La Morte Da Samarra A Samarcanda

Scarica in formato docx, pdf o txt
Scarica in formato docx, pdf o txt
Sei sulla pagina 1di 15

La Morte da Samarra a

Samarcanda
Una storia antica ma che ha lasciato tracce di sé solo
da pochissimo tempo: un racconto morale di cui tutti
sono sicuri della provenienza ma in realtà nessuno si è
reso conto che è “nato” a due passi da casa nostra.

Lucius Etruscus

La storia la conosciamo tutti. Un uomo vede la Morte che lo osserva con


occhi cattivi e chiede un cavallo veloce per sfuggirle. Cavalca tutta la
notte per arrivare in un’altra città, solo per scoprire che la Nera Signora
era proprio lì che lo aspettava.
È una storia molto nota e tutti hanno convinzioni abbastanza precise sulla
sua provenienza: discende probabilmente da una fiaba persiana, o forse
araba, comunque mediorientale. Chi la cita ha la mente piena di
lussureggianti e antiche mille e una notte, e addirittura uno storico di
grande fama come Franco Cardini cede le armi davanti a questa storia e
si fa vago e approssimativo, lui che è preciso e minuzioso nel citare le
fonti di qualsiasi cosa dica.
La verità è che tutti hanno sentito questo racconto citato da un
occidentale, non da un mediorientale, e con il tempo i mediorientali stessi
hanno finito per citare gli occidentali: e se il mistero di questo racconto
fosse che le sue origini moderne sono molto più europee e attuali di
quanto pensassimo?

Diamo subito ragione al pensiero comune, che non sa neanche di aver


ragione. (Chi dice che la storia è mediorientale, cioè, lo afferma per
sentito dire, non perché lo sappia davvero.) Il Talmud (“Insegnamento”) è
uno dei testi sacri dell’ebraismo ed è conosciuto in due versioni: quello di
Gerusalemme e quello babilonese, molto più lungo e redatto fra il V e il VI
secolo d.C. ma contenente testi tramandati in forma orale sin da molti
secoli prima.
La 53ª sukkah del Talmud Babilonese è una parabola che racconta di
come un giorno Re Salomone si accorse che l’Angelo della Morte era
triste. «Perché sei così triste?» gli chiese. «Perché mi hanno ordinato di
prendere quei due Etiopi», risponde l’Angelo della Morte, riferendosi a
Elihoreph ed Ahyah, i due scribi etiopi di Salomone. Il Re volle salvare i
suoi preziosi uomini e li fece scappare fino alla città di Luz, ma appena
giunti qui i due scribi morirono. Il giorno seguente Salomone incontrò di
nuovo l’Angelo della Morte e vide che sorrideva. «Perché sei così felice?»
gli chiese. «Hai mandato i due etiopi proprio nel posto in cui li aspettavo.»
rispose la Morte.

Frontespizio dal Talmud BabiloneseAl che


Salomone espresse la morale della parabola: «I piedi di un uomo sono
responsabili per lui: essi lo portano nel luogo dove egli è atteso.» (Suona
strana come morale, visto che in realtà i due poveri scribi vennero
mandati da Salomone a morire, non dai loro piedi!)
Quindi ha ragione il comune pensare: la storia della fuga inutile dalla
Morte ha radici mediorientali. Ma è per puro caso, perché nessuno -
neanche i più dotti saggisti - cita il Talmud Babilonese, bensì getta là una
vaghissima “origine mediorientale”.
Quello che nessun europeo ha mai notato, in realtà, è che la storia come
noi la conosciamo è nata in Europa all’inizio del XX secolo.

