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Amore mattutino
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E-book106 pagine1 ora

Amore mattutino

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Info su questo ebook

«Erano anni che non compariva a Napoli una raccolta così notevole di novelle artistiche. Ora che le rileggo non posso non ripensare a Mattinate Napoletane e a Rosa Bellavita di Salvatore di Giacomo: novelle diversissime, per natura e stile, da queste del Geremicca, ma a cui, tuttavia, queste del Geremicca si ricongiungono idealmente».

Fausto Nicolini, 1932


Achille Geremicca (Napoli, 1897 – Napoli, 1951) è stato un poeta e romanziere italiano.
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita11 gen 2023
ISBN9791222047133
Amore mattutino

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    Amore mattutino - Achille Geremicca

    Achille Geremicca

    Amore mattutino

    immagine 1

    The sky is the limit

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    Indice dei contenuti

    AMORE MATTUTINO

    LA RISSA

    APPASSIONATAMENTE

    ANTONIETTA

    UNA SERA D’AUTUNNO

    LA PAURA DEL BOSCO

    SCARPINE DI SETA

    TRAMONTO

    L’OROLOGIO COL CARILLON

    LA GUARIGIONE

    BIEMME

    Achille Geremicca

    Amore mattutino

    (novelle 1932)

    Digital Edition 2023

    Passerino Editore (a cura di)

    Gaeta 2023

    Ad Anna Maria Cutolo Pepere

    AMORE MATTUTINO

    Nel piccolo paese natio, Giorgio si preparava da solo, con la guida del padre medico, agli esami liceali che sarebbe andato a fare in città. Per disporre di più tempo e dar maggiore raccoglimento allo studio, decise d’alzarsi assai presto, ogni mattina, quando ancora tutti in casa dormivano. E come già aveva preso e manteneva da più giorni quest’abitudine, Adelaide, la vecchia serva che non si liberava mai dalla tosse, lo pregò di volere aprir lui al capraio, cosicché ella potesse restarsene a letto un po’ più a lungo. Le capre salivan proprio fin dinanzi alla porta, a cui l’uomo batteva con una mano: poi mungeva il latte sul pianerottolo, sotto gli occhi di Giorgio.

    — Sta’ attento che riempia il bicchiere fin qui: l’altra volta era mancante – aveva detto Adelaide – Abbi giudizio anche in questo, come l’hai nello studio. —

    Ora, una mattina, là, sul pianerottolo, non gli apparve il capraio, ma una ragazza con uno scialletto sulle spalle e in mano un ramo al quale era rimasta attaccata qualche foglia. Tutt’e due si guardarono meravigliati: ella aveva un visino grazioso sotto dei bruni capelli crespi, le folte sopracciglia che si congiungevano, due occhi tranquilli e una vaga rassomiglianza con le sue caprette; ma già, avvolto nello scialle, il palpito del seno. Come Giorgio le porse il bicchiere, si chinò a mungere, quasi in ginocchio, dopo aver deposto a terra il ramo; e faceva tutto con più lentezza, più attenta cura dell’uomo, senza mai levare il viso. Il crespo dei suoi capelli, la frangia dello scialletto, insieme con la lana delle capre e il loro belato, davano a Giorgio un piacevole senso di tepore, come se riscaldassero, su quel pianerottolo sfinestrato, il mattino invernale.

    Ripreso lo studio, egli rivide due o tre volte sulle pagine del libro il visetto della capraia. E, la mattina dopo, sentendo battere alla porta delle scale, andò ad aprire già con un poco di timore che fosse il solito uomo. Invece era lei; e a vederle il rametto in mano Giorgio pensò che, certo, aveva battuto alla porta con quello, come farebbe sempre che venisse.

    Questa volta, per salutare, sorrise; e in ricambio anche Giorgio, che mentre ella mungeva, le domandò dell’uomo. Era il padre; ma da ora innanzi sarebbe lei sola a portar le capre, giacché avevano comprato una vacca e il padre la conduceva nel paese vicino.

    Di giorno in giorno fecero sempre più amicizia, ma senza scambiarsi troppe parole, con vicendevole timidità. Pareva però che ogni volta ella esitasse per compiacenza a spinger dal pianerottolo giù per le scale le caprette riluttanti, liete di soffregarsi al muro. Fin dal principio aveva riempito per bene il bicchiere: ora Giorgio lo riceveva sempre così colmo, che, riportandolo in cucina, doveva badare che non traboccasse o ne suggeva qualche sorso, talora, da che lei l’aveva invitato quasi pregandolo.

