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L'uomo delinquente
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L'uomo delinquente
E-book339 pagine20 ore

L'uomo delinquente

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"L'uomo delinquente", rappresenta la prima completa esposizione delle teorie lombrosiane sul concetto del "criminale per nascita", secondo cui l'origine del comportamento criminale era insita nelle caratteristiche anatomiche del criminale.

Marco Ezechia Lombroso, detto Cesare (Verona, 6 novembre 1835 – Torino, 19 ottobre 1909), è stato un medico, antropologo, sociologo, filosofo e giurista italiano, padre della moderna criminologia. Esponente del positivismo, è stato uno dei pionieri degli studi sulla criminalità, e fondatore dell'antropologia criminale. Il suo lavoro è stato fortemente influenzato dalla fisiognomica, dal darwinismo sociale e dalla frenologia. Le sue teorie si basavano sul concetto del criminale per nascita, secondo cui l'origine del comportamento criminale era insita nelle caratteristiche anatomiche del criminale, persona fisicamente differente dall'uomo normale in quanto dotata di anomalie e atavismi, che ne determinavano il comportamento socialmente deviante. Di conseguenza, secondo lui l'inclinazione al crimine era una patologia ereditaria e l'unico approccio utile nei confronti del criminale era quello clinico-terapeutico. Solo nell'ultima parte della sua vita Lombroso prese in considerazione anche i fattori ambientali, educativi e sociali come concorrenti a quelli fisici nella determinazione del comportamento criminale.
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita8 lug 2019
ISBN9788834153758
L'uomo delinquente

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    L'uomo delinquente - Cesare Lombroso

    Cesare Lombroso

    L'uomo delinquente

    UUID: 14552388-9e39-11e9-bcc2-bb9721ed696d

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

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    Indice

    Introduzione

    Parte prima

    I

    II

    III

    IV

    Parte seconda

    I

    Parte terza

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    Parte quarta

    I

    Parte quinta

    I

    II

    III

    Parte sesta

    I

    II

    Parte settima

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    Parte ottava

    I

    II

    III

    IV

    Parte nona

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    Parte decima

    I

    II

    III

    IV

    V

    Parte undicesima

    I

    II

    III

    IV

    Introduzione

    Chi assiste per qualche tempo ad una serie di processi criminali e ne segue l’esito nelle carceri e nelle statistiche, con meraviglia osserva un cumulo di giudizi e fatti contraddittori che si alternano con perpetua e triste vicenda. Da una parte il giudice, astraendo quasi sempre il reo dal reato riguarda spesso il crimine come un aneddoto, un incidente della vita dello sciagurato suo autore, incidente che non ha nessuna ragione per doversi ripetere; dall’altra costui, colla rarità del pentimento, colla continua recidività, che va fino al 30, al 55, al 80 per cento, colla costante ricorrenza a dati periodi solari, si da cura di mostrare il contrario, con troppo danno e dispendio della società, e disdoro di questa povera giustizia che riesce, infine, spesso ad un giuoco di schermaglia contro il delitto recidivo e trionfante. E mentre tutti coloro che ebbero contatto diretto coi rei, come i membri della loro famiglia, i direttori delle carceri, li giudicano uomini differenti dagli altri e di mente debole o quasi alienata e mai o quasi mai suscettibili miglioria; e mentre gli alienisti trovano in molti casi impossibile lo scindere, con taglio reciso, la pazzia dal delitto, il legislatore invece spesso non si dà inteso delle ardite affermazioni di questi, né delle timide obbiezioni degli ufficiali carcerari; crede rarissime, nei rei, anzi eccezionali, le alterazioni del libero arbitrio, e spesse volte, almeno anni fa, riputava l’emenda uno dei più grandi scopi della sua terrestre missione, e stabiliva i suoi criteri legali, partendo da linee recise, inflessibili, non ammettendo alcuna gradazione fra la mente sana, l’alienata e la colpevole. — Quanto al volgo e al giurato, che rappresenta il volgo, ma purtroppo un volgo armato e potente, ei si ride degli unì e degli altri, e badando più che ai dettami della scienza, a quelli del cuore, ritorna spesso a quella, che era la primitiva giustizia, alla vendetta sociale, e quanto più strano e feroce è il delitto e maggiore del dubbio il raccapriccio, più sicuramente e fieramente colpisce. La causa di queste continue discrepanze è appunto molteplice. — I legislatori, i filosofi, uomini d’animo integerrimo e nutriti alle speculazioni più sublimi della mente umana partono. a giudicare l’animo altrui dal proprio; riluttanti al male quasi fin dalla nascita, tali credono tutti gli altri, né vogliono, né potrebbero calare dalle regioni superbe della metafisica nell’umile terreno delle case penali. Quanto al povero giudice del fatto ei soccombe assai naturalmente a quella preoccupazione momentanea, comune a noi tutti nei casi della vita, i quali ci sorprendono, così, pel loro vivo, istantaneo interesse, da non lasciarci intravedere la connessione che li stringe alle leggi generali della natura. A me parve, é non a me solo, ma anche e ben prima di me a Hàltzendorf, a Thompson, a Wilson, a Beltrami-Scalia, a Despine, a Prinz, ad. Heger, a Lisz, che a riconciliare tante discrepanze a decifrare se l’uomo delinquente appartenga alla cerchla dell’uomo sano, dell’alienato o ad un mondo suo proprio, a riconoscere se vi è o no una vera necessità naturale del delitto, meglio giovi abbandonare le sublimi regioni delle teorie filosofiche, come le indagini passionate sui fatti ancora palpitanti e procedere invece allo studio diretto, somatico e psichico, dell’uomo criminale, confrontandolo colle risultanze offerte dall’uomo sano e dall’alienato. Il frutto di queste indagini è raccolto in questo lavoro.

