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Sibrium
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E-book678 pagine9 ore

Sibrium

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Info su questo ebook

Al tramonto del medioevo diverrà un importante castello, oggetto delle dispute tra le prime signorie di Milano, ma nell'ottobre del 476 Sibrium è solo uno sperduto avamposto del decaduto impero romano d'Occidente, ai limiti settentrionali della pianura lombarda.
Le vicende del comandante della locale guarnigione, Marco Terenzio Ambusto, si intrecciano con quelle dei suoi soldati, delle persone a lui care e di tutti gli abitanti del circondario, che confidano nel valoroso ufficiale, per essere guidati e protetti in un periodo di angosciante incertezza sul futuro.
A reclamare un terzo delle terre coltivabili, si attende l'arrivo degli uomini del nuovo padrone d'Italia e nuovo re dei Germani, Odoacre, guidati da suo nipote, Edecon, un barbaro cresciuto come ostaggio alla corte di Costantinopoli.
Su tutti incombe la minaccia di altri barbari, i Burgundi, che spinti dalla fame e dalle carestie, oltre che dall'avidità, potrebbero presto affacciarsi al di qua delle Alpi.
Uno scenario in apparenza lontano dalle vicissitudini più famose di quel periodo, senza grandi sconvolgimenti o sanguinose battaglie campali, ma non per questo meno ricco di umanità e di pathos.
Diplomazia, astuzia e lotta per il potere, si alternano a intrighi e tradimenti, sullo sfondo di amori contrastati, dove la maggior parte dei protagonisti pare del tutto inconsapevole di vivere la fine di un vecchio mondo e la nascita di uno nuovo.

 
LinguaItaliano
Data di uscita15 nov 2018
ISBN9788832144031
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    Anteprima del libro

    Sibrium - Alessandro Cuccuru

    PARTE

    I

    Sibrium, domenica 3 ottobre 476 d.C.

    In piedi sul punto più alto del torrione principale, immobile come una statua, le mani serrate dietro la schiena, Marco Terenzio osservava dritto davanti a sé il disco rosso del sole scendere dietro le cime degli alberi, che gettavano la loro lunga ombra sulle povere case sparpagliate davanti all’ingresso principale del castrum, pochi passi oltre il fossato.

    Se ne stava lì da solo in silenzio ormai da quasi un'ora, tutto immerso nei suoi pensieri. Teneva le gambe divaricate e i piedi ben piantati sul pavimento di legno di quella poderosa costruzione di pietra a pianta semicircolare. Gli venne a un tratto voglia di batterlo con la suola dei calzari: quercia robusta, lo stesso materiale usato per fabbricare il massiccio portone incastonato tra le mura, proprio sotto di lui. L'ufficiale romano sporse di poco il capo dalla balaustra per ammirarne la solidità.

    L'autunno era cominciato da due settimane ma i primi freddi tardavano ad arrivare. Marco avvertiva una sorta di lieve tiepida brezza spirare da sud, come se tutti gli incendi, figli naturali della precedente tremenda estate di devastazioni, ancora non si fossero spenti e continuassero a diffondere il loro mortale calore a miglia e miglia di distanza.

    Ancora fuoco, ancora sangue, ancora guerre. E quei rozzi tuguri lì sotto? Chi mai sarebbe stato in grado di difenderli, se fossero stati attaccati? Perché Gaio un giorno aveva concesso il permesso di costruirli?

    Forse offesa da quei pensieri, la porta della più vicina tra quelle abitazioni si aprì di colpo, lasciando uscire una ragazza, vestita solo di una corta tunica di lana grezza, stretta in vita da una cintura di corda: era ciò che il padre preferiva vederle addosso, convinto che la rendesse meno attraente agli occhi dei soldati della guarnigione. Una pia illusione: invece di celare le splendide forme della fanciulla, quell'abito finiva con l'esaltarle.

    Fuori dall'uscio, a destra, al riparo di un tetto di paglia piuttosto sporgente, c'erano alcune fascine di rami, accatastate ben bene contro la parete: la giovane si chinò per prenderne una e per poco la lunga treccia di capelli neri che le correva lungo la schiena non vi rimase impigliata.

    Prima di rientrare, ebbe la sensazione di essere osservata e gettò un fugace sguardo alla sommità della torre: l’ufficiale romano la salutò con piccolo cenno della testa, senza abbandonare la sua marziale postura serrando più forte le mani dietro la schiena. Con il braccio rimasto libero dall’impiccio della fascina la ragazza ricambiò il saluto, accompagnandolo con un sorriso. Poi rientrò in casa e richiuse la porta alle proprie spalle, sprangandola.

    Questa volta fu il rumore degli zoccoli di un cavallo lanciato al galoppo a interrompere il corso delle sue riflessioni: giungeva dall'ampio sentiero in terra battuta, lungo poco più di un miglio, che collegava la fortezza al vicus. Si accostò al parapetto che si affacciava in quella direzione, ma a causa della luce ormai fioca e della distanza, non fu subito in grado di distinguere le fattezze del cavaliere. Ci riuscì invece la sentinella di guardia alla torre meridionale.

    «È Unter!» gridò forte. «È già tornato… Comandante, è tornato Unter!»

    «L’ho visto, l'ho visto! Adesso lo riconosco anch’io.»

    Marco Terenzio si sporse verso il lato interno della torre e impartì l’ordine alle due guardie che stavano dietro il portone: «Aprite» gridò, «e non appena sarà entrato richiudete in fretta!»

    Poi sollevò la botola al centro della piattaforma, raccolse il mantello scarlatto che aveva appoggiato sul pavimento e si precipitò giù lungo la scala di legno. Quando arrivò al piano terra e uscì all’aperto, Unter era già smontato dalla sella e gli stava andando incontro a passo veloce.

    «Non c’è che dire» disse Marco Terenzio, osservando l'insolito abbigliamento che indossava quel giorno, «sembri proprio un barbaro fatto e finito!»

    «Ma è quello che sono! Io sono barbaro. O forse te ne sei scordato?»

    «No, non lo sei più. Da quando sei venuto a vivere qui, da quando io ti ho addestrato, tu sei diventato un soldato romano. E tale resterai. Per sempre.»

    Il giovane di colpo cambiò espressione, ma aspettò a rispondere. Affidò in fretta le briglie del suo cavallo a una delle sentinelle e poi, dimentico della differenza di grado, posò entrambe le mani sulle spalle del suo superiore.

    «Marco, ascoltami: Roma non esiste più. Cioè, volevo dire: la città, è ovvio, quella esiste ancora, sì, ma non è più quella Roma in cui tu ti ostini a credere. Insomma, ora è l'impero a non esistere più.»

    L’ufficiale era preparato alla notizia ma sembrò comunque accusare il colpo.

    «Ho capito cosa intendi. Allora erano vere le voci che circolavano…»

    «Sì, comandante» rispose, togliendogli le mani dalle spalle e guardandosele con aria colpevole, «erano vere.»

