Il segreto del calice fiammingo
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La sacra reliquia sarà oggetto di intrighi politici e passionali, minacciose congiure e biechi tradimenti, nel feroce teatro di scontro tra aragonesi e angioini. La sua strenua difesa impegnerà come protettori e custodi lo stesso Jan van Eyck e Barthélemy, suo nipote ed erede. Una promessa e un fatale e cavalleresco impegno li condurranno da Bruges a Valencia a Barcellona, dall’Aragona a Gaeta e a Genova, da Milano ad Arras e in Borgogna. E infine a Bruxelles e Napoli, superando battaglie navali, guerre e ostacoli, fino alla vittoria finale.
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Anteprima del libro
Il segreto del calice fiammingo - Patrizia Debicke van der Noot
Il segreto del calice fiammingo
di Patrizia Debicke van der Noot
Direttore di Redazione: Jason R. Forbus
Cura del testo di Genny Elisabeth Cerrone
Progetto grafico e impaginazione di Sara Calmosi
ISBN 979-12-5540-004-2
Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2022©
Narrativa – Maree
www.aliribelli.com – [email protected]
È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.
Il segreto del calice fiammingo
Patrizia Debicke van der Noot
AliRibelli
Sommario
I. L’AQUILA E IL LEONE
Gand, 16 settembre 1426. Barthélemy
Il polittico dei Vidij
Jean de La Tremoille
Ydria
Il duca
Bagagli e partenza
Un pittore molto particolare
L’emissario di Aragona
Gli assassini
La partenza
Bruges
Yolande d’Aragon, duchessa d’Anjou
L’inquietudine di Weiss
Torneo di carnevale
Lo scudiero
L’attentato
Il torneo
Yolande d’Anjou
Partenza di Barthélemy
Valencia
Il calice
Alfonso d’Aragona
Barcellona
Doña Pilar
La predizione della gitana
Ritorno a Valencia
Ritorno a Bruges
1428
Viaggio in Portogallo, autunno 1428
Yolande d’Aragon, una fidanzata portoghese…
Viaggio della delegazione borgognona
L’agguato ai borgognoni
Lenneux riparte
Ritorno a Lisbona
Intermezzo portoghese
Fidanzamento e matrimonio
Beatriz
Reazione di Yolande d’Anjou
Nuovi progetti
Barthélemy
Matrimonio
II. IL FIGLIO
1432. Bart arriva a Bruges
Complotto francese
La trappola
I rigori dell’inverno e le novità del 1433
1° marzo 1434 Napoli Castelcapuano
1434. L’avanzare dell’autunno
Il mutare delle cose nel 1435
Barthélemy va a Dijon
Partenza per Dijon maggio 1435
Beatriz si scopre
Barthélemy si fa segugio e spia
La traditrice
L’assedio di Gaeta
Il congresso di Arras
Alfonso d’Aragona a Milano
Il 4 settembre
Il talismano
La missione del Panormita
La Sorella Tertia: Beatriz Arriga
Pedro d’Aragona duca di Noto ad Arras
Il segreto di Alfonso
Juan de Merlo ascolta
Si svela il segreto
III. IL CALICE
Trattati milanesi
L’agguato (13-14 ottobre, plenilunio)
Il calice a Milano
La duchessa Isabelle d’Anjou, regina di Napoli
Beatriz si tradisce
Il piano diabolico
Lo spettacolo
La fuga
Partenza da Milano
Barthélemy a Bruges e a Dijon
Charles du Maine va a Napoli. 1436
Barthélemy ritorna a Dijon
René d’Anjou re di Napoli. 1438
Il ritratto
Il re di Napoli chiama. 1439
La cacciata
Napoli
Jan van Eyck è morto
Ritorno
Il figlio del terzo custode
Ritorno a Napoli
Il Sacro Calice
Il passaggio segreto
Un fiammingo a Napoli
L’incoronazione: 26 febbraio, anno domini 1443
Si prepara il delitto
Alla riscossa
Epilogo
La profezia
Curiosità legate al romanzo
I
L’Aquila e il Leone
Gand, 16 settembre 1426. Barthélemy
La sincope aveva accecato Hubert van Eyck, togliendogli l’uso della parte destra. Braccio e gamba erano come legno. Il suo corpaccione sgraziato di gigante giaceva supino, immobile sotto le coltri. Il medico dell’abbazia, quando era passato a vederlo, aveva scosso il capo impotente mormorando: «È questione di poco. Giorni? Forse ore?».
La sera prima vaneggiava, risalendo con i ricordi il fluire del tempo fino ai particolari dell’infanzia. Si rammaricava di non avere fatto abbastanza per la madre e per i fratelli, tanto più giovani di lui. A notte fonda la spossatezza, che aveva preso il sopravvento, l’aveva fatto scivolare in un sonno leggero, agitato. I suoi biondi capelli madidi di sudore e prematuramente ingrigiti, erano sparsi sul cuscino.
