Prima che l'anno termini
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Thriller - romanzo breve (64 pagine) - Ci sono delle cose da sistemare, a Cayenne. Definitivamente. E… prima che l’anno termini. Racconto segnalato al Delos Passport Contest 2020.
Guyana Francese. Mentre il popolo protesta per le strade di Cayenne al grido Nou go ke sa! – Ne abbiamo abbastanza! – un gruppo di non identificati delinquenti irrompe in una villa. Rimangono uccisi il proprietario Robert e la moglie. Si salva invece Irene, una bambina di otto anni, figliastra di Robert.
Dieci anni dopo, tornano a Cayenne Roland, fratello minore di Robert ed ex-poliziotto, e sua madre Nidia. Anche se è passato un decennio, la donna non ha dimenticato: vuole scoprire i sinora impuniti colpevoli della morte del suo amato primogenito. Vuole che trovino la giusta punizione! E Roland deve aiutarla, con la collaborazione di un investigatore privato locale. Per chiudere del tutto quel capitolo dannato, Roland affronterà un percorso che si rivelerà persino più azzardato e tormentato del previsto, tra le ombre del passato e i pericoli del presente, attraverso complesse relazioni familiari, interessi di mafie internazionali e sorprendenti rivelazioni.
Daria Camillucci è nata a Trieste, città nella quale vive e lavora come giornalista. Esordisce nel 1979 con una raccolta di poesie in dialetto, Ortighe… e un fior, a cui seguirà nel 2002 Rampigada dentro (2002). Poesie e racconti vengono pubblicati in riviste culturali, tra cui Nuovi argomenti, La Battana e Lunario Nuovo e antologie. Il suo primo romanzo pubblicato è Il confine di Tito (Ibiskos, 2007), cui segue I demoni di Villa Opcina (Ibiskos, 2012). È stata finalista o segnalata in vari premi nazionali per narrativa breve, come il Premio Mondadori Giallolatino, nelle edizioni 2016 e 2017, il Delos Passport Contest 2020 e il Premio Giallo Stresa 2021.
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Anteprima del libro
Prima che l'anno termini - Daria Camillucci
Prologo
Guyana Francese
La brezza si è fatta pesante, sa di calore e pioggia lontana. Cinque giovani, che si sono distaccati dal corteo che infiamma le vie di Cayenne, scavalcano un alto cancello in ferro, oltre il quale si intravvede un viale sinuoso costeggiato da prati e bouganville. Dei tatuaggi coprono gli avambracci del più prestante di quei ragazzi, che brandisce una pistola. Un vecchio residuato bellico, ma ancora in grado di sparare.
Il gruppo si divide. Due, armati di machete, si lanciano sghignazzando contro il massiccio portone della villa in stile coloniale, gli altri raggiungono una delle porte finestre del pianoterra. Spaccano le vetrate, armi in pugno entrano urlando.
Dal centro città arriva forte il vocio di slogan, canti e suoni. Nell’aria vibra la musica popolare del shanto che fa muovere i dimostranti al ritmo di qualche cosa di simile al calypso o al cha cha. Sono movimenti primordiali e orgogliosi, eredità di antiche movenze africane.
Una bandiera giallo verde con la stella rossa sembra voler graffiare il cielo, un nero aizza la folla. Uomini incappucciati sollevano i pugni chiusi tra la miriade di ombrelli spalancati. Piove.
C’è povertà, ma anche fierezza identitaria calpestata. È l’ennesima manifestazione di protesta creola che in quella giornata di novembre riempie le strade al grido: nou go ken sa!
Ne abbiamo abbastanza!
1
Guyana Francese. Dieci anni dopo
Il viaggio di dieci ore da Parigi a Cayenne è stato uno sfracello. Vuoti d’aria a ripetizione e la sensazione di precipitare, un supplizio per uno come me, che odia l’aereo. E adesso a bordo del taxi non va meglio, ho il ritmo cardiaco in tilt e il cuore in gola. Come non bastasse sono posseduto da una feroce emicrania, peggiorata dalla nausea che prende le viscere. Mia madre, seduta accanto a me, sembra invece appena uscita da un salone di bellezza, coi riccioli biondi a posto e il rossetto senza una sbavatura, visto che prima di atterrare non ha rinunciato a un ripasso del trucco. Malgrado abbia quasi raggiunto la sessantina, è la splendida donnina di ferro di sempre, tanto giovanile che presto il più vecchio sembrerò io, coi miei ventisei anni.