    «Per questo allora sei tornato così in fretta. Credevo che ti saresti fermato a Mediolanum almeno per un’altra notte.»

    «Non c’era nient’altro là che dovessi fare o che dovessi sapere.»

    «In questo caso, hai fatto benissimo a rientrare. Adesso però voglio che mi racconti tutto nei dettagli. Non qui, ovviamente. Andiamo nel mio alloggio. Immagino che tu abbia parecchia fame.»

    «Sete, più che altro. Ho preferito evitare la strada principale e ho battuto tutti i sentieri secondari che conosco. Non piove da settimane e di conseguenza ho mangiato un sacco di polvere.»

    «Hai ragione: avrei dovuto capirlo da solo. Se fossi giunto qui dalla strada principale, in effetti, le sentinelle del torrione giù nella valle ti avrebbero visto molto prima e sarebbero venute ad avvisarmi. Ma adesso basta: anche della situazione delle strade mi parlerai dopo. Ora hai detto di aver sete e immagino tu non ti riferissi all’acqua.»

    «Ottimo intuito, Marco Terenzio Ambusto!» rispose il giovane, pronunciando in tono solenne il nome completo del suo superiore. Poi si avviarono insieme a grandi passi verso sud-est, dove, all’interno della cinta di mura, si ergeva solitaria un’altra torre di piccole dimensioni, adibita a sede del comando, oltre che ad abitazione di chi lo deteneva.

    Vederli camminare uno accanto all'altro acuiva ulteriormente il contrasto del loro aspetto, che non era solo il frutto dell'abbigliamento indossato quel giorno. Erano diversi in tutto, a cominciare dai capelli: bruni e crespi quelli del comandante, biondi e lisci quelli del suo braccio destro; entrambi però li portavano corti, come un tempo esigeva l'antica disciplina dell'esercito romano: un'usanza ormai caduta in disuso ovunque, tranne che a Sibrium.

    Gli occhi di Marco erano color nocciola, pronti a screziarsi di verde nelle giornate di sole, mentre quelli di Unter, come quelli di molti Germani, erano di un azzurro intenso. Potevano tutti e due farsi vanto di una possente muscolatura, forgiata dai duri e assidui esercizi imposti dall'addestramento militare; quella del giovane celava però anche un'ossatura imponente, tipica delle genti del nord. Ciò che comunque alla fine, anche a grande distanza, li distingueva era la statura: quella dell'ufficiale rientrava nella media, mentre quella del suo subalterno era davvero notevole, perfino per un uomo di stirpe germanica.

    Unter, che si era già sfilato l’elmo, dovette così abbassarsi parecchio per varcare il piccolo uscio di ingresso all’edificio, mentre a Marco fu sufficiente chinare di poco il capo.

    «Perché le fate così basse queste porte? Me lo sono sempre chiesto.»

    «Mi verrebbe da risponderti che servono a obbligare gli spilungoni come te a farci un rispettoso inchino ogniqualvolta ci vengono a trovare! Ma la realtà è che dovrebbero tener fuori il freddo d'inverno e il caldo d'estate. Tutto qui.»

    «E il sistema funziona?»

    «Mica tanto. Specie quando fa troppo freddo o troppo caldo.»

    Appesero i loro mantelli ai ganci di legno che spuntavano dalla parete a sinistra dell’ingresso e andarono subito a sedersi su due sgabelli, dopo averli trascinati fuori da sotto un grande tavolo, che occupava il centro della stanza. Il mantello dell’ufficiale restò al suo posto, mentre quello del suo ospite, confezionato con pelli cucite tra loro in modo grezzo, cadde quasi subito a terra.

    Marco lo raccolse e lo riappese con maggior cura.

    «Certo che pesa quest’affare! E poi, non mi sembra che faccia ancora abbastanza freddo per mettersi addosso un coso del genere!»

    «Mi hai ordinato tu di assomigliare il più possibile a uno di loro! E loro, lo sai benissimo, girano sempre con addosso quella roba: non se la levano mai, estate o inverno, se non per combattere.»

    «Immagino, allora, che non profumino come dei fiorellini di campo...»

    «In effetti da quando vivo qui mi sono abituato alla pulizia e in questi giorni mi è costato non poca fatica perdere certe buone abitudini. Ogni volta che dovevo parlare con quella gente, dovevo fare uno sforzo enorme per nascondere il disgusto.»

    «E per quelli?» chiese Marco indicando la testa del suo ospite «Come hai fatto? I barbari li portano sempre lunghi...»

    «I miei capelli? Mi sono inventato una scusa. Ho detto che avevano cominciato a bruciare in un incendio e che ero stato costretto a tagliarli.»

    «Bella trovata!»

    L’ufficiale si avviò quindi verso una scala di legno accostata alla parete orientale della torre, mise un piede sul primo gradino e chiamò a gran voce qualcuno che si trovava due piani più sopra: «Lucio!»

    Rispose flebile una voce: «Sì, domine?»

    «Scendi e versaci del vino! Abbiamo un ospite.»

    Un uomo, minuto e con i radi capelli bianchi, affrontò le scale con la calma impostagli dai suoi anni e, non appena si trovò al pian terreno, Marco gli mise una mano sulla spalla.

    «Lucio: è dai tempi in cui Attila se ne andò dall'Italia che, per preciso volere di mio padre, tu sei un uomo libero! E ancora ti ostini a chiamarmi domine? Non sei più uno schiavo. Quante volte te lo dovrò ripetere?»

    «Certo, dom… Volevo dire: comandante!»

    «D’accordo, comandante andrà bene; ma uno a cui Gaio aveva dato anche il permesso di sculacciarmi, avrebbe pure il diritto di chiamarmi Marco

    Il vecchio limitò la propria risposta a un timido sorriso.

    Poi prese due boccali di terracotta e li appoggiò sul tavolo. Si avviò quindi verso uno stipetto incastonato nella parete, aprì lo sportello di legno, tirò fuori un’anfora di medie dimensioni, tolse il tappo di sughero e travasò parte del suo contenuto in una brocca, anche questa di terracotta. Pose infine la brocca sul tavolo e si accinse a riempire i due boccali, ma Marco lo fermò, mettendogli una mano sull’avambraccio.

    «Lascia stare, da qui in avanti ci arrangiamo noi. Torna pure a riposarti, se vuoi.»

    «Devo pensare alla cena, comandante.»

    «Va bene. Fai pure, allora.»

    Lucio si avviò verso il focolare nell'angolo opposto della stanza e ravvivò la brace che ardeva sotto un grosso paiolo di rame quasi colmo d’acqua. All’interno l’uomo aveva messo a cuocere diversi ortaggi, già tagliati, e un bel pezzo di carne di montone. Un invitante aroma cominciò a spandersi per tutto il locale. Marco si rivolse al suo ospite.

    «Una volta placata la sete, penseremo anche alla fame. Ti fermerai anche per la cena. Penso comunque che ci vorrà ancora più di un’ora, prima che sia pronta. Quindi hai tutto il tempo per raccontarmi del viaggio e di quello che hai visto e sentito.»