Jan gli era rimasto accanto come un buon fratello. La sua mente vagava, mentre i legami affettivi riprendevano il predominio e cancellavano anni di piccole incomprensioni familiari, di rivalità taciute, di colpevole indifferenza?
Poco dopo l’alba, Hubert si svegliò e chiese: «Jan, dove sei?». Da un paio di ore aveva ceduto il posto a Margriet, la sorella. Ma ora Hubert lo cercava come un bambino fa con la madre.
«Sono qui» lo rassicurò.
«Bene» biascicò Hubert e cominciò a pregare in latino. La sua voce lenta, monotona, rimbombava sonora nella piccola cella ingombra di casse e scaffalature cariche di carte e arnesi da lavoro. Il pingue gatto dell’abbazia, che dormiva acciambellato sul pavimento, si stirò ai primi raggi di sole. Con un leggero balzo saltò sul letto e cominciò a leccare il volto del moribondo. Hubert sobbalzò, facendolo fuggire e chiamò di nuovo: «Jan!».
«Dimmi» rispose chinandosi. Alto anche lui, ma meno del fratello e più snello, gli assomigliava vagamente.
Hubert gli agganciò il braccio e chiese: «Hai fatto chiamare Pierre de Billant?».
«L’ho fatto!»
«Appena arriva…»
«Stai tranquillo.»
Hubert assentì e si lasciò andare.
Margriet si girò e interrogò sottovoce: «Chi è Pierre de Billant?».
«Un conterraneo, viene da un villaggio poco lontano da Mastricht. È uno dei cartonisti e ricamatori del duca. Lavorava a Dijon, è tornato da poco. Ieri sera Hubert ha chiesto di vederlo.»
«Perché?»
«Non so il perché, Hubert ha insistito senza spiegare. Ho mandato un monaco a Bruges, al Prinsenhof, a cercarlo» rispose sottovoce.
«Lo conosci?» Margriet incalzava con il suo dolce viso increspato.
«No, sarà arrivato a corte dopo la mia partenza per Lille.»
Jan van Eyck era orgoglioso della sua posizione di varlet de chambre e maestro pittore del duca di Bourgogne Philippe le Bon. Fornitore emerito, come gli arazzieri, il guardiano dei gioielli, gli attori e altre persone che lavoravano per la corte. Una posizione che a trent’anni gli consentiva di coprire le spese di una casa a Bruges, di vestire solo abiti di buona fattura, indossare pellicce e disporre di un cavallo di qualità. E in più il duca gli aveva concesso il privilegio di aprire una bottega. Poteva avere una clientela privata e l’opulenta città anseatica, nodo vitale di scambi internazionali, traboccava di ricchi mercanti spagnoli, portoghesi, aragonesi, scozzesi, veneziani, fiorentini, milanesi, genovesi e lucchesi, disposti a spendere. Si sapeva che era il maestro al servizio della corte e la clientela aveva risposto con generosità. Si era fatto raggiungere dalla sorella, ancora nubile a ventisei anni, una miniaturista abile e raffinata e aveva chiamato a Bruges Jacob Lucas e Piet Huys, rimasti anche loro senza un lavoro sicuro, dopo la morte del duca di Baviera…
Hubert aveva smesso di pregare, ora sonnecchiava. Il tempo scorreva lentamente.
La campana di San Bavone aveva battuto da tempo l’ora nona (tre del pomeriggio), quando un monaco si affacciò dalla porta, diede un’occhiata e chiamò Jan van Eyck con la mano. Lo raggiunse e il religioso gli annunciò sottovoce: «Peter de Billant è arrivato. Vi aspetta nel chiostro».
«Vengo.»
Uscì e trovò Joos Vidij, il ricco mercante che aveva commissionato a Hubert la grande pala destinata alla sua cappella di famiglia, in febbrile attesa nell’atelier. Sapeva che aveva continuato ad andare avanti e indietro per ore, senza darsi pace. Era sicuro di finire all’inferno. Il polittico, l’opera che avrebbe dovuto lavare i peccati della sua famiglia, era rimasto a metà. Meno che a metà forse.
Vidij gli venne incontro affannato e volle notizie del fratello. Questi gliele diede subito senza riguardi, cattive quali erano. Si sforzava di controllarsi, ma era furioso con se stesso. Durante la notte, Hubert l’aveva messo in trappola. L’angoscia per il lavoro incompiuto affliggeva le sue ultime ore e, durante i suoi deliri continuava ad afferrargli la mano, supplicando: «Ti prego Jan… Prometti! Devi finirlo tu». Si era impegnato e aveva giurato di farlo, per lenire il suo tormento.
Superò il mercante ammutolito, mormorò un «Perdonate» e scese al pian terreno.
Il monaco l’accompagnò fino all’imboccatura del chiostro, poi gli indicò la direzione e disse: «Andate. Troverete Billant vicino al pozzo».