Giovanni Invitto nel suo L’occhio tecnologico (2005) afferma che la storia
è arrivata in Europa grazie ad Edward Fitzgerald, poeta inglese nonché
celeberrimo traduttore delle Quartine di Omar Khayyām: con un’astuzia
lessicale l’autore evita di specificare se la storia fosse farina del sacco di
Fitzgerald o derivante da Khayyām, o se ancora fosse stata inventata da
Fitzgerald “ispirato” da Khayyām.
Dispiace sottolineare come l’ottimo storico sopra citato, Franco Cardini,
adotti lo stesso identico espediente quando parla della storia in questione
nel suo romanzo Il Signore della paura (2007): «una leggenda che io
avevo incontrato adolescente - leggendo qualcosa sulla traduzione che
Edward Fitzgerald aveva dedicato al grande poeta persiano Omar
Khayyām». Anche qui non è chiaro: la “leggenda” l’ha inventata
Fitzgerald in un testo “dedicato” a Khayyām o traducendo un testo del
celebre poeta persiano, a cui andrebbe quindi la paternità? Visto che
Khayyām non fa parola di questo “qualcosa” che Cardini ha letto, a cui
neanche Fitzgerald sembra far menzione, non rimane che proseguire
oltre nella citazione cardiniana: «Mi sembra di ricordare che la leggenda
della “morte a Samarcanda”, di evidente origine persiana, passata forse
attraverso la cultura russa, sia approdata al romanzo di John O’Hara...»
Perché “sembrare di ricordarsi” qualcosa che è noto a livello
internazionale? E perché un grande storico “sembra di ricordarsi”? Non
aveva tempo per controllare? Che voglia evitare di dire esplicitamente
che non sono chiare le origini della storia?
Mettere in discussione la parola di Franco Cardini esula dalle nostre
competenze: ci limitiamo a far notare quanto tutto il discorso sia
pencolante, privo di fonti (in un testo che invece ne gronda
abbondantemente!) e inciampi proprio sull’ostacolo più evidente. Il nome
di Samarcanda l’ha pronunciato per la prima volta Oriana Fallaci negli
anni Sessanta... altro che persiani e russi!
Ma andiamo con ordine.

John O’Hara, diceva il buon Cardini.


Tutti gli autori anglofoni e anglofili sanno
che Appuntamento a Samarra (1934) di John O’Hara deve il suo titolo ad
una storia raccontata al suo interno, del tutto slegata dal resto del
romanzo.
Come spiega O’Hara stesso nell’introduzione all’edizione del 1952,
originariamente il suo romanzo aveva per titolo The Infernal Grove (“Il
bosco infernale”), ma quando la poetessa Dorothy Parkergli mostrò il
lavoro teatrale Sheppey di W. Somerset Maugham l’autore ne fu colpito:
non solo volle aggiungerne un brano come citazione iniziale del libro, ma
fece di tutto per cambiare il titolo del romanzo stesso in Appointment in
Samarra. Non aveva alcuna attinenza con gli eventi narrati, se non (nelle
intenzioni di O’Hara) sottolineare l’inevitabilità della morte del
protagonista. Né a Dorothy Parker, né agli editori né a nessun altro
piacque quel titolo, ma O’Hara si impuntò e l’ebbe vinta.
I più attenti avranno notato che dunque O’Hara non ha inventato la storia,
ma l’ha solo citata perché se ne è invaghito. Il Tempo poi gli ha dato
ragione, ma in modo beffardo: il grande successo del suo libro in realtà è
dovuto solo alla citazione iniziale, che non è una sua creazione. Nel 2007
il celebre regista Brian De Palma, contagiato dalla storia, girò il
film Redacted intorno al racconto della Morte inevitabile. La pellicola è
ambientata proprio vicino alla vera Samarra, in Iraq, dove alcuni soldati
gestiscono un posto di blocco. Uno dei protagonisti racconta alla
telecamera di star leggendo Appuntamento a Samarra di O’Hara, ma
attenzione: non racconta una sola virgola della storia del libro, ma solo la
citazione di Maugham! Si sarà reso conto il povero O’Hara che deve la
fama ad una citazione non sua? Forse hanno fatto bene gli altri a non
svelare mai le proprie fonti...