    Poi riempì entrambi i boccali e ne porse uno a Unter.

    Il giovane lo trangugiò d’un fiato e fissò negli occhi il suo superiore. Marco, che non aveva ancora avvicinato le labbra al proprio boccale, riempì di nuovo quello dell’ospite e, sempre guardandolo dritto negli occhi, attese che questi cominciasse a parlare.

    II

    Ravenna, domenica 3 ottobre

    Al centro della grande sala, in piedi, a gambe divaricate, con la mano sinistra appoggiata all’elsa della spada e il pollice della destra infilato dentro un largo cinturone di cuoio impreziosito da alcune gemme rosse e verdi, il giovane guerriero attendeva di parlare con il nuovo re.

    I lunghi capelli color del grano, raccolti in un'unica treccia, scendevano lungo un mantello di pelle di raffinata fattura; anche il resto dell’abbigliamento, pur essendo tipico di un barbaro, mostrava i segni di una qualche ricercatezza e di una certa esotica eleganza. Aveva da poco passato i vent'anni ma ostentava una sicurezza maggiore rispetto a quella di qualunque altro coetaneo della sua gente. In quella situazione, per esempio, non faceva mistero della propria impazienza, sfilando di continuo il pollice dalla cintura e tamburellando nervosamente con le altre dita su di un vistoso medaglione, che portava intorno al collo e che gli arrivava fin quasi sul ventre: non vedeva l’ora che il sovrano si levasse di torno quella mezza dozzina di petulanti funzionari togati che gli stavano addosso.

    Si guardava intorno annoiato ma nel contempo ammirato dalla maestosa architettura che lo sovrastava e lo circondava: non poteva fare a meno di chiedersi come un popolo, ormai imbelle e militarmente sconfitto, potesse aver avuto in passato la capacità e l’energia per dar vita a simili bellezze.

    Dopo qualche minuto i funzionari lasciarono la sala. Il più giovane tra loro, nell’uscire, fissò il guerriero dritto nei suoi ardenti occhi scuri, trovandoli insoliti in un erulo dalla chioma e dai baffi biondi. Il guerriero ricambiò lo sguardo con aria di sfida e di superiorità. Poi voltò di nuovo la testa verso il trono.

    «Mi hai fatto chiamare, zio? O d’ora in poi preferisci che ti chiami Cesare?»

    «Vieni avanti, Edecon. Hai sempre voglia di scherzare, tu. Porti lo stesso glorioso nome che appartenne a tuo nonno, ma non gli somigli per niente, se non nell’aspetto fisico... ma, ora che ti guardo bene, forse neanche in quello!»

    «Già, lui aveva in mente una cosa sola: la guerra.»

    «Ti sbagli. Dovresti saperlo: era anche un ottimo diplomatico.»

    «È vero. Ed era pure amico di Flavio Oreste, ma la cosa non ti ha impedito di far ammazzare quel disgraziato senza tanti complimenti. O mi sbaglio?»

    Il re, colpito nell’orgoglio, ringhiò: «Disgraziato? Era un traditore, altro che un disgraziato, uno che non rispetta i patti e ha fatto la fine che meritava! Cosa credi, che per me sia stato facile? Quand'ero piccolo mi teneva sulle sue ginocchia. Anche se non c'erano vincoli di sangue tra noi, lo chiamavo nello stesso modo in cui tu ora hai chiamato me: zio. Quando però si ha la responsabilità del comando non esiste più spazio per la pietà! Ma tu che ne sai? Che ne puoi capire tu? Gli abiti eleganti, le armi lucide, le belle donne e il vino: queste sono le tue sole preoccupazioni!»

    «Spero davvero che tu non mi abbia fatto venire fin qui, e aspettare tutto il tempo che ho aspettato, solo per parlare di vino, donne, armi e vestiti, mio augusto imperatore!» rispose, accompagnando la frase con un ironico inchino.

    «Finiscila, Edecon! Di imperatore ormai ce n’è uno solo e in questo momento siede tranquillamente sul suo trono a Costantinopoli! Ed è lì che ho spedito sotto scorta le insegne imperiali che ho preso a Oreste a Ticinum: la nave che le porta salperà da Classe proprio domani mattina.»

    «Che cosa hai fatto? Ma dico, sei impazzito? Ti ha dato di volta il cervello? Abbiamo combattuto una guerra per quelle insegne e raso al suolo un’intera città: centinaia dei nostri sono morti! Che cosa ti è saltato in mente? Hai consultato almeno l’assemblea dei capi, prima di fare una cosa del genere?»

    «Attento a come parli, ragazzo! Oltre che il fratello di tua madre, io sono sempre il tuo capo e un guerriero ben più forte e abile di quanto tu potrai mai diventare in tutta la tua vita! Non avevo bisogno di essere proclamato re dei Germani per esigere rispetto da te!»

    Nell'urlargli addosso queste parole, l’uomo era sceso dal suo scranno, aveva raggiunto il nipote e gli si era piazzato davanti a pochi centimetri dal naso: ora i suoi occhi sembravano lanciare fiamme. La sua stazza era davvero imponente e la folta chioma rossa arruffata lo rendeva simile a un demone dell'inferno.

    Il giovane, più sorpreso che spaventato da quella reazione, aveva abbassato lo sguardo e ora lo teneva fisso sui mosaici del pavimento.

    «Ho visto morire molti compagni l'estate scorsa: credevo che avessero dato la vita per uno scopo preciso e tu ora mi dici che...» Scosse il capo, senza terminare la frase. Dopo un attimo di silenzio, aggiunse: «In ogni caso, ti chiedo scusa, non era mia intenzione mancarti di rispetto.»

    «Bene, meglio così: perché io ho bisogno di alleati, non di nuovi nemici! In special modo all’interno della mia famiglia.»

    Il re sembrò calmarsi con la stessa velocità con la quale si era adirato e si mise a camminare avanti e indietro. Poi riprese: «Io non voglio essere imperatore. Non ne ho la forza e nemmeno le capacità. Ho intrapreso questa guerra solo perché Oreste non aveva mantenuto la promessa di concedere ai soldati Germani e alle loro famiglie un terzo delle terre dei Latini. Ed è questo, e questo solo, che voglio fare: prenderci quelle terre che ci siamo meritati, combattendo ormai da secoli per difendere i confini dell’impero. Per il resto sarò solo un umile e fedele servitore di Zenone.»

    Edecon, che fino a quel momento aveva mantenuto la sua posizione al centro del locale, cominciò a passeggiare accanto al re.

    «Andiamo, zio! Ma chi vuoi prendere in giro? Tu, un umile e fedele servitore dell’imperatore di Oriente? Sarò uno scapestrato, ma non sono uno sciocco! Diciamo piuttosto che tu non hai alcuna intenzione di cominciare una nuova guerra contro un esercito più potente e organizzato del nostro e che dunque preferisci governare con il beneplacito dei Bizantini, ottenendolo con le lusinghe, piuttosto che con la spada: è per questo che hai restituito le insegne imperiali, dimmi la verità.»