Fece ancora pochi passi e lo vide: bruno, robusto, doveva avere più o meno la sua età, era in piedi con lo sguardo perso oltre le arcate nel frutteto. Ma non era solo, davanti a lui seduto sul muretto vide un bambino di sei, sette anni al massimo che teneva sulle ginocchia una tavoletta e disegnava.
Si avvicinò e, mentre l’uomo si girava, gli chiese: «Mastro Billant?». Al suo assenso, si presentò: «Sono Jan van Eyck, fratello di Hubert».
«Pierre Billant, maestro, è un onore conoscervi» rispose l’altro in francese. «La vostra fama vi precede.»
Per un attimo, sostenne franco lo sguardo degli occhi verdi e profondi del suo interlocutore – alto e magro, dal naso dritto, importante, – prima di passare al dialetto franco-tedesco della Mosa e dichiarare con delicatezza: «Mi hanno detto che vostro fratello sta molto male e la cosa mi addolora. Cosa è stato?».
«Una sincope, la parte destra del corpo è come morta e non ci vede più. Secondo il dottore non ne avrà per molto. Ma ha chiesto di voi e vi aspetta, sapete perché?»
«È per lui e…»
Il bambino, biondo come il lino, aveva smesso di disegnare, era sceso dal muretto e ascoltava con la fronte corrugata. Chiese frettoloso, in francese: «Non andiamo da mio padre?».
Billant gli prese la mano e rispose: «Certo Barthélemy, andiamo subito, ma prima saluta tuo zio, lo zio Jan».
Gli occhi del bambino si illuminarono nel sorriso. Tirò quello zio sconosciuto per la manica per obbligarlo a piegarsi e gli stampò un bacio sulla guancia.
Lui si rialzò sbalordito ma senza fare domande. «Forza, sbrighiamoci» borbottò arruffandogli i capelli, e fece loro strada di sopra, per i corridoi del primo piano.
Superò con loro il mercante, ancora in febbrile attesa, li precedette nella cella del fratello e annunciò: «Mastro de Billant e Barthélemy sono arrivati».
Gli occhi di Hubert erano vuoti, ma allungò la mano e chiese affannosamente: «Bart vieni da me, avvicinati e abbracciami!».
Lui ubbidì ma sopraffatto dalla tensione che circondava il morente, riuscì solo a mormorare: «Eccomi, padre mio» e scoppiò in lacrime.
Hubert van Eyck trovò a tentoni il suo volto bagnato e l’accarezzò, mormorando: «Non piangere Barthélemy, ti voglio bene!». La voce gli si ruppe… Lo strinse a sé e gli fece un’ultima carezza prima di suggerirgli: «Su, Bart, ora vai con la zia Margriet. Lasciaci». Poi ordinò alla sorella: «Portalo fuori».
Attese che uscissero, e abbandonato contro i guanciali intimò: «Jan chiudi la porta! Voi Billant, invece, guardate alla mia destra: contro la parete deve esserci una cassa dipinta. La chiave è nella serratura. Aprite e cercate una borsa».
Billant alzò il coperchio. Il baule traboccava di fogli con prove, fasci di schizzi e disegni completi per i cartoni. Alzò, spostò, frugò ma niente borsa.
«Non la vedo. Maestro, dove di preciso?» chiese infine.
«Guardate meglio in fondo, a sinistra.»
Lui riprese a cercare poi esclamò: «Ce l’ho!».
«Bene, dentro c’è un plico sigillato. Datemelo.»
Ubbidì. Il cieco lo aprì a tastoni, poi chiamò ancora: «Billant?».
«Sì, maestro.»
«Ydria vi aveva detto. Sapevate di me. Due anni fa siete venuto con il cuore in mano. Siete un lavoratore e un uomo onesto. Volevate sposarla. Vi spiegai che era impossibile. Ydria era legata a me davanti a Dio. Non ve ne siete dato pena e avete aggirato l’ostacolo. Avete fatto a meno delle carte e l’avete presa con voi. La considerate vostra moglie e come tale la rispettate e la onorate. Bart non poteva avere un miglior patrigno. Queste carte dicono che il 29 marzo 1422 mi sono unito in matrimonio con Ydria Exters e ho riconosciuto nostro figlio Barthélemy, nato a Nennig il 5 maggio 1420. Prendetele!» ingiunse. «E prendete anche la borsa. Ci troverete trecento lire parisis. Sono per il bambino. Quando i miei fratelli vi faranno sapere della mia morte, voi e Ydria potrete sposarvi…»
«Vi ringrazio, maestro, la vostra morte… Mi confondete. Ydria vi manda i suoi pensieri e la sua gratitudine. L’avete soccorsa, siete stato il suo pilastro. Voleva venire a salutarvi, ma Maria, nostra figlia, è nata tre giorni fa» spiegò il maestro ricamatore, baciando la mano del moribondo.