    Pavia, 1876.

    Parte prima

    I

    1. Le apparenze del delitto nelle piante e negli animali. — 2. Il vero equivalente del delitto e delle pene negli animali. — 3. Conclusione.

    Dopo che d’Espinas applicò lo studio della zoologia alle scienze sociologiche, Cognett alle economiche e Houzeau alle psicologiche, era naturale che la nuova scuola penale, la quale tanto si giova dei moderni studi sulla evoluzione, ne cercasse le applicazioni alla antropologia criminale e tentasse anzi farsene il primo fondamento. Infatti, a un mio primo tentativo in proposito seguì subito un altro di Lacassagne (De la eriminalité chez les animaux), e uno studio che si potrebbe dire quasi completo del Ferri (Dell’omicidio), che ne confermano l’importanza. I vecchi giuristi parlano di una giustizia divina ed eterna, quasi inerente alla natura; se invece diamo uno sguardo ai fenomeni naturali vediamo che gli atti reputati da noi criminosi sono anch’essi completamente naturali, tanto son diffusi e frequenti tra gli animali e perfino nelle piante: « porgendoci la natura », come ben disse Renan, « l’esempio della più implacabile insensibilità e della più grande immoralità ». Molte e interessanti furono le osservazioni che dopo Darwin si fecero da Drude, Koln, Rees e Vili sulle piante insettivore, cioè In quelle specie di Droseracée, di Saracenacee, di Nepentacee, di Utriookirie, nonché nel Cephalotus fotllcularis, che commettono delle vere uccisioni sugli insetti. E già solo per le uccisioni il Ferri nel suo Omicidio ha potuto distinguere (pag. 9), a seconda delle cause, 22 categorie di uccisioni tra animali della stessa specie, le quali hanno una rispondenza perfetta nell’eziologia del delitto umano. Vi sono anzitutto uccisioni determinate dalla lotta immediata per l’esistenza, o e per la ricerca del vitto, che da luogo a lotta tra maschi e femmine nel tempo degli amori; per il comando dello stuolo che tra i ruminanti spetta alle vecchie femmine senza figli e nelle scimmie ai maschi, che però devono lottare tra loro per conquistarselo. — Le api non hanno che uno sola regina che, se il caso, ne fornisce poche, queste sono uccise. E così è messa a morte la vecchia regina, che non ebbe ancora il tempo di sciamare, quando sta per nascere la sua rivale la vecchia sovrana allora, racconta il Buchner, fa per sua parte tutti i tentativi per rendere impossibile l’innalzamento al trono della rivale, e precipitandosi nelle celle che racchiudono le regine-larve, le trafigge e ne uccide le abitanti. — Così Darwin, (Scelta sessuale, 472), racconta di due buoi che aggredirono concordi il vecchio duce della mandria, il quale poi si verificò più tardi di uno dei suoi assalitori che trovò isolato. E sono ben note le lotte accanite dei maschi per il godimento delta femmina, su cui Darwin fondò il principio della scelta sessuale. Inoltre, anche certi istinti utili alla specie possono pervertirsi; accadono infatti uccisioni per amore, per affetto materno, come in certi uccelli, i quali secondo quanto racconta il Brehm nella sua Vita degli animali, uccidono i pulcini dei vicini per far star meglio i propri; o per difesa; o per utilità comune, come l’uccisione già accennata delle api sulle regine non necessarie e dannose; e persino per punizione: un concetto che anche negli animali ha tanta influenza, che vi abbiamo fondato sopra il sistema di addomesticamento e di ammaestramento.

