p. 165. Cfr. VECCHIATO, Il martirio di don Antonio Oliosi, cit., p. 21.

31
che più non permetta il ritorno di un’epoca di tanto irreligioso delirio qual si fu quella del 48, perché l’altra pure non segua di tanto
sua paurosa vendetta110.

Quis talia fando, temperet a lacrymis.


Una colonna di 400 uomini condotti dal Generale Novara Genovese dalla riva Bresciana era sbarcata in Lazise. La mattina
del 10 Aprile s’impadronì della Polveriera del forte di Peschiera fatti prigioni li 72 uomini che la guardavano. Animato il Generale
dal bel colpo fatto così agevolmente, mandò due esploratori in Castelnuovo a scovrire se là vi avesser Tedeschi. Non trovatovi
soldato alcuno, si presentarono gli esploratori al Deputato di quella Terra francamente esponendogli l’intenzione del Generale che li
mandava. Il Deputato li accolse con ogni sorta di cortesia, dando vista lui essere Italianissimo, ed assicurolli che Tedeschi colà non vi
erano, che gli avrebbe sostenuti nelle loro operazioni del suo appoggio, e feceli certi della cooperazione la più gagliarda in favor loro
degli abitanti di quel Comune; di modo che lietissimi gli esploratori tornarono al lor Generale raccontandogli l’esito felice della loro
missione. Reso vie più audace il Novara a queste notizie, calò lo stesso giorno, un poco prima del tramonto del sole con tutto il suo
corpo sulla piazza di Castelnuovo, ove arrivate poco stante due compagnie di Tedeschi, staccate dal Reggimento Haugwitz a
provveder vittuaria per tutto il Reggimento accampato a poche miglia da quella Terra, furono dai Lombardi fatti prigioni, e le
provvisioni sequestrate. Indi chiesta all’Arciprete la chiave della Torre, e scusatosi egli dal darla, adducendo essere Torre del
Comune e però custodita la chiave all’Uffizio della Deputazione, se ne impossessarono abbattendone la porta e posero vigili sulla
cella campanaria, ed armati da basso. Assidua ed animosa opera di questi Lombardi fu tutta quella notte in costruir barricate,
affondare le strade d’intorno, demolir ponti e passaggi, al cui lavoro costrinsero a forza que’ terrazzani, ed i medesimi soldati
prigioni.
Il Deputato frattanto avea nottetempo abbandonato l’Uffizio, e corso a dar notizia del fatto al Tenente Maresciallo Principe
Thurn-Taxis tre sole miglia di là discosto.
Il Generale Novara s’era stabilito di residenza nella casa Parrochiale, da dove spediva i comandi, inteso a fare di
Castelnuovo una sua Piazza-forte. Una parte della predata polve, già avea fatta trasportare a Lazise, terra di rifugio in caso di una
ritirata.
Tre ore dopo il meriggio del giorno 11 un improvviso tumultuoso spavento di grida disperate e di gemiti si leva per ogni
parte del paese: “all’armi!... all’armi!... il nemico!... i tedeschi!... all’armi!” Il parapiglia dei Lombardi che corrono qua e colà a
guisa di forsennati, e si raccolgono precipitosi e convulsi; il fragore delle armi, il rimbombo dell’artiglieria austriaca che comincia a
tuonare contro le prime barricate che incontra, il suono delle campane a stormo della torre assicura tutti dell’imminente disastro.
Molti dei terrazzani antivedendolo avean provveduto alla loro salvezza con una pronta fuga. Altri più timidi s’erano chiusi in casa,
barricandone le porte; molte donne rifugitesi in chiesa oravano e singhiozzavano unite al lor Parroco, sperando che alla peggio
avrieno i Tedeschi rispettata la Casa del Signore.
Un distaccamento di 4000 austriaci tra fanti e cavalieri, parte del Reggimento Haugwitz e parte del Piret, condotti dal
Maresciallo Thurn-Taxis, con 6 pezzi di artiglieria assale con vigoroso fuoco li soldati del Novara, tutti gregari, senza cavalli, senza
cannoni, giovani inesperti, male agguerriti, peggio ammaestrati, tutti nuovi nell’arte della guerra. Nulla ostante sì enorme
disuguaglianza numerica, e tanta tenuità di mezzi, i Lombardi, riavuti dal primo sgomento, affrontano il nemico, e facendosi schermo