«Siete un brav’uomo, lo so. E per questo, in punto di morte ve li affido entrambi, sereno. Ma ora vi prego uscite, voglio parlare da solo con mio fratello» pregò con un fil di voce.
«Certo, maestro, io vado. Addio» mormorò Billant.
«Aspettatemi qui fuori, vi prego, voglio accompagnarvi» gli chiese Jan van Eyck.
«D’accordo» promise.
E appena restarono soli: «Dove e quando hai conosciuto Ydria Exters?». Jan afferrò inquieto la mano del fratello. Ricordi, pensieri gli affollavano la testa e forse una certezza si faceva largo tra le tante domande a cui non riusciva a trovare una risposta. Quella data di nascita: 5 maggio 1420. Quel bambino, quel figlio di Ydria come poteva essere di Hubert? E di chi allora? È figlio tuo?
«Ho conosciuto Ydria qui a Gand, all’abbazia. È arrivata quattro anni fa, ha chiesto di incontrarmi e mi ha raccontato il suo calvario. Sei mesi prima, con Barthélemy si era recata a Saint Maximin l’abbazia benedettina di Treviri, per consegnare una tovaglia da altare ma, al ritorno, il loro villaggio non esisteva più. Una banda di mercenari, dopo aver sterminato gli abitanti, l’aveva depredato e poi raso al suolo incendiandolo. Non avevano più né una casa, né una famiglia. Erano morti tutti, e la cattiva stagione era alle porte.» Hubert parlava lentamente a fatica, centellinando le parole. «Hanno trovato un temporaneo rifugio presso i benedettini di Treviri. Poi… Ydria ricordava che le avevi detto di me, di Gand, dell’abbazia di San Bavone. Ha fatto il mio nome. I benedettini l’hanno rivestita, le hanno dato una scorta di cibo, un po’ di denaro e alcune lettere di presentazione destinate ai confratelli dei monasteri lungo il cammino, per poter arrivare fino a qua. È partita prima dell’inverno. Ha viaggiato lentamente: Luxembourg, Arlon, Libramont, Malin… In cambio del suo lavoro, ha chiesto e avuto soccorso e asilo. A marzo, dopo il disgelo, lei e Barthélemy sono arrivati qui, da me…»
«Perché non me l’hai detto. Perché non ne hai mai parlato?»
«Credevo che Ydria non ti interessasse.»
«Hubert? Perché?»
«L’avevi lasciata andare, evidentemente non l’amavi» lo biasimò.
Incassò l’affermazione, dura da accettare e pesante come un macigno, prima di ammettere francamente: «È vero, l’ho fatto».
«Vedi!»
«Su una cosa hai ragione, non l’amavo, o almeno non abbastanza. L’avevo conosciuta all’Aja. Era il 1419, la guerra si era appena conclusa con la vittoria del principe vescovo, Jean, duca di Baviera, contro Jacqueline, sua nipote. Si festeggiavano le sue nozze con Elisabeth di Gorlitz, duchessa di Lussemburgo. La corte era in fermento. Feste, banchetti. Io ero ancora convalescente, mi muovevo con le stampelle per la ferita alla gamba a Dordrecht, ma avevo ricominciato a dipingere. Ydria stava con la sua famiglia negli alloggi riservati agli artisti, suo padre era un arazziere di Nennig, un bravo maestro. Aveva consegnato il grande pannello commissionatogli per il matrimonio e aspettava solo d’incassare la sua paga. Lei per me era la modella ideale, una bellezza delicata, con i capelli biondi. Le ho chiesto di posare e le ho dato del denaro. L’ha fatto per tutta l’estate, i suoi non navigavano nell’oro, ma a settembre venne a salutarmi. Suo padre aveva finalmente incassato il dovuto e tornavano a casa. Lei, ecco, si era innamorata di me, pensava di non vedermi più. Io ero guarito. È successo.»
«Capisco…» mormorò suo fratello.
«La settimana dopo è partita.»
«Ma tu non le hai chiesto di restare!» gli contestò Hubert.
«No! Non l’ho fatto! Era stata un’avventura bella e dolce. Ma non immaginavo, non potevo. Però se il bambino è nato in maggio, e quindi nove mesi dopo, credo che sia figlio mio.»
«Lo è! Ydria era venuta anche per dirmelo. Gli aveva dato il nome di suo nonno, un francese di Metz. Le serviva aiuto, ma non voleva l’elemosina. Parlava con fierezza. Sapeva ricamare bene, chiedeva solo delle raccomandazioni. Era rimasta sola al mondo e doveva crescere suo figlio.»
«E tu cosa hai fatto?»