    L’uomo si fermò e con il braccio destro cinse le spalle del giovane.

    «Il mio intuito non sbagliava. Non sei uno stupido: a volte preferisci farlo credere in giro, in modo da scansare tutte le fatiche che ti si vorrebbero imporre; ma vedo che capisci anche di politica, dunque, oltre che di puttane.»

    «Non credevo che ci fosse differenza!»

    Quella battuta ebbe il merito di strappare una smorfia con le vaghe parvenze di un sorriso dalle labbra del sovrano.

    «Già, hai ragione: non c'è differenza. Dai pure alle cose il nome che più ti aggrada. Quello che conta è che io intendo affidarti una missione di tutto rispetto e mi auguro che tu riesca a portarla a termine nel migliore dei modi.»

    «Di che si tratta, zio? Dovrò andar via da Ravenna?»

    «Credo proprio di sì.»

    «E dove? Se posso saperlo...»

    «Certo, ti ho convocato apposta: dovrai raggiungere Mediolanum, fermandoti lungo il cammino in tutte le principali città lungo la via Emilia.»

    «Mediolanum? Beh, non sarà certo un problema. In fondo si tratta semplicemente di cambiare tipo di nebbia: da quella delle paludi a quella delle campagne, che forse è anche più salutare.»

    «Mediolanum però non sarà la tua destinazione ultima... Vieni con me.»

    Detto ciò, condusse il giovane in una piccola stanza, il cui ingresso era nascosto da una tenda. Sopra un tavolo appoggiato alla parete destra del locale c’erano diverse pergamene arrotolate. Il re ne afferrò con sicurezza una che sembrava di fattura più recente rispetto alle altre, la srotolò e, per tenerla ferma, appoggiò due pesanti candelabri di ottone ai suoi lati: qualche goccia di cera colò dalle candele accese sopra una mappa, che andava delineandosi sotto i loro occhi.

    «Maledizione!» esclamò il re, togliendo subito la cera. «Ho solo questa e non ho tempo per farne fare una copia!»

    «Diciamo pure che non hai nemmeno chi te la possa fare, la copia» gli fece notare il giovane in tono sarcastico, ammirando la precisione dei dettagli. «Certo che questi Latini non sanno far bene solo il vino!»

    «In questo caso devo proprio darti ragione: è una mappa davvero ben disegnata e riporta anche le distanze tra le principali località. Vedi, questa qui nel centro è Mediolanum. Più a nord troviamo Comum, mentre da qui parte una strada che, andando verso Occidente arriva fino a Sestum. Ma circa a metà di questa strada ne parte una seconda, che poi corre giù fino a Novaria.»

    «Zio, mi hai chiamato per farmi una lezione di geografia?»

    «Sei il solito impaziente! Aspetta un attimo e capirai... Dunque, dicevo: qui ci sono Sestum e Comum, che proteggono i confini Italici settentrionali. Ho già mandato lì un buon numero di guerrieri, sotto la guida di ufficiali fidati: prenderanno il comando delle due piazze, mettendosi alla testa dei soldati del vecchio esercito che ancora vi sono stanziati.»

    «Quindi siamo a posto. I confini sono protetti. Non dobbiamo preoccuparci di nulla. E poi di chi dovremmo mai avere paura? Non hai forse mandato anche alcuni ambasciatori ai Visigoti, per rafforzare l’alleanza con loro?»

    «Sì, l’ho fatto e tutto mi lascia sperare che non ci daranno problemi, anche perché prima devono pensare a risolvere i loro.»

    «E allora?»

    «Non sono i Visigoti a preoccuparmi...» Il re si accigliò e parve perdere un po’ della sicurezza che aveva mostrato fino a quel punto. «Sono i Burgundi!»

    «I Burgundi? Da quel che mi risulta, da un paio d'anni se ne sono tornati tutti a casa loro, al di là delle Alpi. Per giunta le loro terre si trovano molto più a ovest, rispetto alla zona che mi hai appena indicato. Cosa ci farebbero così lontani da loro territorio?»

    Il giovane si lisciò i baffi con aria assorta, inseguendo un'altra domanda alla quale non riusciva a trovare una risposta. Si rivolse quindi di nuovo allo zio.

    «Uno dei loro principi era a capo dell'esercito romano prima di Oreste, non è vero? Come accidenti si chiamava?»

    «Gundobald» fu la pronta risposta del re.

    «Già, Gundobald!» ripeté il nipote battendosi la mano destra sulla fronte. «Ma in questo momento mi pare che sia alle prese coi suoi fratelli per decidere chi deve comandare e su cosa comandare. Perché mai vorrebbe tornare a impicciarsi dei fatti nostri?»

    «Non credo che si tratti di lui in persona e neppure dei suoi fratelli. I miei informatori mi hanno parlato piuttosto di bande isolate, mandate con tutta probabilità in avanscoperta a saggiare il terreno. Sanno benissimo che noi siamo reduci da una guerra e che non siamo così forti e così numerosi da proteggere tutti i confini. L’inverno si avvicina e con quello, forse, l'ennesima carestia. Non credo vogliano invaderci, ma temo che, approfittando della nostra debolezza, non rinunceranno a compiere delle incursioni, a fare delle razzie nel nostro territorio. E se ora ci mostriamo deboli, oseranno sempre di più.»

    Edecon si avvicinò al tavolo, poggiandovi sopra entrambi i pugni chiusi, e sfogò tutta la sua amarezza.

    «I Burgundi: metà di loro erano con gli Unni e l'altra metà contro! Si mettono al servizio di un magister militum per poi tradirlo. Uccidono un imperatore, ne eleggono uno nuovo e infine abbandonano anche quello. E ora cosa vorrebbero? Tornare qui e reclamare pure loro un terzo delle terre? Sai cosa ti dico? Avevano ragione i Romani: noi Germani non siamo un popolo e di sicuro non saremo mai una nazione. Burgundi, Eruli, Sciri, Turcilingi, Rugi: eravamo e resteremo sempre e solo delle tribù, delle tribù anche forti, certo, e potenti abbastanza da distruggere un regno; ma mai in grado di crearne uno per conto proprio e men che meno di governarlo.»

    Il sovrano guardò perplesso il proprio nipote, per poi tornare a fissare la mappa.

    «Io posso cambiare le cose. Noi possiamo cambiare le cose, anzi noi dobbiamo cambiare le cose!»

    Le sue pupille riflettevano la luce tremolante delle candele e in quel momento Edecon ebbe la reale convinzione di trovarsi di fronte all'uomo che avrebbe mutato per sempre il destino del suo popolo.

    III

    Sibrium, domenica 3 ottobre, prima vigilia.

    Unter, placata la sete con il primo boccale, cominciò calmo a sorseggiare il secondo, assaporandone il gusto intenso e leggermente asprigno. Marco Terenzio attendeva paziente che cominciasse il suo rapporto. Dopo qualche istante il giovane si pulì le labbra col dorso della mano e prese a parlare.