degli alberi e delle muriccie, ed alle finestre delle case, oppongono una arrabbiatissima resistenza, per forma da tenere, direi quasi, in
bilico l’esito di quello scontro. Ma la forza prevalse, e dopo tre ore di un fuoco micidiale, i Lombardi furono costretti a cedere, e
lasciato in balia dell’inferocito nemico lo sventurato paese, volgono in fuga precipitosa.
Occupate i Tedeschi da prima le alture della così detta Croce Papale ove seguì la lotta, a guisa di violenta fiumara in poco
d’ora si riversano su quella terra, la innondano tutta, e tutta la mettono al sacco, al fuoco, al ferro. Le prime case del paese respicienti
la posta dei cavalli, già abbandonate dai fuggiti abitanti furono le prime ad inaugurare lo spaventoso incendio. Cacciatisi i soldati
nelle case di seguito, quali degli abitanti furono scannati, quali arsi vivi in un alle case ove si teneano appiatati, quali scampati a
grande rischio, saltando dalle finestre correano a nascondersi entro la melma dei fossi per togliersi alla vista del furibondo soldato.
Chi veniva costretto col fucile alla gola ad attinger secchie di vino e recarle ai soldati, chi ad apprestar vivande, ed in pagamento
ricever piattonate e minaccie peggiori. Quindici terrazzani e il curato Don Antonio Oliosi d’anni 64, ulcerato nelle gambe e
podagroso, presi dai Tedeschi e legati con funi furono tutta la seguente notte guardati sul colle della Croce Papale, per poi tradurli a
Verona, come fecero qual trofeo glorioso di quella vittoria, e far poi loro subire una morte quanto più stentata tanto più dolorosa.
Io narrerò tre soli dei tanti fatti orribili che funestarono questo memorando giorno dell’eccidio di Castelnuovo da me
stesso uditi da rispettabile persona, degnissima di fede stata testimonio oculare non solo, ma una altresì delle vittime di questa orribil
sciagura da cui se n’uscì vivo fu perché Dio lo volle.
Invaso il paese, come dissi, dagli Austriaci datisi a far man bassa sugli averi e sulle vite di quegli infelici abitanti traditi, un
Lorenzo Rossi scampato appena da una banda di que’ feroci, affannoso e mezzo morto dallo spavento chiese ad un suo benevolo
Giacomo Spagnoli un pò di vino da riaversi alcun poco. Gliel porgea il buon Giacomo, ma Lorenzo non ancor appressatosi al labbro
tremante il bicchiere che si vide davanti un soldato. Trattasi dal capo la beretta il Rossi e genuflesso chiedeagli in mercè la vita: il
soldato spianato il fucile lo rovescia a terra trapassatalo la palla da una parte all’altra del petto. Intanto che il soldato ricaricava pronto
il fucile, riuscì allo Spagnolo fuggendo nascondersi dietro una siepe ed ebbe salva la vita.
La casa del farmacista Lorenzo Cavattoni serviva di rifugio a 21 persone, oltre il vecchio padrone, sua moglie, due figli ed
una serva. Un picchetto di soldati condotti dal capitano Giovanni Mauller bussano fortemente alla porta. Il padrone scende ed apre,
sperando questo essere il men peggio: ravvisa quel Capitano medesimo cui aveva più volte nei passaggi delle truppe dato cortese
alloggio in casa sua. L’animo gli si rinfranca e rasserenato alquanto, salutatolo con bel modo il richiede di che potesse servirlo. Il
Mauller gl’impone di far scendere abbasso tutti i rifugiati e gli dà fede di sicurtà. Alcuni di quei miseri non si affidano a queste
promesse e d’un salto dalle finestre son nel cortile e via. Tra questi, due figli del trucidato Rossi; qualcuno si rimpiattò nella soffitta,
16 scesero al piano e tremanti si commisero alla discrezione del Capitano, che li fece tutti adagiare sull’erbosa montata dell’attiguo
colle della Torre, chiusi dai lati tra due fila di soldati. All’un dei capi era Macrina moglie del Cavattoni, la quale ispirata a portar

110
Il brano, che riportiamo integralmente mettendo in corsivo la premessa e la conclusione onde meglio distinguerle
dalla narrazione storica, porta il titolo «N. 8. Il Fatto di Castelnuovo del giorno 11 Aprile 1848. Citato nelle Memorie a
pag. 78». SPANDRI, Li Cento Cinquanta Giorni…, cit., c. 442.