Ma insomma, cosa dice Maugham


nella sua pièce teatrale del 1933 di così bello da contagiare tanto O’Hara
quanto De Palma quanto un gran numero di americani?
Sheppey di Maugham finisce con la Morte che va a prendere il
protagonista, il quale si rimprovera di non essere fuggito nell’Isola di
Sheppey, dove sicuramente la Morte non sarebbe arrivata a prenderlo. Al
che la Morte lo illumina con una storia: «C’era a Baghdad un mercante
che mandò il suo servo al mercato per far provviste. E il servo ritornò ben
presto, pallido e tremante, e disse: “Padrone, poco fa, mentre ero al
mercato, fui urtato da una donna nella folla, e quando mi volsi mi accorsi
che era stata la Morte a urtarmi. Mi guardò e fece un gesto minaccioso.
Te ne supplico, prestami il tuo cavallo ed io abbandonerò questa città per
sfuggire al mio destino. E andrò a Samarra, dove la Morte non potrà
trovarmi”. Il mercante gli prestò il suo cavallo, e il servo montò in sella e,
spronando a sangue l’animale, partì al galoppo. Allora il mercante si recò
alla piazza del mercato e mi scorse tra la folla. “Perché hai fatto un gesto
minaccioso al mio servo, stamane?” mi chiese, avvicinandosi. “Il mio
gesto non era di minaccia, bensì di sorpresa”, risposi. “Fui stupita di
vederlo a Baghdad poiché avevo un appuntamento con lui questa notte a
Samarra”.»
Che sia di Maugham o di O’Hara, il fatto rimane: Samarra per gli
anglofoni è il simbolo della Morte inevitabile, un appuntamento a cui non
ci si può sottrarre. Quando nel 2002 venne girato negli USA il remake del
successo giapponese The Ring, si cambiò il nome dell’infernale Sadako...
e si scelse Samara. Che sia un richiamo alla Morte inevitabile che il
personaggio porta?
In conclusione, la storia è antica ma in Europa è arrivata grazie al
britannico Maugham e negli USA grazie a O’Hara, giusto? Neanche per
sogno: malgrado tutti gli europei lo ignorino, malgrado addirittura i
francesi lo ignorino, la storia è nata dieci anni prima... in Francia... e
questa natalità l’ha scoperta un non-europeo!

Jean CocteauChecché ne dicano tutti,


prove alla mano si può affermare che la storia della Morte inevitabile, così
come noi la conosciamo, se l’è inventata Jean Cocteau per il suo
romanzo La spaccata (Le grand écart, 1923), che dopo quasi cent’anni di
silenzio è stato portato in Italia recentemente da Castelvecchi.
«Crediamo di scegliere e non abbiamo scelta. Un giovane giardiniere
persiano disse al suo principe: “Stamattina ho incontrato la morte. Mi ha
fatto un gesto di minaccia. Mi salvi. Vorrei che un miracolo mi facesse
essere a Ispahan, stasera”. Il buon principe gli presta i suoi cavalli. Nel
pomeriggio, il principe incontra la morte. “Perché”, le chiede, “stamattina
hai fatto un gesto di minaccia al mio giardiniere?” “Non era un gesto di
minaccia”, rispose, “ma di sorpresa, perché avevo visto che stamattina
era così lontano da Ispahan, ed è a Ispahan che devo prenderlo
stasera”.»
Il Gesto della Morte è un tema che colpì la fantasia di Jorge Luis Borges,
che dal 1953 in ben due antologie (prima Racconti brevi e straordinari,
poi Antologia della letteratura fantastica) riportò fedelmente le parole di
Cocteau: com’è che nessun europeo se n’è accorto e ancora oggi anche i
francesi ignorano Cocteau? Com’è che a notarlo è stato uno di Buenos
Aires? Sarà che gli europei continuano sempre a citare O’Hara o un
ignoto mediorientale...
Comunque, dove l’ha presa Cocteau? Dal Talmud Babilonese o l’ha
sentita raccontare da un qualche mediorientale? L’ha inventata, ignaro
della versione talmudica? Purtroppo non lo sappiamo. John O’Hara è
finora il primo ad aver ammesso di aver preso la storia da altre fonti: visto
che il suo libro viene ricordato esclusivamente per quella storia (che non
ne fa neanche parte), forse non gli è convenuto.
Forse il povero O’Hara doveva fare come l’olandese Pieter Nicolaas van
Eyck che, all’interno della sua raccolta Herwaarts (“Da questa parte”,
1939), presenta la poesia De tuinman en de dood (“Il giardiniere e la
morte”) senza stare a scomodarsi a citarne la fonte.