    «Come saprai, comandante, ho un cugino che fa parte della guardia personale del nuovo re e che ha partecipato con lui all’assedio e alla distruzione di Ticinum... Ciò che però non puoi sapere è che, invece di seguirlo a Ravenna, si è fermato con la sua famiglia alle porte di Mediolanum, dove sono riuscito a rintracciarlo. È stato lui a darmi tutte le informazioni più importanti; le altre le ho raccolte in giro, offrendo da bere qua e là a qualche guerriero: il nostro vino scioglie loro la lingua più di qualsiasi minaccia o lusinga!» Dicendo questo, alzò il suo boccale in direzione del proprio superiore, come se volesse invitarlo a un brindisi. Marco, sempre seduto di fronte a lui, non fece neanche il cenno di afferrare il proprio e lo esortò a proseguire. «Continua.»

    «Bene. Cominciamo dalla cosa più importante: pare che Odoacre non abbia alcuna intenzione di essere proclamato imperatore!»

    «Ne sei certo?»

    «Certissimo! Anzi, mentre stiamo parlando le insegne imperiali probabilmente già galleggiano alla volta di Costantinopoli, con i più sentiti omaggi del nostro re dei Germani, o come diavolo lui vorrà che lo si chiami d'ora in avanti!»

    «Per Giove!» scappò di bocca a Marco. «Allora è questo che intendevi quando mi hai detto che Roma e l’impero non esistono più?»

    « Per Giove? » Unter, invece di rispondere alla domanda, era rimasto allibito da quelle due parole e lo interruppe ridendo. «Hai detto per Giove? Se ti sentisse padre Marcello, mentre ancora invochi i vecchi dèi!»

    «Lascia stare Marcello» replicò l'ufficiale accompagnando la frase con un gesto della mano, come se dovesse scacciare una mosca, «e soprattutto lasciamo stare i vecchi o i nuovi dèi: ora è degli uomini che dobbiamo preoccuparci, e anche molto, stando a quanto mi dici.»

    «Proprio non ti rassegni alla fine della tua Roma e del tuo impero...» osservò il suo sottoposto, sorbendo un altro sorso dal boccale. Marco si concesse una lunga pausa, restando assorto nei propri pensieri, poi con voce calma ma decisa rispose: «Unter, Roma e l’impero non finiscono adesso. Tutto forse era già finito nel secolo scorso, quando le nostre province vennero divise tra Oriente e Occidente, o all’inizio di questo secolo, quando la nostra antica capitale fu saccheggiata da Alarico. Che importanza ha sapere esattamente quando una civiltà finisce? E ti dirò di più: forse non ha nemmeno importanza sapere perché finisce. La vera tragedia è che finisce!»

    «Tutto ciò che riguarda noi mortali finisce, Marco. E forse questo è l’unico insegnamento che hanno in comune la vecchia e la nuova religione.»

    L'ufficiale girò la testa di lato, ripetendo l'identico gesto con la mano di pochi istanti prima.

    «Francamente in questo momento non ho proprio voglia di dissertare di religione o di filosofia: devo occuparmi di cose pratiche, come ti ho detto.»

    Unter posò il boccale sul tavolo, mise entrambi i palmi sulle ginocchia allargando le gambe e gli domandò: «Ma in fondo cosa cambia per noi qui a Sibrium se a regnare a Ravenna è un re, un imperatore, o anche due imperatori?»

    « Cosa cambia? » Marco Terenzio che fino ad allora era rimasto seduto sullo sgabello, si alzò quasi di scatto e prese a passeggiare per la stanza. «Cosa cambia? Tutto cambia e quel che è peggio è che non abbiamo la minima idea di come cambierà! Te ne rendi conto?»

    Unter rimase un po’ stupito dalla reazione del proprio comandante, che aveva sempre visto calmo e controllato, anche nelle situazioni più critiche.

    «Beh, allora forse non me ne rendo conto abbastanza: spiegami.»

    L’ufficiale tornò a sedersi e finalmente si concesse pure lui un piccolo sorso di vino, prima di schiarirsi la voce.

    «Va bene, ma fai attenzione. Dunque... La guerra che è stata appena combattuta per fortuna ci ha solo sfiorati: nessuna battaglia per la nostra guarnigione, nessun assedio per il nostro castrum. Abbiamo avuto a che fare solo con qualche guerriero sbandato, che nei dintorni si è lasciato andare a saccheggi isolati e che abbiamo subito provveduto a neutralizzare. Tutto sommato possiamo dire che ne siamo rimasti fuori. Ci è andata bene, Unter, altro non possiamo dire: ci è andata bene. Ma entrambi sappiamo che non sarà sempre così. Prima o poi, in un modo o nell’altro anche noi verremo coinvolti.»

    «E in quale modo?»

    «Prima dimmi: perché è stata fatta questa guerra?»

    «Perché Oreste tardava a concedere, o forse, non te lo so dire, non voleva concedere affatto un terzo delle terre ai soldati... credo. Non è così?»

    «E perché, secondo te? Per avidità personale? Perché era corrotto dai grandi latifondisti? O semplicemente perché era così stupido da non rendersi conto che il suo continuo rimandare avrebbe prima o poi provocato una ribellione?»

    «Non lo so. A essere sincero, non mi non sono mai posto la domanda.»

    Marco, pur infervorato nella propria esposizione, constatando l’ingenuità del proprio interlocutore, per un attimo si lasciò andare a un fugace sorriso. Poi riprese con foga, ben determinato a farsi comprendere: «Io invece ho una mia precisa teoria in merito. Io non credo proprio che Oreste non intendesse concedere un terzo delle terre. Io piuttosto sono convinto che lui volesse farlo , ma non sapesse come farlo, che insomma non fosse in grado di stabilire da che parte cominciare!»

    «Ma in fondo i Germani non sono mica poi tanti, rispetto a tutti gli abitanti latini della penisola...»

    Questa volta Marco non trattenne una risata carica di amarezza. Poi scosse il capo e appoggiò entrambi i gomiti sul tavolo, nascondendo il viso tra le mani. Quando lo rialzò, si ritrovò di fronte quello del suo subalterno che somigliava a un punto interrogativo.

    «I Germani non sono mica poi tanti, tu mi dici... E questo credi rappresenti un vantaggio, piuttosto che un problema? Ti sbagli. Se infatti essi costituissero, che ne so, diciamo, per esempio, giusto un terzo di tutta la popolazione italica... basterebbe che tutti concedessero un terzo delle loro proprietà, per risolvere la grana: ognuno subirebbe un danno in parti uguali e i nuovi arrivati avrebbero tutti lo stesso beneficio! Ma dato che le cose non stanno in questo modo, mi spieghi come si dovrebbe agire, con quale criterio andrebbe effettuata la spartizione? A chi bisognerebbe togliere per primo, a chi per secondo e a chi non si dovrebbe togliere nulla? Impossibile sottrarre risorse ai piccoli proprietari, perché quelle che hanno bastano loro appena per sopravvivere e pagare i tributi. E i grandi possidenti? Chi tra loro risparmiare e chi penalizzare? E il ricco che alla fine si vedrà portar via la sua roba, non avrà forse ancora sufficienti risorse per corrompere funzionari, ordire complotti e assoldare buccellari?»