«Cosa potevo fare? Tu eri lontano e avevi la tua vita. Maestro pittore alla corte di Jan di Baviera. Avevi grandi idee per la testa e miravi in alto. Ho deciso così, d’impulso. Avevo preso solo gli ordini minori. Le ho proposto di sposarla, potevo farlo e riconoscere il bambino. Non sono stato né un buon figlio, né un buon fratello. Dopo la morte di nostro padre vi ho trascurato, guardavo solo alla religione, alla mia pittura… Mi è sembrato un modo di metterci la faccia, di riparare.»
«E Ydria?»
«Lei era incerta, nicchiava. Ho insistito e allora si è convinta. Per lei e per Barthélemy il matrimonio rappresentava la sicurezza, un nome onorato, un sostegno. A Gand avevo la mia clientela, ma abitavo qui nell’abbazia e il canonico non avrebbe mai permesso una convivenza da sposi. Li ho sistemati a Bruges in una casetta vicino al beguinage e le ho fatto trovare delle commissioni. Sai, Ydria ha le mani d’oro.»
«Ma non ti comportavi da marito?»
«Certo che no, a quello avevo rinunciato da tempo. Poi, due anni fa, Ydria ha incontrato Pierre de Billant. È giovane, disegna bene, sempre attento a interpretare i desideri dei signori, un artigiano di livello, preparato e lavorava già per il duca…»
«Si è innamorata di lui?»
«Sì. E lui di lei. È un brav’uomo. Tanto che avrebbe voluto fare le cose regolari, ma…»
«Non poteva.»
«No» ammise asciutto, tossì. Poi si sforzo di riprendere fiato e spiegò ansimante: «Poco dopo, Billant ha accettato di andare a Dijon. Mi ha chiesto il permesso e ha preso con sé Ydria e Barthélemy. Quando sei arrivato qui, dopo la morte del duca di Baviera, loro erano lontani e tu avevi i tuoi problemi».
«Certo, la moglie, la duchessa, ci aveva liquidati da un giorno all’altro» esclamò Jan, e tacque inquieto. Poi proseguì: «Ma per fortuna Jean de Villiers, seigneur de L’Isle-Adam, dopo aver comprato dalla vedova il libro delle ore che avevi miniato per il morto, Jean di Baviera, l’aveva mostrato a Philippe de Bourgogne e…».
«Vedi,» replicò Hubert interrompendo i suoi pensieri, «a che pro parlartene, allora. Ydria e il bambino erano al sicuro a Dijon, in buone mani. Sono rimasti là per più di un anno, poi…»
«Sono tornati.»
«Già, ma tu non c’eri. Eri a Lille a decorare il castello di Salle per il duca. Mi hanno portato Bart. Ti assomiglia e come te ha un dono naturale per il disegno. Ma presto Pierre de Billant dovrà ripartire per la Bourgogne e Ydria lo seguirà con i bambini. È la volontà di Dio» mormorò spossato con la voce che si affievoliva, spegnendosi. Jan gli toccò il braccio, lo chiamò «Hubert», ma lui bofonchiò solo a fatica: «Sono stanco, tanto stanco, voglio riposare…».
Si alzò di scatto e uscì dalla stanza. Margriet teneva il nipotino sulle ginocchia.
Si avvicinò, le chiese: «Torna da Hubert, ha parlato troppo è stremato. Resta con lui Io vado con Mastro Billant e Barthélemy. Dovranno rientrare a casa. Si fa sera» e allungò la mano al bambino, che ci si aggrappò istintivamente.
L’improvvisa e inattesa nozione della sua paternità frastornava Jan van Eyck. Si sentiva contemporaneamente emozionato e inquieto. Avrebbe voluto fare domande, sapere di più ma il pudore glielo impediva. Accompagnò suo figlio e il patrigno fino alle scuderie, con quella manina imprigionata nella sua, camminando, si inventò qualche sciocca parola di circostanza che non poteva certo riempire un’ignoranza e un silenzio di anni. Una volta giunti, porse la destra a Billant, che la strinse con forza prima di salire in groppa al suo baio.
Prima di sollevare Barthélemy e posarlo comodo e ben saldo a cavalcioni davanti al patrigno, l’abbracciò, stringendolo stretto a sé. Per un attimo serrò le briglie nelle mani come se li volesse trattenere, poi le mollò. Promise: «Arrivederci a Bruges» e con la mano colpì il posteriore del cavallo, che partì al trotto.
Barthélemy si girò e agitò il braccio, sporgendosi per salutare, fino a quando non svoltarono verso l’Escaut.
Il polittico dei Vidij
Hubert riaprì gli occhi dopo il tramonto e, nel riconoscere la voce della sorella che gli parlava, abbozzò una smorfia che voleva sorriso. Dopo aver ricevuto serenamente l’estrema unzione, trascorse un’altra notte, alternando fasi di breve lucidità ad altre di sopore, quindi, mentre l’alba del nuovo giorno cominciava a sbocciare in tenere gemme rosate, sprofondò in un sonno pesante, senza ritorno. La fine si avvicinava ma sembrava in pace.
Jan e Margriet restarono al suo capezzale. A metà mattinata, il suo fievole respiro divenne più frequente, affannoso, precipitando nell’angosciante rantolo dell’agonia e infine misericordiosamente smise di respirare.
Mentre ricomponevano la salma, il canonico di San Bavone piombò come un falco nella cella deciso a sequestrare tutte le sue opere. «Hubert lavorava su mio incarico, riceveva una prebenda dal convento» blaterava rosso in volto. Ma Jan frenò subito le sue pretese. Gli consegnò due tavole, due splendide composizioni pittoriche quasi finite, una Madonna con bambino e Santi e un san Bavone, ritratto con armatura e spada, destinati alla chiesa abbaziale. Quindi tranquillo e misurato gli offrì una cifra che giudicava equa per il resto dei dipinti, facendogli presente di essere al servizio del duca e di godere della sua protezione. Il religioso, pur conscio di dover ingoiare il rospo cominciò a contrattare. Eyck battagliò, rialzò un po’ la posta, poi fece la voce dura e il canonico fu costretto a cedere.
Dopo le esequie – Jos Vidij e la moglie, Dama Elisabeth Boorlut, avevano generosamente concesso che Hubert fosse sepolto nella loro cappella di famiglia, incompiuta ma già sfolgorante di marmi – Jan e Margriet tornarono all’abbazia per vuotare le sue stanze.
Radunarono il materiale di Hubert: schizzi, cartoni, dipinti e masserizie. Per trasportarlo fino a Bruges avevano già ingaggiato un carrettiere e due facchini, che la mattina dopo vennero all’alba a caricare. Prima che la campana battesse l’ora sesta (le dodici) Margriet partiva con loro per indicare la strada.
Avevano sgombrato l’atelier di pittura, solo l’Agnello mistico, la grande pala incompiuta del fratello, era rimasta ancora appoggiata al centro della parete vuota.
Jan la studiava inquieto: Hubert aveva lavorato solo sulla parte centrale. Nel registro superiore, al centro e circonfuso di un arco dorato, un Dio Padre ieratico pareva guardare benevolmente un mondo, forse indegno della sua bontà. Appena un gradino sotto di lui, vedeva, finora solo abbozzati a grandi linee, a sinistra la Vergine e a destra Giovanni Battista. Nel grande pannello sottostante, suo fratello aveva inserito al centro una tozza colomba posta sopra a un Agnello mistico grassottello e sgraziato grondante sangue che gli pareva mal rappresentare la spiritualità del sacrificio. Sui lati poi, i savi e religiosi si affollavano sciattamente e un po’ più lontano il folto gruppo delle vergini, rigide e innaturali, gli davano la sensazione di una coreografia statica, senz’anima.
Si era impegnato con il fratello, aveva giurato, ma chiuse gli occhi scoraggiato, di fronte all’immane compito che l’attendeva.
I Vidij – li aveva fatti convocare affinché provvedessero a far ritirare e ricoverare l’opera in luogo sicuro – arrivarono e lui, il marito, Joss Vidij, il mercante, cominciò ad aleggiargli intorno come un corvo affamato. Chiedeva speranzoso. Azzardò: «Solo voi, maestro…».
Lo fissò, scosse la testa e spiegò: «L’opera è molto indietro, lo vedete anche voi. La prospettiva del fondale è snaturata, appiattita, non basterà certo ricalibrare le proporzioni, ci vogliono luci, ombre… Ma poi guardate il prato: è smorto, gli alberi sembrano tutti uguali e le figure sono statiche. E invece si deve dar loro vita, farle muovere. Il lavoro è tanto, tutti i pannelli laterali sono da cominciare…».
«Capisco, ma si può fare? E in quanto tempo?» interrogò Jos Vidij spaventato.
«Si può fare? Quanto tempo poi? Che dire? Intanto mi serve un primo stadio di lavoro per riuscire ad armonizzare l’insieme. Poi, almeno un anno di lavoro. No, molto di più…»
«Due anni?»
Allargò le braccia e rispose: «Due o anche tre. Dipende!».
Ma Dama Elisabeth Boorlut Vidij intervenne, fece tacere il marito e dichiarò con gentilezza: «Tutto il tempo che serve, maestro, e fate tutti i cambiamenti che credete».
«Vedete, io non ho molto tempo, signora, il servizio del duca mi vincola a…»
«Lo sappiamo, lo sappiamo. E il servizio del nostro duca passa davanti a tutto, ma l’opera di vostro fratello deve essere finita, costi quello che costi. Non abbandonateci» implorò. «Noi vi aspetteremo.»
Jan van Eyck chinò la testa e suo malgrado promise.
Jean de La Tremoille
La mensa di Philippe, duca di Borgogna, al Prinshof di Bruges era fastosa, gli invitati numerosi e il suo gran ciambellano, Jean de La Tremoille signore di Jonvelle, aveva fatto onore al pranzo.