Pieter Nicolaas van EyckParla un nobile


persiano: «Vidi stamani accorrere, pallido di sgomento, / Il giardinier
gridando: “Signore mio, un momento! // Potavo nel roseto le gemme
troppo corte, / Quando alle spalle ho guardato. Lì stava la Morte. //
Terrorizzato fuggo all’altro capo, lontano, / Ma anche qui la minaccia vedo
della sua mano. // Col vostro cavallo, Signore, lasciatemi scappare / Ed
entro stasera a Isfahan potrò arrivare!” // Nel pomeriggio (da ore già se
n’è andato) / Nel parco dei cedri la Morte ho incontrato. // “Perché?” le
chiedo, ché lei aspetta e tace, / “Il mio uomo hai impaurito, togliendogli
pace?” // Sorridendo, risponde: “Ben più del suo timore, / Grandissimo è
stato il mio stupore, // Nel veder qui stamani all’opra ancora attendere /
Colui che stasera a Isfahan dovevo prendere”.» (Stupenda traduzione in
versi di Elisabetta Svaluto Moreolo, Iperborea 2003.)
Il critico olandese Herman Franke ha avuto un guizzo di intuizione
quando ha notato che è palesemente un plagio da Cocteau (il giardiniere,
Isfahan, il gesto della morte), ma poi si è lasciato andare all’intercalare
usato da tutti: si rifà comunque ad una leggenda araba. Quale leggenda,
scritta dove, attestata da chi, non è dato sapere. (La poesia di van Eyck è
stata anche messa in musica dal compositore ucraino Sergeij Zhukov per
il suo De tuinman en de dood, scene for contralto).

È il momento di tirare le somme.


Ispirato o forse no dal Talmud Babilonese, nel 1923 Cocteau scrive per la
prima volta la storia della Morte inevitabile. Nel 1933 Maugham la riporta
quasi identica senza citare la fonte. Nel 1934 dall’altra parte dell’Atlantico
O’Hara la riporta identica, citando la fonte. Nel 1939 van Eyck mette in
versi la storia di Cocteau senza citare la fonte.
Fin qui tutto bene... un momento: e Samarcanda? Abbiamo sentito
parlare di Luz, Isfahan e Samarra... che c’entra Samarcanda?
Dopo più di vent’anni del povero Cocteau si perde la memoria: la sua
Isfahan, il gesto della morte e il povero giardiniere (figura molto presente
nelle leggende arabe documentate da far davvero pensare ad
un’ispirazione anteriore) svaniscono nel nulla. Così Oriana Fallaci ha
campo libero!
Nel 1965 nel suo Se il sole muore la
celebre scrittrice racconta: «Pensai piuttosto a quell’atroce racconto
persiano dal titolo Appuntamento a Samarcanda. Nel giardino del re, la
Morte appare a un servo. “Domani”, gli dice “ti vengo a prendere...” Allora
il servo corre dal re e gli chiede il cavallo più veloce, per fuggire lontano:
a Samarcanda. Arriva a Samarcanda, l’indomani, e la Morte è lì che lo
aspetta. “Non è giusto”, grida il servo “non è leale”. “Perché?” risponde la
Morte. “Sei fuggito senza farmi finire il discorso. Io ero in giardino per
dire: domani ti vengo a prendere a Samarcanda”.»
Il racconto è uguale ma diverso. La Morte per la prima volta parla al
diretto interessato, non al principe: si rivolge al servo e quasi si giustifica.
Non ci è dato sapere a quale “racconto persiano” si faccia riferimento, ma
sappiamo che ora è nata una nuova città: dopo Luz, Isfahan e Samarra
ecco Samarcanda.
Nel 1979 la Fallaci riprende in forma più ampia e particolareggiata la
storia nel libro Un uomo: gliela racconta Sua Maestà chiamandola “La
leggenda di Samarcanda”. Viene aggiunto un particolare non da poco: il
servo si trova ad Isfahan (città d’arrivo nella versione originale di
Cocteau) e fugge a Samarcanda, dove l’aspetta la Morte. Davvero un bel
mix.
Quest’ultima citazione però non ha alcun peso, ormai: nel 1977 la nostra
storia infatti ha cominciato il suo contagio... musicale!
«Io notai questa bellissima favola orientale sul frontespizio di un libro, che
era Appuntamento a Samarra di John O’Hara. Però il raccontino era
citato da Somerset Maugham, che è uno scrittore anglosassone, e mi
piacque moltissimo perché era un modello di cultura poi tra l’altro non
soltanto orientale: era di tutto il mondo.»
Così racconta Roberto Vecchioni al giornalista Vincenzo Mollica, nella
video-intervista Parole e Canzoni (2002), la nascita della
canzone Samarcanda. Va apprezzato l’incredibile gioco sofistico per cui
Vecchioni cita i principali autori della storia senza mai specificare
chiaramente il loro rapporto con essa. L’ha letto sul libro di O’Hara ma il
“raccontino” era citato da Maugham: ma era O’Hara che citava Maugham,
non il contrario. E poi è una leggenda “non soltanto orientale”: come a
dire dovrebbe essere orientale ma non ne sono così sicuro da affermarlo
chiaramente.