    Unter, che aveva ascoltato con attenzione, rimase perplesso.

    «Non ci avevo pensato.»

    «Tu no, anche perché, diciamolo, non è certo questo il tuo mestiere; ma Oreste sicuramente sì» riprese Marco, battendogli una mano sulla spalla. «E ora, caro Unter, la situazione è destinata a peggiorare.»

    «Peggio di così? E per quale motivo?» domandò preoccupato.

    «Odoacre dovrà tener fede alla promessa di distribuire le terre, ma incontrerà gli stessi problemi che avrebbe incontrato Oreste. Anzi saranno forse anche peggiori!»

    «Adesso non ti seguo più!» Il giovane scosse la testa e se la prese tra le mani.

    «Ma come? L’hai detto tu stesso, non ricordi? L’impero romano non esiste più e hai perfettamente ragione, perlomeno per quel che riguarda l'Occidente: la spada, il diadema, lo scettro, la toga e la porpora veleggiano ora sull’Adriatico. Ma se non esiste più l’impero, di conseguenza non esistono più nemmeno leggi da far rispettare, tribunali per dirimere le controversie, funzionari che facciano rispettare le decisioni. Insomma, in parole povere: chi ci dirà quanta parte delle nostre terre dobbiamo concedere e a chi concederle? E se i nuovi padroni, oltre che litigare con i vecchi, si mettessero pure a litigare tra loro? Come sarà possibile mettere pace, fare giustizia?»

    L'ufficiale fece una breve pausa, fissando prima il pavimento e poi il soffitto.

    «Questo, ragazzo mio, questo comporta soprattutto la fine di una civiltà: la perdita del diritto. E senza diritto, la vita, almeno per come l’abbiamo sempre intesa noi, diventa indegna di essere vissuta.»

    Unter aveva ascoltato con attenzione le parole del suo superiore e ne era rimasto profondamente colpito. Ciò nonostante non si rassegnava all’idea di un futuro così nero e provò a trovare dentro di sé qualche motivo di speranza. Dopo un attimo di silenzio, ricominciò a parlare, come se stesse riflettendo ad alta voce.

    «Da bambino, prima di essere adottato da una famiglia romana e ancora molto prima di diventare un soldato, sono cresciuto in una tribù Germanica. Non ho ricordi molto nitidi, ma mi sembra di rammentare che anche lì ci fossero tribunali e leggi, magari non scritte, ma c’erano.»

    «Una legge non scritta non è una legge» lo interruppe subito Marco, «perché ognuno può cambiarla a suo piacimento e imporla agli altri con la violenza. Ma voglio seguirti sul tuo ragionamento. Supponiamo pure che i Germani abbiano le loro leggi, scritte o non scritte, che i Latini abbiano le loro e che Odoacre, non essendo certo un esperto giurista, faccia la prima cosa che gli viene in mente, cioè consentire a ciascuno di seguire le proprie. Forse non hai compreso bene quello che ho detto poco fa: cosa accadrà quando insorgeranno dispute tra le due diverse genti? Quale delle due leggi dovremo applicare, nel caso assai probabile che le varie norme non concordino? Magari la legge dei vincitori, che hanno dalla loro parte la forza della spada; ma a cosa condurrà questo nel breve e nel lungo periodo? Non certo a una pacifica e concorde convivenza, non credi?»

    Questa volta il suo interlocutore non rispose e rimase parecchio in silenzio a meditare sul senso di tutto quanto aveva appena sentito. Marco intanto si avvicinò a Lucio, che accanto al focolare stava rimestando la zuppa di carne e verdure, e cinse con il braccio sinistro la schiena ricurva del vecchio:

    «Manca molto?»

    «No, non molto… Credo mezzora e poi potremo mangiare.»

    «Bene, giusto il tempo di fare il giro delle mura superiori. Cosa ne dici, Unter? Perché non andiamo noi a condurre il cambio delle sentinelle alle torri? Dopo la cavalcata che hai fatto non ti farà male sgranchire un po’ le gambe.»

    «E schiarirmi un po' le idee!» Il giovane andò a prendere i due mantelli dai ganci e, dopo aver indossato il proprio, aiutò il superiore a indossare il suo.

    «Ti ringrazio. Forza, ora usciamo. Possiamo proseguire la nostra conversazione camminando. Che ne dici?»

    «Non credo sia il caso, comandante» rispose e l'ufficiale notò che si era fatto di nuovo scuro in viso.

    «Perché? » gli domandò.

    «Beh, finora l’unico che ha sentito le notizie è il tuo fedele Lucio, che è come se non avesse orecchie e, se le ha, certo si dimenticherà di avere una bocca per riferirle. Ma il resto della guarnigione… Non so se sia il caso che sappiano. Forse sarebbe opportuno stabilire prima tra noi cosa dire e come dirlo.»

    Marco Terenzio rimase piacevolmente sorpreso dall’intelligenza del giovane.

    «Hai ragione. Proseguiremo il colloquio a cena. Poi ci dormiremo sopra. Domani mattina riunirò gli uomini e terrò un discorso.»

    Prese una delle torce che erano appese al fianco della porta e uscirono entrambi nell’oscurità, scesa ormai fitta su tutto il castrum, avviandosi a passi lenti verso il torrione principale sopra il passo carraio, che costituiva anche l’alloggio del corpo di guardia. Il vento caldo da sud aveva smesso di soffiare e la temperatura si era abbassata di colpo. I due uomini si avvolsero bene nei propri mantelli e camminarono l'uno di fianco all'altro. In silenzio.

    IV

    Ravenna, domenica 3 ottobre, prima vigilia.

    «Allora, dimmi bene quello che ti aspetti da me e io farò il possibile per accontentarti.» Edecon continuava a esaminare con attenzione la mappa sotto i suoi occhi.

    Il re con la punta di un pugnale gli mostrava un percorso.

    «La vedi dunque la strada che da Comum corre verso Sestum?»

    «Sì, la vedo.»

    «Bene, come ti dicevo, a un certo punto si incrocia con un'altra strada che arriva da nord e si biforca in due diramazioni. La prima porta di nuovo a sud e converge verso Mediolanum, la seconda devia leggermente verso ovest e arriva fino a Novaria.»

    «Sì, mi è chiaro. E per il primo tratto costeggia questa linea azzurra. Si tratta di un fiume, immagino.»

    «Esatto. I nativi lo chiamano Olonia. In quel punto la corrente è ancora molto forte, specie dopo i periodi di pioggia. Ora, vedi questo segno, proprio dove la strada smette di seguire il fiume e punta con decisione verso occidente?» chiese il sovrano, spostando la punta della lama lungo la pergamena per indicare il punto preciso.