32
seco un crocifisso, protendendolo verso il Capitano, fatte delle braccia croce, chiedeva piangendo misericordia. Il Capitano qual
pezza di là scacciolla, e con viso truce numera gli altri. Un barbaro accento dà avviso ai soldati, e lui condottosi rimpetto al padrone
ospitale, trattosi una pistola dal seno lo trapassa nel petto. A quella voce, a quel segno, tutti scaricano i fucili contro quelle vittime
che mortalmente ferite abbandonano in preda agli spasimi di una lunga e stentata agonia.
La sera di quel medesimo giorno, che nella storia segnerà una pagina di orrore, un Capitano del Piret entra nel Palazzo del
Conte Cossali. Ordina a quella gente che ivi stava tremando di apprestar di tratto la polenta. Detto fatto. Rovesciata la polenta sul
tagliere, quell’ufficiale cava dal fodero la sciabola tutta intrisa di sangue. La volge e rivolge sotto gli occhi di quegli infelici e si
assicura che tutti l’abbian veduta: indi conta quanti sono que’ miseri e con quel ferro stesso taglia tante fette della polenta, che tutte
tornano intrise di quel sangue, e tosto impone con fiero piglio che ognuno mangi la sua. Qual fosse l’orrore di quegli infelici a così
barbaro comando non è a potersi descrivere. Tremanti e mutoli si guardan l’un l’altro, ma ben conoscono che bisogna sollecitamente
mangiare e poi forse morire, e fuori di sè medesimi a guisa di storditi, che senza questo non avrieno potuto vincere il fiero
riversamento delle viscere, inghiottono il cibo detestabile. La ferocia del Capitano è sazia; ei si riparte.
Già i cannoni dalle alture della Croce Papale continuavano tuttavia a tuonar tremendi contro la Torre. Già minacciata
d’invasione anch’essa la Chiesa, il Parroco e que’ supplicanti che v’eran dentro presentivano l’imminente pericolo. Ciò nulla ostante
non sapeva il Parroco determinarsi di abbandonar il Sacramento e la Chiesa; quando udito fracassarsi in un punto le vetriate
dell’Oratorio e della Sagrestia, si risolve a fuggire ed eccita le donne a cercar pur esse colla fuga di aver salva la vita.
Abbattuta a colpi di scure la porta della canonica, e saccheggiata la casa del Parroco, invadono i soldati l’oratorio, poi la
sagrestia, ed ultima la chiesa. Egli per una porta di dietro, e per attraverso i campi correndo era riuscito a sottrarsi da que’ feroci. Le
profanazioni, le distruzioni che furono allora commesse nel tempio non v’ha esempio nella storia d’altre peggiori.
Un Luigi Gaburro non istato pronto alla fuga rannicchiatosi entro un confessionale, vi fu moschettato. Non morì subito, sì
pochi giorni appresso nell’ospital di Valeggio. L’ottuagenaria Giustina Negri, cui le forze non bastarono alla fuga, fu colpita da un
razzo ed arsa. Si sfracellano armadj, si manomettono altari, si cavan fuori le sacre suppellettili, delle quali le migliori si rubano, le
altre si fanno in brani. Si sfonda a calci di schioppo il Tabernacolo, se ne trae il Sacramento e il si disperde, Dio sa dove, che più non
se n’ebbe sentore. L’urna d’un Santo Martire si sfracella e se ne disperdono le sacre reliquie. Cavano dalla nicchia la venerabile
immagine di Maria e la si fa bersaglio dei più inverecondi e sacrileghi insulti. Anche i vaselli delli Santi Crismi cadono nelle costor
unghie e se ne fa quel peggio ch’io rifuggo dal dirlo. Tutto vedeva il Gaburro dal suo nascondiglio, prima che venisse scoperto, ed
ogni cosa attestò prima di morire. Quando nulla più trovarono da distruggere e da rubare, appiccano il fuoco alla casa del Parroco,
all’Oratorio e alla Cantoria della Chiesa perché tutto struggasi in cenere.
Intanto i prigioni che sommavano in ultima a 27 compreso il sacerdote Oliosi, guardati prima sulla vetta della Croce
papale, furono poscia tradotti quella stessa notte sul monte S. Quirico di Sona ed ivi sostenuti sin la mattina all’aperto cielo, col
capo scoperto, stretti da funi tutti in uno, senza cibo, lottanti colla morte lor minacciata ad ogni istante, niente che si movessero;
vennero poi in un col bottino tradotti a Verona. Il vecchio Sacerdote più degli altri per l’età e per gli acciacchi bisognoso di ristoro,
tremante di freddo, affranto dai sofferti strapazzi, non potendo sorreggersi per sì lungo cammino veniva a pugni ed a calci di
schioppo cacciato innanzi per tutte le dodici miglia che corrono da quella terra a Verona, e per maggior vituperio del suo sacro
carattere fugli cacciato in dosso un cappotto da soldato, e fatta portar la giberna e il sacco, sempre però con in testa la beretta in
croce, a farlo conoscer da tutti un prete; e noi Veronesi in questa uniforme il vedemmo, con indicibil dolore, passar per le contrade
nostre, condotto in Campofiore, da dove furono tutte quelle infelici vittime tradotte in Castelvecchio. Dopo alquanti giorni ad alcuni
di questi infelici si concesse la libertà, e furono i più; ad altri no e tra questi il povero Sacerdote. Da Castelvecchio vennero fatti
passare nell’umido e tetro piccolo forte N. XXVII, mezzo in terra sepolto subito fuori di Porta Vittoria ed a questa precisamente di
fronte. Fu da ultimo decretato dal Comando Militare che fossero deportati nel Castello di Salisburgo, ove furono inviate tra soldati
sul caretto. Il Sacerdote Oliosi spossato e vinto dalle insopportabili presure e pessimi trattamenti, cadde tra via in un mortale letargo
che lo affrettava all’ultimo de’ suoi giorni. Se ne avvidero i suoi compagni d’esilio al pallor della fronte, all’affannoso respiro, ma
non era loro concesso prestargli soccorso, e sette miglia innanzi arrivare a Salisburgo spirò.
Il numero degli abitanti di Castelnuovo rimaste vittime e insepolte, non contati i soldati Lombardi, fu oltre i 40. Raccolti
que’ cadaveri per cura del Dottor Giuseppe Palazzoli Medico di Sandrà, furono abbruciati, e le reliquie religiosamente dal Parroco
raccolte e custodite in una cassa di legno aspettano quando a Dio piaccia dalla pietà dei fedeli il tributo delle pietose lagrime e dei
suffragi. Le case di quella infelice terra in numero di 172; furono 59 maltrattate, le rimanenti 113 incendiate.

