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Diario di bordo. Lettere. Biografia.: ILLUSTRAZIONI
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E-book2.007 pagine25 ore

Diario di bordo. Lettere. Biografia.: ILLUSTRAZIONI

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Diario di bordo. Lettera ai Reali di Spagna. Lettere autografe edite ed inedite. La lettera dell'isole che ha trovato nuovamente el Re di Spagna. Per Cristoforo Colombo. Cristoforo Colombo: Storia della sua vita e dei suoi viaggi. Cristoforo Colombo (Cesare Correnti). Cristoforo Colombo (Cesare Cantù). Casa di Cristoforo Colombo (Relazione Belgrano). La storia di Colombo narrata alla gioventù ed al popolo da Federico Donaver. Cristoforo Colombo è stato un navigatore ed esploratore italiano della Repubblica di Genova, attivo in Portogallo e in Spagna come capitano di mare al comando su navi mercantili, tra i più importanti protagonisti delle grandi scoperte geografiche europee a cavallo tra il XV e il XVI secolo. In particolare, deve la sua fama per esser stato il primo ad intraprendere la rotta atlantica che portò le potenze europee alla scoperta e alla colonizzazione delle Americhe.
LinguaItaliano
Data di uscita14 ott 2024
ISBN9791222767673
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    Anteprima del libro

    Diario di bordo. Lettere. Biografia. - Cristoforo Colombo

    LETTERE AUTOGRAFE

    EDITE ED INEDITE

    Cristoforo Colombo

    1863

    Immagine che contiene schizzo, disegno, Viso umano, illustrazione Descrizione generata automaticamente

    LETTERE AUTOGRAFE

    DI

    CRISTOFORO COLOMBO

    NUOVAMENTE STAMPATE

    ________________

    TITOLO | Cristoforo Colombo

    AUTORE | Diario di bordo. Lettere. Biografia.

    ISBN | 9791222767673

    Prima edizione digitale: 2024

    © Tutti i diritti riservati all'Autore.

    Questa opera è pubblicata direttamente dall'autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'autore.

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    [email protected]

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    Ritratto postumo di Cristoforo Colombo di Sebastiano del Piombo, 1519, olio su tela, MOMA, New York

    Lettera ai Reali di Spagna

    Cristoforo Colombo

    Traduzione dallo spagnolo di Giovanni Vaccari (1912)

    1493

    Lettera in cui Cristoforo Colombo, molto benemerito dell’età nostra, descrive le isole delle Indie oltre il Gange, di recente scoperte, dove fu inviato il 3 agosto 1492 sotto gli auspici e col denaro degli invittissimi Ferdinando ed Elisabetta, Reali di Spagna; e da lui indirizzata all’illustre Don Gabriele Sanchis, tesoriere dei suddetti Serenissimi Re, tradotta dalla lingua spagnuola nella latina per opera del nobiluomo e letterato Leandro De Cosco il 30 aprile 1493, primo anno del pontificato di Alessandro VI.

    Poi che so di doverti esser grato per aver io condotto a compimento la mia impresa, ho risoluto di scriverti per informarti di tutto ciò che feci e scopersi in questo mio viaggio. Dopo 33 giorni dacchè partii da Cadice, giunsi al mare delle Indie, dove trovai molte isole assai popolate, delle quali, fatto il bando in nome del felicissimo nostro Re e spiegate le bandiere, nessuno opponendovisi, presi possesso. Alla prima diedi il nome del nostro divin Salvatore, con l’aiuto del quale giungemmo a questa ed alle altre tutte. Quella che gl’indigeni chiamano Guanahani e ciascuna delle altre io chiamai con nome nuovo: cioè l’una, isola di Santa Maria della Concezione; Fernandina l’altra; e l’altra, Isabella, e l’altra ancora, Giovanna; e così volli che fossero dagli altri chiamate.

    Come approdammo dapprima a quell’isola che testè dissi da me chiamata Giovanna, avanzai alquanto lungo il lido verso occidente. Poichè la vidi grandissima, non avendovi trovato limite alcuno, tanto da crederla non già un’isola, ma una provincia continentale del Catai, non vedendo alcun castello o città situati ne’ confini marittimi, fuorchè alcuni villaggi e poderi rustici, con gli abitanti de’ quali m’era impossibile parlare, dandosi essi alla fuga non appena ci vedevano, proseguii sperando di trovare qualche città o villaggio.

    Finalmente vedendo che per quanto ci si avanzasse nulla di nuovo appariva, e la via ci portava a nord io stesso, desiderando allontanarmi poichè la bruma gravava su quelle Terre e s’aveva in animo di volgere a sud e nemmeno spiravano favorevoli i venti desiderati, risolsi di attendere altri avvenimenti. E così retrocedendo tornai ad un porto che avevo notato, dove feci sbarcare due uomini de’ nostri che andassero a cercar se mai vi fosse qualche città ed un re in quella provincia. Essi camminarono per tre giorni e trovarono numerosi popoli ed abitazioni, ma piccole queste, e quelli senza alcun governo, onde ritornarono sui loro passi.

    Frattanto alcuni Indiani che avevo preso in quel medesimo luogo ci avevano informato esservi pure in que’ paraggi un’isola, e così mossi verso oriente sempre lungo il lido, facendo 322 miglia, fin dove si vedono l’estremità dell’isola stessa. Di qui scorsi ad oriente un’altra isola distante 54 miglia dalla Giovanna e la chiamai subito la Spagnola. A quella mi diressi, quasi a nord, come verso la Giovanna, per 564 miglia. Quella detta Giovanna e le altre isole nel medesimo luogo sono fertilissime. Essa è circondata da molti porti larghi e sicuri come non vidi mai in altri luoghi. Molti fiumi grandi e salubri vi scorrono nel mezzo e vi sorgono monti altissimi. Tutte queste isole sono amenissime e di varia forma; piene d’una gran varietà d’alberi che s’elevano a grandi altezze e che non credo mai privi di foglie. Io le vidi così verzicanti e ridenti come suol esser la Spagna nel mese di maggio: alcune tutte in fiore, altre ricche di frutta, altre sfoggianti le loro particolari qualità naturali. Mentre io stesso camminavo attraversandole gorgheggiavano i rosignoli e uccelli numerosi e varii nel mese di novembre.

    Si trovano inoltre in detta isola Giovanna sette ed otto specie di palme notevoli per altezza e per bellezza e vi abbondano altresì tutti gli altri alberi le erbe ed i frutti. Vi sono meravigliose pinete, campi e prati vastissimi; varii sono gli uccelli, varie le qualità di mele, varii i metalli, solo vi manca il ferro. In quella poi che dissi aver chiamato la Spagnuola ameni ed alti sono i monti, vasti i villaggi, i boschi; i campi feracissimi di seminati e pasture e con aree adatte a fabbricarvi edifici. V’ha in quest’isola copia di bellissimi utili e salubri fiumi e così pure d’uomini, che non può credere se non chi ha veduto. In questa gli alberi, i pascoli e i frutti assai differiscono da quelli che si vedono nell’isola Giovanna.

    Aggiungasi che la Spagnuola abbonda di diverse specie d’aromi di oro e di metalli; che gli abitanti di essa e altresì di tutte quelle che io vidi e conosco, così dell’uno come dell’altro sesso, vanno sempre nudi come son nati, fuorché alcune femmine le quali si coprono le pudende con una foglia o una fronda o un velo di seta, ch’esse stesse all’uopo si apprestano. Come dissi più sopra mancano di ogni qualità di ferro; mancano di armi che sono a loro quasi ignote, né a queste san adatti, non per la deformità del corpo, essendo anzi molto ben formati, ma perché timidi e paurosi: così in luogo di armi portano delle canne seccate al sole, nelle cui radici infiggono un’asta di legno secco dalla punta acuminata; nè osano sempre servirsene. Però che spesso avvenne che io mandassi due o tre de’ miei in alcuni villaggi per parlare con gli abitanti, e ne uscisse una folta schiera d’Indiani, la quale, al solo vedere i nostri avvicinarsi, fuggiva rapidissimamente, non curandosi il padre dei figli né questi di quello. E ciò non perché ad alcuno di loro fosse fatto alcun danno od ingiuria; ché anzi dovunque approdai, a quelli con cui mi fu dato parlare largii tutto ciò che aveva panno e molte altre cose, gratuitamente; ma solo perché son di natura timidi e paurosi. Del resto, quando si vedono sicuri, deposto ogni timore, sono molto semplici e di buona fede e liberalissimi di tutto quel che posseggono: a chi ne lo richiegga nessuno nega ciò che ha, che anzi essi stessi ci invitano a chiedere: professano grande amore verso tutti; per oggetti dappoco ne danno altri di gran valore, paghi d’ogni piccola cosa e anche di niente. Io stesso proibii di dar loro oggetti piccoli e di niun valore, come frammenti di piatti o di cristalli, e così chiodi coltelli, quantunque se potevano averli sembrava loro di posseder le cose più belle del mondo.

