Dante Opere
Dante Opere
Dante Opere
a Firenze, in una data imprecisata anche se sappiamo da lui stesso che era
del segno zodiacale dei Gemelli (Par., XXII). Il padre, Alaghiero II di
Bellincione, apparteneva alla piccola nobilt cittadina e discendeva da un
certo Cacciaguida che il poeta indica come suo antenato e combattente nella
II Crociata (Par., XV), mentre la madre era Bella degli Abati. Poco sappiamo
della prima infanzia di Dante, se non che nel 1277 il padre lo promise in
sposo a Gemma Donati, con cui sarebbe convolato a nozze nel 1285 a
vent'anni e che era imparentata con Corso, Forese e Piccarda (i Donati erano
tradizionalmente vicini al partito dei Guelfi Neri). Dal matrimonio nacquero
diversi figli, tra cui Pietro e Jacopo (che furono tra i primi commentatori della
Commedia), una Antonia (poi monaca, pare, col nome di suor Beatrice) e
forse un Giovanni. Siamo poco informati anche della formazione culturale del
futuro poeta, che probabilmente studi retorica con Brunetto Latini (da lui
indicato quale suo maestro in Inf., XV) e fece un viaggio negli anni giovanili a
Bologna, dove forse assist ad alcune lezioni di medicina nello Studio della
citt (sul fatto non ci sono conferme, salvo la discreta competenza mostrata
dallo scrittore in campo medico, specie nella Commedia). Ugualmente ferrato
doveva essere anche nell'arte figurativa (in Purg., VII usa con propriet i
termini tecnici dei colori della pittura) e nella musica, come dimostra
l'amicizia col cantore Casella (Purg., II) e col liutaio Belacqua (Purg., IV),
anche se di tali attivit non sappiamo nulla di preciso. Certo il giovane Dante
doveva frequentare gli ambienti colti e raffinati di Firenze, allora centro
politico e culturale di prima grandezza nell'Italia del Centro-Nord, e presto
conobbe Guido Cavalcanti con cui strinse una profonda amicizia, fino a
formare con lui il sodalizio poetico noto come la scuola del Dolce Stil Novo:
Guido, pi vecchio di lui di qualche anno, doveva avere gi una discreta fama
come poeta e come pensatore (era forse seguace dell'epicureismo, come il
padre Cavalcante) ed esercit senz'altro una certa influenza poetica sul
giovane Dante, che almeno all'inizio lo prese a modello. Sempre negli anni
giovanili si colloca l'incontro e l'amore per Beatrice, identificata storicamente
con Bice figlia di Folco Portinari, per la quale scrisse le prime poesie, anche se
tale vicenda amorosa dovette mescolarsi ad altre relazioni con altre donne
fiorentine, di cui si ha traccia nelle Rime e nella Vita nuova. Beatrice sarebbe
morta assai giovane nel 1290 e negli anni immediatamente seguenti Dante
compose appunto il "libello" giovanile della Vita nuova, che narra in forme
stilizzate e allegoriche la storia di quell'amore. Pi o meno negli stessi anni
prese parte come cavaliere alla battaglia di Campaldino (1289), combattuta
contro i ghibellini di Arezzo e conclusasi con la vittoria dei Guelfi di Firenze. La
morte di Beatrice gett Dante in un profondo sconforto, che da un lato lo
spinse a cercare consolazione nella relazione con altre donne (ad esempio la
"donna gentile" di cui si parla nella Vita nuova, o la Petra cantata nelle
ritorno (17 gennaio 1302) e accusato tra l'altro di baratteria, ovvero di essersi
fatto corrompere quand'era al governo per assumere provvedimenti non
dovuti, accusa senz'altro falsa. Dante non si present a Firenze e una
successiva sentenza il 10 marzo lo condann all'esilio perpetuo, con minaccia
di morte sul rogo se fosse caduto in potere del Comune; il poeta non sarebbe
mai pi rientrato nella sua citt e inizi da allora la sua vita raminga di esule,
che lo port in varie corti del Nord Italia e lo spinse a porsi al servizio di
diversi signori, condizione da lui sofferta come umiliante e in contrasto con la
precedente vita indipendente di uomo delle istituzioni comunali. Prima del
1304 sper di poter rientrare a Firenze unendosi ad altri fuorusciti che
progettavano un'iniziativa militare, ma poi se ne stacc non condividendo la
loro linea e non partecipando alla rovinosa battaglia della Lastra (1304),
