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I volti dell'Apocalisse
I volti dell'Apocalisse
I volti dell'Apocalisse
E-book409 pagine5 ore

I volti dell'Apocalisse

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Info su questo ebook

La vita dell’ ispettore Rigoberta “Ribe” Daverio viene sconvolta quando sua madre Anna resta uccisa durante un tentativo di furto finito male. Tre anni più tardi, Ribe non fa più parte della Polizia e si guadagna da vivere come investigatrice a Milano.
Il commissario Stefano Sanna, una volta suo superiore e ora suo saltuario amante, le chiede di indagare in maniera ufficiosa su un omicidio avvenuto nell’hinterland della città: uno stimato psicologo è stato ritrovato morto con un messaggio lasciato sul suo corpo nudo e straziato, un passaggio tratto dal Libro dell’Apocalisse dell’apostolo Giovanni.
Partendo da questo indizio, Ribe Daverio entrerà passo dopo passo in una realtà dove il male è una presenza palpabile, composta di diverse sfumature che vorticano intorno a un’unica parola: Apocalisse.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2022
ISBN9788833171456
I volti dell'Apocalisse

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    Anteprima del libro

    I volti dell'Apocalisse - Giovanni Magistrelli

    I volti dell’Apocalisse

    Giovanni Magistrelli

    Gialli e Thriller

    I Edizione marzo 2022

    © 2022 Astro edizioni

    S.r.l.s., Roma

    www.astroedizioni.it

    [email protected]

    ISBN 978-88-3317-145-6

    Direzione editoriale:

    Francesca Costantino

    Progetto grafico:

    Idra Editing

    Editing:

    Francesca Costantino

    Tutti i diritti sono

    riservati, incluso

    il diritto di riproduzione

    integrale e/o parziale

    in qualsiasi forma.

    Dedicato a mia moglie Isabella

    e alle nostre figlie Federica e Virginia,

    per la loro pazienza nell’insegnarmi ogni giorno

    cosa significhi essere una donna.

    Avete tutto il mio amore.

    Tutto ciò di cui hai bisogno è amore

    (John Lennon, Paul McCartney)

    Troppo amore ti ucciderà

    (Brian May, Frank Musker, Elizabeth Lamers)

    Il diario

    Amore mio, ho sofferto così a lungo, in silenzio.

    Ho smesso da molto tempo di piangere, perché ho esaurito tutte le lacrime. Ma non passa un solo momento senza che io pensi a te.

    La mia solitudine all’inizio è stata una maledizione.

    Non eri più al mio fianco.

    Non eri più nella mia vita.

    In principio, quando mi lasciasti, la domanda più ricorrente nella mia testa fu come avrei potuto continuare a vivere senza di te. Poi, un giorno, finalmente, trovai la salvezza.

    Successe in una libreria, quella dove andavamo spesso insieme, quando avevamo del tempo libero. Presi in mano una copia della Bibbia e aprii una pagina a caso.

    Il mio sguardo, come ipnotizzato, cadde subito sulle prime parole, amore mio. Facevano parte della fine del Libro dell’Apocalisse dell’apostolo Giovanni, l’ultimo capitolo, quello che annuncia la venuta del Signore.

    Lessi la pagina e fu come guardarmi allo specchio. Di colpo riuscii a vedermi, dopo aver vagato nel buio per un tempo indefinibile.

    Quelle parole, pronunciate da uno degli angeli, mi raggiunsero nel più profondo dell’anima, dandomi uno scopo, una ragione per vivere e combattere.

    "Non mettere sotto sigillo le parole della profezia di questo libro, perché il tempo è vicino. Il malvagio continui pure a essere malvagio e l’impuro a essere impuro e il giusto continui a praticare la giustizia e il santo si santifichi ancora. Ecco, io vengo presto e ho con me il mio salario per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine. Beati coloro che lavano le loro vesti per avere diritto all’albero della vita e, attraverso le porte, entrare nella città. Fuori i cani, i maghi, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna!".

    Fu allora che compresi il mio destino, quello di dover diventare la mano di Dio e agire in suo nome. La giustizia del Signore avrebbe colpito dove quella degli uomini si era dimostrata corrotta e colma di menzogne.