Insomma, al di là della vaghezza


delle sue origini e del fatto che Vecchioni non citi minimamente Oriana
Fallaci - che è l’unica prima di lui ad usare Samarcanda al posto di
Samarra o Isfahan - accompagnato al violino da Angelo Branduardi crea
uno dei più grandi tormentoni della musica italiana.
Il testo ci racconta che, alla fine di una non meglio specificata guerra, un
soldato sta festeggiando quando si accorge di una «nera signora che lo
guardava con malignità». Intuito che si tratta della Morte, chiede al suo
sovrano di farlo fuggire il più lontano possibile, e questi gli concede un
cavallo velocissimo che lo porterà in poco tempo a Samarcanda. Ma
arrivato in questa città, incontra di nuovo la Nera Signora. «Sbagli soldato
- gli dice la Morte - io non ti guardavo con malignità. / Era solamente uno
sguardo stupito: / cosa ci facevi l’altro ieri là? // T’aspettavo qui per oggi a
Samarcanda, / eri lontanissimo due giorni fa. // Ho temuto che per
ascoltar la banda / non facessi in tempo ad arrivare qua.» Il soldato,
cercando di sfuggire alla Morte, in realtà gli andò incontro.
«Non era nata come canzone di successo - racconta Vecchioni nella
citata intervista, - anzi con un motivo tragico: era nata sulla morte di mio
padre, che sembrava essersi salvato poi improvvisamente un giorno
purtroppo se n’è andato. Il destino è beffardo, crudele come sappiamo,
“cinico e baro”: ti promette una cosa e poi non la mantiene.»
Perché però dire di essersi rifatti a Maugham quando poi non si usa la
sua Samarra bensì Samarcanda?

Qualunque sia il motivo, sin dagli anni Ottanta la situazione è questa:


sebbene tutti affermino trattarsi di leggenda mediorientale, tutto il mondo
anglofono usa Samarra e tutti gli italiani usano Samarcanda, senza che
apparentemente gli uni conoscano il modo di dire degli altri.