risoltasi con la sconfitta degli esuli Bianchi. Siamo poco informati dei suoi
spostamenti negli anni sino al 1310 (fu ospite degli Scaligeri a Verona e dei
Malaspina), ma certo che in questo periodo si dedic alla stesura di alcune
delle sue opere in prosa pi importanti (Convivio, De vulgari eloquentia e pi
tardi la Monarchia, con cui intendeva dimostrare il suo valore filosofico e
letterario); gi dal 1307 avrebbe iniziato la composizione della Commedia, il
poema che ne avrebbe consacrato la fama immortale e che prosegu sino a
pochi mesi dalla morte. L'esilio segn uno spartiacque fondamentale nella
sua vicenda umana e letteraria, poich tale esperienza ampli di molto i suoi
orizzonti politici (sino a quel momento confinati in una dimensione
municipale) e lo port a contatto con ambienti e luoghi molto diversi da quelli
in cui era vissuto prima, sino ad elaborare una ideologia politica che
individuava nella monarchia universale dell'Impero il potere centrale che, a
suo dire, doveva assicurare la giustizia e sanare i mali dell'Italia, bench tale
sua posizione fosse alquanto anacronistica e lo facesse apparire addirittura
un ghibellino. La discesa in Italia nel 1310 dell'imperatore Arrigo VII di
Lussemburgo, deciso a ristabilire la sua autorit sui Comuni dell'Italia
settentrionale, accese in Dante nuove speranze di poter rientrare a Firenze e
in quest'occasione scrisse alcune delle sue Epistole pi famose, come quella
contro gli "scelleratissimi" fiorentini (VI) e soprattutto quella indirizzata allo
stesso Arrigo (VII), esortandolo a rompere gli indugi e stroncare la resistenza
di Firenze, postasi alla testa dei Comuni guelfi che si opponevano all'avanzata
dell'imperatore. La morte improvvisa di questi nel 1313 a Buonconvento,
vicino a Siena, cancell le ultime speranze di tornare e fu forse in questo
frangente o poco dopo che Dante scrisse il trattato sulla Monarchia, per
ribadire il ruolo centrale che l'Impero doveva assumere come potere politico
indipendente dalla Chiesa. Nel 1315 un'amnistia concessa dal Comune ai
fuorusciti gli offriva la possibilit di porre fine all'esilio, ma a condizioni
umilianti (ammettere le sue colpe, pagare una multa e trascorrere una notte
in carcere) che egli sdegnosamente rifiut, come spieg nell'Epistola
all'amico fiorentino (XII); fu l'ultima occasione di rientrare a Firenze, dal
momento che il governo dei Neri ribad la sua condanna a morte, estesa
ormai anche ai figli, e la confisca di tutti i beni della famiglia. Negli ultimi anni
della vita Dante fu a Verona, dove ormai era al servizio di Cangrande della
Scala (a lui indirizzata l'Epistola XIII, con cui gli dedicava il Paradiso) e dove
forse nel 1320 pronunci la Questio de aqua et terra, e a Ravenna, alle
dipendenze di Guido Novello da Polenta, nipote di Francesca; qui avrebbe
ricevuto l'invito da parte dello studioso Giovanni del Virgilio a recarsi a
Bologna per ricevere l'incoronazione poetica, invito declinato in quanto
sperava di ricevere l'onore a Firenze (nell'occasione scrisse le due Egloghe in
latino). Mor nel 1321 per i postumi di febbri malariche contratte mentre era
di ritorno da un viaggio diplomatico a Venezia e fu sepolto in un'arca presso il
tempio di S. Pier Maggiore, che poi si disse di S. Francesco: le sue spoglie
rimasero tumulate a Ravenna, nonostante alcuni tentativi promossi dai
fiorentini per riportarle nella citt natale e a cui i ravennati si opposero
sempre fermamente (iniziativa analoga fu presa anche da papa Leone X nel
Cinquecento, anche questa rimasta senza esito). Il poeta avrebbe ultimato la
Commedia pochi mesi prima della morte e secondo una nota leggenda
(ripresa anche da Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante) gli ultimi
tredici canti del Paradiso sarebbero stati ritrovati dal figlio Jacopo, dopo un
sogno rivelatore in cui l'anima del padre gli indicava la loro esatta posizione,
fatto che naturalmente non si sa quanto sia attendibile. Del grande poeta non
ci comunque rimasto alcun autografo.