    Ho vissuto il mio autoisolamento in maniera diversa, da allora. L’ho percepito come il sentiero necessario da percorrere per realizzare il piano che si è fatto strada in seguito dentro di me, lento, ma inesorabile.

    Ho usato la solitudine per sigillarmi nella dedizione completa che la mia opera, il mio atto di giustizia, necessita. Ormai, mi sto preparando da tempo per non deludere il Signore. E te, amore mio.

    Adesso il momento è giunto.

    Mi manchi sempre. Però, ora che ho Dio a guidarmi, ti sento di nuovo al mio fianco, ogni giorno, a sostenermi.

    Avremo giustizia. I malvagi pagheranno. Se il Signore mi darà la forza di compiere il suo volere.

    Non abbandonarmi ora, tesoro mio. Ci rincontreremo presto.

    Ti amo.

    1.

    «Ribe, vuoi parlare più piano, cazzo? Ho sonno! Perché non vai di là?».

    La ragazza dai capelli biondi lunghi, nuda e distesa nel letto matrimoniale, si girò dall’altra parte, tirandosi il lenzuolo sulla testa.

    Ribe Daverio la guardò. Di là era il soggiorno con cucina a vista del bilocale, dove la donna abitava da sola, al quarto piano di un palazzo in via Padova, a Milano.

    «Aspetta un attimo», mormorò Ribe al cellulare che stringeva in mano.

    Si alzò dal letto, anche lei nuda, e si trasferì in soggiorno. I capelli corti neri le lasciavano il viso scoperto, mettendo in risalto gli occhi azzurri che scintillavano intensi, anche in quelle prime ore della mattina. Il fisico, alto e magro, attirava spesso lo sguardo degli uomini, quando entrava in un ristorante o in un bar, e le faceva mostrare molto meno dei suoi anni.

    Si sedette sul piccolo divano color bordò, ma non prima di aver gettato un’altra rapida occhiata alla bionda nel letto, Katia. Ribe l’aveva incontrata la sera prima all’Afterline, un locale gay in zona Stazione Centrale, che ogni tanto frequentava. Katia aveva attaccato bottone e alla fine erano finite a letto nell’appartamento di Ribe.

    Distolse i pensieri da Katia e riprese a parlare al cellulare. «Sai che ore sono?».

    «Sono le sei», rispose con naturalezza la voce maschile all’altro capo del filo.

    «Stefano, non devi telefonarmi a quest’ora».

    «Se lasci il cellulare acceso, allora significa che posso. Non rompere, Ribe!», ribadì Stefano Sanna, commissario della Polizia a Lambrate, nella zona Nord-Est di Milano.

    «Primo», controbatté subito Ribe, «se decido di tenere acceso il cellulare, sono cazzi miei. Secondo, se ogni tanto scopiamo, non vuol dire che siamo intimi. Terzo, cosa vuoi?».

    Sanna, quarantacinque anni, aveva da anni una relazione a intermittenza con Ribe, sin da quando lei era ancora un membro della Polizia.

    «Sei da sola?».

    «No che non sono da sola. Nel mio letto c’è una bella bionda con cui ho passato la notte. Una volta appurato questo, ti ripeto la domanda: cosa vuoi?».

    Il silenzio s’impadronì della linea telefonica.

    «Stefano?», insistette Ribe.

    Il commissario sospirò. «Va bene. Non sono affari miei. E poi, visto che non sei a letto con un altro uomo, non mi stai tradendo, giusto?».

    Questa volta fu Ribe a non aprire bocca.

    «D’accordo. Non rispondere. Comunque, ho bisogno di te. Ho un caso tra le mani. Un omicidio. Ma qui al commissariato siamo incasinati e non saprei veramente a chi affidarlo. Perciò, ho pensato a te».

    «Ma io non faccio più parte della Polizia, Stefano. Da tre anni ormai. Fai finta di non ricordarlo?», rimarcò Ribe, mentre si accendeva una sigaretta.

    «Ho bisogno di te. In maniera non ufficiale. Ti passerò il fascicolo così che tu possa indagare, senza farti notare».

    Ribe si alzò dal divano e riempì la caffettiera di acqua e caffè, per poi metterla sul fornello spento.