    «Sì, certo: assomiglia a una S dell’alfabeto romano» fu la pronta risposta del nipote.

    «Infatti, sta per Sibrium. È con questo nome che i Romani chiamarono quel posto, anche se i discendenti dei Galli Insubri preferiscono ancora oggi chiamarlo con l’antico appellativo di Visiver. Ed è lì che intendo mandarti.»

    «A quale scopo?» domandò Edecon, smettendo di osservare la mappa e girando la testa verso lo zio.

    «Le ragioni sono due.» Il re ripose il pugnale nella guaina di metallo, che pendeva dal cinturone di cuoio e, voltando le spalle al nipote, si allontanò di qualche passo dal tavolo, mentre cercava di trovare le parole giuste.

    Dopo essersi grattato a lungo i baffi rossicci, si girò di nuovo verso il giovane guerriero e continuò: «La prima ragione è di carattere, diciamo, civile. A Mediolanum ti attendono una trentina di coloni, che insieme alle loro famiglie dovrai scortare in quelle terre, affinché prendano possesso di un terzo dei possedimenti, in base alle leggi che sto provvedendo a emanare. Si tratta in prevalenza di veterani della nostra gente, ormai stanchi della guerra, ma che all’occorrenza saprebbero ancora maneggiare una spada.»

    Il sovrano si fermò e fissò Edecon, per accertarsi che questi avesse ben compreso quanto gli aveva appena ordinato, attendendosi una domanda, che puntuale arrivò.

    «E la seconda?»

    «La seconda ragione è di carattere più militare, anche se pur sempre connessa con la prima. Insieme ai trenta veterani, a Mediolanum assumerai il comando di altrettanti guerrieri, equipaggiati di tutto punto, i quali, almeno per il momento, non hanno alcuna intenzione di zappare la terra e accudire animali. Con il loro aiuto, dovrai assumere il controllo del castrum di Sibrium, sorvegliare quelle zone e sventare eventuali incursioni dei Burgundi. Ma, bada bene, non voglio assolutamente che tu ricorra alla forza per raggiungere il primo obiettivo: saresti sconfitto ancora prima di sguainare la spada!»

    Il giovane guerriero, nell’udire quelle parole, inarcò un sopracciglio.

    «Castrum? Un accampamento, dunque? E quanti uomini ci sono a difenderlo? Non bastano una sessantina dei nostri, tra vecchi e giovani, per conquistarlo?»

    Il re sorrise per l’ingenuità del nipote.

    «Vedo che tutti gli anni che hai passato da ragazzo a Costantinopoli come ostaggio dei Romani ti sono serviti a rendere fluente e quasi privo di accento il tuo Latino, ma non certo a studiare la storia e meno che meno la tattica di guerra. Non sai che nessuno è mai riuscito a espugnare un accampamento romano senza subire perdite devastanti?»

    Edecon rimase in silenzio, in attesa di altre spiegazioni.

    «Il castrum di Sibrium» proseguì il sovrano «è oltretutto molto di più di un semplice accampamento: ormai può considerarsi a tutti gli effetti una fortezza. Già da oltre un secolo è stato dotato di torri interamente in pietra, quella a valle, la più alta, sfiora addirittura i cento piedi di altezza. Una volta queste torri erano collegate tra loro da una palizzata di legno, ma ora a unirle è una vera e propria cinta di mura. All’interno poi ci sono ancora delle micidiali macchine da guerra, che il solerte comandante della guarnigione provvede a far mantenere in perfetta efficienza. Come sai ne sono rimasti pochi di quei giocattoli in giro e ancora di meno sono quelli che li sanno far funzionare senza far danno ai propri soldati, invece che ai nemici.»

    Il re si arrestò, perché nel frattempo un giovanissimo schiavo era entrato da oltre la tenda, portando un vassoio sul quale erano posate due coppe dorate colme di vino. Il ragazzo, intimorito, stava per adagiare il vassoio vicino alla mappa ancora aperta sul tavolo.

    «Non lì, bestia!» gli urlò. «Appoggia il vassoio sullo sgabello e vattene!»

    Il servo, spaventato, tremò e per poco non rischiò davvero di combinare il danno per il quale era stato ripreso. Poggiò il vassoio sullo sgabello e uscì inchinandosi, senza mai voltare le spalle ai due uomini.

    Fu il nipote a prendere le coppe e a servire lo zio, che bevve per primo. Appoggiando di nuovo il calice sullo sgabello, il sovrano riprese il discorso: «Comunque dai miei informatori, sempre per rispondere alla tua domanda di prima, mi risulta che all’interno del castrum sia rimasta una guarnigione di una sessantina di soldati. So già quello che vuoi dirmi: Com’è possibile che una sessantina dei nostri non possano aver ragione di una sessantina dei loro? Beh, prima di tutto, quando si assalta un presidio fortificato, il rapporto di forza degli assalitori rispetto agli assaliti dovrebbe essere almeno di tre a uno. Ma in questo caso, non credo di esagerare nel dire che non basterebbe un rapporto di dieci a uno!»

    Allo zio non sfuggì il lampo di incredulità che balenò negli occhi del nipote.

    «Non mi credi? Pensi che io esageri, non è così? Ma hai torto. Vedi, Edecon, non si tratta solo delle torri, delle mura e delle macchine da guerra. Quei sessanta lassù sono dei veri soldati Romani, forse gli ultimi rimasti sulla faccia della terra: si vestono ancora come una volta, hanno uniformi, scudi, spade, lance e corazze lustre. Ma soprattutto si addestrano ancora come si addestravano gli antichi legionari e, quel che è peggio, sono ancora pieni dello stesso orgoglio e della stessa forza!»

    «Ma, perdonami zio, com’è possibile? Com’è possibile che esista ancora un’intera guarnigione di soldati tutti di sangue italico? E poi non c'era forse una legge che impediva ai Latini di portare armi?»

    «Molte leggi sono fatte apposta per non essere rispettate, soprattutto in periodi come quello che stiamo vivendo. E poi, chi ti ha detto che abbiano tutti sangue italico? Ci sono parecchi Germani tra di loro e forse addirittura anche qualcuno della nostra gente, qualche erulo...»

    «Che cosa? Ne sei certo?»

    «Abbastanza. La maggior parte di quei Germani appartiene alla seconda, alla terza o addirittura alla quarta generazione: sono quasi tutti nati in questa terra; ma il loro aspetto tradisce senza alcun dubbio le origini nordiche. Qualcuno di loro continua addirittura ad adorare i vecchi dèi e a seguire le tradizioni dei suoi avi. Solo che quell’uomo è riuscito a tirarne fuori in tutto e per tutto dei perfetti e disciplinati soldati romani, la copia precisa di quei temibili legionari che costituivano il cuore dell'efficiente esercito imperiale nel suo periodo migliore. Non so come abbia fatto, non chiedermelo; ma ci è riuscito. E loro sono molto fieri del ruolo che ricoprono e sono pronti a qualunque cosa pur di seguirlo.»

    «Incredibile, davvero incredibile! Quale sarebbe il nome di questo formidabile condottiero, di questo novello Caio Giulio Cesare?»

    «Marco» rispose il re, scandendo bene ogni sillaba, «Marco Terenzio Ambusto.»

    «Marco Terenzio… e da dove sbuca costui?»

    «È figlio d’arte, come si suol dire: suo padre comandava Sibrium prima di lui e lo faceva con la stessa solerzia. Non parlo per sentito dire.»

    «Raccontami, allora. Tu da chi l'hai saputo?»

    «Da mio padre, dal quale tu hai preso il nome: Edecon, che come saprai era uno dei generali di Attila. Dopo che fu sconfitto da Ezio in Gallia, quel maledetto Unno tornò in Italia e, un po’ per vendetta, un po’ per rabbia e un po’ per fame, prese a razziare in tutta la valle del Po: ben poche città e ben pochi villaggi furono risparmiati. Eppure qualcuno riuscì a resistergli, senza mai cadere, per settimane, per mesi: Sibrium e il suo valente comandante Gaio Terenzio, padre di Marco.»

    «Un pugno di uomini contro le orde di Attila? Qualsiasi altro me lo avesse raccontato, ti giuro che non gli avrei creduto!»

    «Di certo non c'era tutto l'orda dell'Unno al completo ad assediare Sibrium; ma quanto ti ho appena detto è la pura verità. Perché, oltre che su un esperto ufficiale, Sibrium poteva e può ancora contare su un formidabile alleato…»

    «E quale sarebbe?»

    «La natura, caro mio! Il castrum è costruito sopra un piccolo altopiano: da tre lati è praticamente inattaccabile, per via della notevole pendenza che lo circonda. L’unico lato scoperto, quello occidentale, è protetto da un fossato molto profondo e disseminato, come vuole la tradizione, di pali acuminati.»

    «Un terreno per nulla idoneo ai cavalieri Unni.»

    «Già, specie se alla fine rimangono pure senza cavalli!»

    Edecon rimase sbalordito dalle ultime parole del re e quasi credette di non averle comprese bene.

    «Senza cavalli, hai detto?»

    «Proprio così. Perché Gaio Terenzio non si accontentò solamente di respingere tutti i vari assalti che furono inutilmente portati al suo castrum. In una notte senza luna, insieme a un manipolo di soldati, si travestì da mendicante, con vesti lacere e sporche di fango: lui e i suoi uomini somigliavano in tutto e per tutto a quei pezzenti che da sempre seguono gli eserciti, nella speranza di raccattare qualche osso avanzato da spolpare. Dopo aver ucciso a tradimento le sentinelle, fecero fuggire tutti i cavalli che erano chiusi in un recinto, riuscendo anche a impadronirsi di parecchi esemplari. Gli Unni, il giorno dopo, forse più per l’umiliazione subita che per altre ragioni, abbandonarono l'assedio.»

    «Un Unno senza cavallo cessa di essere un guerriero.»

    «Infatti. Anzi, credo che arrivato a Sibrium tu possa ancora trovare qualche discendente di quegli animali. Nel caso vedi di fartene fare dono: sono degli ottimi compagni di battaglia. Ora però, se non ti dispiace, vorrei dormire. È tardi e devo riposare, domani mi attende una giornata pesante. Ci vediamo poco prima di mezzogiorno per discutere i dettagli della tua missione.»

    «Ci sarò. Buonanotte, zio.»

    Detto ciò, scostò un lembo della tenda e fece per avviarsi verso la sala del trono, per poi uscire all’aperto, ma venne richiamato.

    «Ah, un’ultima cosa…»

    «Dimmi.»

    «D’ora in avanti non chiamarmi più zio. E nemmeno re. E tanto meno imperatore.»

    «E quindi come dovrei chiamarti?»

    «Come mi chiamano tutti: semplicemente con il mio nome.»

    «D’accordo. Allora, buonanotte… Odoacre!»

    V

    Sibrium, lunedì 4 ottobre

    Lucio si svegliava sempre prima dell’alba, per ravvivare la brace nel focolare e preparare la colazione del comandante del castrum. Anche quel giorno sentì i passi di Marco Terenzio, che era solito alzarsi poco dopo di lui, risuonare sul pavimento in legno del piano superiore. Per il vecchio era come un segnale: si avvicinò al focolare, avvolse con un panno una ciotola colma di latte, che aveva messo a scaldare su di una pietra e, facendo attenzione a non versarne, la posò con delicatezza sul tavolo. Poi prese del pane raffermo e ne tagliò alcune fette sottili; dalla dispensa tirò fuori un piccolo vaso chiuso da un tappo di sughero e appoggiò il tutto accanto alla ciotola fumante.

    L’ufficiale scese le scale con già addosso la sua tunica rossa tendente al marrone e sorrise amabilmente al servo.

    «Latte, miele… Mi tratti ancora come quand’ero piccolo?»

    «Avrete bisogno di energie oggi… e pure di una voce forte e potente, per fare il vostro discorso.»

    «Non è la voce che mi manca oggi, vecchio mio, mi mancano le parole! Come potrò spiegare ai miei uomini una situazione che francamente non capisco ancora bene nemmeno io? Cosa potrò mai dire loro per confortarli?»

    Lucio non rispondeva e sembrava assorto nei suoi pensieri. Marco, che si era già seduto e aspettava che il latte si raffreddasse un po’, allungò un piede, agganciò uno sgabello e se lo portò più vicino; contemporaneamente gli fece cenno di sedersi. Il vecchio, per sua antica abitudine, era restio a farlo in presenza di un uomo che non riusciva a smettere di considerare il suo padrone; ma sapeva bene che costui avrebbe insistito e non avrebbe accettato un rifiuto e quindi acconsentì.

    L'ufficiale stava già iniziando a bere lentamente, quando Lucio gli rispose: «Vedete, comandante, non è tanto importante che voi comprendiate bene la situazione. E non è nemmeno importante che riusciate a trovare le parole giuste. L’importante è il tono, il tono con il quale le pronuncerete: perché sarà soprattutto da quello, che i soldati capiranno se possono continuare a fare affidamento su di voi. Io non ho alcun dubbio che voi ci riuscirete. Sì: voi riuscirete a tranquillizzarli, come avete sempre fatto, perché ciò che voi dite arriva sempre prima dal cuore, che dalla testa. Obbediranno ai vostri ordini. Faranno quello che direte loro di fare. Vi seguiranno fino nell’Ade e io farò lo stesso.»

    Marco Terenzio notò un leggero luccichio negli occhi del servo e stava per commuoversi a sua volta, al pensiero che chi da bambino lo aveva accudito, lavato, vestito, colui che gli aveva insegnato a camminare, a leggere, a scrivere, la persona che aveva pulito e ricucito tutte le sue ferite, quelle che si vedono e anche quelle che non si

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