Dante uomo del Duecento e la sua cultura appare ancora fortemente legata
a schemi mentali propri del Medioevo, fatto che appare particolarmente
evidente soprattutto nel suo rapporto con la letteratura classica che, pure,
parte integrante della sua formazione: anzitutto egli ignorava il greco (come
tutti gli intellettuali dell'Europa occidentale di quegli anni) e della letteratura
greca aveva solo una conoscenza indiretta, mediata probabilmente da
volgarizzamenti e traduzioni tarde, mentre pure lacunosa e imperfetta era la
sua padronanza della letteratura latina, sia per la conoscenza imprecisa della
lingua (il latino di Dante quello medievale, molto diverso dalla lingua di
Virgilio che addirittura talvolta fraintende) sia per l'incompletezza della
tradizione manoscritta, dal momento che molti testi sarebbero venuti alla
luce pi tardi ad opera di Petrarca e degli Umanisti. Dante inoltre sottoponeva
le opere della letteratura antica a un processo di rilettura in chiave cristiana
che ne forzava il senso e ne fraintendeva spesso il messaggio storico,
allineandosi in questo a una lunga tradizione risalente alla tarda antichit alla
quale non si sottrae: in quest'ottica Virgilio era interpretato come una sorta di
"profeta" del Cristianesimo a partire dall'errata lettura dell'Egloga IV e in
generale si rintracciavano "anticipazioni" delle verit cristiane nelle opere di
molti altri scrittori latini, tra cui primeggiava soprattutto Ovidio con le sue
Metamorfosi (repertorio ricchissimo di miti e leggende, assai usato anche da
Dante nella Commedia). Tale lettura "deformante" delle opere classiche
dominava incontrastata nella letteratura del Due-Trecento e spiega molte
della rilettura in chiave cristiana che ne aveva fatto san Tommaso d'Aquino
nella Summa Theologica, diventata poi l'impalcatura dottrinale di tutto il
pensiero medievale e della stessa Commedia. Dante aveva ovviamente una
conoscenza pi diretta dei filosofi latini, tra cui spiccano Cicerone e Severino
Boezio (l'autore del De consolatione philosophiae, pensatore considerato
cristiano nel Medioevo) da lui letti e studiati negli anni successivi alla morte
di Beatrice, quando per sua stessa ammissione la filosofia gli offr appunto
consolazione per la perdita della donna amata (nel Convivio la "donna
gentile" della Vita nuova appunto reinterpretata come allegoria della
filosofia). Lo studio della filosofia pagana potrebbe inoltre essere all'origine
del cosiddetto "traviamento" allegorizzato nella "selva oscura" dell'Inferno e
rimproverato al poeta dalla stessa Beatrice in Purg., XXX, inteso come una
eccessiva importanza data alla ragione umana a scapito della fede e della
dottrina, espressa soprattutto nel Convivio (non da escludere che in questa
fase Dante abbia subto un certo influsso dell'averroismo, questione ancora
aperta e fonte di dibattito tra gli studiosi); l'inizio della composizione della
Commedia vede comunque il ritorno di Dante a posizioni pi ortodosse e il
riconoscimento del primato della teologia sulla ragione, bench Avicenna e
Averro siano posti nel Limbo tra gli "spiriti magni" accanto agli altri filosofi
antichi ("Averros che 'l gran comento feo", Inf., IV). Tra i teologi cristiani, oltre
al gi citato Tommaso d'Aquino, grande influsso ebbe su Dante anche
sant'Agostino (posto nella "candida rosa" del Paradiso accanto a san
Benedetto e a san Francesco), mentre fra gli altri Padri della Chiesa si
possono citare Pietro Lombardo, Riccardo di S. Vittore, Sigieri di Brabante
(che sostenne l'interpretazione di Averro e fu avversato dalla Chiesa), il
mistico francescano san Bonaventura da Bagnoregio, Rabano Mauro e il
monaco calabrese Gioacchino da Fiore, autore di famose profezie
millenaristiche (tutti questi teologi sono inclusi nelle due corone di spiriti
sapienti che Dante incontra nel Cielo del Sole, Par., X-XIII). Il primato
indiscusso spetta comunque all'Aquinate e si pu dire che il tomismo
caratterizzi tutto il pensiero di Dante, inclusa la cosmologia della Commedia
che si rif al modello aristotelico-tolemaico, con la Terra immobile al centro
dell'universo e nove cieli concentrici che si muovono intorno ad essa, fino
all'Empireo sede di Dio, dei cori angelici e dei beati (in Par., IV Dante respinge
l'opinione platonica del Timeo secondo cui le anime risiedono nei vari cieli,
mentre per le gerarchie angeliche la sua fonte il De coelesti Ierarchia di
