Ci guardava la luna
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1956. In una Roma aperta alla conquista dei più forti, il giovane Filippo Orsini vuole vivere il sogno di ogni giovane: la ricerca spasmodica del piacere, in tutte le sue manifestazioni.
Vicino all'appartamento in cui ha preso alloggio abita Massimo, scaltro e cinico protagonista della movida romana. Tra i due nasce un’amicizia intensa e contraddittoria: Filippo s’illude di aver trovato la ragione dei suoi giorni negli ambienti mondani da cui si sente fortemente attratto.
Il loro rapporto viene però bruscamente interrotto quando Massimo viene ritrovato morto. Filippo, accusato ingiustamente di omicidio e tenuto all’oscuro di verità altrimenti scomode, affronta un calvario burocratico e giudiziario che lo porterà alla disperazione.
Tra falsi sorrisi e promesse mai mantenute, la faccia di una Roma corrotta che tuttavia non rinuncia ad incantare con la sua eterna bellezza.
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Anteprima del libro
Ci guardava la luna - Francesco zaralli
Francesco zaralli
Ci guardava la luna
Romanzo
© Bibliotheka Edizioni
Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma
tel: +39 06.86390279
www.bibliotheka.it
I edizione, settembre 2018
Isbn 9788869343940
È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale, del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta dell’editore e con citazione esplicita della fonte.
Tutti i diritti sono riservati.
Progetto grafico: pastinadesign | Mara Scanavino
Foto di copertina
©Depositphotos.com/radkol
Francesco Zaralli
Francesco Zaralli nasce a Latina il 27 aprile 2000. Frequenta il quarto anno del Liceo Classico Dante Alighieri di Latina. Si appassiona alla scrittura fin dagli anni della scuola media: scrive romanzi brevi come La Piramide degli Specchi, Lo Scrigno Maledetto e Negli Occhi di Raphael. Collabora con la rivista giornalistica online LEDMagazine
curando articoli di arte e attualità. Oltre alla scrittura si interessa di musica e nuove tecnologie digitali, in particolar modo di videomaking.
Un romanzo che ci conduce nei labirinti di una Roma corrotta e bellissima, in cui gli splendori e le miserie della felliniana dolce vita
si abbarbicano alla turgida quanto poetica violenza di stampo pasoliniano.
Ciò che gli uomini ricordano di Filippo e Massimo
Non c’è via d’uscita.
Quando, da bambino, i miei genitori dissero che non avrei avuto il coraggio di sfidare i mostri sotto il mio letto, presi la briga di zittirli cominciando a dormire sotto di esso.
Lo feci per una settimana, alla fine della quale, come ovvio, mi dissero di essere affetto da una forte broncopolmonite. Erano stati gli spifferi di vento a ridurmi in quel modo. Si è trattato, forse, della prima sciocchezza della mia infanzia, dell’errore meno rilevante in una vita di pesanti fallimenti. Se ora ci ripenso, quei ricordi affollano la mia povera mente, lasciandola, poi, vuota come l’hanno trovata.
Speravo in un trattamento migliore su questo treno.
È stato il mio medico a consigliarmi di andarmene via per qualche tempo. In realtà, se devo essere sincero, credevo che non ve ne fosse bisogno. Lui ha tanto insistito affinché mi concedessi un momento di pausa, un meritato riposo lontano dal trambusto della quotidianità cittadina. Diceva che bisognava che respirassi aria di montagna. I miei polmoni, secondo il suo parere, cominciavano a dare evidenti segni di cedimento, vuoi per l’età avanzata, vuoi per lo stress da città.
Per questo ho accettato di scomparire per un po’.
Ho raggiunto il mio treno alle prime luci dell’alba; credo di averlo fatto per un motivo ben preciso: supponevo che non ci sarebbe stata troppa gente a voler condividere un posto con me a quell’ora del giorno. Ho voluto portare con me, oltre a scorte di medicine ed erbe dall’alto effetto soporifero, il manoscritto del mio ultimo romanzo, nella speranza che l’aria fresca di montagna mi avrebbe aiutato a concludere. In alternativa, avrei così ingannato lo scorrere di un tempo che già presagivo noioso. Ho tentato di dormire per gran parte del viaggio: sogni brutti ma inevitabili, gli stessi da un certo tempo a questa parte; ricordi della mia cupa e travagliata infanzia, immagini irremovibili quanto angoscianti.
Non c’era molto da osservare nel paesaggio.
Di tanto in tanto, spogli alberi si intervallavano a fitti banchi di nebbia su sterminate brughiere prive di colore a rimarcare ancor più la scarna desolatezza del mio malessere.
Credo d’aver fatto bene a dormire.
È stato in diverse circostanze che ho promesso a me stesso di non fare più ritorno a Roma.
La città eterna ha dimostrato di potermi lasciar andare con la stessa, triste indifferenza con la quale mi aveva accolto. Ho imparato presto a riconoscermi come l’unico uomo, all’interno del treno, vittima del suo tempo. Non c’era nulla di veramente interessante negli sguardi dei passeggeri che accompagnavano le mie ore; di tanto in tanto, l’attenzione generale veniva catturata da piccole diatribe familiari, litigi infondati tra mogli insoddisfatte e mariti visibilmente poco comprensibili.
Accanto a me prese posto un giovane intellettuale, un turista, immaginai, uno che, come me, era sognatore insoddisfatto in un mondo beffardo. Ho avuto modo di credere che fosse un tipo davvero intelligente e, senza dubbio, assai simpatico.
Scese dopo circa mezz’ora dalla partenza: se ne andò dopo aver amabilmente colloquiato con me delle sue donne.