Finalmente, Monsignore si alzò da tavola e lasciò la sala preceduto dalle sue guardie, dandogli modo di avviare i commensali alla porta e di congedarsi prima del rintocco che annunciava l’ora nona. Poi, tallonato dal maggiordomo, si avviò per il lungo corridoio che portava alle sue stanze. Entrò sbadigliando e ordinò ai domestici: «Lasciatemi! Voglio riposare».
Ma Georges de La Tremoille conte di Guînes, fratello minore del gran ciambellano del duca di Borgogna, aveva dato precisa consegna al suo messaggero. Non doveva perdere tempo. Dopo aver cavalcato per giorni, l’uomo smontò di sella e lasciò la scorta ad attendere nella corte. Poi, al portone del palazzo, l’imperiosa frase: «Un plico urgente per sua eccellenza, il gran ciambellano» gli spianò la strada fino all’atrio del primo piano.
Le sue spiegazioni convinsero il maggiordomo che lo precedette cerimoniosamente fino all’appartamento di Jean de La Tremoille. Là bussò, senza avere risposta, bussò ancora compensato infine da uno stizzito «Avanti!» e allora aprì la porta e disse: «Eccellenza, perdonate».
L’alto dignitario aprì gli occhi, e interrogò: «Che succede?».
«Perdonate,» ripeté ansioso «arriva or ora un inviato di vostro fratello… È qui, deve…»
«Forza, che entri!» ingiunse rabbonito.
L’uomo avanzò, s’inchinò profondamente, mormorò: «Da parte del conte di Guînes» e gli porse il cilindro di cuoio con il plico sigillato.
Quando risalì in sella portava la risposta scritta e a voce la garanzia: «Dì a mio fratello che riferirò al duca. Lo ringrazio».
Il cammino da fare era lungo e c’era ancora luce. Riprese subito la strada senza attendere che i rintocchi annunciassero i Vespri.
Georges de La Tremoille, un tempo ciambellano di Jean sans Peur, padre di Philippe di Borgogna, era a Sully sur Loire nel castello dei La Tremoille. Cortigiano e abile diplomatico, da molti anni si barcamenava nei difficili rapporti tra la corte francese e quella di Borgogna, divise da antichi, insanabili rancori…
Ydria
Avevano mandato a dire della morte di Hubert, ma passati due giorni dal suo ritorno a Bruges, Jan, che voleva rivedere il bambino, chiese a Margriet di accompagnarlo.
Andarono nel pomeriggio, con il sole che calava e si rifletteva baluginando dorato nell’acqua torbida dei canali.
La casa dei Billant, che affacciava sul Goenerei era molto decorosa e la porta dipinta di fresco. Bussarono e una sguatterina, rotondetta con le guance rosse, venne ad aprire, asciugandosi le mani nel grembiale. L’atrio era piccolo ma pulito e sulla destra dalla porta aperta si vedeva una grande cucina. Una pignatta di ferro fumava nel camino, spandendo profumo di stufato.
Si annunciarono e chiesero dei padroni. Non erano attesi. Mastro Billant era ancora al Prinsenhof per il suo lavoro e la signora stava allattando la bambina. Ma Barthélemy, da sopra, li sentì e riconobbe le loro voci. Si precipitò rumorosamente per la scala di legno, gridando festoso: «Sono arrivati i miei zii!». Buttò loro le braccia al collo, poi fece loro strada fino alla sala del primo piano e, mentre aspettavano Ydria, mostrò loro i suoi schizzi.
Jan li studiò attentamente. Hubert aveva ragione, Barthélemy aveva un sorprendente senso del disegno. Il gattone acciambellato sul davanzale della finestra pareva prendere vita sul foglio. Lo passò a Margriet che sorrise e mormorò: «Un vero Eyck».
L’arrivo di Ydria con la neonata in braccio rafforzò la naturalezza di quella serena atmosfera domestica. La recente maternità aveva un po’ appesantito la sua figura snella e aggraziata, i capelli folti e chiarissimi erano raccolti in una grossa treccia ma i suoi occhi azzurri brillavano. Era il suo primo incontro con Jan, dopo tutti quegli anni di lontananza e reciproco silenzio. Era incerta, lo fissò inquieta, fece per dire qualcosa, ma lui la fermò prima che parlasse e, baciandola gentilmente sulla guancia, sussurrò: «Il tuo, anzi, nostro figlio è un bambino speciale, non poteva essere altrimenti con una madre pari tuo».
«Sono lieta che tu lo pensi» mormorò in risposta e, arrossendo leggermente, ricambiò il suo bacio fraterno. Poi salutò Margriet, che non conosceva, abbracciandola con sincero trasporto. E infine chiese delle ultime ore di Hubert e restò ad ascoltarli in silenzio, con gli occhi inumiditi.