Dionigi Areopagita). Punto fermo rimane l'insufficienza della ragione umana,
pur necessaria a raggiungere la felicit terrena, a penetrare fino in fondo i
misteri divini, per cui necessaria la fede sorretta dagli insegnamenti della
teologia, che quindi superiore in tutto alla filosofia secondo il principio
philosophia ancilla theologiae; tale affermazione pi volte ripetuta
soprattutto nel Paradiso, dove peraltro il poeta non abbandona mai un
atteggiamento razionalista e dove persino la visione finale di Dio assume
l'aspetto di una sublime astrazione intellettuale, piuttosto che un abbandono
mistico all'estasi (per quanto ad essa Dante venga introdotto dal mistico san
Bernardo di Chiaravalle, che rivolge alla Vergine la famosa preghiera all'inizio
del Canto XXXIII). Da ricordare infine che sempre nella terza Cantica del
poema Dante corregge pi volte opinioni filosofiche espresse in precedenza
nel Convivio, come nel caso delle macchie lunari (II) o delle citate gerarchie
angeliche (XXVIII-XXIX), il che fa pensare che la Commedia rappresenti un
superamento della filosofia umana seguita negli anni precedenti l'esilio e,
soprattutto, un affermare la netta superiorit su di essa della teologia, cos
come l'impossibilit per l'intelletto umano di comprendere pienamente tutte
le questioni inerenti il divino (ci vale specialmente per la giustizia e la
salvezza, come evidente in Purg., III e Par., XIX). Dante nasce e si forma in
una Firenze traumatizzata dagli scontri di met Duecento tra Guelfi e
Ghibellini, che avevano visto dapprima la disfatta di Montaperti (1260) e la
cacciata dei Guelfi, poi il loro prevalere dopo Benevento (1266) e l'ulteriore
divisione tra Bianchi e Neri, negli anni in cui papa Bonifacio VIII si
intrometteva nelle vicende interne del Comune in funzione anti-imperiale;
dunque la prima esperienza politica di Dante matura in un clima di feroce
scontro politico tra fazioni avverse, dominato inoltre dalla forte rivalit tra le
consorterie e dagli odi personali ( in questa atmosfera che nel maggio 1300
avvengono gli scontri tra Bianchi e Neri, in cui resta coinvolto il suo amico
Cavalcanti). La visione di Dante in questi anni ancora municipale e chiusa in
un ambito per cos dire provinciale, mentre in seguito all'esilio del 1301 le
cose cambiano: l'ingiustizia subta a causa del colpo di mano dei Neri da un
lato costringe Dante a viaggiare di citt in citt e a misurarsi con una realt
politica diversa da quella del Comune (frequenta le corti signorili e
sperimenta il governo "assoluto" di personaggi come i Malaspina e gli
Scaligeri, ai quali offre i suoi servigi), dall'altro lo induce a riflettere sulla
necessit di una monarchia universale che ristabilisca autorit e giustizia in
un'Italia fortemente divisa, dunque ampliando molto la visione "cittadina" che
fino a quel momento lo aveva contraddistinto. Egli non esita a riconoscere
tale autorit nell'Impero, discendente da quello dell'antica Roma e al centro
della visione provvidenziale di Dio, dunque si comprende come la discesa del
sovrano Arrigo VII nel 1310-1313 abbia acceso i suoi entusiasmi e lo abbia
spinto a sostenere, con atti e con parole, l'impresa tentata dall'imperatore;
nonostante il fallimento di Arrigo l'idea di fondo rimane per lui valida e la
necessit della monarchia "mondiale" viene riaffermata nella Monarchia, dove
tra l'altro Dante distingue nettamente il potere temporale da quello spirituale,
idea ribadita negli stessi anni anche nella Commedia (non a caso l'opera
verr bruciata pubblicamente, pochi anni dopo la sua morte). In quest'ottica
ben si comprende anche il favore accordato al signore di Verona Cangrande
della Scala, vicario imperiale e capo di un piccolo stato regionale in grado,
secondo Dante, di assicurare la legge e la giustizia a scapito dei piccoli tiranni
locali tra cui i Guelfi Neri di Firenze, protagonista probabilmente di pi di una
oscura profezia nella Commedia (in lui sono stati riconosciuti il Veltro di Inf., I
La "Tenzone" con Forese Donati - uno scambio polemico di sonetti tra Dante
e l'amico-rivale Forese (uomo politico e poeta fratello di Corso e Piccarda)
risalente probabilmente al periodo 1293-1296, sicuramente dopo la morte di
Beatrice e durante il cosiddetto "traviamento" di Dante che coincise, a
quanto lui stesso dir poi in Purg. XXIII, con una fase di disordine morale e
amori sensuali che ebbero forse lo stesso Forese come compagno di bagordi.
