Essere Donna
Di Camilla Bisi
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Anteprima del libro
Essere Donna - Camilla Bisi
DIGITALI
Intro
Questa famosa silloge di Camilla Bisi è composta da quattordici novelle, pubblicate nel 1934. Oltre a Essere Donna, il racconto che dà il titolo al libro, comprende anche lo struggente Sette rose , una vicenda ispirata dall’appassire delle sette rose che le donò Mario Baistrocchi, suo compagno di università, prima di partire per la Grande Guerra, dalla quale non tornò.
IL MIO PECCATO
Qualcuno vorrà forse assolvermi in anticipo pensando ch’io avevo allora quindici anni.
Ma nessuno meglio di me sa come quella mia età adolescente fosse avvertita e scaltra: avvertita e scaltra soprattutto per ogni cosa d’amore.
Perché non c’era flirt in cui io non mettessi il naso nel momento più inopportuno, perché non c’era il più lieve intrigo che mi sfuggisse, mi avevano appunto denominata, nel piccolo mondo balneario di Paraggi, il furetto.
Mi piaceva, sì, precisamente, furettare col mio musino aguzzo, coi miei verdi occhi fosforescenti, e sapevo al punto giusto balzare fra le coppie, afferrando con intuito maligno che era quello il momento buono per fare il terzo incomodo. Avevo un’arte speciale per non muovermi dalla panchina, sul campo di tennis, quando capivo che le due serie persone che fino allora avevano parlato del bel tempo, volevano dirsi qualcosa di molto diverso o giocare una tranquilla partita, con languidi rimandi e lunghe soste alla rete.
Ero meravigliosa di pazienza e di abilità e credo che mi detestassero.
Nessuno però poteva credere ch’io lo facessi proprio per una perversa gioia di far male e che nell’età in cui le fanciulle sognano e hanno un diario cui affidano i primi aneliti verso l’amore, io mi divertissi invece, per una strana inversione, a rompere questi sogni, a distruggere queste trame che la divina pace di Paraggi, che l’incantevole mare di Portofino annodavano fra giovane cuore e giovane cuore.
Pensavano ch’io fossi una backfisch troppo stupida per capire certe cose: eppure i miei occhi lucenti senza gaiezza, la mia stretta faccia dal mento allungato, la bocca sottile coi denti scintillanti, dovevano, ora penso, essere rivelatori del mio vero carattere a osservatori meno superficiali.
L’unico ch’io rispettassi e ch’io lasciassi vagabondare indisturbato di flirt in flirt era Bacci.
Lo chiamavano tutti per nome e il suo bel volto di ragazzone sano, i suoi salti dal parapetto della strada in mare, le sue prodezze di nuotatore erano la nota dominante di ogni stagione. A Genova, a Milano, dappertutto ove era una ragazza che avesse passata l’estate a Portofino, si parlava molto di Bacci.
E vedete se i miei sedici anni non erano avvertiti: io sentivo che l’unico che non mettesse nessuna serietà nei suoi flirts era proprio Bacci, Bacci che ne aveva uno per ogni villa e per ogni camera d’albergo dove ci fosse una signorina, che spariva verso Santa Margherita con una e tornava da Portofino con un’altra, che insegnava a nuotare a tutte le nuove venute e doveva certo avere un libriccino, come quelli che usavano una volta per i balli, per segnare le partite di tennis impegnate.
Solo a lui permettevo di passare lunghe ore con la più piccola delle Martelli, ma se la piccola Martelli la sera si incamminava per lo stradale, con un altro, eccomi dietro lei a balzi, in cerca di lucciole e di parole tenere.
Io non sapevo se Bacci si fosse mai accorto che solo con lui io allentavo la mia sorveglianza.
Non badava a me più di quel che badasse ai bambini che razzolavano sulla spiaggia: una carezza sulla nuca, una tirata alla treccia ch’io portavo allora fitta e sferzante come un lungo scudiscio, erano tutte le attenzioni di cui mi degnava. Poi ecco si allontanava con quel suo lungo passo da marinaio e le signorine lo chiamavano: Bacci! e si attaccavano al suo braccio.
Ma io non li seguivo perché sapevo che questo non aveva importanza.
Come una vedetta all’erta, fui io la sola a scoprire che Bacci si innamorava.
Fu, dapprima, un girovagare ozioso nelle ore in cui l’albergo sonnecchiava, con le persiane tutte chiuse, contro il mare accecante di luce, nel pieno meriggio. Dietro le persiane della mia camera io vegliavo ed ecco Bacci arrivava svogliatamente dalla strada, vestito di bianco, a capo basso, con le mani in tasca e la pipa spenta in bocca.
Poi scendeva sulla spiaggia, si sedeva sulla prua di un sandolino, fumava a lungo guardando il mare. Oppure si stendeva supino e non lo vedevo più muovere fino a quando la dolce voce si alzava. Allora si voltava di scatto, si stendeva prono coi gomiti appoggiati alle pietre, il viso levato, gli occhi largamente aperti.
Ah! non poterlo interrompere quel colloquio fra gli occhi e la voce. Non poter balzare fra di loro col mio lungo bruno viso scintillante di malizia, coi miei occhi fosforescenti per l’agguato, non poter rompere con le mie mani, che tormentavano le stecche della persiana, la trama che solo i miei occhi avevano visto annodarsi da cuore a cuore.
