Arte del Cambio

1 delle 7 Arti maggiori di Firenze

L'Arte del Cambio è stata una delle sette Arti Maggiori delle corporazioni di arti e mestieri di Firenze.

Arte del Cambio
AttivitàCambio di moneta, commercio di pietre e metalli preziosi, prestito, credito e deposito
Stemmadi rosso seminato di bisanti d'oro
ProtettoreSan Matteo
Antica sedePresso la tettoria dei Pisani in piazza della Signoria angolo via Calimaruzza, non più esistente

Storia

 
Il luogo in cui aveva sede l'Arte del Cambio, oggi scomparsa (Piazza della Signoria, ang. via Vacchereccia)

La corporazione nacque intorno al 1202 distaccandosi dall'Arte di Calimala e riunendo i cambiavalute, i commercianti di pietre e metalli preziosi e tutti coloro che praticavano il deposito e/o il credito locale ed estero.

Dal 1352 l'Arte del Cambio ebbe sede in piazza della Signoria sotto la cosiddetta loggia dei Pisani, demolita nell'Ottocento durante il periodo di Firenze Capitale, dove oggi si trova il palazzo delle Assicurazioni Generali e pertanto adiacente a quella di Calimala.

Dopo secoli di prestigio e ricchezza, nel 1530 la corporazione subì un danno enorme a causa dell'assedio di Firenze; la Repubblica ne confiscò i beni per sopperire alle necessità della guerra e quel poco rimasto andò a finanziare le ingenti spese per la costruzione degli Uffizi su ordine di Cosimo I de' Medici.

La decadenza dell'Arte fu inarrestabile, finché nel 1770 venne soppressa dal granduca Pietro Leopoldo di Lorena.

Organizzazione interna

I consoli dell'Arte erano sei, due per il distretto del Mercato Vecchio e del Mercato Nuovo e uno ciascuno per i distretti di Oltrarno e Orsanmichele, in cui si concentrava la maggior parte delle botteghe dei cambiavalute.

La professione era suddivisa tra magistri, i veri e propri soci della corporazione, i discepoli, ossia gli apprendisti il cui periodo di formazione andava dai cinque ai dieci anni, e i sensali, molto più numerosi nelle campagne.

Cambiatori e banchieri

L'attività del cambiatore si svolgeva in genere presso il mercato, dove seduto davanti al banco con la borsa appesa al collo (chiamata scarsella), annotava le transazioni avvenute giorno per giorno su di un apposito registro; il cambio di valute non era però l'unica occupazione dei membri iscritti alla corporazione, che in realtà traevano i guadagni maggiori dai prestiti a interesse e dal trasferimento di denari fuori Firenze, attraverso il sistema della cosiddetta lettera di cambio. Benché la sua invenzione possa essere fatta risalire a tempi ancora più lontani e in altre diverse parti del mondo, i cambiatori fiorentini ebbero il merito di diffondere e legalizzare questa pratica, molto usata soprattutto dai mercanti; simile ad un assegno o una cambiale, permetteva di ritirare la somma richiesta nella città in cui era esibita evitando di viaggiare o inviare il denaro contante all'estero e trasferire così anche ingenti cifre con maggiore sicurezza e velocità. I fiorentini divennero ineguagliabili per la loro affidabilità e professionalità, godendo di notevole prestigio in tutta Europa e battendo così la concorrenza dei lombardi, termine con cui venivano solitamente chiamati i cambiatori italiani all'estero, come si legge in un passaggio di una celebre novella del Boccaccio:

«Questi lombardi cani, li quali a chiesa non sono voluti ricevere, non ci si vogliono più sostenere»

Va comunque precisato che non tutti i cambiatori fiorentini riuscirono ad accumulare grossi capitali, operando sostanzialmente a livello locale e che alla loro attività si affiancò, spesso confondendosi in essa, quella dei banchieri, il cui giro di affari era ben più esteso; basti pensare infatti, che i fiorentini divennero i banchieri del Papa, con l'incarico di esattori ufficiali delle rendite della Chiesa, ossia le decime e le offerte che costituivano il patrimonio di San Pietro.

Anche i sovrani si appoggiarono finanziariamente ai banchieri fiorentini; questa fu la ragione per cui il prestito di una cifra da capogiro al re Edoardo III d'Inghilterra nel 1339 e mai più restituita, condusse al fallimento dei Banchi dei Bardi e dei Peruzzi nel 1346, trascinando con sé nella rovina anche molti dei "correntisti" dell'epoca. Infine, nel Trecento, soprattutto a seguito delle lunghe campagne militari intraprese e la peste del 1348, anche la Repubblica dovette rivolgersi ai propri cittadini banchieri per risanare la casse vuote dello Stato; ma indubbiamente nessuna impresa finanziaria avrebbe avuto successo senza aver avuto alle spalle il pilastro che sorreggeva l'intera economia fiorentina del tempo e cioè la sua moneta.

