Il sole era freddo: Torino 1972, il commissario Lemonier indaga
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Roberto Gandus nato a Torino vive fra la sua città e Roma. Sceneggiatore cinematografico e autore televisivo senza tralasciare la pittura, per Fratelli Frilli Editori ha pubblicato L’Ultima esecuzione e La Sarta per Golem Edizioni Il Gyoko e La Casa delle Signore Buie scritto con Pupi Avati.Clara e Rosanna si improvvisano detective. Ma scoprire la verità non sarà per niente facile.
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L'ultima esecuzione: Villarbasse 1945 Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniLa sarta: Torino, 1942 Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioni
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Anteprima del libro
Il sole era freddo - Roberto Gandus
Personaggi
L’AUTORE del giallo: Roberto, insegnante di disegno al liceo artistico.
DIEGO LEMONIER: commissario di polizia
MAURIZIO GAUDENZI: assistente di Lemonier
ANSELMO ANSELMI: Il procuratore
ELIA GIROSI: 35 anni, dottore in farmacia
ELENA: lavora nella farmacia del padre, separata
FILIPPO: 4 anni, figlio di Elena
matteo: il marito di Elena e padre di Filippo
GIULIO: 75 anni, proprietario farmacia Mauriziano, scultore, padre di Elena.
BEPPE FERRERO: 58 anni, proprietario del ristorante an Giors
DOMENICO: 18 anni, figlio di Beppe frequenta l’istituto tecnico (ragioneria)
DANIEL MONTORSI: giovane cameriere del San Giors
NUCCIA: 17 anni, aiutante cuoca del San Giors
CARLO: 56 anni, portiere di via Napione 3
BRUNA: 64 anni, moglie di Carlo
BALDO: cane di Carlo e Bruna un simile levriero in miniatura
AL CIT: chincagliere del Baloon, organizza corse di cani a Stupinigi,
GIORGIO CONTENUTO amministratore di casa di Elia
L’ultima vittima, un foulard Cartier al collo e hot pants
, ha allungato la lista degli assassinati, inserita nel quadro di violenza che turba Torino e il Piemonte.
Prima di questa morte c’è stata quella della prostituta di piazza Carducci, quella dell’anziana di corso Casale, quella del panettiere di via Pozzo Strada, uscito all’alba per andare al lavoro, colpito dai proiettili, di fronte al portone. Non si riesce a ricordarle tutte, si direbbe che la città riviva il clima della Chicago degli anni ’30.
Così iniziava l’articolo riportato a pagina 5 de La Stampa
del 26 febbraio 1972, che aveva come titolo a caratteri cubitali: UN TRAVESTITO TROVATO UCCISO FRA I ROVI DEL CIMITERO
.
Il cadavere giaceva in terra dietro il cimitero comunale. Era riverso a faccia in giù. Non pioveva da giorni, il terreno secco non permetteva di rilevare tracce particolari.
Il commissario Lemonier, Diego Lemonier, nato a Napoli ma da sempre a Torino, nome spagnolo cognome francese tanto da condensare una parte della storia della sua città, 55 anni ben portati, un paio di baffi che compensava la pronunciata calvizie, con il pollice si strofinò le labbra, lo stesso gesto di Jean-Paul Belmondo in À bout de souffle, il film di Jean-Luc Godard che più di dieci anni prima lo aveva appassionato al punto che gli era diventato consueto. Abitava nel residence di via Nizza, un miniappartamento con una pianta di rosmarino sul davanzale della finestra e nulla più.
Perplesso, il commissario, si guardò attorno, si passò una mano fra i capelli che non aveva, ma lui era convinto del contrario. Poco lontano, alle sue spalle, due agenti rovistavano le erbacce alla ricerca di un qualche indizio, a un tratto il più giovane dei due richiamò la sua attenzione: Commissario! Commissario! Guardi che c’è qua!
.
Lemonier si voltò di scatto e vide l’agente che reggeva in alto una parrucca bionda, come fosse la testa della Gorgona. Fu a quel punto che dopo un attimo di silenzio espresse il suo dubbio: omicidio o gioco erotico estre- mo?
Era il febbraio 1972, quattro giorni dopo Nicola di Bari vinceva la XXII edizione del Festival di Sanremo con la canzone I giorni dell’arcobaleno.