Dante attacca l'amico con tre sonetti (26, 27, 28) in cui lo accusa di
trascurare la moglie, di essere povero, di essere un ghiottone e un ladro, di
essere oberato di debiti, di non essere figlio naturale di suo padre, mentre
Forese ribatte rovesciando sul rivale l'accusa di povert e rinfacciandogli di
non aver vendicato un'offesa subita dal padre Alighiero, dal che si argomenta
che Dante davvero suo figlio (anche in Inf., XXIX Dante accenna a una
mancata faida verso gli uccisori dell'avo Geri del Bello, episodio forse
collegato alle parole di Forese). La "tenzone" si riallaccia alla tradizione della
tenso provenzale ( SCHEDA: La tenzone) e rientra nella poesia comica
diffusa in toscana nell'ultimo Duecento, per cui le ingiurie non vanno prese
troppo sul serio e lo scambio si pu considerare come un divertissement
letterario ( PERCORSO: La poesia comica); va aggiunto che Forese in
seguito collocato tra i golosi nel Purgatorio, tuttavia l'incontro tra lui e Dante
nei Canti XXIII-XXIV avviene in un clima di grande cordialit e a Forese sono
attribuite parole di affetto verso la moglie Nella, che suonano quasi come una
parziale ritrattazione delle offese contenute nel primo sonetto ( TESTO: Chi
udisse tossir la malfatata). Aggiungiamo che quando in Inf., XXX Dante si
attarda ad assistere compiaciuto alla volgare rissa tra Sinone e Mastro Adamo
viene aspramente rimproverato da Virgilio, nel che molti studiosi ravvisano
una condanna da parte dello stesso Dante della fase "comica" della sua
poesia, rappresentata proprio dalla "tenzone".
Le "Rime petrose" - Sono quattro componimenti (due canzoni e due sestine,
di cui una doppia) dedicati a una donna detta Petra, il cui senhal allude alla
sua durezza e al fatto che crudele con il poeta e non ricambia il suo amore:
i testi risalgono probabilmente agli anni intorno al 1296, come si deduce dalla
complessa perifrasi astronomica della canzone 43 (Io son venuto al punto de
la rota, che cita una congiunzione astrale che avvenne nel dic. di quell'anno)
e il modello dantesco il trobar clus di Arnaut Daniel ( PERCORSO: Le
Origini), per cui lo stile elevato e tragico si arricchisce di un lessico ricercato e
di immagini oscure e allusive, collocando tale esperienza quasi agli antipodi
dello Stilnovo (siamo del resto negli anni del "traviamento", in seguito alla
morte di Beatrice). Impossibile identificare la donna Petra con una figura
reale, mentre alcuni l'hanno accostata alla "donna gentile" della Vita nuova e
all'allegoria della filosofia, cui forse allude la sua durezza che la rende
inavvicinabile da parte del poeta. Accanto alla difficolt stilistica e lessicale vi
anche un certo sperimentalismo metrico, poich la rima 44 una sestina
(metro tratto dai provenzali, in cui le parole-rima sono sempre le stesse e si
alternano secondo uno schema prefissato), mentre la 45 una sestina doppia
(composta cio da stanze di 12 versi in cui ricorrono le stesse cinque parolerima, anche qui con schema fisso), cosa che permette al poeta di fare sfoggio
di abilit e di ricollegarsi, sia pure alla lontana, con le prime esperienze
guittoniane. Notevole la canzone Cos nel mio parlar voglio esser aspro (46)
che chiude il ciclo, sia per il lessico ricercato che riprende quello di Arnaut, sia
per le rime difficili (le rimas caras della tradizione trobadorica) con cui Dante
mostra tutta la maestria, tra l'altro in un testo che contiene una sorta di
dichiarazione di poetica ( VAI AL TESTO) Le rime filosofiche e dell'esilio Sono tra i testi pi impegnati della raccolta e includono sia le canzoni di