Quando ella era scesa la prima volta alla spiaggia, bionda, carnosa, molle, con quel suo vestito tutto balze come un grande fiore, nessuno aveva visto gli occhi di Bacci. Io sì, e l’istinto da preda mi aveva avvertita.
Ma nessuno le aveva parlato, nessuno si era avvicinato. Li avevano lasciati soli, quasi in un cerchio di isolamento, lei e il marito infermo, molto più vecchio di lei, steso su una poltrona sotto molti scialli. Erano russi.
La voce che cantava in una lingua sconosciuta e dolcissima era molle bionda carnosa come la donna e io odiavo quelle parole che scendevano dalla finestra alla spiaggia, odiavo quel caldo richiamo, quel voluttuoso colloquio che la mia adolescente malizia non poteva disturbare.
Ma perché, anche quando mi accorsi che Bacci «le aveva parlato», io tacqui? Pure mi era facile con un accenno, con una battuta improvvisa rompere l’inizio di quella passione. Non parlai forse perché una oscura superstizione mi avvertiva di non dar corpo alle ombre.
Io avevo fino allora lasciato Bacci libero di vagabondare sotto le stelle a braccio di una bella ragazza perché la cosa non aveva importanza e perché il mio gioco di fare il terzo incomodo, solo con lui avrebbe perso il suo acre e perverso sapore. Non volevo ammettere che Bacci potesse seriamente amare. Non volevo credere a quell’amore. Forse ero, semplicemente, gelosa.
Certo tacqui a tutti quello che avevo scoperto la sera in cui Bacci, dopo il ballo, si era fermato all’albergo, per il temporale giunto improvviso a togliere la luce e a mandar giù dalla montagna torrenti di acqua e di ciottoli.
Al buio essi si erano cercati, si erano baciati e scalza io avevo ascoltato le loro voci rauche.
Non avevo voluto balzare irridendo fra di loro perché il buio mi faceva paura. Ma più mi aveva fatto paura, una paura tremenda di bambina, quel vero colloquio di amore – il primo – al quale avevo, non vista, assistito.
Ed io seppi di quale amore Bacci l’amava il giorno in cui egli la volle con sé sul mare.
Le belle ragazze che Bacci corteggiava una sola cosa non erano mai riuscite a ottenere da lui: ch’egli le conducesse al largo col cutter. Egli non poteva ammettere una donna dove voleva sentirsi padrone dell’acqua e del vento. Partiva solo e quando tornava gli rimaneva a lungo negli occhi quel colore di lontananza che hanno gli occhi dei marinai.
Essi avevano la precauzione di non partire insieme né dalla spiaggia né da Portofino: spesso io la vedevo allontanarsi in carrozzella per Santa Margherita, forse per Rapallo, sempre in quei suoi vestiti che la rassomigliavano a un grande fiore. Lungo la costa il cutter di Bacci bordeggiava. Poi si allontanava nel sole.
Dalla spiaggia, io che sola sapevo, sorvegliavo quella vela lontana e se chiudevo gli occhi credevo riudire le due voci roche che al buio mi avevano fatto soffrire. Un odio profondo scavava lentamente dentro di me con artigli che laceravano. Perché veramente andandosene così, lontani, sotto il sole, essi mi defraudavano della gioia che era stata fino allora mia: di poter balzare fra due bocche vicine che si cercavano.
Quand’egli tornava da laggiù mi pareva che nello sguardo di Bacci ci fosse quasi una luce di scherno per me, un raggio appena filtrato attraverso le ciglia. Quegli occhi non avevano più il colore di lontananza: essi erano così nuovi che la mia anima turbata non li riconosceva più.
Io dovevo tornare a Genova, in settembre, per prepararmi agli esami di riparazione. Ero stata bocciata in matematica ma a Paraggi quasi lo avevo dimenticato.
Lo ricordai il giorno in cui mammà mi disse «Preparati per andare a Genova. Ti abbiamo trovato un ripetitore».
Ogni protesta fu inutile, ma quando seppi che anche «i russi» partivano fui quasi consolata e quando ne ebbi la certezza, udendo nella camera accanto alla mia un singhiozzare basso e soffocato, la mia soddisfazione esplose con gran colpi alla valigia, con fischi pazzi e giravolte da furetto.
E Bacci lo sapeva! Era sempre il Bacci della spiaggia, il Bacci dalla voce sonora, ma in fondo ai suoi occhi io vedevo che lacrime e lacrime si andavano adunando a poco a poco, come i nembi si adunano sul mare prima che soffi il libeccio. Tremenda e devastatrice sarebbe stata la tempesta in quel cuore di uomo giovane che ama la prima volta.
Il giorno della partenza i russi erano nel mio treno. Li avevo visti salire in un vagone di prima classe ed ero imbronciata perché ancora una volta Bacci mi aveva defraudata: non avevo assistito al loro addio.
Come si erano salutati? Forse la sera, in faccia a tutti, con un compassato inchino l’uomo, con un piccolo cenno del capo la donna.
Ma non potei quasi credere ai miei occhi quando alla stazione di Camogli vidi Bacci salire in uno scompartimento di seconda e affacciarsi poi allo sportello con fare sospettoso. Mi ritrassi in tempo perché egli non mi vedesse.
Credo che i miei occhi mai fossero stati lucenti come in quel momento. Una