Protesto che nessuno spirito di partito m’ha condotto a scrivere queste lagrimevoli memorie, ma il solo debito che ho
assunto di narrar ciò che accadde in questi funesti 150 giorni del 48 sotto gli occhi nostri.
Protesto che ho lasciato in vero studio di raccontare tante particolarità, che avrebbero reso ancora più dolorosa questa
catastrofe, per avere nella sicurezza delle cose contate più largo ancora di quello che m’avrebbe occorso ad ottener piena fede.
Protesto finalmente che queste notizie sono state raccolte tutte da testimoni oculari, tutti partecipi più o meno
dell’infortunio medesimo; e molto tempo dopo cessata l’agitazione degli animi con un sottile processo rese tutte di fede degne.
Divertiamo il pensiero dall’opera dell’uomo, e adoriamo le alte disposizioni di Dio.

8. L’arresto della Commissione Civica in “appendice” alla “cronaca” di Spandri

Tra gli approfondimenti dell’Appendice, troviamo anche un cenno al D’Aspre, maresciallo


che si distingue per l’inaspettata urbanità con cui tratta i familiari degli ostaggi, destinati al confino
di Salisburgo. E subito dopo il D’Aspre, si evoca la figura di Ferdinando Scopoli, figlio di
Giovanni, il quale nel timore di poter essere incluso nella lista dei deportati, si rivolge direttamente
a Radetzky, dal quale viene prontamente rassicurato e sollevato da ogni timore.