    2. Ma pure il solo annunciare che reputiamo delitti coteste uccisioni, e così pure il furto con destrezza e per associazione nelle scimmie, il domestico nei gatti, il ratto di minori nelle formiche rosse, la sostituzione d’infante, nel cuculo, che mette l’uovo nel nido dei passeri, sottraendovi qualcuno dei suoi per meglio ingannarti, parrebbe poco serio, perché è ovvio comprendere come codeste azioni che a noi paiono misfatti, sono invece effetto necessario della eredità, della struttura organica o imposte dalla concorrenza per la vita (Uccisione dei pecchioni); della scelta sessuale, dalla necessità sociale, per impedire discordie (uccisione dei capi), o dal bisogno di alimento in animali voracissimi, lupi, sorci, e dalle consecutive guerre che li fanno somiglianti a noi quando ci battiamo col nemico o quando mangiamo polli o buoi senza ombra o sospetto di essere incriminati. Ma essi giovano a mostrarci l’inanità del concetto della giustizia assoluta e porgerci già un primo amminicolo a spiegarci il sorgere con sì perpetua costanza delle tendenze criminose, anche in mezzo alle razze più incivilite e con forme che ci fanno ricordare le più tristi fra le specie animali e a spiegarci perché nelle epoche antiche, che erano forse più logiche delle nostre, si combinassero in tutta forma gli animali nocivi o poco rispettosi delle cose che l’uomo reputava sacre. Ma al di fuori di questi delitti — che non si possono chiamar tali perché si riferiscono a istinti generali nella specie - troviamo negli animali delle azioni propriamente dovute a una speciale perversità individuale, che il nostro Codice penale chiamerebbe «di prava malvagità». Casi di questo genere sono stati osservati specialmente e coi più facilità negli animali domestici, dei quali alcuni, dice il Pierquin, sono presi a volte da in furore battagliero che nulla può spiegare. Il cane, ad es., ne offre frequenti esempi. Gali racconta di in barbone, che malgrado fosse nutrito abbondantemente, cercava dappertutto nelle strade l’occasione di combattere, rientrando sempre a casa coperto di ferite; tra gli elefanti narra il Brehm che i rogues, individui di maligna indole, espulsi dallo stuolo, son costretti a vivere da soli e diventano sempre più perversi. Vi sono, dice ancora il Pierquin dei canarini con tendenze così feroci, che rompono e mangiano le uova appena le femmine le hanno deposte o, se i pulcini riescono a nascere, li prendono col becco, li trascinano via e li uccidono. Tutti i padroni di serrargli hanno osservato che di parecchi animali della stessa specie, alcuni sono buoni e addomesticabili, altri sono sempre ribelli ad ogni metodo o cura educativa; e il medesimo mi diceva il prof. Foà dell’animale più mite che vi sia, a conclusione di tutte queste analogie, che negli animali ritroviamo dei delitti veri e propri; perché alle varie azioni sin qui enumerate noi non possiamo associare, senza cadere in un assurdo antropomorfismo, una qualsiasi idea morale di responsabilità e di colpa. Eppure, nel Medio Evo sì son fatti processi agli animali (D’Addosio), che se commettevano qualche delitto erano incarcerati e giustiziati: s’intentavano processi civili contro i bruchi che avevano invaso un campo, a richiesta del proprietario, con citazioni agli animali, difensori, discussioni fatte in base alle Pandette, sentenze, intimazioni: tutto l’armamentario giuridico, insomma, sfoderato contro bruchi, farfalle, lumache, ecc., ammettendo in loro quella libertà e volontà di delinquere che oggi sono il presupposto dei nostri sistemi penali. Ora, per quanto voglia affaticarsi nelle distinzioni chi crede ad un distacco profondo, fisico e psichico, tra gli animali e l’uomo, tutto porta invece a far ammettere, nello stadio attuale delle nostre conoscenze che vi è una continuità, un passaggio insensibile da molti di quegli atti dei bruti a quelli che nell’uomo chiamiamo criminali. Anche negli animali, infatti, essi sono manifestazioni pure e semplici dell’istinto, connesse strettamente alla loro natura stessa, dipendenti direttamente dalla loro organizzazione; la perversità che fa commettere questi atti è una tendenza tutta personale a dati individui anormali, ignota agli altri della stessa specie che rifuggono dalle uccisioni, dai furti, ecc., contro i loro simili; e anche in tal caso essi dipendono da una particolare struttura organica, che passa in atto per una folla di quegli stessi motivi — amore, cupidigia, vendetta, ecc., che influiscono anche nella genesi del delitto umano; ed hanno le stesse forme di violenza, d’insidia, di collettività che nell’uomo: e sono, spesso come in questo, seguiti talora da una reazione punitiva. Pertanto il delitto non è una manifestazione esclusiva degli uomini, ma è un fenomeno naturale che si verifica anche nel mondo organico inferiore, sia animale che vegetale, sempre connesso sin dalle sue prime manifestazioni alle condizioni dell’organismo, delle quali è un effetto durevole. È un fatto però che noi colle pene riusciamo modificare in certi animali alcune abitudini, non tutte però, e non in tutti. Noi tentiamo sviluppare la moralità animalesca che in gran parte consiste nel darci il massimo profitto con minimo danno, adoperando ora mezzi crudeli ora subdoli. Allen racconta che per liberarsi delle scimmie che gli avano continuamente lo zucchero, prese una nidiata scimmiottini, li spalmò di zucchero e ci emetico. Tornati ai loro nidi le madri li leccarono e dopo stettero assai male, il ché le persuase a non tornar più alle piantagioni. Ferri racconta che in modo analogo si liberò di un cane che lo importunava. Ma vi hanno animali, osserva il Brehm, in cui neanche le pene più atroci possono sradicare certi istinti, così avviene dei gatti, che nessuna pena può spesso convincere di non rubare. Il Brehm nota che fra le scimmie mentre colle minacce e colle pene tutto si ottiene dai babbuini, niente si ottiene dai cinocefali. A proposito delle pene, una osservazione accurata ha dimostrato che alle volte si ottiene coi buoni trattamenti o con misure indirette ciò che non si ottiene colla forza, soprattutto col premio. Già da molti anni Lessona notava come coi cavalli più si ottenga cogli stimoli e coi premi che coi mali trattamenti. Tutto ciò conferma già nel mondo animale la utilità delle pene e la possibilità di ottenere effetti più utili con mezzi meno brutali — coi preventivi di cui parleremo nell’ultima parte.

