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La cacciatrice di zombie
La cacciatrice di zombie
La cacciatrice di zombie
E-book391 pagine5 ore

La cacciatrice di zombie

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Info su questo ebook

Lincoln Creek, una piccola città nel nord degli Stati Uniti d’America

La vita di Isabella è serena, simile a quella di tanti altri ragazzi della sua età.
Vive in un piccolo cottage col padre, ricercatore scientifico, dopo che la madre, a seguito del divorzio, si è trasferita in California col nuovo compagno.
Isabella frequenta l’ultimo anno delle superiori, ha molti amici, un ragazzo di cui è innamorata, e tanti progetti per il futuro.
Tuttavia, la notte di Halloween, durante una festa in maschera a cui partecipano Bella e i suoi amici, dopo una seduta spiritica in cui viene dato un sibillino avvertimento, cominciano ad accadere eventi insoliti e misteriosi delitti che imprimono una svolta imprevista e drammatica alla tranquilla esistenza della piccola città.
Colpita nei suoi affetti più cari, Bella deve affrontare inquietanti rivelazioni, combattere l’invasione degli zombie armata di tutto il suo coraggio e difendersi da nemici spietati che vogliono carpire il segreto da lei custodito…

La cacciatrice di zombie si allaccia idealmente ai precedenti romanzi, disponibili in eBook, Progetto Genesis: Post Mortem e Progetto Genesis: Protocollo Spectrum, per i comuni elementi: gli zombie e le manipolazioni genetiche, ma è una storia sostanzialmente indipendente. In occasione dell’uscita de La cacciatrice di zombie, il 28 agosto sarà possibile scaricare una copia gratuita di Progetto Genesis: Post Mortem dai principali store online.

L’AUTRICE
Nata ad Asti, dove risiede tuttora, Angela Pesce Fassio è un’autrice versatile, come dimostra la sua ormai lunga carriera e la varietà della sua produzione letteraria. Coltiva altre passioni, oltre alla scrittura, fra cui ascoltare musica, dipingere, leggere e, quando le sue molteplici attività lo consentono, ama andare a cavallo e praticare yoga. Discipline che le consentono di coniugare ed equilibrare il mondo dell’immaginario col mondo materiale.
Mistero, avventura, brividi e amore, sono i soggetti che predilige e che ha proposto anche sotto pseudonimo. I suoi libri hanno riscosso successi e consensi dal pubblico e dalla critica in Italia e all’estero.
LinguaItaliano
Data di uscita28 ago 2017
ISBN9788822816030
La cacciatrice di zombie

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    Anteprima del libro

    La cacciatrice di zombie - Angela P. Fassio

    Angela P. Fassio

    La cacciatrice di zombie

    Romanzo

    Della stessa autrice in formato eBook

    Il paladino

    La croce di Bisanzio

    La Dama Nera

    La reliquia perduta

    Progetto Genesis. Post Mortem [Vol. I]

    Progetto Genesis. Protocollo Spectrum [Vol. II]

    Navigatori del tempo e dello spazio

    La cacciatrice di zombie

    I edizione digitale: agosto 2017

    Copyright © 2017 Angela Pesce Fassio

    Tutti i diritti riservati. All rights reserved.

    Sito web

    Facebook

    ISBN: 9788822816030

    Immagini di copertina:

    123RF | © Andrey Kiselev

    Progetto grafico: Consuelo Baviera

    Sito web

    Facebook

    Edizione digitale: Gian Paolo Gasperi

    Sito web

    1

    Halloween, quando tutto ebbe inizio

    La scuola era stata in fermento per tutta la settimana.

    Il mio nome è Isabella Gray e all’epoca frequentavo l’ultimo anno delle superiori di Lincoln Creek, nel Michigan, una piccola e graziosa cittadina circondata da boschi selvaggi. Dopo il divorzio dei miei genitori, avvenuto alcuni anni prima, vivevo a casa di mio padre. A differenza di molte coppie separate che conoscevo, loro avevano mantenuto buoni rapporti. Mia madre non era stata entusiasta della mia decisione di restare con papà, ma io non avevo voluto lasciare la scuola in cui c’erano tutti i miei amici per trasferirmi in California e vivere sotto lo stesso tetto del nuovo compagno della mamma. Robert era una brava persona e mi piaceva, ma conduceva uno stile di vita troppo lontano dai miei gusti e ritenevo che ciò, alla lunga, avrebbe reso la convivenza difficile.

    Per placare le proteste della mamma avevo suggerito un compromesso: ogni estate avrei trascorso assieme a loro le vacanze. La soluzione aveva funzionato, ma prevedevo che quando mi sarei diplomata la mamma avrebbe fatto pressioni affinché andassi ad abitare con lei per avere l’opportunità di frequentare un college prestigioso. Però io non aveva ancora deciso a quale facoltà iscrivermi. D’altronde c’era un buon margine di tempo per pensarci e non avevo fretta.

    Ormai era la fine di ottobre e i preparativi per la festa di Halloween erano al culmine. Volevamo festeggiarlo in grande e fare in modo che fosse una notte indimenticabile. Specialmente noi dell’ultimo anno, dato che dopo il diploma ci saremmo separati e chissà dove ci avrebbero portati le nostre scelte di studio. Ovviamente era toccato a noi ragazze occuparci delle decorazioni e, trattandosi di una casa disabitata da anni, il lavoro era stato piuttosto impegnativo.

    L’idea di usare la vecchia casa di famiglia per la festa era stata di Jimmy Spencer. I suoi avevano fatto qualche resistenza perché si trovava in campagna, benché non distante dalla città, e pur non essendo un rudere mancava dei più basilari servizi: elettricità, gas e acqua corrente. La linea telefonica non c’era mai stata, ma non rappresentava un problema. Jimmy non si era lasciato scoraggiare dalle loro obiezioni e alla fine aveva ottenuto il permesso. Quando ci aveva portati a vederla era parsa subito il luogo perfetto, abbastanza lugubre e un po’ cadente, ideale per ambientarci la festa. Ghirlande colorate, candele e lanterne l’avrebbero abbellita, una volta spazzati i pavimenti e tolto le ragnatele. Le crepe nei muri erano un tocco in più all’atmosfera tenebrosa e noi ragazze eravamo state felici di sottrarre qualche ora allo studio per rimetterla in ordine. In un baleno si era sparsa la voce e la festa, in un primo momento riservata a pochi intimi, aveva finito col coinvolgere tutta la scuola.

    Adesso che il gran giorno era arrivato e mancavano poche ore all’evento, l’eccitazione era al massimo. Non si parlava d’altro, in attesa che iniziassero le lezioni.

    Le mie amiche e io sedevamo su un muretto al sole bisbigliando fra noi, senza dare troppo ascolto ai discorsi chiassosi dei vari gruppi formati nel cortile. I ragazzi, come sempre, erano i più scalmanati. Ogni tanto Elias mi guardava, ma io fingevo di non vederlo. Capitano della squadra di basket, alto e moro, era un vero schianto. I miei colori: bionda, carnagione diafana e occhi azzurri, apparivano scialbi, al confronto.

    «Bella, sei con noi? Scendi un attimo dalla tua nuvoletta, per favore. Stiamo parlando di cose importanti.» Fronte corrugata e aria di rimprovero, Marcia sbuffò.

    «Scusa, mi ero distratta.»

    «Ammetto che non è facile seguire il filo del discorso con tutto quel bendidio che cerca di farsi notare, ma tu non fai il minimo sforzo!» Rebecca sorrise maliziosa. Capelli rossi, fossette sulle guance e occhi nocciola, era l’esatta copia di Marcia, la sua gemella, e sarebbe stato quasi impossibile distinguerle se non avessero adottato taglio di capelli e abbigliamento diversi.

    «Allora, vogliamo tornare al punto?» Le gemelle volevano che rivelassi quale costume avevo scelto per la festa, ma non intendevo soddisfare la loro curiosità.

    Sorrisi sorniona. «Lo saprete questa sera.»

    «Scommetto che indovino!» esclamò Celeste, a cui i segreti piacevano ancora meno che alle gemelle. Alta, sottile, con lunghi capelli castani, era sempre impeccabile.

    «E tu come ti vestirai?» intervenne Lucy per stuzzicarla.

    Lo squillo della campanella mise fine alla riunione e ci unimmo alla fila che senza fretta si dirigeva all’ingresso. Elias si staccò dalla combriccola dei ragazzi e mi si avvicinò. Le mie amiche si scambiarono occhiate allusive.

    «Vengo a prenderti alle nove.»

    «No, ci vediamo alla festa. Rebecca e Marcia mi danno un passaggio.»

    «Okay, se preferisci.»

    «Sì, è meglio. Almeno loro non bevono.»

    «Sei ancora arrabbiata per l’altra sera? Mi ero fatto solo un paio di birre, cavolo. Niente che non fossi in grado di reggere.»

    «Ne parliamo dopo.»

    Lo lasciai e raggiunsi le altre che erano già entrate e stavano sedendo ai banchi. Elias andò a occupare il proprio nell’ultima fila. Era lì che si radunavano tutti i ragazzi. Sentii i suoi occhi trafiggermi la schiena, ma non mi girai e compunta preparai il testo per la lezione. Si sentivano ancora porte sbattere e vociare confuso provenire dal corridoio, mentre i ritardatari si affrettavano a entrare nelle classi. Quando il professore si alzò per andare a chiudere la porta, calò un relativo silenzio. C’era sempre qualcuno che bisbigliava, frugava nello zaino, inviava messaggi col cellulare nascosto sotto il banco anche se era espressamente vietato.

    Il mio, che avevo scordato di spegnere, s’illuminò e vibrò con tempismo perfetto nel preciso momento in cui cominciava la lezione di inglese. Digitai alla cieca per non farmi scoprire e combinai un pasticcio facendo partire una musica rock che fece sobbalzare l’intera classe e attirò l’immediata attenzione del professore che venne verso di me a passo di carica. Ormai ridacchiavano tutti, mentre tentavo di spegnere il maledetto arnese, e lo sguardo del prof mi trafisse.