    Accadde che un marinaio avesse avuto in cambio di un coltello tanto peso d’oro quanto ve n’ha in tre monete d’oro; e così altri per altre cose di minor prezzo e davan sempre ciò che chiedeva il venditore: come un’oncia e mezzo e due d’oro; o trenta e quaranta libbre di seta, bene già da loro stessi conosciuta. Così pure ignorantemente comperavano con seti ed oro frammenti d’archi, di anfore, di idrie, di orci: il che vietai perché era certamente iniquo e diedi loro senz’alcun corrispettivo molte belle e gradite cose che avevo portato meco per conciliarmeli più facilmente e ingraziarli e renderli più inclini ad amare il Re, la Regina, i Principi nostri e tutte le genti della Spagna e per indurli a ricercare accumulare e consegnare a noi quelle cose di che essi esuberano e di che noi più abbisogniamo. Non sono affatto idolatri, anzi credono fermamente che ogni forza , ogni potenza e ogni bene sia in cielo, e che io dal cielo sia disceso con queste navi e co’ naviganti, e così dovunque fui accolto dopo che avevan dimesso ogni timore. Nè son pigri o rudi, ma anzi di grande e acuto ingegno, e gli uomini che traversano quel mare non senza ammirazione si rendono conto d’ogni cosa, ma non mai videro genti vestite e navi. Io tostochè giunsi in quel mare tolsi violentemente dalle prime isole alcuni Indiani affinchè imparassero da noi le nostre cose e a noi insegnassero quelle da loro in que’ paesi conosciute. Ed avvenne infatti secondo il nostro desiderio, ché in breve noi li comprendemmo, ed essi compresero noi tanto nel gesto e ne’ segni quanto nel linguaggio e ci furono di gran giovamento. Vengono ora sempre meco e mi credono sempre disceso dal cielo, quantunque abbiano a lungo trattato con noi e trattino ancora, ed essi erano i primi ad indicarci tutto ciò che noi volevanto, gli uni agli altri man mano ad alta voce gridando: Venite venite e vedrete le genti celesti. Per cui e femmine ed uomini e fanciulli e adulti e giovani e vecchi, deposto il timor di prima, ci venivano incontro a gara affollando la strada e portandoci chi cibi e chi bevande con amore e benevolenza incredibili.

    Ciascun’ isola ha molte barche di solido legno e, benchè strette, simili in forma e lunghezza alle nostre biremi e più veloci nel corso. Si reggono solamente co’ remi, alcune sono grandi, altre piccole ed altre mediocri; la massima parte maggiori di una bireme da 18 remi. Con queste gl’indigeni fanno il tragitto in tutte quelle isole che sono innumerevoli e fra loro esercitano la loro special mercatura e i lor traffici. Vidi alcune di queste biremi e trasportavano settanta od ottanta rematori.

    In tutte quest’isole non vi ha diversità negli aspetti della gente, nei costumi, nel linguaggio: anzi tutti s’intendono a vicenda, ciò che è utilissimo a quello ch’io credo il primo e principal desiderio dei nostri Serenissimi Re: la conversione di quelle genti alla fede, a cui, per quanto ho potuto intendere, sono pur dispostissime e inclini.

    Dissi come avanzai prima nell’isola Giovanna per la retta via dall’occidente verso l’oriente facendo 322 miglia, onde per la via e per la distanza io posso dir che la Giovanna è maggiore dell’Inghilterra e della Scozia prese insieme, perciò che oltre le dette 322 miglia in quella parte che volge ad accidente si trovano due provincie, dove io non andai, una delle quali gl’lndiani chiamano Anan, e gli abitanti di essa nascono caudati. Si stendono per una lunghezza di 180 miglia. Dagli Indiani, che conoscono tutte queste isole, trassi quelli che porto meco. Il circuito della Spagnuola è maggiore di tutta la Spagna dalla « Colonia » al « Fonte Rabido». Di qui facilmente si arguisce che il quarto lato di quella che in stesso attraversai da occidente a oriente é lungo 540 miglia. Quest’ isola si deve occupare, ed occupata, non è da disprezzarsi. Di essa al pari delle altre, come dissi più sopra, solennemente presi possesso in nome dell’invitto nostro Re e al Re fu commesso interamente l’impero di quelle e in luogo più opportuno e più adatto a ogni lucro e commercio presi particolarmente possesso di quel gran villaggio cui demmo il nome di Natività del Signore, ed ivi feci eriger tosto una rocca la quale ora deve esser già compiuta e in cui vidi e lasciai gli uomini che sono necessari col vitto sufficiente per oltre un anno, e così anche una caravella e, per costruirne ancora, uomini periti tanto in quest’arte quanto in ogni altra, e la benevolenza e la familiarità incredibili del Re dell’isola stessa verso di loro. Però che le son genti amabilissime e benigne, tanto che il predetto Re si gloriava che io mi chiamassi suo fratello. Anche se lo volessero, non possono nuocere a quelli che son rimasti nella rocca, perché son privi d’armi, vanno nudi e son troppo timidi; perciò quelli che occupano la rocca solamente possono senz’alcun pericolo saccheggiare quell’isola, purchè non vadano oltre le leggi e il governo ch’io diedi. In quest’isola, come appresi, ciascun s’accontenta di una sola moglie, fuorché i principi e i re, ai quali è lecito averne venti. Sembra che le femmine lavorino più degli uomini, né ho potuto apprender bene se abbiano beni proprii, però che vidi l’uno dare all’altro ciò che aveva, specialmente cibi vivande e simili.

    Nulla di straordinario trovai come i più credevano, solamente gli uomini molto reverenti e benigni. Né son negri come gli Etiopi; hanno i capelli lisci e corti, cercano di evitare il calore del sole, che più ferve in queste regioni distanti 26 gradi dalla linea equatoriale. Dove più regna il freddo gl’Indiani cercano di mitigarlo secondo le usanze del luogo, per mezzo delle cose calde di cui spesso e abbondantemente si nutrono.

    Dunque non vidi nulla di straordinario e non seppi esservene in alcun luogo, se non in un’isola chiamata Charis, che è seconda a chi dalla Spagna naviga verso l’India, e i cui abitanti son ritenuti feroci dalla gente finitima. Si cibano essi di carne umana, hanno più generi di biremi con cui si recano in tutte le isole dell’India; depredano e rubano tutto ciò che possono; non differiscono in nulla dagli altri fuorchè portano a mo’ delle femmine lunghi i capelli; si servono di archi e frecce di canna dove sono confisse, come dicemmo, delle aste acuminate, e perciò son ritenuti feroci ed incutono gran paura agli altri Indiani, ma io non li stimo niente più degli altri. Si congiungono con certe femmine che sole abitano l’isola Matinino, quella che appare prima a chi dalla Spagna naviga verso l’India. Queste femmine non fanno alcun lavoro proprio del loro sesso, trattano li archi e le frecce come più sopra si disse dei loro mariti, e si muniscono di piastre bronzee, di cui v’ha presso di loro grande abbondanza.

    Mi si assicura esservi un’altra isola maggiore della sopradetta Spagnuola. Ha gli abitanti che son privi di pelo, e sopra tutte le altre abbonda specialmente di oro. Porto meco uomini di quest’isola e delle altre da me visitate i quali faranno testimonianza di ciò che dissi.

    Finalmente per dir in breve dell’utilità della nostra partenza e del nostro sollecito ritorno, questo io prometto: che a’ nostri invittissimi Re, sol che mi accordino un po’ d’aiuto, io sarò per dare tant’oro quanto sarà lor necessario, e così pure tanti aromi, e seta e mastice, quanto se ne ritrova solamente presso Chio, tanto legno d’aloé e tanti servi idolatri, quanti ne vogliano le loro Maestà, e così pure rabarbaro e altre specie di aromi che io stimo abbiano trovato e siano per trovare quelli che lasciai nella rocca sunnominata, poichè in niun luogo dimorai più di quanto mi vi costrinsero i venti, fuorchè nel villaggio della Natività, dove provvidi a edificare la rocca e a far sì che tutto fosse ordinato e sicuro. Le quali cose, se sono pur grandissime e straordinarie, anche molto più lo sarebbero state se mi fosse stato dato avere maggior copia di navi. Grande certamente e mirabile è questo nè corrispondente ai nostri meriti, bensì alla santa fede della Cristianità, alla pietà e alla religione dei nostri Re, perchè ciò che l’umano intelletto non aveva potuto conseguire, ciò Dio concesse agli uomini. Però che Dio suole esaudire anche nelle cose impossibili i servi suoi che osservano i suoi precetti, come toccò a noi che abbiamo conseguito quanto fin qui parve impossibile a forze mortali: perchè se alcuno scrisse o disse alcun che di quest’isole, tutti lo fecero per ipotesi e congetture; nessuno asserì di averle vedute, onde sembrava quasi una favola.

    Dunque al Salvatore Signor nostro Gesù Cristo che ci fe’ il dono di tanta vittoria, rendiamo grazie che il Re e la Regina e i Principi e i loro regni felicissimi si sieno arricchiti di una nuova provincia di Cristiani. Si facciano processioni, si celebrino feste solenni, si ornino i templi di liete fronde, esulti Cristo in terra come in cielo, perchè volle che fossero salvate le anime di tanti popoli prima perdute. Rallegriamocene tanto per l’esaltazione della nostra fede come per l’incremento delle cose temporali, di cui non solamente la Spagna ma tutta la Cristianità sta per esser partecipe. Queste cose come furono compiute così furono brevemente narrate. Ed ora abbiti tu il mio saluto.

    Lisbona, il 14 marzo (1493)

    CRISTOFORO COLOMBO

    Ammiraglio della flotta dell’Oceano.

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    Colombo giovinetto, scultura di Giulio Monteverde situata a Genova, nel castello d'Albertis

          1. LETTERA a RAFAELE SAXIS sull’isole da lui scoperte

    (tratta da una stampa rarissima; 15 febbraio 1493).

    2. ALLA NUTRICE DEL PRINCIPE DON GIOVANNI

    venendo dall’Indie prigione (1500).

    3. ALL’AMBASCIADOR M. NICOLO’ ODERIGO

    (21 marzo 1502).

    4. AL RE E ALLA REGINA DI SPAGNA, giusta l’edizione

    del Morelli del 1810 (7 luglio 1503).

    5. AL DOTTOR M. NICOLO’ ODERIGO (27 dicembre 1504).

    Immagine che contiene schizzo, disegno, arte Descrizione generata automaticamente

    AVVERTENZA DEGLI EDITORI

    ___________

    I monumenti sono ai martiri della scienza e delle grandi scoperte quel che le messe alle anime del Purgatorio: un acceleramento della loro santificazione, a queste in Paradiso, all’altre nel Valhalla della memoria dei popoli pentiti, che, in tali occasioni, hanno graziose Valkirie a versar loro idromele e birra in copia; e con tanta soddisfazione che ei ricominciano a far nuovi martiri per aver nuove feste. Ecco Genova, ecco la città di Cardenas nell’isola di Cuba elevar monumenti a Colombo; la madre e la figlia a dir così, essendo Cuba per lui nata alla luce dell’incivilimento cristiano ed europeo. Dopo 370 anni la poetessa Avellaneda compose l’inno di suffragio allo spirito del grand’uomo, che è uno dei pochi a cui sian possibili e perdonabili le distrazioni in cielo, avendo quaggiù un mondo di suo, che va vincendo l’antico, come nella ricchezza, così nel furore e nella follia.

    E noi ancora, secondo la frase dei nostri muratori di civiltà, portiamo la nostra pietra all’edifizio, e pubblichiamo le sue lettere autografe, mandando loro innanzi un discorso, che crediamo valga facilmente assai più che i versi dell’Avellaneda, o di quanti altri poeti ed oratori si sgolano ad annegare nelle loro note il genio degli eroi. Che fanno qui queste cicale direbbe Colombo come Bruto nel Giulio Cesare di Shakspeare,

    What should the wars do with these jigging fools?

    le guerre della scienza e della vita eroica; ma crediamo che il severo profondamente poetico spirito di Colombo accetterebbe volentieri l’elogio che, al risorgere delle speranze italiane, gli tesseva in questa nobile città Cesare Correnti, invocante ad auspici e protettori tutti gli Dei della nostra patria.

    Cesare Correnti è una di quelle felici intelligenze, proprie d’Italia, che associano insieme mirabilmente la scienza e la poesia. Egli andò dietro a Colombo con l’intelligenza non diremo del vecchio Toscanelli, ma del grande Humboldt e con l’amore di Ferrando Colon, il figlio della cordovese, che Roselly de Lorgues con tanto affetto fa moglie legittima e nobile. Veduto e studiato ch’ebbe tutti i suoi andamenti e tutta la sua vita, egli, con piena dottrina ed efficace eloquenza modellò e fuse [p. ix modifica]l’imagine a cui invidieranno i Piquer e i Morell di Cardenas e la valente schiera di Genova.

    Meglio ancora che la parola inspirata del Correnti, varrà la voce stessa di Colombo raccolta nelle sue lettere che noi pubblichiamo. La prima a Raffaele Saxis è come nuova, per gli studj postivi in nostro favore dall’egregio signor Francesco Longhena e dal valente paleografo Antonio Ponzio, i quali in un sugoso e ben dedotto proemio ne dan notizia. La seconda, la terza, e la quinta le traemmo dal Codice-Colombo-americano (Genova, Ponthenier, 1823), seguendo in tutto il lavoro del dotto editore Gio. Battista Spotorno.

    La quarta lettera fu per noi tratta dalla edizione Remondiniana di Bassano 1810, procurata dal cav. ab. Morelli, già bibliotecario regio in Venezia. È scritta al re di Spagna Ferdinando V e alla regina Isabella, dalla Giamaica addì 7 luglio 1503, e fu stampata in spagnuolo e in italiano; ma era rimasta occulta ai principali scrittori moderni intorno al Colombo, finchè un esemplare dell’edizione italiana diede in mano al Morelli, che ne discorre così: "È il volumetto composto di carte otto, l’ultima delle quali da ambe le facce è vuota, in forma di quarto, in carattere semigotico, come dire si suole, e porta a guisa di frontispizio questo titolo: Copia de [p. x modifica]la Lettera per Columbo mandata a li Serenissimi Re et Regina di Spagna: de le insule et luoghi per lui trouate. Nel rovescio della carta che questo titolo contiene la seguente lettera dedicatoria del traduttore si legge; la quale secondo la scrittura originale, onde serva di saggio del testo, do ricopiata:

    Constantio Bayuera Bressano

    Al Magnifico et Clarissimo Francesco

    Bragadeno Podesta di Bressa S.

    Alli anni proximi passati mentre io era in Spagna: tra le altre cose admirande che alli tempi nostri sono trouate: intesi anchora de la nauigatione de Columbo Vice Re di Spagna et gouernatore de le insule Indie per lui nouamente trouate per una lettera per lui andata alle Sacra Maiesta del Re et de la Regina de Spagna. La quale lettera per le cose mirabile che in essa se contengono hauendo io traducta de Hispana in nostra Italica lengua: et uolendola pubblicare sì per seruirne alchuni miei amici: che cum grande instantia me la domandauno: como anchora per fare cosa grata a tutti quelli che sono desiderosi de cose noue: et degne da essere lecte et sapute: l’ho dedicata a tua Magnificentia la quale scio se delecte de historie degne: et presertim noue: quale questa, marauigliosa et inaudita. Poi anchora per monstrarli lamore mio et seruitu in epsa si per li beneficii soi in me como per le grande uirtute: de quale e ornatissima. Quale historia se piu longa fosse: piu uolentieri l harei a tua Magnificentia dedicata. Ma siami licito excusarmi con quello dicto. Verum et Diis lacte rustici: multaeque gentes supplicant: et mola tantum salsa litant; qui non habent thura. Vale.

    Viene poi la lettera del Colombo con quel medesimo titolo, che nella presente ristampa v’è premesso, e nel fine questa data si trova: Stampata in Venetia (a nome de Constantio Bayuera citadino di Bressa) per Simone de Louere. a di 7 di Mazo. 1505. cum priuilegio. E finalmente intorno al titolo, che in quella stampa la lettera porta, s’aggiunge così: Aduerte lectore a non legere Columbo Vice Re di Spagna: ma legerai solum Vice Re de le insule Indie".

    Questa lettera è importantissima imperocchè, dice il Morelli: a conoscere l’epoche della vita del Colombo, e le vicende di essa, a meglio intendere le sue teorie e opinioni cosmografiche, le pratiche di navigazione che teneva, la maniera di suo pensare in fatto di religione e di vari altri soggetti, e a più precisamente sapere ciò che risguarda l’ultimo viaggio, da lui fatto negli anni 1502 e 1503, lumi particolari e notizie di osservazione degnissime schiettamente e nella più autentica forma ne presenta.

    Rispetto al modo tenuto dal Morelli nel ristamparla, egli dice: Io ne ho solamente ridotto il testo ad ortografia, non facendovi cambiamento d’importanza, nè alterandovi frasi o voci: li nomi propri, i quali nelle vecchie scritture vogliono ritenersi assolutamente, ho ricopiati; e così pure le date dei tempi, o con le lettere o con li numeri arabici, come nella prima stampa trovavansi, affinchè di qual peso essere possano meglio si vegga, ho riprodotte: in somma, non facendo mai cambiamento nella sintassi, ho tolta soltanto alla dicitura quella rozzezza ch’ella seco portava, e di cui una mostra nella Lettera di dedicazione ognuno vede.

    Noi seguimmo il Morelli nella grafia. Delle sue annotazioni trasceglieremo o smembrammo il meglio; vale a dire quanto serviva all’illustrazione del testo, non ad erudizione curiosa e più remota da quello.

    Pochi scritti, come le lettere del Colombo, ci fanno figger lo sguardo nel processo creativo dello spirito che, secondo la mirabil parola di Milton, cova il vasto abisso. Si vede l’idea a cui la fede è l’amianto che le fa sfidare le fiamme delle persecuzioni. Si sente il dolore del grande intelletto, che crea gemendo e consolando.

    Fernando, figlio di Colombo, cercò nel nome del padre i prognostici della sua vocazione e grandezza. Cristoforo; il nome del santo che porta Cristo a traverso l’acqua; ei pianta la croce al di là dell’Atlantico; Colombo; la Colomba dell’arca; ubbie raccolte e comentate dal cattolico Roselly de Lorgues. Ma il fatto è che questo nome non ebbe fortuna. Amerigo nomina l’America, e tardi, tardi assai, una parte fu detta Colombia. I poemi fatti sotto l’invocazione del suo nome non attecchirono, dall’invido Stigliani all’elegante Costa; gli scritti pieni del suo spirito, di Chateubriand, di Humboldt, riuscirono maravigliosi.

    Di questo Fernando noi vogliamo un giorno ristampar la vita che scrisse piamente del padre, e che tanti hanno posto a sacco, senza poterla render inutile. Egli fu il parelio del padre, e piace vedergli intorno tal luce.

    Il 12 luglio 1536 morì in questa città (di Siviglia) Fernando Colon figlio dell’ammiraglio Cristoforo Colombo, personaggio insigne per le sue alte qualità e pel suo sommo valore nell’armi e nelle lettere. Egli era nato a Cordova da madre nobile; suo padre essendo rimasto vedovo il 29 agosto 1487, secondo resulta dai documenti di cui la nostra santa Chiesa conserva gli originali, egli fu, nella sua prima giovinezza; paggio della regina cattolica, donna Isabella, e poi del principe don Giovanni. Egli seguì parecchie volte suo padre e suo fratello, l’ammiraglio don Diego, nelle Indie, ove patirono crude fortune, e dipoi passò con l’imperatore in Italia, in Fiandra ed in Allemagna. Nel corso di questi viaggi e d’alcuni altri che imprese di per sè egli percorse tutta l’Europa ed una gran parte dell’Asia e dell’Africa, s’arricchì di sapere e di bei libri, di cui raccolse più di ventimila elettissimi in questa città ove trapassò quietamente gli ultimi anni della sua vita.

    Così lasciò scritto nelle sue famose cronache di Siviglia Ortiz di Zuniga, citato da Antonio di Latour, nei suoi Studj sulla Spagna (Parigi, 1855), ove descrive la biblioteca colombana e il sepolcro del suo fondatore con vivacità francese.

    "Un giorno, egli dice, che io attraversava la cattedrale, vidi dietro al coro una larga lastra di marmo. Da ciascuna parte di questa tomba vi era un’altra lastra più piccola, sulla quale era sculta una galea coi suoi rematori.... Sul marmo di mezzo si scorgeva un globo terrestre intorno al quale si leggevano due versi spagnuoli che dicevano: Ai re di Castiglia e di Leone, Colombo diede un nuovo mondo. Dubitai un istante calcar le ceneri dell’eroe. Ma presto mi ricordai che Cristoforo Colombo, morto a Valladolid l’8 maggio 1506, era stato sepolto a San-Domingo, donde la sua salma era passata all’Avana. Un’iscrizione spagnuola posta sotto alla sfera m’insegnò subito che il sepolto era il figlio di Cristoforo, don Fernando Colon. Alcuni distici latini sculti al piè della pietra composti dal medesimo Fernando dicon così:

    Aspice quid prodest totum sudasse per orbem

    Atque orbem patris ter peragrasse meum,

    Quid placidi Bœtis ripam finxisse decoram,

    Divitias genium post habuisse meum,

    Ut tibi Castalii reserarem numina fontis

    Offerremque simul quas Ptolemeus opes,

    Si tenui saltem transcurrens murmure saxum

    Nec patri salve, nec mihi dicis ave?

    È da leggere nel Latour tutto il capitolo della Biblioteca. Egli vide un trattato di astronomia e cosmografia, composto da un cardinale, maestro di Gerson. Questo libro era stato di Cristoforo Colombo, che l’avea coperto di note marginali scritte con mano ferma e carattere minutissimo. La parte cosmografica e geografica era gremita di comentarj e rettificazioni, più rade nella parte teologica ed astrologica. Fa stupore la vasta erudizione di Colombo. Tutte le sue postille sono indicazioni sicure, dotte rettificazioni, osservazioni delicate. A capo al libro è una nota di mano di Washington Irving. Vide poi il Latour quello scartafaccio scritto di mano di Colombo di tutte le profezie ch’egli aveva raccolto dalle Sacre Scritture e dagli autori profani intorno alla scoperta ch’egli volgeva nell’animo.

    Notevole è questo attenersi dei nuovi edificatori agli addentellati del passato, e specialmente alla parola, che l’avvenire più che l’autorità erge ed illumina a profezia. Nel medio evo non bastarono più i passi, per quanto talora fossero stiracchiati, delle sacre carte, già raccolti dagli evangelisti per chiarire la missione di Cristo, che non aveva bisogno di tali aiuti, ma si misero a sacco tutti i libri e tutti i vaneggiamenti profani dell’antichità. Così Colombo afferrò i presagj degli antichi, ovecchè gli venissero a mano; e ne avvalorò l’idea della sua missione, e forse abbagliarono assai più certi suoi avversarj che le sue induzioni e ragioni non li convincessero.

    E Fernando Colombo notava in margine a quel passo di Seneca il tragico, che presagiva un nuovo mondo, che questa profezia era stata compita dal padre il 12 ottobre 1492. Non veni solvere, sed adimplere.

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    Cristoforo Colombo

    Cesare Correnti

    1863

    CRISTOFORO COLOMBO

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    Spesso, lettori, avrete voi pure pensato, maravigliando e dubitando, a quella contraddizione di giudizii singolarissima, per cui l’Italia talora è celebrata come maestra antica e naturale d’ogni civiltà, e talora compianta come immedicabilmente fantastica e destinata, per le blandizie del suo cielo, per la diversità de’ suoi popoli, e per la sua stessa disadatta giacitura, a lunghi ozii e a dissidj perpetui. E mentre v’ha chi ci grida stirpi dilombate ed anime svampate quasi sotto la sferza del sole meridionale, altri ci decreta pur tuttavia risolutamente l’universale primato, infeudatoci fin dai Pelasgi, dagli Etruschi e da Roma. E, a dir vero, la stessa provvidenza educatrice, con qual consiglio lo potranno forse argomentare i venturi, lasciò che su questa terra fatale si versasse luce più ardente, più varia e di più cieche tenebre avvicendata. Di che la tanta diversità dei giudizii e il trapassar facilmente dall’orgoglio alla viltà, anzi il congiungere le miserie dell’uno colle miserie dell’altra; e il rassegnarsi disprezzando, come di chi abbia vita immortale e non curi il tempo presente più che un’ombra fuggevole; e l’intricare ogni concetto con lungo strascico di memorie e con remotissime previsioni dell’avvenire. Codesto vacillamento di vasti e indeterminati pensieri toglie fermezza all’ingegno e nerbo alla volontà e ci fa andar curvi ed invecchiati sotto il peso delle famose ruine. E quando sento taluni, che non solo vorrebbero rivendicarci, come preziosa e vivente eredità, la superbia per cui Roma fu grande e odiata, ma che pur vanno ristuzzicando colla storia passioni e diseppellendo nomi di parte, su cui da cinque secoli pesa la maledizione dell’Alighieri e la condanna della seguace sciagura, m’addolora il dubbio, che i popoli per ringiovanire abbiano bisogno, come per le anime immaginava Pitagora, di bere il provvido oblio. — Ma poi m’assicura il pensare, che davanti alla storia vera si dissiperanno codeste storiche mitologie; le quali vorrebbero ricondurci, senza la scusa dell’inesperienza, alle illusioni per cui gli avi nostri credevansi solo popolo civile, e condannavano di barbarie la robusta, snella e semplice gioventù d’altre genti. E perchè codeste teorie, che, capo volgendo l’ordine della tradizione, sovrappongono il passato al presente, e codeste letargiche lusinghe di un’arcana predestinazione, le quali perturbano ogni ragione storica, di niun’altra cosa più volentieri si giovano, che della memoria degli uomini miracolosi, per rispetto ai quali l’Europa tiene ancora in qualche onore il nome italiano; è a desiderarsi che il culto de’ nostri genii si riduca a ragionevole ossequio, ed offra piuttosto esempi imitabili a tutti, che argomento di puerile e scoraggiata meraviglia o di misteriose speranze.

    Certo intorno alla storia di sommi Italiani assai bene potrebbe ordinarsi la storia dell’italiana civiltà; e ne parrebbe forse più viva, più vera, più popolare; e nel cercare come e perchè ci crebbero que’ gloriosi, si risponderebbe assai opportunamente a chi vitupera la natura o gli uomini d’Italia; nel cercare come e perchè quasi tutti i nostri genii vissero infelici, profughi, irosi a’ loro tempi, pietosi indarno a’ tempi venturi, si assennerebbero coloro, che a far risorgere le glorie antiche, non temono tornare agli antichi errori. Fu destino d’Italia, che le sue glorie uscissero dalle sue sciagure: poichè quella strana complicazione d’opinioni e di forze, che nel medio evo l’aveva fatta riboccante di molteplice vita o infelicemente feconda di popoli diversi e sobbarcati alla mole di tutto l’edificio feudale e clericale della Cristianità, e sbranata dalle ambizioni, che altrove furono provvidamente unificatrici, e sviata ad ogni tratto da venerabili memorie, e assottigliata da intempestivi presentimenti, quella strana complicazione medesima, e le pressure dolorose che la accompagnarono, accesero le anime straordinarie, le quali si levarono su quelle età, come da tizzo tormentato per forza interna di fuoco e per forza esterna, che lo percuota, sprizzano roventi e impetuose le faville. Niuna nazione ebbe vita positiva più convulsa e confusa, niuna ebbe più libera e splendida la vita ideale. Lo sforzo vario e la lotta serrata di tante avverse attitudini non potendo spiegarsi nei fatti, si sviluppò ne’ grandi uomini, ciascuno de’ quali appar quasi una personificazione monumentale delle grandi idee, che nacquero tutte insieme, forti, armate, implacabili, e tutte si consunsero in una guerra mortale. Ma una gloriosa famiglia di esuli, di solitarii e di veggenti, uscendo dal tumulto delle feroci e pur troppo necessarie discordie, e purificando col pensiero quella ricchezza di passioni e d’energia, che nell’infanda lotta doveva profondersi indarno, vengono incontro all’avvenire a cercarvi la patria e la verità! E intorno ad essi, che furono la coscienza de’ loro tempi, naturalmente si ordina, meglio forse che intorno ai disgregati municipii ed alle instabili famiglie signorili, tutto il processo della storia italica; intorno ad essi rivivono le forti e irrequiete generazioni, che li educarono e li addolorarono; rivive quella lunga catena d’uomini oscuri, pei quali lo studio ebbe poche consolazioni d’onore, e che nondimeno durarono faticando, sperando e preparando, quasi con paterna compiacenza, le splendide vie al presentilo genio. Ond’è che la sua grandezza più non apparirà un isolato miracolo, e alla luce ch’egli diffonde scopriremo i beneficii e le glorie di quelle vite operose e segrete, che serbano la magnanimità anche nella modestia dell’ingegno e della fortuna. E forse avverrà, che i moltissimi i quali mai non pensarono, o già disperarono di ottener pregio di rara fama, piglino da ciò conforto agli alti desiderii e ai degni amori, pensando che solo alle generazioni magnanime concede Iddio d’operare i grandi falli e di produrre non indarno i grandi uomini.

    I.

    Cristoforo Colombo, fin oltre il cinquantesimo anno di sua vita, fu oscuramente grande. In qual terra d’Italia nascesse, e di che famiglia, e in qual anno, ancor oggi n’è disputa, come già vivente il suo figlio e biografo Fernando. Marinaio, mercatante, soldato, corsaro fors’anco; appena può congetturarsi quel ch’egli abbia fallo prima che l’Europa attonita imparasse a salutarlo trovatore d’un mondo; e all’Italia divenne tanto straniero, che mutò nome; e i contemporanei gli furono tanto lungamente restii e schernevoli, che la sua scoperta parve rivelazione celeste, la sua fermezza miracolo: anzi egli stesso venne a credersi divinamente ispirato. E nondimeno la sua grande idea altro non era che una semplice ed innegabile conseguenza delle cognizioni scientifiche d’allora; e nondimeno dalle lunghe tradizioni mercantili, politiche e letterarie d’Italia prese movenza e colore il suo genio; e nondimeno il carattere e le passioni e gli errori stessi di lui fanno un mirabile riscontro a’ suoi tempi. Le quali tre rispondenze della scienza, delle tradizioni nazionali e degli avvenimenti nell’animo di Colombo, io qui verrò divisando, come lo stanco ingegno e la fretta degli studi e la vostra pazienza me lo concederanno.

    Tanta poesia ha in sè il nome solo di Cristoforo Colombo; di tante rivoluzioni e nelle idee e nei fatti è grave questa parola: nuovo mondo; che non è meraviglia se ogni minima circostanza di sì gran fatto venisse cercata con amorosa trepidazione. Il momento in cui per la prima volta balenò allo spirito umano la stupenda speranza; il dì in cui le navi salparono al mirabile viaggio; le parole, i sussurri, i terrori della ciurma attenta ai segni ed agli augurii che inasprivano calmavano le ansietà di sì lunga incertezza; il nome del marinaio, che primo vide e salutò la nuova spiaggia; tutto infine questo dramma straordinario, che segna uno de’ più solenni momenti nella vita dell’uman genere, attrae il pensiero con invincibile incantesimo. E però la tradizione (come suole de’ più grandi avvenimenti, che divengono quasi parte della storia di tutte le anime) seguì passo passo Colombo, e si piacque delle scene ove più vivo risalta il contrasto fra la ragione passionata, serena, incrollabile di cotesto

    Nudo nocchier promettitor di regni;

    e la frivola incredulità della plebe, la schernevole burbanza de’ cortigiani e dei dottori, la tranquilla ingratitudine dei regnanti.

    Se la poesia e la tradizione, fedeli alla grandezza ed alla sventura, predilessero Colombo, e pigliarono vendetta dei suoi contemporanei, non così l’erudizione, cavillosa e fredda notomizzatrice di frasi. L’orgoglio nazionale e il puntiglio di scoprir cose da altri non avvisate (e in ciò gli eruditi spesso sono più inventivi de’ romanzieri) fecero strazio della gloria di Colombo. Ogni nazione volle avere il suo scopritore dell’America, ogni frugatore di vecchi in-foglio volle scrivere il suo capitoletto de orbe novo non novo. Appena aveva chiusi gli occhi il grande Ammiraglio, che il fisco reale d’Aragona mosse lunga contesa a suo figlio don Diego, impugnandogli il premio della paterna scoperta. Poco dopo i Veneziani trassero fuori i Zeni; poscia i Tedeschi l’astronomo di Norimberga Martino Behaim, i Polacchi Scolny, la Danimarca i suoi vecchi corsari, che sin dal mille avevano forse toccata qualche spiaggia dell’America settentrionale; e testè anche la Francia scovò un nuovo rivale a Colombo, il dieppese Cousin. Nè meno studiosamente si assottigliò la più grave e barbata erudizione per discoprire un’America nei libri. Citano gli adoratori dei classici l’Atlantide di Platone, il continente Saturnio di Plutarco, la Meropide di Teopompo, la grand’isola occidentale che Diodoro Siculo ed il pseudo Aristotile fanno trovata dai Fenicj o dai Cartaginesi. Gli studiosi delle cronache del medio evo parlano di terre transatlantiche, che le tradizioni vagamente ricordano, e che talora veggonsi figurate sulle vecchie carte geografiche; le isole di Satanasso, di S. Brandano, delle Sette città, la Stokafixia, e perfino l’Antilia, perfino il Brasile. Né mancarono altre difficoltà nel giudicare il merito di Colombo, ostinandosi alcuni a credere che il fiorentino Americo Vespucci prima di lui toccasse la terra ferma, e però meritamente le desse il nome; altri recando la lode del primo viaggio all’ardimento de’ piloti baschi, che accompagnarono Colombo: tutti infine, quasi compiacendosi di ripetere come un bel concetto; essersi l’America trovata a caso, anzi doversi la più grande delle scoperte ad un felice errore.

    Così una fortuna stranamente varia, l’invidia dei rivali, il sospetto de’ potenti e una scusabile gara di patria carità — se mai può usurpare questo sacro nome chi piglia l’amore a pretesto d’ingiustizia — circondarono di lustre fallaci e sparsero di ombre favorevoli alla poesia ed alle sofisticherie erudite, la storia di quest’uomo, che tutti vorrebbero conoscere come un amico, col quale, almeno per mezzo della fantasia, tutti vorrebbero convivere.

    Ma qui non vogliamo fare la storia degli errori che corsero intorno a Colombo. Basterà dire che il Tiraboschi, uomo di quella incontentabile diligenza che ognun sa, nella sua Storia della Letteratura Italiana, parlando di Colombo, incappò anch’esso in errori non lievi; segno, che allora erano quasi inevitabili. Ma dopo che per opera dello Ximenes, del Zurla, del Baldelli, dello Spotorno e del Sauli si cominciò a meglio conoscere lo stato della geografia e della nautica italiana durante il XIV ed il successivo secolo; dopo che per cura dei Decurioni di Genova fu stampato il Codice Colombo-Americano (1823); dopo che Munoz e Navarette ebbero pubblicati i documenti che giacevano negli archivj spagnuoli, la critica ne divenne più sicura, e crebbero argomenti a giustificare la fortuna e la gloria di Colombo. Washington-Irving potè su questi nuovi studj compiere la sua bella istoria, l’unica non indegna dell’argomento; sebbene per ambizione di popolarità trascorra forse troppo leggermente sul processo mentale della scoperta. Questo processo ebbe la coraggiosa pazienza di seguirlo Alessandro Humboldt nella sua celebratissima opera Sulla Storia della Geografia del Nuovo Continente; la quale risplende [p. 10 modifica]non solo per eletta e inesauribile erudizione, ma ancora per quella poesia della realtà, ottimo antidoto alle esagerazioni rettoriche e ai giuochi di figure, che fanno paralitica la letteratura dei popoli e degli uomini oziosi. Anche Henry Martin diede un ottimo saggio di critica filosofica nei suoi commentarii sul Timeo di Platone, esaminandovi la più famosa tradizione geografica dell’Antichità, quella dell’Atlantide, e mostrando come da essa non abbia potuto Colombo trarre indizio e incoraggiamento alcuno alla sua impresa. Ma le ricerche del Martin troncano un solo nodo della molteplice controversia; e gli studii dell’Humboldt procedono impacciati quasi dalla loro ricchezza medesima, come quelli che seguono compiacentemente tutte le ambagi di una svariatissima erudizione: sicchè non è senza difficoltà, nè senza fatica, che si possa ritrovare il filo delle idee in siffatto labirinto.

    Forse per questo ci avvenne di vedere, anche in opere pregevoli e recenti, ripetuti antichi e volgari errori; fra i quali piacemi ricordare ad esempio quella favola di una statua equestre che i primi navigatori portoghesi trovarono sul lido di Madera col braccio teso, quasi ad invito, verso le plaghe occidentali; monumento misterioso di cui parla ancora il Villemain nelle sue lezioni sulla Letteratura del medio evo, benchè si sappia che niun’altra origine ebbe quella marinaresca tradizione se non una certa rupe fantasticamente stagliata e sporgente sul mare. Ma di queste minute circostanze e, quasi direi, curiosità della vita di Colombo, non mette conto parlare. Il dramma, a cui vorrei farvi assistere, è quello delle idee, che, come germi nascosi, passano d’età in età, favorite talora dalle stesse alterazioni che vi porta l’ignoranza, finchè nuovi bisogni e nuovi tempi le svolgano e le fecondino. Epperò, lasciate da un canto le narrazioni ricche di tante poetiche circostanze che aiuterebbero la più povera eloquenza, io toccherò prima la genesi della divinazione colombiana.

    II.

    Riviviamo, o signori, colla fantasia nell’anno 1470, quando Colombo, oscuro avventuriero di mare, veniva a Lisbona.

    I Portoghesi, schiacciati tra il mar Atlantico e la Spagna, aveano da 60 anni intrapreso con magnanima pertinacia di conquistare l’impero dell’Oceano, tragittarsi, girando l’Africa, alle Indie, e tirare per tal modo a sé i commerci delle spezierie, che da quattro secoli stavano in mano degli Italiani. Avevano da principio sperato di trovare poc’oltre la spiaggia Mauritana il mare equatoriale, che, secondo i cosmografi antichi, spartiva le due zone temperate: e sostennero quella speranza, voltando faticosamente i tempestosi promontorii, che fanno irta quell’inospite riviera, finché s’accorsero che al di là della Guinea continuava terra dritto verso mezzodì, senza indizio d’alcun passaggio all’Oceano indiano. Onde sembra che per alcun tempo cadessero di animo. In questo appunto Colombo fu a Lisbona. Accasatosi colla figlia d’un navigatore italiano che avea tenuto il governo di Porto-Santo, una delle Canarie, spesso stanziò in quell’isola allora dell’estremo Occidente. Di là potè vedere e sperimentare come lunga e perigliosa riuscisse la navigazione rasente l’Africa: là in faccia all’Atlantico inesplorato pensò pel primo il semplicissimo pensiero che quelle vaste acque dovevano stendersi fino ad un’opposta sponda; forse fino alle Indie. Ammessa la sfericità della terra, nulla di più naturale. Le Indie e specialmente le Isole delle Spezierie credevansi poste all’estremo Oriente: Colombo trovavasi sull’estremo lembo dell’Occidente. Ora non è egli evidente che due punti presi su un cerchio, quanto più s’allontanano da una parte, tanto più s’avvicinano dall’altra, finché, giunti all’estremo, si toccano e si confondano? Da quest’idea semplicissima, elementare, accessibile anche ad un’intelligenza puerile, partì l’uomo che dovea fare la più grande delle scoperte. E questo appunto ci spiega la lucidità e l’irremovibile fermezza del suo genio. Nella sicurezza della base teorica, nel concorso di fine e ripetute osservazioni, nel consenso di tutti i geografi, che allora avevano autorità, sta il segreto della sua ostinazione. No: né i visionarii, né i caparbiì non potranno invocare l’esempio di Colombo; perocché egli sentiva di essere null’altro che la conseguenza delle premesse, confessate da tutti i suoi avversarli. Infatti già da 1800 anni i filosofi greci avevano dimostrata la rotondità della terra. Nessuno, fuor di pochi teologastri, contraddiceva i maestri della scolastica. Alberto Magno, san Tommaso, gli Arabi consentivano cogli antichi; e nondimeno si continuava a parlare del lontanissimo Oriente come di un punto immobile ed estremo della terra. — L’Europa, credendosi confinata all’ultima plaga del mondo abitabile sotto il povero cielo settentrionale, teneva fissi gli occhi nel suo Oriente, alla terra del sole, dell’oro e delle spezie, cercando sguisciarvi rimpicciolita, supplichevole, tributaria traverso la Siria, l’Egitto, la Persia e la Tartaria, tenute da popoli barbari, potenti e irreconciliabili ai Cristiani. Colombo solo si rivolge all’Occidente, e grida: là è l’Oriente estremo; quest’essa è una nuova via per le Indie. Buscar el levante por el ponente! Voltar le spalle alla meta e far cammino a ritroso! Ben è dritto se lo schernivano i popoli, se lo inseguivano per via i fanciulli gridando al pazzo (El loco, el loco!) Buscar el levante por el ponente! Nondimeno chi oserà dire che la scienza d’allora, che lo stesso volgare buon senso potessero trovar qualche ragione, qualche apparenza di ragione da opporre alla dimostrazione geometrica di Colombo?

    Ma fra l’una e l’altra terra, fra l’ultima regione orientale e l’ultima occidentale, s’interpone un mare ignoto, fino a quei giorni intentato, forse immenso, forse innavigabile. Ecco l’altra parte della quistione. A scioglier la quale non può negarsi che entrassero errori, come altri vollero chiamarli, fortunati; ma Colombo non vi mise di suo, che la limpida perspicacia, la fermezza logica e lo spirito di osservazione. Consultate gli antichi; l’India secondo essi tanto era vasta che quattro mesi di cammino appena bastavano a traversarla (Nearco) e teneva certo una metà dell’Asia (Ctesia) e forse la terza parte di tutta la sfera (Onesecrito: Plinio). Guardate la geografia e il mappamondo di Tolomeo; l’India stendesi fino al limite orientale del nostro emisfero, né ancora se ne trovano segnati i lidi estremi. A questa sconfinata grandezza aggiungevano presunzione di grandezza maggiore le notizie che gli Arabi, i Missionarii cattolici, i mercanti viaggiatori aveano diffuse sulle meraviglie del prete Janni e sull’impero del Gran Kan che regna i cento re dell’Oriente. S’aggiungevano i racconti sull’immensa estensione e popolazione del Cataï, non creduti a Marco Polo, ma che allora ripetuti e confermati da molti altri, non si potevano più volgere in ischerno. Ora ben oltre quel vastissimo paese (che teneva la parte più orientale del continente e non si trovando nella geografia e sulle carte di Tolomeo abbraccianti tutto il nostro emisfero, doveva supporsi proteso nell'emisfero emisfero opposto) correva sicura fama che giacesse sempre più verso Oriente la vasta isola del Cipango; e più in là ancora e però sempre più vicine all’Occidentale Europa altre isole disperse per grande spazio di mare, delle quali si conoscevano anche i nomi (Java maior, Java minor, Angava, Candia). Se a tutto ciò s’aggiunga, che i calcoli degli arabi astronomi, adottati da’ più autorevoli cosmografi cristiani, facevano la circonferenza della terra minore un migliaio di miglia della misura assegnatale da Tolomeo, si vedrà come tutta la scienza del tempo necessariamente portasse alla persuasione, che le terre incognite dell’India e le sue isole più orientali doveano protendersi di contro all’Occidente fino ai mari, dove Colombo credeva trovarle e dove invece giacciono le Antille.

    Rinfiancava Colombo codeste ragioni ed autorità colle osservazioni ch’egli stesso aveva raccolte ne’ suoi lunghi viaggi dall’Islanda alla Guinea. Gl’isolani delle Azore gli aveano narrato che le correnti pelagiche, venute dall’ovest, gettavano spesso al lido tronchi d’alberi ignoti e canne gigantesche e cadaveri d’ uomini che a nessuna razza europea od africana sembravano appartenere: che alcuna volte, portate dalla forza di tempi avversi, navi di forma strana s’eran viste errare per le acque dell’Atlantico; che altre volte in alto mare, soffiando ponente, eransi pescati frammenti di legno lavorati ad arte, e a quanto pareva, senza ministero di ferro. Altri indizii studiosamente ravvicinava Colombo; e notò il nome di molti piloti, che il caso o la curiosità aveva spinto più dentro mare; e non ignorò che a settentrione, più in là dell’Islanda, giacevano altre terre; e fin delle tradizioni popolari tenne conto e de’ varii tentativi e delle allucinazioni. Parranno minuzie: ma di minuzie vive l’osservazione; la quale tanto più è da lodarsi, quanto più piccoli od ovvii sono i fatti da cui trasse conseguenze grandi e inaspettate.

    Cognizione perfetta dei materiali preesistenti, induzione sicura ed irrecusabile, conferma di numerosi indizii sperimentali, ecco gli elementi della grande ipotesi di Colombo che può servire di modello a tutte l’altre ipotesi scientifiche e pratiche. Perciò non parve indegno di molto studio il seguire la serie de’ pensieri di Colombo anche nelle più riposte loro particolarità; e l’Humboldt con influita pazienza scese fino a precisare le edizioni dei libri che Colombo debbe aver consultati; ma né il tempo né il luogo concederebbero a me di seguire le traccie di cotesta alemanna scrupolosità. Nondimeno accennerò sorvolando le opinioni che correvano tra i geografi sulla distribuzione e sulla forma della terra e dei mari. Il che varrà a spiegare le fallaci analogie che traviarono molti eruditi, e ingossarono d’inutili dubbii la storia della scoperta dell’America.

    I Greci, nell’età poetica, immaginarono la terra circolare come l’Orizzonte visibile, e stesa in piano come anche oggidì appare ai sensi; e fantasticarono che le girasse d’intorno l’Oceano, fiume o mare o sorgente di mari che lo credessero. Al di là poi collocavano una terra che tutto abbracciava l’Oceano, la quale perciò ebbe nome di continente, nome, che ancora oggi si conserva, con manifesta contraddizione, alle due più vaste isole del globo. A questa vetusta e mitica geografia appartengono quei continenti transoceanici di cui parlano Platone, Plutarco e Teopompo. Ma quando prevalse nelle scuole greche la dottrina della sfericità della terra, alla quale condusse irresistibilmente il diverso aspetto del cielo nelle diverse regioni, e l’osservazione comparativa del nascere e del tramontare degli astri, si cominciò a pensare che l’azione del sole distribuita simmetricamente sulla sfera terraquea dovesse produrre anche nell’emisfero opposto le stesse vicende di stagione e di clima, che presenta l’emisperio da noi abitato: cosicché il globo veniva ad essere diviso in due parti, l’australe e il boreale, dalla zona mediana dell’equatore, intransitabile agli uomini per la soverchia calura. Onde l’alter orbis di molti antichi scrittori, e il loro mondo degli antipodi, non si ha mai ad intendere, come molti hanno fatto, per l’America: ma sibbene per la zona temperata posta al di là degli ardori equinoziali. Perocché gli antichi non conoscendo per esperienza più che l’ottava parte della spera procedevano con ipotesi arrischiatissime; fra le quali è singolare quella di Macrobio che, sviluppando l’idea simmetrica delle zone, suppone la terra quadrifida, o distribuita in quattro gruppi; il che si trova essere pressoché conforme al vero.

    Marino da Tiro e Tolomeo invece, preoccupati forse dall’ antica tradizione del continente mitologico, inclinano a mutare in seno chiuso e mediterraneo ogni mare e a supporre negli spazii inesplorati vaste estensioni di terra. Per altra via tornarono alle fantasie dell’età poetica i primi scrittori cristiani: i quali combatterono l’idea del doppio emispero e delle due zone divise ed incomunicabili perchè offendeva il dogma dell’unità del genere umano: ma poi trascendendo, avvolsero nella medesima riprovazione la teoria della sfericità della terra, si rappresentarono il mondo colle idee infantili, immaginando un piano rettangolare cinto tutto intorno dai mari, e al di là di esso il Paradiso terrestre; e infine una gran muraglia che sorreggesse la solida vôlta del firmamento. Appena si crederebbe che lo spirito umano abbia potuto, dopo Aristotile e Strabone, tornare a tanta ignoranza. Ma veramente i due che ora nominammo, seppero per forza di buon senso tenersi lontani da ogni errore sistematico; e credettero il mare uno, vastissimo, circonfuso intorno alle terre. Strabone aveva anche mirabilmente preveduto l’esistenza o almeno la possibilità dell’America. «In questa zona temperata, dic’egli, che è nell’emisfero boreale oltre la terra che abitiamo, vi potrebb’essere un’altra terra, principalmente vicino al circolo che passa per Tine ed il mare Atlantico.» Davvero è forza convenire che Strabone nella sua ipotesi riesce assai più preciso di Colombo, perocchè egli aveva preveduta la grand’isola americana. Ma che perciò? . . . . . Il letterato dei tempi d’Augusto soggiunge subito dopo con profonda indifferenza: «Codeste ricerche nulla hanno a fare colla geografia positiva; e se pur quest’altre isole vi sono, non potrebbero nutrire popoli della nostra stessa origine, e si avrebbero a guardare come un altro mondo.»

    Il mondo che Strabone abbandona. Colombo lo raccolse: perchè non basta indovinare la verità, non basta, quasi dissi, toccarla; bisogna amarla d’amore operoso, bisogna sopratutto venire a tempo. Che avrebbe fatto Augusto d’un nuovo mondo, egli che decretava non doversi più allargare i confini dell’impero? Ma nasceva a’ suoi giorni un’idea che aspirando al dominio di tutte le anime non doveva conoscere altri confini che i confini del mondo, altri interessi che gli interessi dell’umanità; e Colombo fu anch’esso apostolo di questa idea. «Veramente ei fu Colomba, dice suo figlio Ferdinando; poichè per grazia del Divino spirito scoperse il nuovo mondo e vi fece conoscere il Figliuol eletto di Dio che ivi non si conosceva; e portò sulle acque dell’Oceano l’ulivo e l’olio del battesimo per l’unione e la pace di quelle genti fino allora escluse dall’arca fraterna della Cristianità.»

    III.

    L’orizzonte del mondo antico era stato tracciato dalla spada d’Alessandro e di Cesare, i grandi geografi dell’antichità che piantarono le loro are vittoriose sull’Idaspe e sul Tamigi. Invece l’orizzonte del mondo cattolico non era sulla terra e nello spazio visibile, ma sì nel tempo che è lo spazio del pensiero.

    La disciplina evangelica nel suo primo sforzo ricacciò l’uomo nella coscienza e lo sforzò a vivere coll’anima sua. «Che m’importa, grida san Basilio, che m’importa sapere se la terra sia una sfera, un cilindro, un disco od una superficie concava? Questo m’importa sapere, com’ io debba vivere con me stesso, cogli altri uomini e con Dio.» Il pio eremita nella sua volontaria prigione non altro chiede che un breve pertugio da cui guardare il cielo; né però egli si condanna all’immobile indifferenza dell’ioughi indiano, e riempie la sua solitudine colla sottile, insistente, incontentabile analisi d’ogni moto del cuore. Ma poiché molti secoli di sforzi tremendi e di poetici soliloquii ebbero rifusa l’anima umana, il Cristianesimo, trasformata la barbarie e la schiavitù, uscì dall’epoca cenobitica e taumaturgica, ribenedisse la terra, riconsacrò le armi, la mercatura, la vita civile, la scienza e quella stessa antichità di cui prima avea atterrati i tempii e lacerati gelosamente i volumi. Allora, dopo un duro noviziato di dieci secoli, l’uomo trovandosi in pace colle sue idee, avrebbe voluto cristianificare la natura e ribattezzare la terra; e la vocazione dei missionarii, alleatasi senza ipocrisia coi sentimenti cavallereschi e mercantili, diventò la vocazione d’Enrico di Portogallo, la vocazione di Cristoforo Colombo.

    Nel XV secolo, secolo d’unità confidente e possente, la poesia, la religione, la scienza e l’economia, dandosi mano con giovanile baldanza, provocavano concordi cotesta forma novella d’eroismo e d’apostolato. Ma perchè mai l’uomo che i tempi invocavano non uscì da alcuna di quelle tante nazioni europee, adagiate lungo le acque atlantiche, ove i venti spesso portavano qualche arcano saluto del fraterno continente? Perchè mai fra tanti piloti portoghesi, baschi, normanni, venturieri audacissimi, non uno pensò, guardando il quotidiano spettacolo del sole declinante sulla solitudine dei mari occidentali, ch’ei portasse la luce

    A gente che di là forse l’aspetta?

    Perchè da un popolo per tradizioni, per interessi, per necessità geografica tutto volto a Levante, ed il cui cuore, quasi direbbesi, batteva a Costantinopoli, ad Alessandria, sul Tanai, perchè mai da un popolo educato alla navigazione mediterranea, ai guadagni pronti e sicuri, ci doveva venire chi mettesse l’anima e la vita per verificare un’ipotesi scientifica e tentare il problema del lontano Oceano, fecondo solo di paure? Perchè insomma fu Italiano lo scopritore del mondo occidentale?

    Io veramente sono lontano dal consentire cogli storici che in ogni fatto vedono la necessità, di molte cose parendomi arbitra quaggiù la fortuna, e di più molte la volontà, in virtù della quale il mondo della storia offre lo spettacolo d’una crescente creazione. Pure dell’essere stato italiano lo scopritore del nuovo mondo v’ha, se non m’inganno, una giusta cagione; perchè in Italia maturarono gli elementi del pensiero e della forza, per cui fu grande Colombo.

    Chi appena guardi le condizioni d’Italia nel XV secolo, sente che essa avea diritto di educare il vincitore della antichità, l’uomo che disserrando nuovi spazii e nuovi tempi, dissipasse affatto il sonnambolismo del medio evo e ravviasse il pensiero europeo alla poesia ed alla sperienza della natura esteriore. Il XV secolo, così poco noto, è quello appunto in cui si svolsero e si bilanciarono tutte le forze intellettuali dell’Italia; lotta confusa, vorticosa e pur troppo mortale. Allora l’italiano, in mezzo alle inutili sventure ed alle inutili vittorie di tutte le fazioni, imparò a far conto, più che d’ogni altra cosa, della propria energia personale: germe funesto d’egoismo, ma scuola altresì di volontà indomabili e di nature eroiche. E mentre altrove gli uomini erano o sorretti o stritolati dalle gerarchie feudali, solo l’Italiano di que’ tempi vedeva uscire dalla plebe i pontefici, dalla officina i magistrati; e mercanti e soldati di ventura conquistarsi coll’oro e colla spada le corone. Tutti i fatti, tutte le idee s’agitano allora in Italia vive, possenti, istigatrici d’ogni rea, come d’ogni nobile ambizione; il fervore religioso si alleava col poetico entusiasmo per la classica antichità, e nella stessa generazione si scontrava e mescevasi l’esperienza dei politici, dei mercanti, dei viaggiatori colle memorie e, diremo anche, colle fantasie dell’erudizione. Di che nasceva quella felice e robusta gioventù degli ingegni, i quali creavano, credendo pur tuttavia d’imitare e fabbricavano arditissime ipotesi, interpretando con inconscia libertà il mondo e la storia. Ed è singolare a dirsi come i due uomini, che fecero la più profonda rivoluzione delle idee, mutando l’aspetto della terra e del cielo, Colombo e Copernico, i quali ora, quasi divinità tutelari, risplendono sulla soglia dell’evo moderno, volessero presentarsi ai loro contemporanei in aspetto d’umili commentatori d’una dimenticata idea d’Aristotile e di Pitagora.

    L’Italia adunque ai tempi di Colombo e, appunto come Colombo, piena di pensieri nuovi sotto nome antico, presentiva l’avvenire attraverso le visioni del passato. Ad uno ad uno essa vedeva morire i suoi popoletti ringhiosi; pur non distratta dalle fervide contemplazioni, nemmanco per l’acerbità dei supremi dolori, generava eroi che fondarono la divina nazionalità del pensiero, conquistandole una lingua comune e confondendo e consolando col culto delle glorie fraterne le umiliate gelosie municipali. — Ora sofferite, ch’io cerchi nelle tradizioni commerciali e geografiche d’Italia la genealogia vera di Cristoforo Colombo ch’io non mi curai ripescare fra le ingiurie dei municipii contendentisi l’onore d’averne ascoltato il primo vagito. Tutti sanno come il commercio del medio evo avesse legato gli stati marittimi della nostra penisola coll’Asia, coll’estremo Oriente: perocchè le spezierie, rarissime preziosità, di cui gli Italiani avevano in Europa il monopolio, ci venivano dalle Molucche (Malucco) isole circonfuse dell’Oceano Pacifico, allora non navigato che da giunche chinesi e da selvaggie piroghe. Quando primamente s’avviasse questo commercio non può sapersi: e forse sempre ne durò qualche filo anche nell’età della più scabra barbarie. Checchè ne sia, abbiamo notizia che nell’822 già navigavano ad Alessandria contrabbandieri veneziani; e prima delle crociate praticavano gli Amalfitani ne’ porti di Levante e i Pisani avevano fattorie sul Mar Nero. Nel XII secolo troviamo la prima menzione del commercio delle spezierie colle quali non può farsi che alcune notizie non giungessero dei tanti popoli che per sì lungo tragitto se le passavano di mano in mano. I rozzi verseggiatori di quei tempi ci dicono che a Pisa e ad Amalfi conoscevansi di fama e di presenza i popoli dell’Asia centrale e gli Indi che avevano sì antico grido di sapienza e di ricchezze. Nel tumulto delle crociate si piantarono gli Italiani negli scali di levante e vi convissero con quegli Arabi che già da due secoli avevano allargata la loro prodigiosa potenza dalle Africane costiere di Sofala alla valle dell’Indo, e si erano sparsi, mercatanti o missionarii, da Madagascar a Canton su tutte quasi le rive dell’Oceano indiano e dell’Arcipelago orientale. — Per questo mezzo molte notizie geografiche ci dovettero pervenire insieme colle prime confuse cognizioni sulle cifre algebriche, sulla polvere e sulla stampa, mirabili strumenti del pensiero operoso, che giacevano inutili in mano alla frivola gravità delle autocrazie e delle teocrazie asiatiche. Due strade teneva il commercio delle Indie; quella di terra per l’Oxo, il Caspio ed il Mar Nero; quella di mare per l’Egitto ed il Pelago Indiano, o per la Soria ed il golfo Persico. Prevaleva or l’una or l’altra di queste strade, secondochè o sinistrava l’anarchia arabica o scomponevasi la vasta unità dell’impero Mingolico cadevano sotto la tutela or dei Veneti or dei Genovesi le decrepite

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