Il sistema monetario fiorentino

 
Il fiorino d'oro
 
Il fiorino d'argento

Fino alla metà del Duecento il sistema monetario fiorentino seguì il sistema corrente europeo basato ancora sulla monetazione argentea introdotta da Carlo Magno verso la fine dell'VIII secolo; questo sistema aveva come unità di conto il soldo in argento, con i suoi multipli calcolati in base 12, per cui 12 denari facevano un soldo e venti soldi facevano una lira d'argento. Pur avvalendosi di questo sistema di calcolo generale, le monete circolanti in Italia nel XIII secolo erano svariate, anche se in Toscana era molto diffuso il grosso d'argento veneziano del valore di 4 denari, coniato sia a Pisa che a Lucca. Il problema più grande, oltre alle normali oscillazioni del mercato, era la difformità del peso delle monete, dovuto sia alla naturale consunzione che alla diffusa pratica della calìa, ossia il raschiamento del bordo delle monete per ricavarne un po' di metallo prezioso. Nel 1252 i fiorentini decisero di coniare una propria moneta e così nacque il fiorino d'oro, del peso di 3.53 grammi con il giglio impresso su una faccia e San Giovanni Battista, patrono della città, sull'altra; il sistema monetario in base 12 venne rispettato, per cui occorrevano 12 denari per un soldo e 20 soldi per un fiorino, che si impose pertanto come nuova unità di conto in oro anziché in argento. L'antica monetazione non venne comunque abbandonata, per cui accanto al fiorino d'oro apparve anche quello in argento, del valore di un ventesimo di quello d'oro (per cui un fiorino in argento aveva il valore di un soldo - sottomultiplo del fiorino - in oro); anche il fiorino d'argento aveva i suoi sottomultipli in base 12, per cui servivano 12 denari, detti piccioli per un soldo e 20 soldi per un fiorino d'argento. Bisogna tenere presente però che sia i soldi e i denari aurei, che le lire argentee, non vennero mai messi in circolazione e rimasero pertanto semplici unità di calcolo. Per semplificare il discorso e soprattutto per capire ciò che realmente passava per le mani dei cambiatori fiorentini, basta tenere presente che:

  • un fiorino d'oro corrispondeva a 20 soldi e 240 denari in oro
  • un fiorino d'argento corrispondeva a 20 soldi e 240 piccioli in argento
  • un fiorino d'argento aveva il valore di un soldo in oro, per cui un ventesimo di un fiorino d'oro
  • le monete realmente coniate dalla zecca fiorentina furono solamente i soldi ed i piccioli in argento ed il fiorino d'oro, per cui servivano 20 fiorini in argento per un fiorino d'oro e 4800 piccioli in argento per un fiorino d'oro.

La nuova moneta venne inizialmente accolta con un certo sospetto, ma poi riuscì ad imporsi su tutte le maggiori piazze commerciali italiane ed europee. Il detto fiorentino «San Giovanni 'un vòle inganni» deriva proprio dalla coniazione del fiorino d'oro, la cui integrità era garantita dalla zecca e dal comune di Firenze. San Giovanni Battista era infatti il patrono di Firenze e compariva, a guisa di garanzia, sul recto del fiorino.

Il fiorino d'oro ebbe corso legale fino al 1533, quando il primo duca di Firenze Alessandro I dei Medici decise di soppiantare il vecchio conio repubblicano con lo scudo che fece appositamente coniare da Benvenuto Cellini, sul quale erano impresse le insegne medicee sul suo ritratto e una croce al posto di san Giovanni sul recto.

Membri illustri

 
Palazzo Strozzi
 
Cosimo il Vecchio de' Medici

Molte famiglie fiorentine si arricchirono con il prestito a interesse e benché l'usura fosse condannata sia dalle leggi corporative che dalla Chiesa cattolica, questa veniva in realtà largamente tollerata e praticata. Gli "strozzini" dell'epoca avevano nomi famosi; tra questi va sicuramente ricordato il padre della Beatrice dantesca Folco Portinari, che pur essendo stato un beneffattore della città (a lui si deve infatti l'edificazione dell'Ospedale di Santa Maria Nuova) aveva lucrato sui prestiti ad interesse. Dante condannò duramente la pratica dell'usura e nell'Inferno pose due famiglie fiorentine legate all'Arte del Cambio: i Gianfigliazzi e gli Obriachi (Inf. XVII, vv. 58-63).

Verso la fine del Trecento apparve anche il nome di Vieri de' Medici, eletto per ben sette volte Console dell'Arte, mentre Cosimo il Vecchio venne immatricolato nella corporazione nel 1404.

La famiglia che appare comunque più legata a questa attività, anche per una certa assonanza del cognome è quella degli Strozzi, anche loro immatricolati fin dal Trecento all'Arte del Cambio; a quanto pare un lontano discendente della casata chiamato Strozza, li indusse a modificare il nome da Rossi a Strozzi e tennero bottega insieme ai Carnesecchi nell'odierna via Porta Rossa.

Patronati

 
San Matteo di Ghiberti

L'Arte del Cambio sosteneva in Firenze lo spedale di San Matteo.

Scelse San Matteo come protettore della corporazione e chiese a Lorenzo Ghiberti, autore anche del San Giovanni Battista per l'Arte di Calimala, di fondere una statua in bronzo che rivaleggiasse con quella; tutte le vicende relative alla commissione vennero registrate, per cui oggi sappiamo che tra i membri del comitato incaricato della costruzione del tabernacolo c'era anche Cosimo il Vecchio dei Medici e che a lavoro ultimato, nel 1423, Ghiberti ricevette la somma di ben 650 fiorini come compenso. C'è inoltre una stranezza relativa all'opera del Ghiberti: come normalmente accadeva, la testa ed il corpo del santo vennero fusi separatamente e poi uniti, ma a quanto pare l'artista fallì la prima gettata e dovette quindi pagare a sue spese una seconda fusione nel 1421.

Bibliografia

  • M. Giuliani, Le Arti Fiorentine, Firenze, Scramasax, 2006.
  • L. Artusi, Le arti e i mestieri di Firenze, Firenze, Newton & Compton, 2005.

Voci correlate

Altri progetti