Nel fatto della dolorosa cattura dei tredici Signori Veronesi il Maresciallo D’Aspre, a cui la sorte loro parve affidata, ebbe a
mostrarsi pieno di umanità; e noi dovremo sempre lodarci di Lui. Le famiglie colpite dalla sciagura, corse al Castello, il chiedevano

33
supplichevoli se fosse loro concesso dare un bacio ai lor cari prima che tolti lor fossero forse per sempre. Noi non potemmo sì tosto
indovinare la cagione di quella inaspettata presura, e il dolore in que’ primi istanti dipingeaci le cose più nere di quello in fatto
dovean riuscire.
Il Maresciallo con maniere dolci e parole cortesi accordava loro facile la grazia, e gentilmente dato braccio alle Signore,
ajutavale a smontare dalle carrozze, introducevale in Castello, e nelle stanze dei Signori; lasciando che lo scambievole affanno
rattemperassero col trattenersi in affettuosi colloqui quanto loro era in grado; e sulla sua parola di onore promise loro che sarebbon
trattati con tutti quei riguardi che alla loro condizione eran dovuti; e che amando le famiglie in processo di tempo mandar loro lettere,
a lui le dirigessero, ch’egli per appositi espressi avrebbele recapitate.
Deh! quanto ne’ momenti acerbi, un animo mite torna di conforto o di vita. I parenti di quegl’infelici Signori parlando
poscia di questo Maresciallo il chiamavano in quella loro disgrazia un angelo consolatore.
Questo Tenente-Maresciallo è attaccato nella salute da incomodi considerevoli; per questo alcuna volta le sue operazioni
risentono de’ suoi dolori, e le sue deliberazioni allora tornano anzi dure che no. Egli è però di un cuore che sente di nobili affetti, e
noi abbiamo più fiate veduto che sa farsi amare.
Porrò qui un aneddoto occorso in questa circostanza, il quale prova in un colla nobiltà del procedere di un cotal Signore,
l’indole in generale dei Veronesi.
Intesa la cattura del suo amato genitore settuagenario, il Conte Ippolito Scopoli si recò subito al Castello per abbracciarlo e
confortarlo. Il Capitan di guardia chiestolo del nome: Scopoli, rispose il Conte, a cui il Capitano: Ferdinando? - No, Ippolito -
Entrate.
Ferdinando Scopoli, altro figlio del Cavalier Conte Giovanni, si trovava allora fuori di città. Rimpatriato due giorni dopo, e
intesa dal fratello Ippolito la domanda del Capitano, venne in sospetto esser lui pure segnato sulla fatal lista, e però senza por tempo
in mezzo si condusse al Palazzo Radetzky. Il Feld-Maresciallo era fuori: ci tornò Ferdinando, e non avendol trovato né la seconda
volta, gli lasciò scritto così: «Feld-Maresciallo! Ho inteso che V.E. cercasse per avventura di me, ed io trovatomi fuori di città, con
licenza del Comandante, che qui Vi assoggetto, sono venuto due volte a profferirmivi; e come ambedue le volte non ebbi l’onor di
inchinarvi, così Vi significo ch’io vo a casa e mi vi tengo tutt’oggi ad ogni Vostro piacere. D’una sola grazia Vi supplico, che ove io
fossi segnato tra i deportati, vogliate affrettare il mio destino, affinché io possa avere la consolazione di assistere e confortare il mio
buon Padre». Radetzky gli rispose: «Ammiro la vostra lealtà; rimanetevi tranquillo, nulla occorre da voi». Dolce al virtuoso
Ferdinando la sua libertà111.