    Avvenne così che a far levar Giorgio dal letto nelle prime ore non fu più il pensiero dei suoi studi, ma quello della graziosa e gentile capraia, che si chiamava Venanzina, annunciantesi col colpettino del ramo sulla porta; e che l’immagine di lei si fuse naturalmente col rosato tingersi del cielo, nell’inoltrarsi del marzo, coi canti dei galli dai terrazzi e dagli orti, con le prime voci degli uccelli e delle campane. Giacché andava appunto per i suoi esami traducendo Omero, nei versi ove appare l’aurora accompagnata dal seguito di fresche lodi, egli vedeva sempre lei, quando gli appariva sorridente all’aprir della porta o quando si piegava a mungere, inchinando l’ingenua, rosea fronte sotto i capelli crespi.

    Or ella non cercava più di dar pretesti al suo piacere d’indugiare, meno vergognosa negli atti e pure assai più spesso turbando il volto di rossore: una volta sedette sullo scalino, mentre gli domandava dei suoi studi e che cosa avrebbe fatto da grande, se l’avvocato o il medico come il padre; finché anche lui andò a sederle accanto, posando a terra, all’altro lato, il bicchiere del latte.

    Presero così animo di farlo sempre, senza trovar molto da dirsi, eppure tutt’e due assai svogliati di doversi levare; spesso una capra urtava il dorso di Giorgio, che si voltava, ridendo, a respingerne la testa bassa e ostinata.

    Appunto una di queste volte, nel combattere seduti con la capra che voleva strofinarsi alle loro spalle, cascarono insieme abbracciati sullo scalino, e lui le soffocò le risa sulla bocca, baciandola e premendo al suo il piccolo seno agitato da cui era sfuggito lo scialle.

    Quei cinque minuti mattutini divennero così la gioia di tutta la giornata; e appena trascorsi egli si metteva ad aspettar che tornassero, quasi le ventiquattro ore fra mezzo fossero esse qualche minuto. Né gli veniva mai il pensiero di poter vedere Venanzina in altra ora o altro luogo: Venanzina ch’egli invocava per casa, cantando i versi aurorali d’Omero.

    Venne giugno, egli fece i suoi esami, poi andò a trascorrere le vacanze dai nonni: l’inverno successivo tutta la sua famiglia si stabilì in città, e nella casa del paese restò solo, con la serva Adelaide, una sorella del padre.

    Così Giorgio non la rivide più, perdendone anche il ricordo negli amori della giovinezza, o solo ritrovandone una traccia vaga, come memoria confusa di sogno, quando gli appariva un visino dalle sopracciglia congiunte.

    Presto la vita lo amareggiò, tormentandogli il cuore, se non con ferite profonde, con dolorosi, continui lividi. Nella professione ebbe fortuna mediocre; e il matrimonio che rimase senza figli, gli divenne in breve una catena gravosa, trascinata con astio.

    Al finir d’un inverno, quando già era presso ai quaranta, per alcuni disinganni professionali e, soprattutto, per aspri contrasti con la moglie, sentì tanta stanchezza e tanto disgusto della sua vita abituale, che volle fuggirla come solo poteva: andando nel paese natio, nella casa che gli aveva lasciata la zia, e nella quale ancora viveva, vecchissima, Adelaide.

    Ma dal ritrovar luoghi e cose della fanciullezza, anziché aver conforto, accrebbe lo scontento, ch’era persino del suo stato fisico: d’aver già molti capelli bianchi, d’essersi ingrassato e di affannare per ogni piccolo sforzo.

    A riandare indietro coi ricordi, non gli pareva di trovare nel suo passato, anche il più lontano, niente che gli desse un po’ di serenità e di letizia; dinanzi, vedeva sempre più buio.

    Una notte, i pensieri gli resero così molesta l’insonnia, che s’alzò e si mise a passeggiare nell’antica e vuota casa. Verso l’alba, Adelaide lo sentì dalla sua camera e lo chiamò.

    — Ora che battono alla porta, abbi pazienza, apri tu, per il latte. Dio ti benedica, figlio mio!

    — Le capre vanno ancora per le scale, in questo paese – si disse; ma il ricordo gli passò sul cuore appena vagamente. E quando fu battuto alla porta, andò ad aprire pensando ad altro. Innanzi, dritta fra le sue capre, con uno scialletto nero sulle spalle, gli stava una donna alta e magra, dal viso emaciato, su cui grandeggiavano le sopracciglia congiunte. Tutt’e due si guardarono e, dalla distanza di venticinque anni, si riconobbero senza farne cenno.

    Ma com’egli tornò col bicchiere, non seppe tenersi dal dirle:

    — Ah, Venanzina, dov’è più quel vostro ramoscello?

    Quella, incoraggiandosi, s’animò d’un tratto.

    — Ricordate

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