Quante volte succede che nei film per segnalare un lungo passaggio di tempo compaia la scritta UN ANNO DOPO, bene sul nostro schermo immaginario comparirà:
Un mese prima
Risaliamo, cioè, a circa trenta giorni prima della notizia comparsa a fine febbraio sul principale giornale di Torino e torniamo a un freddo giorno di fine di gennaio.
Non saprei dire da quando, io, Roberto, 32 anni, ero diventato cliente assiduo quanto metodico del ristorante San Giors, che oramai chiamavo la mia piola
. Confesso che non era un momento fortunato della mia vita così per tireme su al mural
come diceva l’oste, ogni giovedì verso le 21 mi trovavo nel locale e quasi senza accorgermene, rimanevo seduto al bancone della prima sala, bevevo un bicchiere di arneis
, guardavo la mia immagine riflessa nello specchio. Non mi piacevo così come non mi divertiva il periodo che stavo vivendo; dopo dieci anni, Franci, la ragazza con cui convivevo, mi aveva dato il ben servito. Poi con il bicchiere in mano mi trasferivo al tavolo vicino alla cassa, di lì potevo controllare l’intero ambiente. Ero insegnante di disegno al liceo artistico di via Accademia Albertina. Mi piaceva individuare immagini e personaggi che da qualche tempo anziché disegnare, avevo preso a tradurre in scrittura. Mi piccavo di essere più uno scrittore che un pittore senza aver mai pubblicato una riga. Quella sera c’era una certa agitazione, nell’intero locale aleggiava uno stato di ansia incomprensibile. Io già godevo a vedere Daniel, il giovane cameriere, spingere il carrello di metallo verso di me, era carico di ogni ben di Dio: zampone, testina, tutto condito dal bagnet
, la salsa di un verde così acceso che la faceva sembrare ancora più buona. In questo piatto, tipicamente piemontese, anche le patate bollite assumono un gusto sopraffino. Di norma non occorreva ordinassi, oramai si sapeva che quello era il mio piatto preferito. Difatti Daniel si fermò e mi servì; ero appena abbronzato così mi chiese se ero stato al mare. Confermai senza troppo specificare come, quando e con chi.
Terminata la cena, sfogliai La Stampa
. Lessi che nell’isola di Guam un ex sergente dell’esercito giapponese, Sho¯ichi Yokoi, era stato ritrovato in una foresta dove si era rifugiato per sfuggire agli americani durante la seconda guerra mondiale. Quando le forze statunitensi conquistarono definitivamente l’isola, nel 1944, Yokoi si era nascosto in una grotta nella giungla e lì era rimasto, certo che la guerra non fosse mai terminata. Ne era uscito appunto quell’anno, dopo aver vissuto nella giungla per ben 28 anni.
Quella notizia non c’entrava nulla con quanto avevo in mente, eppure mi colpì, forse mi identificai con il soldato giapponese, nel senso che ero un illuso incapace di vedere la realtà, vivevo nascosto nel mio mondo. Ripresi a pensare e scalettare il racconto che un giovane editore mio amico mi aveva invogliato a scrivere. La storia si sarebbe dipanata seguendo la vita delle persone di quell’ambiente. Sognavo un libro che avrebbe cambiato la mia vita, come avessi avuto un presentimento, la mia vita cambiò davvero.
E come il soldato giapponese, da circa ventotto anni l’oste, Beppe Ferrero, collezionava vecchi macinacaffè che disponeva in bell’ordine su uno degli scaffali del San Giors di via Borgo Dora. Era orgoglioso del suo locale dalle origini antichissime che parevano risalire al 1481 quando il 24 febbraio a Mantova Chiara Gonzaga aveva sposato Gilberto I di Borbone, conte di Montpensier e delfino d’Alvernia. Nel viaggio di nozze verso la Francia, la coppia fece sosta a giugno proprio a Torino. E qui, secondo un’antica storia riguardante i Gonzaga, prima di partire per le cavalcate nei prati intorno a piazza Castello i due nobili sposi bevevano il cordiale serviti dall’oste di questa piola
quando già avevano il piede in una staffa.