9. Il sacco di Castelnuovo del 24 luglio 1848 in “appendice” alla “cronaca” di Spandri

Finisce in Appendice anche il racconto della ritirata dei Piemontesi da Castelnuovo, incalzati
dagli Austriaci che li vanno ricacciando verso il Mincio. Il rientro austriaco in Castelnuovo il 24
luglio 1848 rinnova il dramma dell’11 aprile, anche se in proporzioni minori, non essendoci più
molto da incendiare o da rubare. Figura centrale nella ricostruzione di Gaetano Spandri è senz’altro
quella del parroco, don Felice Perlato, che fugge alla partenza dei Piemontesi. Arrivato però a Colà,
si pente di aver avuto paura di un nuovo 11 aprile e torna in paese. Fermato e interrogato dal
maresciallo D’Aspre, è prontamente rilasciato. La libertà recuperata gli serve solo per raggiungere
la sua chiesa e scoprirla divenuta un bivacco di soldati intenti a spartirsi il magro bottino razziato in
un paese, da mesi in balia della soldataglia. A quel punto il parroco, ormai stremato da troppe
esperienze dolorose, abbandona al suo destino Castelnuovo, rifugiandosi in Verona dove otterrà dal
vescovo Mutti112 di poter trascorre gli ultimi anni della sua vita come rettore della chiesa di S.
Maria della Scala.
Il Parroco di Castelnuovo R. Don Felice Perlato nella sua fuga il giorno 11 Aprile 1848 da quel paese rimasto vittima del
ferro, del fuoco e del sacco, si condusse difilato a Milano.
Rappresentatosi a quell’Arcivescovo e fattogli il racconto del terribile disastro del suo infelice Paese, ottenne dalla
liberalità di quel degno Prelato un generoso soccorso in calici, candelabri, pianete, camici ed altri arredi sacri per la sua chiesa. Altre
due donazioni pure in sacri arredi vennergli spontaneamente largite da due Commissioni, una della Città di Parma, l’altra di Milano.
Mediante queste generose offerte, oltre ad altre sovvenzioni in danaro, egli fu in grado di poter, tornato alla sua Terra, ristorar la sua
Chiesa e ritornarla con abbastanza di decenza al Divin Culto. Il ritorno del Parroco a Castelnuovo avvenne il 4 di Maggio
susseguente.
Il 3 di Giugno non si sa per qual motivo o segreta intelligenza la Cavalleria Piemontese s’era partita di Castelnuovo e
abbandonatolo. Accortisi di questo fatto que’ terrazzani, eran caduti di animo, ed al angoscioso pensiero d’una nuova catastrofe,

111
Il brano porta il titolo: «N. 14. Il Maresciallo D’Aspre alla cattura dei 13 Veronesi la terza festa di Pasqua 1848.
Citato sulle Memorie a pag. 102». SPANDRI, Li Cento Cinquanta Giorni…, cit., c. 442.
112
Cenni sul vescovo Pietro Aurelio Mutti si leggono in FRANCESCO VECCHIATO, Il periodo austriaco (1814-1866), in
Storia di Verona, a cura di Giovanni Zalin, Vicenza, Neri Pozza, 2002, pp. 280, 296. Pietro Aurelio Mutti nasce a
Borgo di Terzo in val Cavallina (Bergamo) nel 1775. Monaco benedettino, nel 1836 era eletto abate del monastero di
Praglia. Preconizzato vescovo nel concistoro del 14 dicembre 1840 da Gregorio XVI, l’1 agosto 1841 prendeva
possesso della diocesi di Verona. Nel 1851 era promosso patriarca di Venezia, ove morì il 9 aprile 1857. ANGELO
CHIARELLO, Le visite pastorali di Pietro Aurelio Mutti (1842-46) e di Benedetto De Riccabona (1858) nella diocesi di
Verona, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977.