Tuttavia, come spesso accade nelle storie più straordinarie, qualcosa turbò con prepotenza la mia apatica tristezza.
Avevo notato, tra la sparuta compagnia di passeggeri del mio scompartimento, un volto diverso, mai visto prima d’allora ma al contempo sorprendentemente familiare, un connubio di velata tristezza e dolore apparente. I suoi occhi lasciavano presupporre che egli soffrisse molto. Non credo d’aver mai visto un uomo tanto bello e interessante prima d’allora in vita mia. Sembrò avvicinarsi a lui una donna. Con assoluta grazia lei gli chiese se la sua presenza non fosse di disturbo; così, preso posto ciascuno accanto all’altro, restarono immobili a fissare un punto lontano ad entrambi, chinando la testa di tanto in tanto come a voler fuggire dal comune senso di imbarazzo. Ebbi modo di credere che volessero entrambi parlare. Come facile immaginare, non riuscirono a spiccicare parola per i primi minuti di viaggio. Fu un caso che la mia attenzione venne d’un tratto rapita da un bizzarro scambio di battute.
«Mi dica se ciò non la disturba, ma sarei sinceramente interessata a conoscere meglio la sua storia,» fece lei all’improvviso, sottraendo l’ospite ai suoi pensieri.
Sorrise nel vederlo imbarazzato, segno che anche lui mostrava interesse alla conversazione con quella perfetta sconosciuta.
«Ci conosciamo già?» le chiese allora lui. Lei negò con un garbato cenno del capo.
La presenza di quella donna lasciò me e il suo interlocutore in forte apprensione, condizione in cui restammo fino a che lei non ne chiarì le ragioni.
«Le rivelerò un segreto…» disse, facendogli segno di avvicinarsi. «Io so chi è lei; mi piacerebbe conoscere un po’ più a fondo la sua storia e quella di Massimo.»
L’uomo rimase visibilmente colpito; in verità, lo ero anch’io. Interessato a quel cordiale scambio di opinioni, mossi, senza accorgermene, le sopracciglia per una evidente reazione nervosa. Mi accadeva quando sapevo di sentirmi in seria difficoltà.
«Ha detto di conoscermi?» fece eco il giovane.
«Posso soltanto dire di averla vista in più occasioni a Roma. La prego di correggermi se sbaglio…»
«È tutto così stranamente corretto; non dovrei neppure parlarle in questo modo, ma lei…» commentò, sforzandosi, per quel che poteva, di capire qualcosa della scena che la sua ospite stava man mano delineando. Sembrava che si conoscessero da una vita. Riposi con estrema cura i miei romanzi d’appendice all’interno della ventiquattrore in pelle. Li avrei letti la sera, sdraiato sul divano nella mia nuova stanza d’albergo, se solo ne avessi sentito la necessità.
Il giovane si voltò con sguardo inquisitorio verso la sua ospite. Era visibilmente incuriosito dal suo atteggiamento e, invero, spaventato da ciò che avrebbe potuto rivelargli.
«Non c’è bisogno che io mi presenti» anticipò allora lei, portandosi le mani in avanti.
Il giovane gliele sfiorò, forse inavvertitamente. Lei sorrise, tornando, subito dopo, composta come era sempre stata e provando a nascondere un’espressione di leggero disagio.
«Non è cosa comune che si parli tra sconosciuti della vita di una persona, ma è proprio quello che le sto chiedendo di fare oggi… L’ho vista frequentare gli ambienti di Massimo.»
«L’ha conosciuto anche lei?» chiese lui, cercando un’improbabile via di fuga dall’apprensione di cui si sentiva vittima.
Lei mostrò delle foto che il tempo non aveva mantenuto integre.
Con meraviglioso stupore, ebbi modo di credere dall’espressione del giovane che, effettivamente, in una di quelle ci fosse proprio lui.
«Ho sempre sperato che qualcuno le vedesse assieme a me» disse la donna.
«Potrei chiederle di raccontarmi la sua di storia» propose lui a sua volta.
«Credo di avere abbastanza tempo per sentire la sua» concluse lei, restando a fissare quei rigidi fogli di pellicola.
«È tutto così palesemente strano. Si tratterà di un sogno, magari qualcuno ora mi sveglierà e io continuerò a vivere la mia fottuta vita di rimpianti e occasioni non colte. Come può pensare che io le stia per raccontare la mia storia?» chiese, aspettando che la donna gli rivelasse il senso di ciò che stava accadendo.
«Massimo ha voluto che un giorno ti giungessero queste foto. È stato lui a chiedermi di parlarti. Per questo dovresti dirmi tutto quello che c’è da sapere. Il nostro comune amico ha tanto sperato che, un giorno, ci saremmo incontrati…»
Egli sospirò, cedendo ad un senso di totale rassegnazione. Lei tolse dalla sua vista le vecchie foto, riponendole con estrema cura all’interno di una busta trasparente. Dopodiché aspettò pazientemente che l’uomo cominciasse a parlarle.
«Se è per una giusta causa, non vedo perché non debba raccontargliela. Mi dica, però: come è arrivata a conoscere Massimo?»
«È stato lui ad esprimere il desiderio di conoscermi, a dire il vero. Avanti, non sia timido: sono qui ad ascoltarla, Filippo.»
Conosceva il suo nome.
«Tutto comincia, com’è giusto, dal nostro comune amico…»
Capitolo I
Ci volle molto perché le piogge autunnali riportassero il clima di un tempo.
Furono piogge benigne, quelle di settembre, perché, oltre a restituire alla terra il suo aspetto originario, concessero ai romani una frescura che sembravano aver dimenticato. Filippo Marchis: era questo il nome con cui ero conosciuto negli ambienti della Roma bene. Nonostante i