Così quando nel 1990 viene edito in


Italia Ricordi di mezzanotte (Memories of Midnight) di Sidney Sheldon, e il
traduttore si trova davanti un riferimento a Samarra, cosa fa? Semplice: lo
fa diventare Samarcanda...
«Hai mai letto Appuntamento a Samarcanda, Catherine? No? Peccato,
ormai è troppo tardi. Parla di un uomo che cercava di sfuggire alla morte.
Si rifugiò a Samarcanda e la morte era lì che lo aspettava. Questa è la
tua Samarcanda, Catherine.»
Questo dialogo fra un assassino e la sua vittima in lingua originale riporta
Samarra: non solo, sin dalla prima uscita italiana il titolo di O’Hara usava
Samarra, perché cambiarlo nella citazione di Sheldon? Visto questo
importante precedente, come facciamo ad essere sicuri che i successivi
riferimenti a Samarra, in romanzi di lingua straniera, non siano stati
anch’essi modificati? Probabilmente lo sono stati tutti...
«La Morte come un angelo, la Morte che dava appuntamento a
Samarcanda» Robert Bloch, La mietitrice (Reaper, 1986).
«Conosce il racconto orientale Appuntamento a Samarcanda?» Gérard
de Villiers, SAS Vendetta a Beirut (Vengeance à Beyrouth, 1993)
«La storia degli ultimi giorni di Mozart è entrata nella leggenda: un ignoto
messaggero recapita una convocazione dall’aldilà per preparare un eroe
predestinato a un appuntamento a Samarcanda.» Maynard
Solomon, Mozart(Mozart. A Life, 1995).
«Andiamo, bellezza. Ho un appuntamento a Samarcanda, o qualcosa del
genere.» James Patterson, A Jennifer con amore (Sam’s Letters to
Jennifer, 2004).
Tutti questi esempi, e tanti altri ancora, usano un termine prettamente
italiano e quindi sono a forte rischio di manomissione in fase di
traduzione. Per amor di verità vanno citate anche le eccezioni.
«Chi ha un appuntamento a Samarra non si dirigerà invece verso
Newark.» Ed McBain, Una città contro (Downtown, 1989).
«Qualcosa sul destino, gli pareva, e su certi appuntamenti in
Samarra.» Stephen King, Insomnia (1994).
Ultima eccezione è quella di Jean Baudrillard, filosofo francese che nel
suo La seduzione o Della seduzione (De la séduction, 1979) racconta la
nostra storia usando però l’accezione Samarcanda: che fosse stato
contagiato dal successo della canzone di Vecchioni di due anni prima?
Curiosamente Baudrillard specifica in nota: «Il tema era ripreso da un
racconto irlandese, Appointment in Samarcanda, di John O’Hara, che si
rifaceva ad una vecchia leggenda olandese e, questa, a sua volta, ad una
leggenda orientale». Leggenda olandese? E questa da dove esce fuori?
Probabilmente pensava alla poesia di van Eyck.
Sono tantissime le citazioni e i rifacimenti del
“Gesto della Morte” o dell’“Appuntamento a Samarra” o ancora del
“Cavallo di Samarcanda”, come la chiama Luigi Baldascini nel suo Vita da
adolescenti (1993).
Il poeta iracheno Fadhil al-Azzawi nel 1975 raccoglie nell’antologia The
Eastern Tree la poesia “An Appointment in Samarra”, in cui il servo riesce
a sfuggire alla Morte rifugiandosi in una città in cui nessuno lo conosce e
in cui nessuno sa della sua esistenza... non è anche questo morire?
Molte di queste citazioni, poi, sono gustosamente rimaneggiate. Quando
per esempio nel 1969 venne portato sullo schermo il
romanzo MacKenna’s Gold di Heck Wilson Allen con il celebre film L’oro
di Mackenna di John Lee Thompson, viene aggiunto un prologo in realtà
assente nel romanzo.
«C’è una vecchia storiella che raccontano gli Apache, di un uomo che
cavalcava per il deserto e incontrò un avvoltoio (quelli che chiamano corvi
tacchini, qui nell’Arizona) appollaiato su una roccia. Dice l’uomo: «Ehi,
corvo tacchino, cosa ci fai qui? T’ho visto che volavi sopra Hadleyburg e
per non incontrarti ho cambiato strada e sono venuto qui”. E l’avvoltoio gli
fa: “Ma guarda che strano: ci sono passato per caso là ad Hadleyburg. Io
stavo venendo qui... ad aspettarti”.»
La storia di sapore arabo diventa leggenda Apache!
L’operazione contagia lo scrittore Stephen
Gunn(pseudonimo dell’italianissimo Stefano Di Marino) il quale in
apertura del suo romanzo Il grande colpo del Marsigliese (1997) scrive:
«Sulla via per Nogales un cavaliere vede un avvoltoio. Allora cambia
strada e compie un largo giro sino al Canyon del Muerto. Qui ritrova
l’avvoltoio e gli domanda: “Cosa ci fai qui? Ti ho visto sulla strada per
Nogales”... “Strano” risponde l’avvoltoio “perché io ero diretto proprio qui.
Ad aspettarti”.» Il testo viene presentato come “Un vecchio detto
tarahumara”, in una deliziosa operazione di doppia citazione.
È mai esistita una favola orientale che trattasse della Morte inevitabile nei
termini a noi noti? Malgrado non esistano prove al di là del Talmud
Babilonese, sicuramente sarà esistita e magari esiste ancora. Quel che è
certo è che in Occidente, dal Novecento in poi, qualsiasi vera favola
orientale è stata soppiantata dall’Appuntamento a Samarra di John
O’Hara, che si rifà al britannico Maugham che a sua volta si rifà al
francese Cocteau. A chi si rifà quest’ultimo? Non lo sappiamo.
Tutto ciò che sappiamo è che la storia della Morte inevitabile ha
contagiato generazioni di scrittori e lettori, rimanendo viva e fertile dopo
quasi due millenni di vita.
Chiudiamo con un intervento di Enzo Tiezzi che, nel suo Tempi storici,
tempi biologici (2001) così ci spiega: «La nostra cultura economica e
sociale è tutta interna alla logica della ricerca del cavallo per arrivare a
Samarra, della tecnologia per risolvere un problema di oggi, senza
preoccuparsi se la risoluzione di quel problema va nella direzione di
aumentare i problemi per l’umanità.»

Potrebbero piacerti anche