    II

    1. Delitti di libidine. — 2. Omicidio. — 3. Furto. — 4 . Primordi delle pene. — 5. Conclusione.

    Anche lo studio dei costumi dell’umanità primitiva e dei popoli selvaggi attuali, i quali ne ripetono, fino ad un certo punto (Ferri, Omicidio, pag. 44, in nota), le condizioni, dimostra che le azioni da noi chiamate criminose costituiscono tra essi la regola, non l’eccezione; sono cioè delle manifestazioni individuali e sociali perfettamente lecite e normali. Che infatti, in origine, non vi fosse una differenza ben chiara tra la semplice azione e il delitto, in modo che questo, al suo primo stabilirsi, portò i nomi con cui s’indicava ogni semplice e legittima azione, è attestato anzitutto da prove filologiche in varie etimologie. Secondo Pictet, il nostro crimen deriverebbe dal sanscrito karman (Vanicek però lo nega, e lo fa derivare da kru, udire; croemen, accusatio), che equivale ad azione, kri, fare. Ad ogni modo anche apaz, in sanscrito peccato, corrisponde all’apas, opera, opus; il latino facinus deriva da facere, e culpa deriverebbe, secondo Pictet e Pott, da kalp, in sanscrito fare, eseguire. E fur, ladro (che secondo Vanicek deriva da bahr, portare), come l’ebraico ganao, ed il sanscrito sten, non significano propriamente altro che porre da lato, da parte, nascondere, coprire (gonao).

    1. Ma prove ancor più chiare ci offrono gli usi e i costumi dei vari popoli primitivi e selvaggi. In molti di essi, per es., il reato di libidine nelle sue varie forme, come lo intendiamo noi (art. 331-360 Cod. pen.), non esisteva, dacché la parola stessa pudore verrebbe, secondo il Marzolo, da putere, e l’idea non se ne sarebbe sviluppata che tardi nella donna dal desiderio di nascondere ed evitare gli effetti ingrati delle secrezioni alterate negli organi genitali, tenendoli coperti. L’atto copulativo stesso nulla aveva che offendesse il pudore ed il senso morale di molti popoli antichi. Gli abitatori del Caucaso, gli Ausii dell’Africa e gli Indi lo esercitavano in presenza di chi si fosse, come fanno le bestie (Erodoto, I, 305; III 301). — I Tirreni così usavano talora nei loro conviti. — E l’organo virile, indicante forza, serve appunto a ricordare dall’alto delle colonne votive erette, per esempio, da Sesostri, il valore dei popoli che gli resistettero; e la vulva, la debolezza dei popoli facilmente soggiogati (Diodoro Siculo, I, 55; Strabone, LXVI). — Nelle feste Phallofore in Grecia, le giovinette portavano in processione un Phallus d’enorme volume, sorgente da, una cesta ed ornato di fiori. Facevasi prima di legno di fico, e poi d’una pelle rossa che gli Itifalli ponevansi tra le coscia, onde sembrava sorgere dal loro corpo. — Un simile culto persiste ancora, scrive Edmund Bucley, nel Giappone, in cui vi sono templi con falli e kteis, cioè immagini dell’organo sessuale maschile e femminile. La prostituzione che noi vedremo rappresentare nella donna l’equivalente della criminalità mascolina, era invece allora la regola generale, e quindi non era affatto vergognosa. In California non vi ha, fra i selvaggi, neppur la parola matrimonio; la gelosia incomincia quando la donna si dona ad uomini di altra tribù. — Negli Andamani (ed anche in alcune tribù della California) le femmine appartengono a tutti i maschi della tribù, e resistere ad uno di essi sarebbe colpa; qualche volta si notano delle unioni temporarie, specie quandt3 la donna diventa gravida, ma che cessano coll’allattamento. Anzi, nei popoli primitivi, la prostituzione ospitale era un dovere. La offerta della moglie si trova a Ceylon, nella Groenlandia, nelle Canarie, a Tahiti, dove il rifiutare una ragazza è un’offesa. Ciò che per noi è la maggior colpa per una ragazza: d’aver avuto molti amanti prima delle nozze, era invece titolo d’onore presso le donne dei Giudani d’Africa (Erodoto, IV) e del Thibet: esse portavano per ornamento tanti anelli quanti amanti avevano avuto, e quanti più erano, tanto più splendide riuscivano le nozze. Questa promiscuità primitiva fu perpetuata dalla religione, che suol sempre santificare e cristallizzare gli usi antichi, nella cosiddetta prostituzione sacra, anch’essa diffusa in tutta l’antichità e ancor viva nell’India. Erodoto dice che, eccettuati i Greci e gli Egizi, tutti gli uomini mescevansi all’altro sesso nei templi (I, 199). — A Cipro, le ragazze si vendevano ai forestieri sulla riva del mare, ed il peculio, raccolto in cassa comune, serviva per la loro dote. Ma anche qui l’uso è sacro, ché vi furono spinte dopoché Venere (dice la leggenda) mutò in pietra le recalcitranti (Dufour, Histoire de la prostitution, 1836). Come la prostituzione, anche la sodomia regna in certi popoli senza esservi bollata