argomento filosofico e dottrinale composte negli ultimi anni del Duecento
(destinate, probabilmente, ad essere inserite nel Convivio) e scritte nel "bello
stilo" che secondo Dante gli aveva fatto onore e che aveva tratto dall'Eneide
di Virgilio (Inf., I), sia alcune rime di argomento politico scritte nel periodo
dell'esilio, in cui il poeta lamenta la sua condizione di esule e al contempo
denuncia con forza i mali che affliggono il suo tempo, preannunciando la
poesia elevata della Commedia. Del primo gruppo fanno parte canzoni quali
Poscia ch'amor (30, sulla virt della leggiadria) e Doglia mi reca (49, sulla
liberalit), mentre uno dei testi dell'esilio pi noti la canzone Tre donne
intorno al cor (47), in cui Dante considera un onore l'esilio subto e lamenta la
mancanza nel mondo della giustizia, mentre non escluso che anche questo
testo fosse destinato ad essere commentato nel Convivio
Il Convivio
II trattato - Commento della canzone Voi che 'ntendendo 'l terzo ciel movete,
dedicata alla "donna gentile" di cui nella Vita nuova Dante si innamorava
dopo la morte di Beatrice. La "donna gentile" non era altri in realt che
un'allegoria della filosofia, cui l'autore si dedicato per trovare conforto della
IV trattato - Commento della canzone Le dolci rime d'amor ch'i' solia, in cui si
dibatte la questione relativa alla natura della nobilt (l'autore propende per la
tesi secondo cui la vera nobilt quella d'animo, non quella di sangue).
Affermazione della necessit della monarchia universale, identificata
nell'Impero che discende da quello dell'antica Roma (tesi poi ripresa nella
Monarchia). Disquisizioni circa le virt possedute dall'uomo nobile.
Il Convivio il frutto degli intensi studi filosofici cui Dante si dedic negli anni
seguiti alla morte di Beatrice e del periodo da lui stesso indicato come
"traviamento", quando cio egli avrebbe tradito la memoria della donna
amata (allegoria della teologia) per seguire la filosofia, dunque nel tentativo
di arrivare alla vera conoscenza solo con l'ausilio della ragione: tale
atteggiamento di superbia intellettuale, se non proprio sfiorante l'eresia,
sarebbe stato in seguito condannato da Dante e spiega forse perch la
composizione del trattato sia stata da lui abbandonata per dedicarsi alla
Commedia, che infatti si apre con il poeta che si smarrisce nella "selva
oscura" del peccato. Tra i rimproveri di Beatrice di Purg., XXXIII vi sar anche
quello di aver seguito una falsa "dottrina" filosofica che allontana da lei e dai
suoi insegnamenti, nel che molti studiosi leggono un indiretto riferimento
proprio al Convivio e un suo superamento nel nome di Beatrice-teologia,
anche perch Dante a pi riprese nel poema condanna la folle pretesa della
ragione umana di penetrare il mistero delle verit divine (cfr. specialmente
Purg., III e il richiamo di Virgilio alla necessit di attenersi al quia, alle verit
rivelate). Sta di fatto che in pi di un passo della Commedia Dante corregge
opinioni precedentemente espresse nel Convivio, come nel caso famoso delle
macchie lunari (Par., II) o delle gerarchie angeliche (Par., XXVIII), per cui
sembra che l'autore intenda rinnegare quell'esperienza filosofica come
sbilanciata a favore della ragione umana che non viene certo svalutata, ma
subordinata alla fede nelle verit rivelate e alla grazia divina come il solo
aiuto che consente all'uomo di giungere a una conoscenza perfetta, proprio
come avverr nel momento della visione finale di Dio in Par., XXXIII (descritta
come esperienza intellettuale, ma resa possibile dal fulgore divino che
colpisce la mente di Dante e rende possibile la visione per un breve istante).