«Ho chiesto a Pierre di condurci a Gand, sulla sua tomba. Voglio salutarlo per l’ultima volta.» Si segnò e mormorò commossa: «Gli devo molto, anche la mia vita di oggi. Era un buon cristiano e un uomo giusto. Per me è stato più un padre che un marito. Lo piango come lo piangete voi».
«Hubert ha detto che tornerete a Dijon. Quando?» chiese Margriet.
«Pierre, molto presto per forza, partirà da solo prima dell’inverno. Deve realizzare diverse composizioni per Sua Altezza e per l’abbazia. Ma noi per ora no. Maria è troppo piccola per viaggiare. Pierre ci precederà, lo raggiungeremo a primavera.»
Billant annunciò il suo arrivo, gridando ad alta voce «Buonasera» dall’atrio, poi imboccò le scale e Barthélemy gli corse incontro. Il ricamatore lo sollevò e gli stampò un bacio sulla guancia, prima di rimetterlo a terra. Poi salutò gli ospiti con garbo e si chinò teneramente su Ydria e la figlioletta.
Tornò subito sul pianerottolo per ordinare alla fantesca: «Porta birra fresca, succo di mela e una cestina di biscotti».
L’ambiente era familiare, rilassato. Gli uomini conversavano. Margriet aveva preso in braccio la piccina che si cercava le manine e faceva buffe smorfiette a occhi chiusi. Solo gli ultimi raggi del sole che tramontava spinsero lei e il fratello a prendere congedo.
Ydria affidò la neonata alle braccia del padre, lasciò che Margriet e Bart si avviassero chiacchierando per le scale, ciò nondimeno, mentre scendevano, trattenne Jan per la manica dicendo sottovoce: «Pierre considera Barthélemy suo figlio, gli vuole bene e gli insegna tutto ciò che sa, ma tu Jan, sei un pittore importante, un maestro famoso e Bart è un Eyck. E poi, Ossignore, ti ha mostrato quello che fa e l’hai visto anche tu, sembra che abbia il disegno nel sangue. Dovrai prenderlo con te!».
«Ydria, è ancora un bambino. Intanto lasciamolo crescere» obbiettò incerto.
«Sei sicuro? Tu quando hai cominciato?»
La memoria lo riportò ai suoi sei anni, si rivide come Bart, con il carboncino in mano. Annuì ridendo, aprì le braccia ed esclamò: «D’accordo! Non temere, quando sarà tempo lo farò. E per ora, finchè resterete a Bruges, mandalo da me in St. Gillis Newstraat. Comincerà ad ambientarsi e magari a imparare qualcosa. Lo metterò al lavoro con Margriet, niente forgia come la miniatura, e con Piet Huys. È un pittore raffinato. E poi lui è stato l’aiutante di mio padre e il mio primo maestro».
Il duca
Con la morte di Hubert, Ydria poteva sposare il padre di sua figlia.
Pierre de Billant mandò la sguatterina in St. Gillis Newstraat con un biglietto per invitare Jan e Margriet alla cerimonia. Scriveva: «Vi aspettiamo la mattina del… Subito dopo battezzeremo Maria. Saremo in chiesa con solo i testimoni, dato il lutto di Hydria e Barthélemy per la morte di Hubert. Ci terremmo molto alla vostra presenza».
Ma Jan van Eyck aveva ricevuto un messaggio di Nicolas Rolin. Il potente cancelliere di Philippe de Bourgogne era arrivato a Bruges e lo convocava, proprio la mattina dello stesso giorno, al Prinsenhof. Doveva parlare con urgenza al maestro van Eyck. Il duca in persona chiedeva di lui. Aveva bisogno dei suoi servizi.
Si giustificò per scritto con Billant, spiegò dell’impegno ufficiale che lo obbligava, e mandò al matrimonio Margriet con le braccia piene di doni per gli sposi e la famiglia.
L’invito di Nicolas Rolin, cancelliere di Philippe le Bon duca di Borgogna, con l’istanza del duca, intrigava il pittore.
Aveva incontrato Rolin di persona solo due volte ma sapeva tutto di lui. Rolin, che era nato ad Autun in seno a una famiglia borghese, con le sue doti di fattiva capacità e lucida perspicacia si era innalzato in dignità fino a diventare il consigliere di Monsignore. Da quell’importante posizione, sorvegliava, manovrava, trattava e viaggiava quanto il duca e con il duca, che serviva con passione, adeguando i propri interessi ai suoi. E, in più, era un uomo infaticabile. Alto e prestante a cinquant’anni compiuti, mostrava lo spirito e il vigore di un giovanotto e la sua terza giovanissima moglie, in meno di tre anni di matrimonio, gli aveva già partorito due figli.
Cosa vuole da te Nicolas Rolin? si chiese Eyck, quando alle nove in punto si mosse per recarsi all’appuntamento. Ma era in anticipo. Al palazzo ducale fu accolto da un maggiordomo