    «Come pensi che possa muovermi? In maniera non ufficiale, hai detto? E con quale autorità?».

    Sanna rise. «Puoi sempre tirare fuori il distintivo della Polizia che ti sei dimenticata di restituire tre anni fa e che ogni tanto usi per le tue investigazioni su mariti puttanieri e mogli ninfomani».

    Ribe abbozzò una smorfia divertita, appoggiando la sigaretta sul tavolo, e accese il fornello.

    «E io cosa ci guadagno in tutto questo?», chiese, tornando seria.

    «Il tuo senso del dovere verrà appagato», replicò il poliziotto, a metà strada tra l’ironico e il sarcastico.

    «Vaffanculo, Stefano!», si arrabbiò Ribe, alzando la voce.

    «Allora ci vediamo al solito posto verso mezzogiorno. Non tardare, mi raccomando. E salutami la biondina», concluse Sanna, interrompendo la comunicazione.

    «Vaffanculo!», ripeté la donna, urlando nel cellulare ormai muto.

    «Chi è che deve andare a fanculo?».

    A queste parole, Ribe alzò lo sguardo e si trovò di fronte Katia, avvolta nel lenzuolo, in piedi tra la camera e il soggiorno.

    «Non volevi dormire?».

    «Con te che gridi? Un po’ difficile, non pensi?».

    Katia si avvicinò a Ribe, più alta di lei di almeno dieci centimetri, poi si sollevò sulla punta dei piedi e le sfiorò le labbra.

    «Il caffè è anche per me?», chiese poi la ragazza, indicando il fornello.

    Ribe fissò con tenerezza gli occhi castani di Katia e il suo volto da adolescente.

    «Quanti anni hai? Non te l’ho chiesto ieri sera».

    «Venti. E devo darmi una mossa, perché alle dieci devo seguire una lezione di Economia alla Cattolica».

    L’attenzione di Ribe fu attirata dal rumore del caffè bollente che saliva nella caffettiera. Spense il fornello e prese due tazze dal lavello, versandovi la bevanda calda e profumata.

    «Sai che faccio fatica a ricordarmi com’ero quando avevo la tua età».

    «Beh, non mi sembri così vecchia».

    «L’anno scorso a dicembre ho compiuto trentacinque anni».

    Katia prese la tazzina e se la portò alla bocca, ma aspettò a bere.

    «Non li dimostri per niente, soprattutto di là», e indicò con gli occhi maliziosi la camera da letto.

    Ribe prese a sua volta la chicchera, sorrise per un attimo e poi iniziò a sorseggiare il liquido scuro. La luce dell’alba di agosto rischiarava sempre di più l’interno dell’appartamento.

    Katia finì il caffè in sorsi rapidi, poi rimise la tazzina nel lavello, sempre tenendosi addosso il lenzuolo per coprirsi. Ribe, invece, continuò a stare in piedi nuda, i seni piccoli, ma sodi, e il ventre piatto, con lo sguardo verso la porta-finestra che dava sul balcone angusto, la chicchera vuota ancora in mano.

    «Non hai il senso del pudore, tu?», domandò la ragazza.

    «Beh, dopo la notte scorsa non mi fa certo effetto stare qui svestita davanti a te».

    «Io non ci riesco. A letto è una cosa. Qui... è un’altra».

    Ribe mise la tazzina sul tavolo che stava in mezzo al soggiorno e si sedette sul divano di tessuto bordò, accavallando le gambe e incrociando le braccia sul petto.

    «Ecco. Così va meglio?», chiese poi, sarcastica.

    Katia ghignò e si lasciò cadere sul divano, di fianco all’altra. «Che razza di nome è Ribe?».

    «Tu fai troppe domande, ragazzina».

    «Sì, me lo dicono in molti. Ma tu non mi hai risposto».

    «Non ho mai saputo chi fosse mio padre. Credo che mia madre abbia deciso che quell’uomo non fosse abbastanza per lei. E per me. Mi ha tirato su da sola, senza l’aiuto di nessuno. Lei era particolare. Era un po’... rivoluzionaria. E mi diede il nome di un premio Nobel per la pace, Rigoberta Menchú. Una pacifista del Guatemala. A scuola iniziarono a prendermi per il culo già alle elementari, a causa di quel nome, e lo abbreviai in Ribe. A mia madre non dispiacque. Lo considerò un gesto di ribellione e di autodeterminazione da parte di sua figlia. E ne fu contenta».

    «Come si chiama tua madre?».

    Ribe fissò un punto nel vuoto. «Si chiamava Anna. È morta».

    «Oh, mi dispiace».

    «Sì, anche a me. Grazie».

    Katia si levò dal divano e si diresse verso il bagno, trascinandosi dietro il lenzuolo. «È un problema se vado prima io in doccia? Non voglio arrivare tardi all’università».

    «No, fai pure. Non ho fretta».

    Katia si voltò. «Non mi hai ancora detto chi è che hai mandato a fanculo al telefono».

    Ribe la guardò e si lasciò scappare una risatina. «Il tuo rivale di letto. E non ti dirò niente di più».

    La ragazza fece spallucce, poi entrò nel bagno e chiuse la porta.

    Ribe ascoltò l’acqua della doccia scorrere. Ripensò a sua madre, mentre i suoi occhi vagavano per il bilocale dalle pareti bianche che Anna Daverio le aveva lasciato in eredità, quando era morta.

    Non era un granché, certo. Una camera. Un soggiorno con cucina a vista e un balconcino, ma niente lavastoviglie. Un bagno che sembrava un loculo, provvisto di doccia e lavatrice. Anche la zona, via Padova, non era sicuramente tra le più belle di Milano. Caso mai, il contrario.

    Però, Ribe non poteva permettersi di meglio. E, anche se avesse avuto i mezzi finanziari per trasferirsi in un appartamento più lussuoso nei quartieri alla moda della città, non avrebbe mai lasciato l’ultimo regalo ricevuto da Anna. L’ultimo suo ricordo che persisteva nella vita della figlia.

    La sigaretta, abbandonata sul tavolo, si stava lentamente consumando, il filo di fumo usciva attraverso la porta-finestra sul balcone, disperdendosi nell’aria ancora fresca dalla mattina.

    Siamo tutti così, pensò, come una sigaretta che pian piano brucia e si consuma nell’indifferenza più assoluta di tutti e di tutto.

    Fece un grande sospiro, riflettendo sul fatto che a sua madre non era stato neppure permesso di consumarsi fino in fondo. La sua vita era stata troncata di colpo, tre anni prima.

    Ribe si scosse dai suoi pensieri, si grattò la nuca, poi si alzò dal divano e si recò in camera, dove infilò un perizoma nero e una maglietta degli Iron Maiden.

    «Che buffa! Vent’anni e hai più senso del pudore tu di me!», mormorò, con una smorfia rivolta a Katia, che canticchiava sotto la doccia.

    2.

    Il commissario Stefano Sanna era un bell’uomo dal volto regolare, con i suoi corti capelli sale e pepe e gli occhi neri, il classico tipo mediterraneo. Non era altissimo. Anzi, Ribe lo superava di un paio di centimetri.

    Per l’ennesima volta, Sanna rimarcò tra sé e sé la differenza in altezza con lei, mentre si levava dal tavolino alla vista della donna che entrava nel McDonald’s all’angolo tra piazzale Loreto e corso Buenos Aires.

    Ribe indossava un paio di jeans neri, con sneakers, e un’anonima t-shirt bianca, con il collo a V. Sanna, in borghese quella mattina, con un completo beige e una camicia celeste senza cravatta, le andò incontro e l’abbracciò, dandole un bacio sulla guancia.

    Lei si guardò intorno. «Ma davvero sei venuto qui per pranzo?», gli chiese.

    «No, stavo solo aspettando che tu arrivassi. Piuttosto, vuoi qualcosa da mangiare?»

    Ribe guardò l’orologio al polso. Era mezzogiorno spaccato. «A dire la verità, ho un po’ di fame, ma non vado matta per i fast food. Ci penserò dopo. Non sono una salutista fanatica, però mangiare da McDonald’s...»

    «Sì, ti capisco. Ma qui c’è l’aria condizionata e nessuno ti rompe i coglioni se non consumi», disse il poliziotto, invitandola a sedersi.

    Entrambi presero posto e Sanna aprì la cerniera della borsa nera per laptop appoggiata sul tavolino, estraendone una cartelletta marrone e una chiavetta USB, che depositò di fronte a Ribe.

    «Cosa sono?», chiese lei.

    «Tutto quello che ti serve sapere su questo caso. Qui dentro troverai ciò che può esserti utile nelle indagini».

    «Ti ripeto la domanda di stamattina».

    «Vuoi sapere perché non ce ne occupiamo noi al commissariato? In realtà, noi stiamo già indagando su questo omicidio, Ribe. Almeno ufficialmente. Il problema è che siamo sottorganico, con una marea di cose da fare e leggi che non ci aiutano. Talvolta, sembra quasi che tra lo Stato e i giudici milanesi sia in corso una gara a chi aiuta di più i criminali. Comunque, non riusciamo a stare dietro a tutto. Soprattutto ora, con l’ordine pubblico sempre più sotto assedio, con i flussi senza controllo di immigrati che arrivano in Italia, a Milano in particolare, e poi scompaiono senza lasciare traccia. Te lo dico in maniera confidenziale: stiamo subendo pressioni crescenti dai servizi segreti. La paranoia su possibili attentati terroristici nel nostro Paese sta aumentando a ritmo vertiginoso all’interno dell’intelligence. L’AISI è nel panico e sta tentando di tenere la testa sopra il livello dell’acqua per non affogare».

    Ribe sbuffò, ma rimase in silenzio.

    «Stiamo destinando sempre più risorse per aiutare l’AISI nella sorveglianza preventiva, qui in città e in Lombardia. Quindi parecchi casi, purtroppo, vengono lasciati indietro. Come questo», concluse il poliziotto, indicando il fascicolo e la chiavetta sul tavolo.

    «Perché io?»

    Lui la fissò negli occhi azzurri. «Vuoi l’elenco dei motivi? Perché mi fido di te. Perché, quando si tratta di investigare, sei in gamba come pochi altri. Perché sei stata nella Polizia. E perché andiamo a letto insieme».

    «Quanto è importante l’ultima cosa?», chiese Ribe, sporgendosi verso l’uomo.

    «Come si chiamava la bionda?».

    «Katia. Non male per avere solo vent’anni. Però non preoccuparti, Stefano, quando si tratta di maschi, ci sei solo tu nella mia vita. Non essere geloso. In ogni caso, a parte la mia ironia, grazie per la stima professionale e la fiducia».

    «Fosse stato per me, saresti ancora una poliziotta».

    «Lo so. Hai fatto molto per aiutarmi».

    Sanna stette qualche attimo in silenzio. «Allora, vuoi occupartene? Per favore?», domandò poi, quasi supplicando.

    Lei prese il fascicolo e la chiavetta e si alzò. «A me cosa ne verrà in tasca? Mi darà una mano a rientrare in Polizia?».

    Sanna non replicò e abbassò gli occhi.

    «D’accordo, ho capito», proseguì lei. «Ti aiuterò, ma alle mie condizioni».

    «Cioè?».

    «Completa libertà di agire come riterrò più opportuno. Anche se qualche volta dovessi essere costretta a spacciarmi di nuovo per una poliziotta. Non voglio rimproveri da te o da altri. Nessuna rottura di coglioni. Ne ho già ricevute troppe, quando indossavo una divisa. Siamo intesi?».

    Il commissario fece un cenno d’assenso.

    «Bene, Stefano. Vedrò cosa riesco a capire dai documenti che mi hai dato. Mi freghi sempre, lo sai? Perché sei in gamba a far leva sui miei sensi di colpa e sulla mia coscienza».

    «E sulla mia bravura come amante. Non dimenticarlo, Ribe».

    La donna socchiuse gli occhi azzurri, inarcò le sopracciglia e quindi mostrò il dito medio all’amico, per poi voltarsi e uscire dal McDonald’s, tornando nel caldo umido tipico di Milano ad agosto.

    Sanna la osservò, ancora seduto al tavolo, mentre lei attraversava corso Buenos Aires e imboccava le scale della metropolitana.

    Il cellulare nella tasca della giacca del poliziotto suonò per segnalargli l’arrivo di un messaggio. Diede un’occhiata veloce allo schermo. Era di Ribe.

    Mi faccio sentire io, bel maschione!

    Sempre la solita cara, vecchia Ribe, pensò divertito, prima di rientrare al commissariato.

    Il diario

    Il primo passo è stato fatto. Ora non posso più tornare indietro. Non devo. L’ho giurato a me e a te.

    Che Dio mi aiuti, in questa opera.

    E mi aiuterà, lo so, perché sono nel giusto.

    Arriverò fino in fondo. Perché dovrei fermarmi, poi? Siamo solo all’inizio.

    Dopo tutto, questo è il motivo per cui ho vissuto gli ultimi anni nell’ombra, per impedire al mondo di vedermi mentre mi preparavo.

    Ho sacrificato la mia vita per vendicare la tua.

    Ho bisogno solo di continuare a essere invisibile. Niente deve interrompermi. Non devo lasciare indizi che possano portare a me.

    So che con il trascorrere delle settimane, qualcuno riuscirà a intuire il mio disegno e si metterà sulle mie tracce. È normale, è logico.

    Ma non adesso.

    Ho bisogno di tempo, a qualsiasi costo. Affinché, se e quando arriveranno a me, sarà troppo tardi per impedirmi di portare a termine il mio piano.

    Piango, mentre sto scrivendo.

    Di gioia e di tristezza.

    Di gioia, perché mi sto rendendo conto, dopo il primo atto della mia vendetta, che quello che sognavo e pensavo impossibile è invece incominciato. Sto facendo finalmente giustizia per quello che hai subito.

    Di tristezza, perché quello che sto compiendo non ti riporterà mai indietro da me.

    Ma questa incancellabile verità non mi farà mai dubitare della strada che ho deciso di percorrere. Devono pagare. Pagare di fronte al Signore, per i loro peccati. E pagheranno tutti.

    Questo è stato il primo della lista. Non se lo aspettava, gliel’ho letto negli occhi.

    Si era dimenticato di me. E di te.

    Nomi e numeri su documenti, solo questo eravamo per lui. Formiche da calpestare senza prestare attenzione.

    Avresti dovuto vedere la sua espressione quando ha ricordato, tesoro mio. Quando ha riconosciuto il mio viso.

    La paura si è impadronita di lui, perché non era stupido. Ha letto nei miei occhi che nessuna implorazione, nessuna richiesta di perdono o di pietà, niente al mondo avrebbe potuto salvarlo.

    Perché era colpevole. Ha ucciso il mio amore. Lo ha distrutto, con noncuranza, senza pietà. Lui è stato complice, connivente, alleato di chi ti ha fatto del male, tesoro mio. Però, ora non c’è più. Ha cessato di esistere.

    Come te.

    Forse, se tu fossi qui, mi diresti che la vendetta non è la risposta. Ma è tutto quello che mi è rimasto.

    Perdonami, amore mio.

    Ora torno al mio compito. Non è semplice e richiede molta preparazione.

    E concentrazione. Anche se il tuo ricordo infesta il mio cuore ogni giorno, devo agire in modo che non mi distolga dal portare a compimento il mio destino. E quello degli impuniti che ti hanno portato via da me.

    A presto, tesoro mio. Ti amo e ti amerò sempre.

    "Partì il primo angelo e versò la sua coppa sopra la terra; e si formò una piaga cattiva e maligna sugli uomini che recavano il marchio della bestia e si prostravano davanti alla sua statua", (Apocalisse 16:2).

    3.

    Ribe aprì il pc portatile sul tavolo del suo appartamento in via Padova, accendendosi allo stesso tempo una sigaretta. Una volta rientrata a casa, si era tolta gli abiti e aveva rimesso la t-shirt degli Iron Maiden. Ciò nonostante, il caldo opprimente l’aveva obbligata ad attivare il ventilatore che aveva sistemato proprio di fianco al pc.

    Diede una tirata alla sigaretta e osservò il fumo disperdersi davanti alle pale del ventilatore. Poi il suo pensiero andò a Stefano Sanna.

    Aveva con il commissario uno strano rapporto, specialmente dopo che era stata costretta a dare le dimissioni dalla Polizia. Andavano a letto insieme da cinque anni, però non avevano mai reso la relazione ufficiale, nemmeno tra di loro. Sanna le piaceva e con molta probabilità provava per lui un misto di amore, lealtà e riconoscenza. Forse lui era consapevole di questo, ma Ribe non lo avrebbe mai ammesso.

    Erano due anime solitarie, dopo tutto.

    Lui aveva pagato l’attaccamento al lavoro e la sua carriera nella Polizia con un divorzio, per fortuna indolore e senza figli. Lei aveva perso in un colpo solo la madre e l’uniforme.

    «Sarebbe potuto andare peggio», le avevano detto in seguito.

    «Fanculo!», aveva risposto Ribe, ai tempi. «Cosa cazzo può esserci di peggio che vedere la propria madre uccisa?».

    Aveva ragione, ma non del tutto.

    La sua mente, mentre osservava il salvaschermo del pc, ritornò gli avvenimenti di tre anni prima. Allora Ribe era un ispettore della Polizia del commissariato di Lambrate. Si era fatta strada, in maniera graduale ma decisa, all’interno delle gerarchie del corpo. Molti, tra cui lo stesso Sanna, avevano previsto per lei un’ascesa verso gradi ben più alti che quello di ispettore.

    «Sei molto acuta e intelligente, Ribe», le aveva detto una volta il commissario, mentre erano distesi a letto dopo aver fatto l’amore. «E hai delle intuizioni, durante le indagini, che non so spiegarmi. C’è del genio in te. Oppure, qualcosa di soprannaturale. Non lo so. Senz’altro è una grande dote, quella che possiedi. D’altra parte, devi imparare a tenere a freno il tuo temperamento irruento. Controlla la tua lingua e le tue mani, altrimenti prima o poi ne pagherai il prezzo. Posso assicurartelo».

    Sanna l’aveva presa sotto la sua ala protettrice e Ribe era cresciuta, confermando con i successi la fiducia che lui aveva riposto nelle sue qualità.

    Certo, il suo carattere focoso l’aveva messa più di una volta in contrasto con i superiori, con scambi di parole al limite dell’insubordinazione. E i suoi modi ruvidi nei confronti dei criminali l’avevano resa la destinataria di reprimende da parte di magistrati e avvocati, oltre che delle altre gerarchie della Polizia.

    Ciò nonostante, il nome dell’ispettore Rigoberta Ribe Daverio aveva iniziato ad apparire sempre di più nei rapporti di indagini terminate con l’arresto dei colpevoli o con crimini sventati.

    Sì, avevo davanti a me una fulgida carriera, rifletté, fissando lo schermo del pc.

    Tutto era filato liscio. Fino a tre anni prima. Fino a quel giorno maledetto.

    D’un tratto, Ribe ebbe un senso di nausea, mentre lo stomaco brontolava rumorosamente, e si ricordò di non aver ancora pranzato. Appoggiò sul tavolo la sigaretta e si alzò per andare al frigorifero, da dove prese una confezione di yogurt aperta e avanzata dal giorno precedente, che finì in quattro cucchiaiate, per poi buttare il barattolo vuoto nella pattumiera. Lo stomaco smise di protestare, ma lei continuò a percepire la testa pesante e il fiato corto.

    Sarà il caldo, pensò.

    Si sdraiò sul divano, osservando con distacco il pc e la cartelletta ricevuta da Sanna.

    Più tardi, si disse. Non c’è fretta.

    Chiuse gli occhi, cercando soltanto di rilassarsi. Invece si addormentò. E sognò. Le immagini, come in un film, riempirono subito la sua mente, come già avevano fatto decine di altre volte da quando era morta sua madre.

    Il sogno le fece rivivere gli eventi, come una maledizione infinita, fotogramma dopo fotogramma. Nel suo subconscio onirico, Ribe si trovò a interpretare di nuovo la parte che allora il destino le aveva attribuito.

    *

    Era una mattina tranquilla per l’ispettore Daverio al commissariato di Lambrate. Il cielo era nuvoloso ma, al di sopra delle nubi grigie, il sole di inizio giugno batteva forte, scaldando l’aria. Lei stava redigendo dei rapporti, quando il suo cellulare squillò.

    «Ciao, Ribe», esordì con la sua voce squillante Anna Daverio. «Come stai?».

    «Oggi male, mamma. Sono sepolta dalle scartoffie. Non vedo l’ora di finire e di poter tornare al lavoro sul campo».

    «Sì, lo so che è quello che preferisci. Senti, se ti va, ti preparo un piatto di pasta al ragù per pranzo, quando hai finito in ufficio».

    «Mi vizi troppo, mamma. In realtà, sono un po’ tirata con i tempi...».

    «Ribe, devi mangiare qualcosa».

    «D’accordo, ma ti avviso: mi fermo giusto quindici minuti e poi scappo via».

    «Va bene. Un piatto di penne al dente con il ragù ti aspettano per le tredici in punto. Non tardare».

    «Grazie, mamma. A dopo».

    Il resto della mattinata trascorse abbastanza veloce, mentre Ribe finiva di sistemare le scartoffie. Un quarto d’ora prima delle tredici, si levò dalla scrivania, salutò alla svelta i colleghi e, mettendosi il cappello blu con visiera sul capo, uscì dal commissariato in via Maniago per camminare fino all’appartamento della madre.

    Il sole continuava a nascondersi dietro le nuvole, ma la temperatura rimaneva gradevole.

    Pochi minuti a piedi e Ribe arrivò a destinazione. Suonò al citofono una volta. Non ricevendo risposta, riprovò. Ancora nessun cenno da parte di Anna.

    Ribe pensò che la madre stesse ascoltando la musica ad alto volume, come accadeva di sovente. Allora infilò la mano nella tasca dei pantaloni grigio-azzurro della divisa ed estrasse le chiavi di casa.

    Aprì il portone e imboccò le scale.

    Mentre lo faceva, l’intuito che le apparteneva, il dono, come lo definiva Sanna, le suscitò un leggero formicolio alla base della nuca. Percepì l’inquietudine crescere dentro di sé e aumentò l’andatura, facendo i gradini due alla volta.

    Ribe arrivò al pianerottolo del quarto piano. Non sentiva alcuna musica venire dall’interno dell’appartamento.

    Osservò la porta d’ingresso. Era chiusa.

    Inserì le chiavi, mentre minuscole perle di sudore le si formavano sulla fronte, sotto la visiera del cappello. Senza capirne il perché, l’istinto le consigliò di non chiamare la madre per annunciarle la sua presenza.

    Girò le chiavi nella serratura e aprì lentamente la porta, varcando la soglia. Quello che successe poi, durò lo spazio di poco più di un minuto.

    Ribe intravide con la coda dell’occhio un’ombra che piombò dall’alto su di lei. D’istinto saltò di lato e provò allo stesso tempo un lampo di dolore al braccio destro, seguito dalla sensazione di un flusso caldo lungo l’arto.

    L’esperienza di anni in Polizia le fece comprendere senza ombra di dubbio di essere stata colpita, forse con un’arma da taglio. Ma non ebbe il tempo di rifletterci, perché l’aggressore che l’aveva ferita attaccò di nuovo.

    Ribe squadrò l’uomo.

    Era alto e magro, con il naso schiacciato e il cranio rasato, la pelle nera e gli occhi dello stesso colore. Un africano, forse un nigeriano o un ivoriano. Era vestito in jeans e maglietta nera. E in mano stringeva un machete lungo almeno trenta centimetri. Era stato quello a ferirla al braccio.

    L’uomo strinse gli occhi e Ribe comprese che era pronto a scattare di nuovo. Nel momento in cui l’africano balzò verso di lei, la donna si piegò su un fianco e lo colpì con una pedata allo stomaco.

    Il nero rimbalzò indietro, tossendo, e spalancò gli occhi, sia per l’impatto violento del calcio di Ribe, sia per essere stato sorpreso dalla reazione della donna che aveva ritenuto indifesa, a prima vista. Fissò la donna e parve notare per la prima volta la sua divisa.

    Quei pochi attimi diedero a Ribe la possibilità di estrarre la pistola d’ordinanza, una Beretta 92FS e, impugnandola con entrambe le mani, di puntarla contro l’aggressore. Il

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