Il De vulgari eloquentia
Pi o meno negli stessi anni in cui componeva il Convivio (la datazione
presunta 1303-1305) Dante si dedicava anche alla stesura del De vulgari
eloquentia ("Sull'eloquenza volgare"), un trattato in latino di argomento
linguistico-retorico rimasto anch'esso incompiuto che affronta la complessa
questione di quale sia il "volgare illustre" da utilizzare nelle opere letterarie,
contenente anche interessanti riflessioni sulla natura del linguaggio e con
riferimenti a poeti e scuole del XIII sec. che tracciano quasi una rudimentale
storia della letteratura italiana delle Origini. Dante sceglie il latino come
lingua del trattato e non il volgare, come fatto invece nel Convivio,
probabilmente per il diverso pubblico cui l'opera rivolta, poich qui l'autore
intende parlare a lettori specialisti ed esperti nelle questioni linguistiche e
letterarie, mentre solo il latino offriva quella ricchezza lessicale necessaria ad
affrontare questioni filosofiche di una certa complessit. Il trattato comprende
solo due libri (sappiamo che Dante ne aveva progettato almeno quattro) e si
interrompe bruscamente nel corso del cap. XIV del II libro lasciando
addirittura una frase a met, il che avvalora l'ipotesi che l'abbandono sia
dovuto alla necessit impellente di dedicarsi alla Commedia, ragione valida
sicuramente anche per l'interruzione del Convivio che pressoch
contemporanea. L'opera ci stata tramandata solo da tre manoscritti e fu
praticamente ignorata per tutto il XIV e XV sec., venendo riportata alla luce
nel Cinquecento in circostanze assai singolari ( SCHEDA: Il De vulgari
eloquentia e la questione della lingua): il fatto suscit molti dubbi sulla
paternit dantesca del trattato, anche perch il testo condanna l'uso del
fiorentino come volgare letterario e sembra perci contraddire le scelte
operate di fatto da Dante nella Commedia, dove peraltro l'autore corregge
anche l'opinione circa la lingua parlata da Adamo dopo la creazione (Par.,
XXVI). Oggi la maggioranza degli studiosi concorde nel riconoscere il De
vulgari come opera di Dante, anche se molte questioni relative alla sua
tradizione manoscritta restano insolute e non del tutto spiegato il
rovesciamento della posizione espressa relativamente al volgare fiorentino,
duramente criticato e quasi irriso nel trattato mentre sar poi scelto quale
base per la composizione del capolavoro. Ecco, in sintesi, gli argomenti dei
due libri:
II libro - Viene stabilito che solo gli scrittori pi esperti possono usare il
volgare in letteratura e la poesia proclamata superiore alla prosa; gli
argomenti della poesia volgare saranno le armi, l'amore, la virt. Dante
individua nella canzone la forma metrica pi perfetta per la poesia volgare,
espressa nello stile pi elevato (quello tragico, distinto dal comico e
dall'elegiaco). L'endecasillabo viene indicato come il verso preferibile per la
canzone, anche frammisto al settenario, mentre la costruzione linguistica
dev'essere complessa e non semplicistica, con particolare attenzione al
lessico. Seguono considerazioni pi specifiche sulla stanza di canzone, la
disposizione dei versi, la loro costruzione metrica (il trattato si interrompe
bruscamente a met del XIV capitolo).
a cui ruotano tutti gli altri, "aulico" e "curiale", degno di essere usato in una
reggia (aula) e in una corte (curia), bench esse siano assenti in Italia (
TESTO: Definizione del volgare illustre). Tale volgare non corrisponde a
nessuno di quelli esistenti e deve nascere dalle migliori caratteristiche delle
varie parlate d'Italia, non come miscuglio di idiomi ma in quanto frutto di una
"selezione" linguistica operata nell'ambito di una ricerca retorica (la
definizione pi filosofica che linguistica e di fatto non ha avuto seguito
nell'opera dantesca).
