Musica divina
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Musica divina - Paola Picasso
DIVINA
CAPITOLO UNO
La sala Santa Cecilia dell’Auditorium vibrava come un’immensa cassa armonica. I lucidi pannelli di ciliegio che rivestivano il soffitto parevano riverberare ogni nota come immensi specchi sonori. E laggiù sul palcoscenico, splendido nel suo isolamento, Massimiliano Rocca, suonava il pianoforte.
Ma suonare era un termine riduttivo. Max rendeva vibrante lo strumento, lo faceva parlare, gemere, singhiozzare. Lo trasformava in un corpo vivo e pulsante che con ogni battito del cuore, con ogni singolo accordo, trasmetteva agli ascoltatori un’ondata di emozioni così intense da trascinarli ebbri e storditi in uno spazio di pura melodia.
Le note penetravano in Silvia attraverso le orecchie, ma era la sua pelle ad assorbirle, era il suo cuore a ritmarle ora adagio, ora convulsamente in un crescendo parossistico che finiva per dissolversi in un flusso d’amore così impetuoso da farle perdere coscienza di se stessa.
Bastavano pochi accordi e lei in quanto essere umano cessava di esistere. La sua pelle diventava lo spartito che Massimiliano sfogliava, le sue membra erano i tasti che toccava, il suo corpo una torcia che ardeva davanti all’altare del suo talento.
Seduta in punta di poltrona di lato al palcoscenico, ammaliata, gli occhi annebbiati di lacrime e il respiro spezzato, Silvia seguì con lo sguardo gli arabeschi magici che le mani di lui tracciavano, volando sulla tastiera. Le sue dita pallide, affusolate, sensibili a ogni vibrazione, traevano dallo strumento degli accordi inattesi, ora tumultuosi, violenti, un vero assalto di note aspre e incalzanti; altre volte arpeggi delicati, tintinnati, dolci come pioggia che cade sulle foglie in autunno. Esplosioni sonore che evocavano l’arrivo di un uragano e pochi istanti dopo, con un semplice passaggio di tonalità, lo scorrere di un ruscello nel folto di un bosco.
La chioma scura e ondulata che incorniciava la testa fiera di Massimiliano riluceva sotto i fari. Il suo profilo spiccava quasi candido contro il fondale scuro e vuoto e a volte si rifletteva sulla superficie lucida dello splendido pianoforte a coda. Il suo sguardo non era fisso sul leggio, ma rivolto all’interno del suo animo, nel posto sacro che aveva riservato alla musica.
A trentaquattro anni Max era diventato il più grande esecutore europeo di Beethoven. Un pianista eccezionale, conteso e acclamato da tutti.
L’emozione era così intensa che gli occhi di Silvia si velarono di lacrime. Musicista lei stessa, dotata di un certo talento, ma non geniale, terminata l’accademia musicale era stata assunta come insegnante di violino. Niente palcoscenici mondiali per lei, niente esibizioni davanti a un pubblico in delirio, nessun articolo sui giornali, ma le andava bene così. Timida e schiva com’era, preferiva la pacata penombra di un’aula allo sfavillio di un palcoscenico.
Innamorata perdutamente, viveva di luce riflessa. I trionfi di Massimiliano erano i suoi trionfi perché era lui stesso a farglieli condividere affinché vivesse le sue stesse emozioni e ne godessero insieme mentre la teneva tra le braccia, dopo il tumulto d’amore.
– Sai qual è il mio successo più grande? – gli aveva detto Silvia una notte, mentre giacevano abbracciati sul letto. – Aver conquistato il tuo cuore. Mi domando ancora in che modo ci sono riuscita.
Lui si era messo a ridere.
– Dovresti chiederti in che modo avresti potuto evitare che io cadessi ai tuoi piedi, folgorato.
– Mi prendi in giro.
– Niente affatto. – Massimiliano aveva acceso la luce, si era messo a sedere e le aveva preso il viso tra le mani. – Incontrati e amarti è avvenuto in un istante – aveva sussurrato con solennità. – Eri tu la donna che aspettavo, l’altra metà di me stesso. Ti ho stretto la mano nella mia, compìto come l’allievo di un convitto, dicendo che ero felice di conoscerti, ma avrei voluto rapirti e portarti in un posto
inaccessibile a tutti, salvo a me stesso. Non ti sei accorta che dal momento in cui le nostre dita si sono intrecciate, sei stata mia?
Silvia si era stupita.
– Non osavo guardarti negli occhi. Ero in preda a un timore reverenziale. Il tuo nome era già sulla bocca di tutti mentre io ero un’oscura insegnante di violino del Conservatorio. Come potevo immaginare di piacerti? Non sono tanto bella da colpire lo sguardo e sono troppo giovane e inesperta per essere affascinante.
Max aveva scosso la testa.
– Tu non capisci, non vedi. Non ti accorgi di emanare una luce purissima. Nel tuo animo splende un sole abbagliante che attira ogni sguardo. I tuoi capelli di seta… – aveva sussurrato, facendosi scorrere la massa di fili d’oro pallido tra le dita. – La tua pelle di raso – aveva continuato, accarezzandole il viso. – La tua bocca di miele – aveva aggiunto, baciandola. – E i tuoi occhi così limpidi e chiari da ricordarmi il cielo in primavera quando il vento del mattino ha spazzato le nuvole e resta solo l’azzurro...
Silvia aveva riso per nascondere la commozione.
– Avresti dovuto fare il poeta, non il pianista.
– Sei tu che mi rendi poeta e sei sempre tu che esalti il mio talento. – Il tono di Massimiliano aveva avuto una strana solennità e un brivido gli era passato sul viso. – Se non mi avessi amato, avrei finito per smarrire il mio dono.
– Non parlare in questo modo – aveva protestato lei, spaventata da quell’amore così forte da rischiare di diventare devastante.
– Ti sembrano delle iperboli? – D’improvviso la sua espressione era cambiata. I tratti del suo volto si erano distesi in un sorriso scherzoso. – È possibile. L’arte sfiora il confine della follia. Genio e pazzia sono inseparabili. Tocca a te, mia dea ispiratrice, sgominare la follia e proteggere il genio.
Un applauso scrosciante distolse Silvia dai ricordi. La gente era in piedi e batteva le mani. Qualcuno urlava bravo
a pieni polmoni. Max, ritto sul palcoscenico illuminato dai fari, inchinava il busto ripetutamente, ma il suo sguardo cercava lei, la sua approvazione, il suo sorriso.
Il cenno che le rivolse fu impercettibile, ma Silvia lo vide e si affrettò ad andare nel suo camerino inondato di fiori. Mazzi variopinti, cesti colorati, delicati bouquets coprivano ogni superficie. Il profumo era così intenso da stordire ma fu l’abbraccio appassionato, tremante e supplichevole di Max a procurarle uno smarrimento totale.
– Ebbene? – sussurrò lui con ansia malcelata.
– Sei stato magnifico. La platea era in estasi.
– E tu?
Silvia lo baciò.
– Io più di chiunque altro. Lo sai – rispose, respingendogli una ciocca dalla fronte imperlata di sudore. – Sei stato… insuperabile – aggiunse, notando il suo pallore, il suo viso tirato. – Ma adesso devi andare a casa e riposare. Hai bisogno di recuperare le tue energie. I concerti così impegnativi e intensi ti prosciugano.
– E tu dove andrai?
– Ho detto a mia madre che sarei tornata da lei dopo il concerto.
Max le indicò il telefono.
– Chiamala e avvertila che resterai con me.
– Vorrei che dormissi – si schernì lei. – Non devi pretendere troppo da te stesso.
– Dormirò tra le tue braccia – insistette lui. – Telefona.
– Max…
– Ti prego! – Il tono era rabbioso e insieme disperato. – Come fai a non capire che ho bisogno di te? Tremo ancora, senti! – ordinò, premendosi la sua mano sul petto. – La tensione mi abbandona solo se mi stringo a te. Solo con te e in te riesco a placarmi.
Il suo sguardo ardeva come se fosse divorato dalla febbre. Silvia annuì. In silenzio formò il numero di casa sua e attese che la madre rispondesse.
Benché malandata in salute, affetta da un’artrite deformante che la obbligava a spostarsi spesso con una seggiola a rotelle, Anita Gherardi l’aspettava sempre alzata.
– Silvia? – domandò, alzando il telefono.
– Sì, mamma. Volevo dirti…
– Che non tornerai nemmeno questa notte – concluse Anita in tono rassegnato. – Lo immaginavo. Domattina passerai da casa prima di andare al Conservatorio?
– Certo, mamma. Hai bisogno di qualcosa?
– Mi servirebbero delle gambe forti e delle ossa robuste. E vorrei che le mie due figlie non corressero tanti pericoli.
– Gloria non sta bene?
– Questa smania di continuare a fare dei tentativi inutili nella speranza di concepire un bambino finirà per distruggerla. Ma non è lei che mi preoccupa.
Silvia vide che Max, ormai tranquillizzato, si stava cambiando dietro un paravento. Sembrava ignorarla, ma per precauzione, abbassò