Quella sera, Beppe, 58 anni, bicchiere in mano, si affacciò alla porta, uscì, scese i tre gradini in pietra, si piantò al centro della strada in leggera discesa, guardò a sinistra dove l’acciottolato s’incurvava verso le strade che il sabato ospitavano lo storico mercato del Baloon
, vide Peru, al ciuc
, con il solito cappello da cow boy calato in testa, gli chiese se aveva visto Menico, suo figlio, quello scosse il capo con l’eterno sorriso ebete stampato sul volto non rasato. Beppe indirizzò lo sguardo verso corso Giulio Cesare, ma vide soltanto il tram numero 10 sferragliare verso Porta Palazzo, di suo figlio, neppure l’ombra. Il ragazzo che, tutti, da sempre, chiamavano Menico, 18 anni, biondo, bello come la madre mancata quando lui aveva nove anni, non si vedeva da ventiquattro ore. Era la prima volta che succedeva. Affezionato al padre che lo aveva cresciuto con grande amore, non si allontanava mai senza dire dove andasse e quando sarebbe tornato. D’accordo, due giorni prima, padre e figlio avevano avuto uno screzio per il solito annoso motivo. Domenico insisteva per comprare la Lambretta verde militare del suo amico Fulvio. Il padre non ne voleva sapere della questione, non per la spesa, ma, come tutti i genitori, era contrario a che il figlio viaggiasse in moto: Troppo pericoloso e basta!
.
Erano state le ultime parole dette al suo Menico, da quel momento non ne aveva più saputo nulla. Beppe era certo che, presto, il suo unico figlio sarebbe tornato. Le ore presero a trascorrere con sempre maggiore lentezza.
Daniel, il giovane aiutante del locale, fu pronto, a dare una mano nelle ricerche, orfano di padre, venti anni, occhi verdi che contrastavano con violenza cromatica con i capelli neri. Circa due anni prima era stato presentato a Beppe e subito ne era diventato il braccio destro. Aveva imparato a servire ai tavoli, a trattare con i clienti che ben presto si erano affezionati alla sua presenza, fino a confessare i loro problemi intimi e non. Daniel aveva una capacità innata di ascoltare e poi con poche parole sembrava sempre in grado di trovare una soluzione, magari strampalata, ma, sempre, risolutiva dei vari problemi. Il giovane, alla ricerca di Menico, percorse, avanti e indietro, le vie del quartiere: via Lanino, via Mameli, per spingersi fino a Piazza Emanuele Filiberto. A un tratto Daniel sembrò avere un’illuminazione. Imboccò la via intitolata a Gian Francesco Bellezzia sindaco di Torino nel periodo in cui la peste mieteva vittime sia in città, che nelle campagne. Era il 1630 e Bellezzia, implacabile nella battaglia contro il morbo da cui fu colpito, dalla finestra di casa sua situata in questa via, sebbene malato, impartiva gli ordini e seguiva la situazione. Daniel giunse al numero 14, all’angolo con via Bonelli, si guardò attorno come non volesse essere visto, entrò nel portone male in arnese, percorse l’atrio maleodorante. Sbucò in un cortile quadrato. Bussò alla porta di vetro smerigliato e ferro al cui lato erano accatastati pezzi di chincaglieria. Intarsiata nel muro c’era una targa su cui campeggiavano tre lettere scrostate quanto illeggibili. Attese fino a che dall’interno giunse una voce sottile: Chi accidenti è?
.
Sono io, Daniel
.
La porta, si socchiuse con un cigolio. Fece capolino un uomo non più alto di un metro e trenta che tutti, a Porta Palazzo, chiamavano al Cit
che non era un nano, ma un uomo del tutto normale solo dalle dimensioni ridotte, qualcuno aggiungeva al minimo
. Nonostante la statura, aveva modi arroganti quanto cattivi e decisi, tesi a sopperire i centimetri mancanti, in sostanza un duro. Fece entrare Daniel nel magazzino. L’accatastamento di ogni genere di oggetti e vecchi mobili rendeva lo spazio uno stretto e lungo corridoio che conduceva ad un vecchio banco di scuola: la sua scrivania. L’uomo dalla statura ridotta con un ampio gesto del corto braccio indicò tutto l’armamentario che lo circondava: Oggi che ti serve?
.
Lo sai che è un periodo che non ci ho soldi
.
Hai niente da portarmi? A me va bene tutto meno le ceramiche. Si rompono. Pago bene. Se non ce l’hai, fregalo no? Altrimenti…
.
Lo so, lo so!
.
Allora se non ti va bene né questo né niente, che cazzo vuoi?
.
Hai visto Menico?
.
"No, non lo vedo da giorni anzi digli che si faccia vivo,