– Ti sei portato la melatonina per il jet lag, Roland?
– Certo, ma non mi serve. Il cambio di fuso orario mi sfasa per giorni.
– E pensare che Robert si era preso anche il brevetto di volo!
– Per quello che gli è servito! – sbotto, infastidito dai continui raffronti con mio fratello, il suo cocco. Siamo qui per lui in effetti. Lei ci viene ogni anno nella stessa data. Io dopo tanto tempo per la seconda volta e per due motivi.
Il primo è per accommiatarmi da lui a modo mio. Ci amavamo molto, anche se i primi tempi che viveva in Guyana ci incontravamo solo quando tornava in Italia con la moglie creola. Poi mia madre volle raggiungerlo e ci trasferimmo. Vivevamo nella sua villa da otto mesi quando avvenne la tragedia.
Il secondo riguarda il troppo tempo libero che ho da quando, due mesi fa, ho mollato il lavoro di poliziotto. Per non annoiarmi ho fatto dei lavoretti per un mio amico investigatore, ma ho presto capito che inseguire mogli o mariti fedifraghi non fa per me. Ho una laurea, ma non ho trovato qualche cosa che mi piaccia veramente fare. Così eccomi qua, turista per caso.
Come mi avesse letto nel pensiero, Nidia, mia madre, aggiunge col suo fare indisponente: – Non dovevi licenziarti. Avevi un buon posto. Non strapagato, d’accordo, ma un giorno saresti potuto diventare questore.
Ho indossato la divisa a malapena due anni e già mi vedeva capo della polizia. Vorrei farglielo notare, ma lascio perdere e dico solo: – Prima o poi avrei dovuto abbandonare Trieste, per questo o quel trasferimento, e non mi andava!
– La nostra è una bella città, ma per la carriera si fa!
– Se sei venuta per litigare potevi dirmelo che restavo a casa! – replico con una acredine che dà fastidio persino al sottoscritto. E del resto dovevo aspettarmelo che non le andasse giù che me ne stessi a far niente, se non con il compito odioso di farle in questo viaggio da damigella di compagnia.
Solo a pronunciarla la parola viaggiare mi fa venire l’orticaria: se c’è uno che non ama spostarsi, quello sono io. Ma non posso dirle il vero motivo per cui ho lasciato di punto in bianco il lavoro e, quasi quasi, preferisco nasconderlo anche a me stesso e non pensarci.
Abbiamo abbandonato da un pezzo l’aeroporto di Matoury. La nostra meta, Cayenne, dista forse una quindicina di chilometri, ma l’abitazione di mio fratello è in zona diametralmente opposta all’aeroporto. Pertanto faremo in tutto una quarantina di chilometri. Nella speranza di dare un taglio alle sue chiacchiere guardo fuori dal finestrino, ma non vedo praticamente nulla. Piove a dirotto e l’afa è opprimente e neanche a farlo apposta il taxi ha l’aria condizionata fuori uso, come ci aveva anticipato nel suo rudimentale francese l’unico tassinaro disponibile.
– Affascinante il giovanotto che abbiamo conosciuto sull’aereo, ha qualche cosa di cupo che intriga. Non trovi che somigli a Keanu Reeves? Davvero un bell’uomo e con un bel nome: Obren. Mi è sembrato l’esempio vivente del mix di razze di questo paese! Ha detto di essere creolo, il padre era francese, però secondo me ha anche sangue amerindo e nero nelle vene! E comunque tanti discendenti degli schiavi si definiscono creoli, non so se a torto o a ragione.
Faccio le spallucce. Non vedo l’ora di fare una doccia e stendermi su un letto. La stanchezza e il clima tropicale già mi pesano sulle spalle come lo zaino che portavo in groppa da militare. Un’esperienza che voleva essere una fuga da una madre oppressiva e che comunque non ripeterei per tutto l’oro del mondo.
Il tassista haitiano, che sino a questo momento ha premuto a tavoletta l’acceleratore, adesso rallenta. Siamo in centro di Cayenne di cui non ho nessun ricordo, malgrado ci avessi gironzolato nei mesi che da ragazzo avevo vissuto in Guyana. Ma non ci fermiamo perché la villa di mio fratello è fuori città.
Attraversiamo strade delimitate da edifici ben tenuti in stile coloniale che si susseguono via via. Ho l’impressione di trovarmi in una sonnacchiosa città di provincia. In lontananza scorgo l’antica fortezza, che mi fa pensare al