Modestia a parte
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Ettore Petrolini (1884-1936) è stato un celebre attore, drammaturgo, e comico italiano, noto per il suo stile innovativo e il grande carisma sul palcoscenico. È ricordato per aver creato personaggi memorabili come Fortunello e Gastone, che incarnavano una satira della società e della politica del suo tempo. La sua comicità irriverente, che mescolava dialetti, giochi di parole e mimica, ha influenzato generazioni di artisti italiani. Petrolini è stato anche uno dei pionieri del teatro di varietà e del cabaret in Italia, contribuendo a definire il genere con la sua ironia e originalità.
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Anteprima del libro
Modestia a parte - Ettore Petrolini
Per cominciar la carriera...
Da ragazzino – potevo avere undici o dodici anni – se vedevo un funerale, immediatamente mi accodavo. Poi, piano piano, m’intrufolavo fino ad essere vicino ai parenti del morto; assumevo un’aria afflitta e fingevo di commuovermi fino alle lagrime, per farmi compatire dalla gente.
— Povero figlio...
— Quanto mi fa pena...
— Chi sarà?...
— Sarà un nipote...
— No; deve essere il figlio...
— Ma non aveva figli...
— Allora sarà il figlio del portiere di casa sua...
— Non credo. Guardalo come piange...
— Ma chi è? Sarà il figlio di sua sorella...
— Sarà il figlio della serva...
— Tu lo conosci? Ma di chi è figlio?
— Sarà il figlio della colpa...
Tutte queste cose veramente non le dicevano: io, però, m’immaginavo che le dicessero.
Ma perché facevo tutto questo?
Facevo il teatro.
Una volta mi trovavo nei dintorni del Colosseo – mio vero campo d’azione – e mi venne un’idea: mi levai la giacca, me la rimisi alla rovescia e poi, con un libretto in mano che doveva simulare il «Baedeker», mi misi davanti all’Arco di Tito; dall’Arco di Tito passai a quello di Costantino. Borbottavo le parole più disarticolate e indecifrabili: Der gut - mis prosten - der cic - goubat - pronobis - vagher - cituik - bubuc.
Ma perché? Perché m’illudevo d’essere scambiato per un forestiere.
Facevo il teatro.
Veniva il pizzardone (antenato del metropolitano) e mi diceva:
— A regazzì, si nun te ne vai ciabbuschi.
Mi divertivo tanto a caricarmi sulle spalle una enorme cassa vuota, sotto la quale me ne andavo curvo, barcollante; facevo gli occhi dello spasimo dal grande peso per il gusto di sentirmi dire:
— Ma guardate quer povero regazzino: bisogna esse gente senza core, a metteje addosso quer peso!
Molte volte io stesso mi son domandato perché facessi questo.
Per finzione?
Per pazzia?
Per scemenza?
Niente di tutto ciò. Vi ripeto: facevo il teatro.
Il mio grande successo era quando riuscivo perfettamente ad illudere la gente facendo credere ciò che non era; facevo la parte, studiavo, recitavo; e, forse, è questa una delle ragioni per cui non credo alle scuole di recitazione.
Il teatro a ferro di cavallo – questa fatale calamita – mi attraeva irresistibilmente. E, sotto questa azione, all’età di quindici anni mossi il primo passo verso l’arte, recandomi dall’agente teatrale Giulio Fabi. Il quale, senz’altro, mi giudicò uno scemo, e mi disse:
— Portami quattro scudi di mediazione e ti mando subito nella compagnia di Angelo Tabanelli ( detto il Panzone) che agisce a Campagnano ( presso Roma).
Misi in costernazione mia madre; ottenni i quattro scudi, li versai al Fabi e, da esordiente da nido, munito di una trentina di lire e di un vecchio baule di famiglia pieno di cosucce linde e pinte, senza pretensioni, partii in diligenza per Campagnano.
Il teatro di Campagnano era un vecchio granaio municipale ove, la sera stessa dell’arrivo, debuttai con la macchietta: «Il bell’Arturo». Al refrain misi un piede sull’estremità di una tavola dell’improvvisato palcoscenico, fatto di tavolacce male inchiodate e che posavano su due cavalletti. Il mio peso fece sollevare una tavola e andai a finire di sotto con una elegantissima lussazione a un piede.
Il pubblico, regolarmente, si diverti un mondo e chiese il bis, mentre io piangevo dal dolore e dalla rabbia.
Fu l’inizio del mio destino. Mi accorsi che ero veramente votato all’arte comica.
Gli attori della compagnia – per una volta tanto d’accordo col pubblico – risero a crepapelle. Ma la pelle non si crepò: e io, malconcio, dopo lo spettacolo me ne andai tutto solo a casa: una cameretta dove l’odorino di muffa giocava a nisconnarella con una bella puzzetta di stalla che veniva su dal cortile. Di buono non vi era che il siilenzio; cosicché mi consigliai con lui.
Mi venne subito un discreto odio per quel pubblico, per i miei compagni, per l’impresario e, sopra tutto, per i refrains e le introduzioni musicali e cretine che usavano al «varietà» di quell’epoca.
Ogni sera Angelo Tabanelli portava i comici – otto o dieci – a mangiare all’osteria di Panzaliscia e pagava per tutti, tranne che per me. Io pagavo il mio conto; ma, essendo rimasto con tre lirette in tasca, mi misi a pensare: «Ho fatto un buon successo; sono vestito meglio di tutti: perché non mi parla mai della paga? Forse vorrà darmi qualche cosa in più di quel che dà agli altri e aspetterà il momento 1n cui rimarremo a quattr’occhi, per non mortificare i mei compagni...».
Senonché agli sgoccioli delle tre lire, mi alleonai ed affrontai il capocomico con molta disinvoltura:
— A me, poi, quanno me paga?
Er sor Angelo, con gli occhi strabici, ringhiò:
— Pagaaare?!! Pagare cosa? Ma che sei scemo? Ma chi t’ha cercato? Ma non vedi che qui non si va avanti? Io non ho più soldi!!! Anzi, contavo su te!
E, così dicendo, tirò fuori quella indimenticabile cartolina che precedette ed annunziò l’arrivo a Campagnano di Ettore Loris, primo ed unico mio nome di battaglia.
«Carissimo Tabanelli, tra qualche giorno arriverà il comico Ettore Loris un fanaticone per lavorare sul teatro. Per quello che ti costerà, lo puoi pure scritturare. Non solo non gli darai nulla, ma all’occasione (che certamente non ti mancherà) potrà anche dare un aiuto alla Compagnia, perché figlio di gente che ha qualche soldarello. Ricordati di me. Voglimi bene. Tuo
giulio fabi.»
Il sor Angelo mi lesse questo giulebbino di cartolina con la voce acida. Poi mi guardò – per la prima volta da che ero in compagnia – con gli occhi luschi ed aggiunse seriamente:
— Anzi, io avevo pensato di pregarti di scrivere o telegrafare a casa tua per avere un centinaio di lire che t’avrei restituite a Nepi, la nuova piazza, dove faremo certamente affaroni,
Io non sapevo se ridere, piangere, chiamare aiuto, o prenderlo a sganassoni. Invece non dissi nulla, perché mi venne come una paralisi alla lingua!
Giuro che avrei rubato o fatto di peggio per fornire