Nel secondo libro, di argomento pi retorico, Dante traccia una storia ideale
della poesia volgare delle Origini e mostra di conoscere assai bene le opere di
Siciliani, Siculo-Toscani e Stilnovisti, tutti collegati alla tradizione della poesia
provenzale ampiamente citata nel testo; viene confermata la preminenza
della canzone come metro tipico dello stile "tragico" e del verso endecasillabo
come verso pi usato nella poesia italiana assieme al settenario, mentre
canzonetta e sonetto sono giudicati metri minori (della canzonetta Dante
avrebbe parlato nel libro IV, mai composto). L'opera, anche se incompiuta,
il primo interessante esempio di una riflessione teorica sulla lingua e la
letteratura nel Trecento e offre spunti notevoli di linguistica moderna, pur
mescolati a errate convinzioni e preconcetti, mentre i giudizi sugli scrittori del
primo Trecento (se anche risentono dello spirito di parte di uno stilnovista che
critica gli esponenti della scuola avversaria) riflettono bene il gusto e la
percezione che i contemporanei dovevano avere della poesia allora diffusa
nel nord Italia, mentre la classificazione dantesca ha poi influenzato la
storiografia letteraria successiva che non ha potuto prescindere dal "canone"
da lui stabilito in questo testo.
La Monarchia
l'unica opera teorica in prosa portata a compimento da Dante e si presenta
come un trattato di argomento storico-politico, scritto in latino e diviso in tre
libri: la data di composizione incerta, ma il testo risale certamente agli anni
dell'esilio e pi di un elemento ne riconduce la genesi alla discesa di Arrigo VII
di Lussemburgo in Italia del 1310-1313, per cui tale periodo potrebbe essere
quello pi probabile (altri studiosi propongono di abbassare la data al 1317,
sia pure con argomenti meno persuasivi). La scelta del latino si spiega alla
luce delle stesse considerazioni gi fatte per il De vulgari eloquentia, dunque
la necessit di rivolgersi a un pubblico colto e selezionato oltre alla maggiore
dignit letteraria del latino riguardo al tema trattato, e il testo riprende la
riflessione sulla "monarchia universale" gi esposta in parte nel IV trattato del
Convivio e riaffermata poi a pi riprese nel Purgatorio e nel Paradiso, specie
nel Canto VI della terza Cantica in cui Giustiniano presenta la visione
provvidenziale dell'Impero come voluto da Dio e ordinato al fine di portare la
giustizia nel mondo. Ecco, in sintesi, i temi affrontati nei tre libri dell'opera:
III libro - Dante affronta il punto pi delicato relativo ai rapporti tra Papato e
Impero, ovvero quale delle due autorit sia superiore: la conclusione che
papa e imperatore traggono entrambi la loro autorit da Dio, in quanto
preordinati a differenti obiettivi (l'imperatore deve assicurare la giustizia e
consentire il raggiungimento della felicit terrena, il papa deve diffondere gli
insegnamenti del Vangelo e garantire la felicit eterna), dunque potere
temporale e spirituale sono sullo stesso piano; l'unica concessione sta nel
fatto che l'imperatore deve una sorta di deferenza al papa, proprio come un
figlio al proprio padre, per il resto respinta ogni visione teocratica che
proclami la superiorit del pontefice sui governi terreni.
specie con papi quali Bonifacio VIII e poi Clemente V, per cui alla "teoria del
sole e della luna" che subordinava l'autorit dell'imperatore a quella del
pontefice Dante sostituisce quella "dei due soli", in base alla quale le due
autorit sono indipendenti l'una dall'altra e sullo stesso piano, in quanto
preordinate a fini diversi ( TESTO: Papato e Impero). Nonostante l'apparente
attenuazione della posizione dell'autore, che riconosceva se non altro un
ossequio formale del sovrano al papa, l'opera suscit aspre polemiche e
venne pubblicamente bruciata nel 1329 per ordine del cardinale Bertrando
del Poggetto.
Le Epistole
Dante scrisse nella sua vita molte lettere, anche se non concep un epistolario
simile a quello petrarchesco ma piuttosto dei testi pubblici indirizzati a
personaggi potenti e ideali, sia nell'ambito del suo servizio ad alcuni signori
del nord Italia sia per iniziativa sua personale: la critica ha riconosciuto come
autentiche solo tredici Epistole in latino, di incerta datazione ma tutte
sicuramente risalenti al periodo dell'esilio e indirizzate a vari interlocutori, in
cui lo stile quello elevato della retorica ufficiale e con la presenza del
cursus. Questi i destinatari delle Epistole nell'ordine presunto della loro
composizione: