Tocco nero
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Anteprima del libro
Tocco nero - Francesca Compagno
Schurz
Prologo
Amalia
Era buio. Aveva paura. Si era risvegliata dentro una cassa di legno, respirava a malapena.
Il panico la assalì proprio nel momento in cui avrebbe dovuto rimanere lucida e non cedere al terrore: più si agitava, più consumava ossigeno.
Dalla luce plumbea visibile attraverso le fessure, capì di non essere sottoterra. Polvere impalpabile le cadeva sul volto e sugli occhi, facendoli bruciare.
Non ricordava niente di quanto accaduto prima. Più si sforzava, più i ricordi sembravano dissolversi nel nulla.
Aveva freddo e sentiva gli arti compressi, come avvolti in un sudario che impediva anche i più piccoli movimenti. Voltando la testa da una parte e dall’altra si rese conto di avere solo pochi centimetri di spazio intorno a sé. Picchiò più volte la fronte contro le pareti della cassa. Sentiva odore di muschio, di terra bagnata e di legno di acero.
Si impose di restare calma e ripensò alle lezioni di yoga della signorina Seville, che le aveva insegnato a inspirare ed espirare profondamente, svuotando la mente. Il cuore, che fino a quel momento le era parso scoppiare nel petto, tornò lentamente a un battito regolare. Continuò a respirare regolarmente e a poco a poco il corpo si rilassò, abbandonandosi, senza più lottare. Ora era pronta a ripercorrere nella memoria gli avvenimenti che l’avevano condotta fino a lì e a capire come uscire da quella bara.
Era iniziato tutto in una fabbrica abbandonata a Pensacola, mentre vagava, con i crampi allo stomaco, tra le grandi stanze e gli uffici di un capannone fatiscente. La fame era tale che dormire sui cartoni umidi e maleodoranti era l’unico sollievo. Una banda di topi le aveva sottratto del cibo, miracolosamente recuperato dalla spazzatura, e la rabbia aveva amplificato i suoi poteri, che si erano liberati causando scintille ed esplosioni che avevano spazzato via buona parte della costruzione.
Era scoppiata in un pianto disperato. Non sapeva gestire le sue facoltà, era scappata dal luogo in cui era nata proprio per quello. Ricordava le fiamme, il crollo del tetto della sua casa, i genitori morti nell’incendio. Era fuggita, spaventata, e non aveva mai trovato il coraggio di tornare.
Un mutamento d’umore era sufficiente a scatenare attacchi violenti, manifestazioni di potere. Come in quel momento, in cui lampi e fulmini facevano da sottofondo alle sue lacrime.
Si era resa conto che le gocce d’acqua non la toccavano, ma scivolavano via, raccogliendosi in pozzanghere sul terreno. Sollevando lo sguardo, aveva visto Morgana che le porgeva un fazzoletto pulito.
«Tranquilla, andrà tutto bene, penserò io a te», le aveva detto con dolcezza. «Ti starò vicina come nessuno ha fatto finora e ti insegnerò a governare i tuoi poteri.»
L’aveva accompagnata a Black Honeydew, la sua tenuta in montagna, situata in una delle numerose proprietà accumulate nel corso degli anni, una sorta di alveare tondeggiante nascosto nella fitta vegetazione, una struttura moderna che sembrava costruita da insetti giganti, con numerose camere, zone comuni, mense e infermerie. La magia permeava ogni angolo.
Era stata sottoposta ad accurati controlli clinici e psicologici, poi era stata messa alla prova; i suoi poteri erano stati testati e lei aveva accidentalmente incenerito la sala degli incantesimi. Morgana l’aveva consolata, dicendole che col tempo le cose sarebbero cambiate.
Morgana aveva fiducia in lei, e lei si era applicata giorno dopo giorno, mese dopo mese, per imparare incantesimi e pozioni, esercitandosi per controllare le sue abilità.
Il giorno prima Morgana le aveva chiesto di accompagnarla in una missione: era così eccitata da non stare più nella pelle. Finalmente avrebbe potuto mettere in pratica i suoi insegnamenti e rendersi utile. Morgana sarebbe stata fiera di lei!
Nonostante gli incantesimi di protezione, una giovane strega era però riuscita ad aprire un portale in mezzo alla stanza in cui si trovava e a scagliare un potente sortilegio nella sua direzione. Tutto era diventato nero. Ora si era risvegliata in quella cassa di legno.
Era terrorizzata, eppure non riusciva a produrre neanche la più piccola scintilla. Capì come mai quando si rese conto di avere al polso un bracciale di legno. Riuscì a sfiorarlo con le dita e riconobbe l’incisione di una runa bloccante. Impossibile levarselo.
Capitolo I
Riley
Dal bosco non filtrava alcuna luce. Ero avvolta dall’oscurità. La luna non bastava a illuminare ciò che mi circondava. Vagavo ormai da ore, confusa e stanca, nella fitta vegetazione, senza trovare via d’uscita.
Mi fermai un attimo, ansimando a causa del continuo correre. Inoltre l’aria era irrespirabile, satura di anidride carbonica e dall’odore marcescente. Col fiato spezzato mi sedetti su una roccia per riprendere le forze e notai una mano che spuntava da sotto uno scheletrico cespuglio. Creai una sfera di luce e mi chinai per vedere meglio: non mi ero sbagliata. Afferrai quella mano rigida e fredda e cercai di tirarla a me, ma qualcosa la tratteneva. Non riuscivo a capire se fosse stata amputata o se attaccato vi fosse ancora il corpo, ormai esanime, di qualche abitante del bosco. A forza di tirare, alla fine riuscii a smuoverla.
Apparteneva a una fata.
La pelle bianca brillava, scintillando alla luce della mia sfera. Le ali trasparenti, simili a fogli di carta velina, color avorio, erano dissimili da quelle di qualsiasi altra specie di fata. Le piccole dita affusolate terminavano con lunghi artigli affilati, e lattiginosi denti aguzzi riempivano la bocca dalle labbra carnose e violacee. I capelli blu e gli occhi vitrei erano inconfondibili. Sembrava cieca, ma era la mancanza di pigmentazione a provocare quella strana colorazione della pelle e degli occhi. Era di sicuro una fata della luna. Conoscevo bene ogni specie di fata perché in parte lo ero anche io: mia madre era una fata delle Terre di Rosehip.
Ero preoccupata: si trattava del quarto corpo che rinvenivo da quando vagavo senza meta in quel fitto bosco. Non riuscivo a darmi una spiegazione in merito.
Da quando ho incontrato il professor Abraham Asbury tutto è andato a rotoli, e non riesco a risolvere nemmeno questa situazione, mi dissi, affranta.
In quella foresta rischiavo di impazzire, il cervello non aveva abbastanza ossigeno per consentirmi di riflettere. Ancora qualche minuto e avrei raggiunto la follia e successivamente la morte.
Mi rialzai a fatica e, con grande sforzo, iniziai a camminare. Trascinavo i piedi sollevando polvere e foglie marce. Mi sentivo la testa pesante. Stavo perdendo lucidità, a poco a poco avrei smarrito anche i ricordi; dovevo continuamente ripercorrere gli avvenimenti per tenerli vivi nella mente. I dettagli erano importanti e mi avrebbero aiutata in seguito. Le fate, ricordati le fate, mi ripetevo in una cantilena. Anche questa, come le altre, non aveva alcun segno di violenza sul corpo. Cosa le aveva uccise?
Arrancando nella fitta vegetazione, su un terreno sdrucciolevole, misi un piede in fallo e precipitai, rotolando lungo un ripido dislivello. Le foglie e i rami secchi mi graffiarono la pelle e lacerarono i vestiti. Mi fermò un grosso masso, sul quale picchiai violentemente la schiena. Mi doleva tutto e faticavo a respirare. Provai a rialzarmi, ma scivolai procurandomi altre lacerazioni sulle rocce affilate. Il sangue mi ricopriva le ginocchia e le mani. Stavo cercando di pulirmele sfregandole sugli abiti, quando foglie e pezzi di legno iniziarono a franarmi addosso. Qualcosa mi colpì alla nuca e tutto diventò nero. I sensi mi abbandonarono e crollai a terra.
Capitolo II
Marcus
Sono stato rinchiuso solo ieri, ma mi sembra che sia passato un mese. L’anziana donna che mi ha portato qui dice che sono in preda alle allucinazioni, perciò mi ha costretto a bere pozioni magiche e sottoposto a rituali di depurazione, alcuni dolorosi come sevizie. Sono confuso e non capisco le sue intenzioni. Continuo a ripeterle che la mia amica è stata rapita sotto i miei occhi, le chiedo soltanto di aiutarmi a trovarla e salvarla. Mi ignora, ripetendomi di dimenticare, ma non posso. So quello che è successo.
Eravamo tranquillamente sdraiati al sole nell’immenso prato del Big Lagoon State Park. Arrivata alle mie spalle, Riley mi aveva coperto gli occhi con le mani, chiedendo con voce contraffatta: «Indovina chi sono?»
Come avrei potuto confondere il suo profumo, il suo tocco, il suo calore? Era impensabile per me; avrei indovinato anche se non fossi stato un sensitivo.
Al tocco delle sue mani, il suo viso perfetto, i grandi occhi verdi, i capelli morbidi e folti, di un nero blu lucente, apparirono nella mia mente in un’immagine chiarissima. Immediatamente seppi che indossava una gonna nera, di seta, a pieghe, appena comprata, che le All Star ne avevano scucito l’orlo perché era troppo lunga per lei e aveva inciampato. Il corsetto rosa cipria, sopra l’attillata canottiera di pizzo nero, le dava un tocco di luce.
Sorridendo avevo semplicemente detto: «Riley?»
Sono il suo migliore amico sin dall’infanzia, le sono stato vicino quando ha perso i genitori in quel brutto incidente alla periferia di Pensacola. Nella città in cui abitiamo vivono molti esseri magici, o sanguemisto, come noi. Possiamo circolare liberamente, convivere, condurre una vita normale come tutti gli altri adolescenti della nostra età, frequentare le stesse scuole, gli stessi caffè, andare al cinema o allo stadio ad assistere alle partite di baseball. Sereni e spensierati, abbiamo finalmente la possibilità di essere felici, cosa non scontata per le generazioni che ci hanno preceduto. Dopo anni passati a vederla sorridere a qualcuno che