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molti eziandio s’eran dati alla fuga. La maggior parte però tra il timore e la speranza soprassedendo, e penando ad abbandonare una
seconda volta le case loro e le sostanze, fermi, stavano aspettando che meglio si manifestasse quello che fosse per accadere:
passarono intanto cinquanta giorni.
Il 23 di Luglio, ricorrendo la sesta Domenica dopo la Pentecoste, mentre la truppa di linea assisteva in chiesa alla Messa, un
Messaggio s’accosta al Colonnello che stava genuflesso presso i cancelli dell’altar maggiore e gli parla all’orecchio. La Messa era
prossima al fine: non s’attende che termini, e il Colonnello coll’Ufficialità e la Truppa tutta di tratto si partono dalla Chiesa e dal
Paese. Frattanto si sparge la funesta notizia che gli Austriaci invadevano Sona e Palazzolo e ci davano il sacco.
Le Truppe Sarde di Rivoli abbandonato tutto ad un punto esse pure quel importantissimo punto, corrono precipitose a
chiudersi dentro Peschiera. Tutte quelle campagne si vedono seminate di truppe piemontesi, che quasi inseguite dal nemico, a
precipizio corrono al Mincio.
L’infelicissimo Castelnuovo così abbandonato, vedesi una seconda volta alla vigilia di un nuovo sterminio. Il Parroco
nascosto in fretta quel meglio che poté della sua Chiesa in quel affannoso trambusto, chiusa a chiave la Chiesa e la Canonica, si diè
alla fuga seguito da quanti più possono vecchi, donne, infermi e fanciulli, empiendo l’aere di grida disperatissime.
Poco appresso gli Austriaci entrano in quella terra diserta, e, bisogna pur dirlo, per la sola ragione dell’essere, la infelice,
stata saccheggiata ed arsa una prima volta, e mostrava tuttavia gli orrendi segni di quella sciagura, che mettea ribrezzo, venne pur
questa seconda volta abbandonata al saccheggio, che fu forse più rabbioso della prima, per questo che meno trovava ora il soldato da
saziare la gola del bottino.
Giunto in Colà il Parroco prese un pò di riposo; ma udito come il suo Paese veniva occupato dalle truppe imperiali, deliberò
di tornarvi, dolente dell’aver così per una subita paura abbandonate quelle anime a lui dalla Divina Provvidenza commesse. Non
valser prieghi, non rimostranze dell’evidente pericolo in che esponevasi della vita: vi ritornò.
Appena ebbe messo il piede nella prima contrada di quella terra che sentesi intimar fieramente da una sentinella di
arrestarsi, e dichiarar chi sia, e di tratto si vede tolto in mezzo da soldati che lo fan prigione, e motteggiandolo e chiamandolo per
ischerno Pio nono, lo traducono innanzi il Tenente Maresciallo D’Aspre.
Il Maresciallo con severo aspetto, non degnandolo pur d’una parola, chiede a’ soldati chi sia, e fu grazia del cielo, che alla
risposta esser lui il Parroco del Paese, dopo alcun’altra domanda, fosse licenziato libero a fatti suoi. Il Parroco allora s’incamminò
subito alla volta della sua Chiesa, della quale avea seco le chiavi, e lusingavasi che la truppa avrebbela rispettata, posciachè
riprendendo essa il possesso del Paese, non fosse loro stato di mestieri lo sparar pure uno schioppo, essendo i Piemontesi
spontaneamente innanzi tempo fuggiti; ma con sua sorpresa ed orrore, passando per lo Paese, tutte scorazzate le strade e le case da
quella soldatesca furente, solo intenta a far netto di quel poco, che dopo l’altro saccheggio, quegli infelici terrazzani, parte per la pietà
dei loro benevoli, parte coi loro risparmi e fatiche aveano potuto raccogliere.
A questa inattesa scena di orrore e d’ambascia conobbe pur troppo quale infelice pronostico potea fare della sua Chiesa. Né
punto ingannavasi che atterrate le porte, videla tutta invasa di soldati, i quali sfracellato novellamente il tabernacolo e sdrusciti gli
armadj, erano sì forte occupati del bottino da non avvedersi, o non curarsi avendolo veduto, della persona del Parroco lì presente, e
abbandonaronla come l’ebbero resa un oggetto degno di pianto. Caduto affatto d’ogni speranza il povero Parroco deliberò di
abbandonare per sempre quella terra di miserie e ritirarsi in Verona sua patria, lo che accadde il 1° Agosto 1848, e noi lo vedemmo
che pareva un morto cavato allora dal sepolcro; ma prima di arrivare alla città, anzi poco discosto da Castelnuovo, fu investito da due
Croati, che ghermitolo e cacciatolo di rincontro a una muraglia, e un di loro tenutovelo fermo colla baionetta appuntatagli al petto,
l’altro frugatogli addosso, il derubarono di quel poco danaro che gli era rimasto. Ma Dio che ha somma cura peculiarmente dei
perseguitati per la giustizia, volle ristorarlo di tante ambascie. Non passò molto tempo che da Monsignor Vescovo Pietro Aurelio
Muti fu posto a Rettore della Chiesa di S. Maria della Scala. In questa aveva già fatto il suo tirocinio clericale e l’amava assai. Egli vi
è ora in istima e benedizione di tutti, e nella sua Chiesa fa un mar di bene113.

113
Il brano riportato si intitola: «N. 26. Il secondo Fatto di Castelnuovo del 24 luglio 1848. Citato sulle Memorie a pag.
275». SPANDRI, Li Cento Cinquanta Giorni…, cit., c. 495.

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