d’infamia. È comune ai Neo-Caledoni, scrive Bourgarel (Des races de l’Océanie, II/289), il riunirsi in molti in gruppi infami. — Uno degli Dei Taiziani (Letourneau, pag. 63) presiedeva a codeste riunioni, che erano comunissime anche tra gli antichi Messicani, i cui cinedi vestivano da donna (Diaz, Histoire de la conquete de la Nouvelle Espagne, 11, 594). La pederastia ha avuto in Asia una grande diffusione, e di là si estese a Creta e specialmente alla Grecia, ove sotto forme più o meno larvate fu pratica onorevole e comunissima (Schrenknotzing). Persino la bestialità, cioè l’unione sessuale di uomini con bestie, ebbe probabilmente assai diffusione e favore. I termini di far le corna, far becco, cervo — in ebraico kèren, in tedesco Hornertrager — ci fanno sospettare che i nostri proavi amoreggiassero senza vergogna cogli animali, così come ora accade dei Finni colle renne, quando stanno parecchi mesi lontani dalle donne. — Anche qui la religione perpetuò col capro di Mendes l’infame abitudine a Pane diè per moglie una capra; e un oracolo dei tempi di Romolo, che diede luogo ai Lupercali, sentenziava: «Italicas matres caper hircus mito» (Ovid., Fast., 11, 441). Dalla Venere promiscua e da tutta codesta incosciente corruzione sessuale l’uomo non passò alla monogamia e alla nostra morale sessuale che attraverso la poliandria, l’incesto, lo stupro ed il ratto; tali passaggi sono per noi doppiamente interessanti, anzitutto perché anche queste forme furono dunque un tempo lecite e normali, poi perché mediante esse, mediante, cioè, atti di barbarie e di violenza si costituì una istituzione così altamente civile e morale qual è il matrimonio e la monogamia, con un’origine analoga a quella della giustizia e della pena, che nacquero anch’esse, come vedremo, dall’arbitrio e dal delitto. Questa genesi del matrimonio c’è attestata da numerosi esempi che ne segnano tutta la scala evolutiva. La promiscuità della donna, anzitutto, dalla tribù passa alla famiglia semplicemente per un atto di prepotenza, per cui si preferisce che una proprietà, come è considerata la donna, sia goduta dai membri della propria famiglia piuttosto che dagli altri membri della tribù (Spencer, Sociologia, 11). Analogamente agì l’incesto, per l’orgogliosa pretesa dei capi di serbare pura la razza, per cui nel Perù gli Incas, nell’isola Havai i nobili, nell’Egitto i re, sposarono a tale scopo soltanto le sorelle. Ma quello che più contribuì a trasformare in monogamia l’unione sessuale fu il ratto, che si vede infatti praticato presso molti popoli, negli Araucani, nei Fueggiani e negli antichi Russi, Lituani, Polacchi, Cinesi e Romani (De Gubernatis, Riti nuziali, 1878). L’uomo vi dovette ricorrere sia per sottrarre le donne agli altri uomini, quando erano scarse in confronto, ad es., con una violenza che risponde alla lotta per la scelta sessuale, descritta tra gli animali dal Darwin; sia perché la donna era renitente a sottoporsi al duro dominio dell’uomo, spesso nemico; sia. finalmente per assicurarsi il possesso di questa vera fonte di ricchezza, che era per il selvaggio pigro e indolente, la donna, così sottomessa, laboriosa e industre. Di tale origine dell’attuale matrimonio dalla unione per ratto si ha una traccia negli usi iniziali anche moderni, di cui il Ferrero, nei suoi Simboli (ed. Bocca, Torino), ha rivelato recentemente il significato.

    2. Come dei reati sessuali il medesimo è avvenuto anche dei reati di sangue, i quali, nelle loro svariate forme, sono atti leciti, normali nella vita primitiva e selvaggia. L’aborto, per esempio, è comune fra i selvaggi d’America, alla baia d’Hudson ed al bacino del Orenoco; nella Plata i Payaguas fanno abortire le loro donne, dopo che queste hanno avuto due figli, e così fanno i Mbayas, loro vicini. — Tra i Papuani di Andai- le donne muoiono giovani per « l’uso generale di procurare aborti dopo il primo od il secondo figlio » (Giglioli). Assai più frequente dell’aborto fra i selvaggi è l’infanticidio ne sono vittime i figli nati dopo il primogenito o il secondogenito, e assai più le femmine dei maschi (Letourneau, Sociol., pag. 134). I Tasmaniani i Pelli Rosse e gli Eschimesi usano seppellire colla madre anche i bambini, per la credenza religiosa che la madre dal Killo, soggiorno dei morti, chiami suo figlio, e per l’impossibilità di allevare il piccolo orfano. L’omicidio stesso si rinviene come consuetudine, come funzione socie normale, anzitutto sotto la forma più mite di abbandono e uccisione degli impotenti al lavoro, vecchi, donne e malati: l’origine ne fu probabilmente l’eccesso della popolazione; ma l’uso si è poi e riservato per trasmissione ereditaria, come obbligo dei figli o dei conoscenti, anche quando il bisogno non lo esigeva, e col consenso degli stessi sacrificati. Tra gli Ottentotti appena un individuo si trova per vecchiaia nella impossibilità di lavorare e non può rendere più alcun servigio, viene relegato in una capanna solitaria, lontana dal Kraal, con una piccola provvista di viveri, finché muoia di fame o sotto le zanne delle belve (Dubbock, 312). — Alla Nuova Caledonia le vittime stesse trovano la cosa naturale e chiedono esse medesime la morte, recandosi alla fossa, ove sono gettate dopo un colpo dì mazza sulla testa (Letourneau, Sociol., 142). — Alle isole Fijii quest’uso era molto più generale ed era favorito dalla credenza religiosa che si arrivasse nella vita futura nell’identico stato in cui si era abbandonato questo mondo. Del resto l’uso di uccidere i vecchi e gli ammlati non è esclusivo ai soli selvaggi, ma fu praticato anche in Europa (Houzeau, 11, 35) prima che le idee morali e giuridiche avessero raggiunto il grado di evoluzione degli ultimi secoli. Così l’omicidio era veramente un atto abituale, sistematico, come dice Williams, uno degli avvenimenti ordinari della vita; nelle più svariate occasioni; o per riti funerari, o per sacrificio religioso, o per pura malvagità brutale, cioè senza alcun apparente pretesto. Vi si trova anche associato il feroce cannibalismo, nato dal bisogno di nutrizione, specialmente nelle isole, poi eccitato dal furore guerresco e consacrato dalla religione presso popoli selvaggi. — Nell’antico Messico si mangiava carne umana - per sacrificio o com’è segno di vittoria. — Dai Khonds dell’India Centrale fino ai tempi da noi poco lontani si usava, dopo molte cerimonie, condurre la vittima nel bosco sacro, ove non appena il janni o prete l’aveva ferita colla scure, la folla si slanciava sulla vittima per impadronirsi di un pezzo di carne, e, in un momento, le ossa erano messe a nudo e abbandonate sul suolo (Lubbock, 637). L’espressione di cannibalismo giuridico, che il Letburneau adopera a significare il cannibalismo usato come punizione di malfattori, serve a noi per indicare anche il cannibalismo per vendetta di sangue, la quale è il germe della punizione medesima. Quando Cook visitò l’Arcipelago Tahitiano il cannibalismo vi era già quasi scomparso e non ne rimaneva traccia che nelle cerimonie religiose. Tuttavia di quando in quando, e solo per spirito di vendetta, si arrostiva e si mangiava ancora un pezzo del nemico vinto; in generale però l’antropofagia vi era condannata dalla pubblica morale. All’isola Bovo si divoravano gli assassini, e, secondo Bourgarel, il cannibalismo giuridico si praticava anche alla Nuova Caledonia come vendetta pubblica contro i condannati a morte. — Secondo Marco Polo era in uso anche presso i Tartari.

    3. Le tribù affatto selvagge e le comunità primitive non avendo proprietà individuale non hanno l’idea del furto. Però si sa che in Egitto quella di ladro era una professione riconosciuta: chi voleva esercitarla scriveva il proprio nome in una tabella pubblica e portava in uno stesso luogo tutte le cose che aveva rubate, perché i possessori le potessero ricuperare pagando una certa

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