    «Mi dispiace», mormorai.

    Lui tese la mano. «Dammelo, per favore.»

    Finalmente riuscii a far tacere l’assordante concerto e obbedii esitante.

    «Tranquilla, lo riavrai alla fine della lezione.»

    Avrei voluto sprofondare, ma dato che nessuna voragine si spalancò per inghiottirmi, mi limitai a seppellirmi dietro il libro per nascondere la faccia in fiamme.

    «Dai, non è grave», mi consolò Rebecca.

    Accennai a un sorriso riconoscente, ma continuai a sentirmi un’idiota e le sommesse risatine dei ragazzi dietro non mi furono d’aiuto.

    Durante l’intervallo, stringendo in mano il cellulare ormai innocuo, mi rifugiai nel bagno e cercai di scoprire chi mi aveva inviato il messaggio. Sospettavo fosse Elias ed ero curiosa di leggere ciò che aveva scritto.

    «Non riesci a trovarlo?»

    Alzai di scatto la testa e incontrai gli occhi neri di Elias che mi scrutavano.

    «Trovare cosa?»

    «Il messaggio con cui ti chiedevo di perdonarmi.»

    «No, devo averlo cancellato per sbaglio. Ehi, che ci fai qui? Questo è il bagno delle ragazze.»

    Sorrise in quel suo modo irresistibile. «Allora esci e vieni a fare due passi.»

    Esitai. «Le mie amiche mi stanno aspettando.»

    «Lascia che aspettino.»

    «Okay.» Feci sparire il cellulare in tasca e lo seguii nel corridoio affollato e chiassoso. Trovare un posto tranquillo non era facile, ma Elias mi portò nella palestra deserta. Lì era piuttosto buio e il vociare confuso giungeva smorzato.

    «Allora, mi perdoni?»

    Decisi di tenerlo sulle spine. «Ancora non lo so.»

    «Per quanto vuoi farmela pagare? In fondo erano solo un paio di birre.»

    «Avevi promesso di non toccare alcolici in mia compagnia.»

    Sbuffò. «Ho sbagliato, va bene? Non succederà mai più, ma non tenermi il muso.» Mi prese il mento con due dita e fui costretta a guardarlo. Era sincero, glielo leggevo negli occhi, ed ero anche fortemente condizionata dalla sua vicinanza.

    «Okay, ti perdono.»

    «Adesso che tutto è sistemato posso venire a prenderti?»

    «No.»

    «Perché no?»

    «Perché ho già detto a mio padre che andrò alla festa con Marcia e Rebecca e se comparissi tu non sarebbe contento.»

    «Gli hai detto dell’altra sera?»

    «Ho dovuto. Mi ha visto rientrare con Jenny.»

    «Potevi inventare qualcosa.»

    «Non sono brava a raccontare bugie. Lui avrebbe capito e sarebbe stato peggio.»

    «Forse gli dovrei parlare e spiegargli che non ero tanto ubriaco da non poterti riportare a casa. Che facciamo se non volesse più farti uscire con me?»

    «Tutto si aggiusterà. Lascia che me ne occupi io. So come prenderlo.»

    «D’accordo», sospirò prendendomi fra le braccia per darmi un bacio.

    La campanella avvisò che l’intervallo era finito e ci staccammo riluttanti.

    «Dobbiamo rientrare in classe», mormorai avviandomi.

    Lui mi trattenne per un braccio. «Mangiamo insieme?»

    «Non posso. Ho promesso alle ragazze che avrei pranzato con loro.»

    Levò gli occhi al soffitto. «Sei perfida, Bella.»

    Scoppiai a ridere. «Lo so.»

    Il resto della giornata passò in fretta e malgrado i serrati interrogatori delle amiche e qualche frecciata allusiva da parte dei ragazzi, riuscii a non rivelare quale costume avrei indossato alla festa.

    Quando rientrai a casa, una graziosa villetta a due piani con giardino, papà era nello studio e lavorava al computer.

    Mi affacciai sulla porta. «Ciao, papà. Sei tornato presto stasera.»

    Lui alzò il capo e sorrise. «Già. Dovevo finire un rapporto. Com’è andata la scuola?»

    «Al solito. Ti preparo qualcosa da mangiare? Ricordi che stasera vado alla festa di Halloween, vero?»

    «Certo che mi ricordo, e spero che non farai tardi.»

    «No, tranquillo. Vige una specie di coprifuoco anche per le ragazze. Cosa ti preparo?»

    «Un paio di sandwich andranno bene.»

    «Salgo a posare lo zaino e a farmi la doccia.» Non mi sentì nemmeno, assorto com’era nel lavoro, e salii di volata nella mia stanza.

    Anche se la casa non era grande avevo un bagno tutto mio e apprezzavo molto di non dover dividere quello spazio personale con mio padre, benché fosse un tipo estremamente discreto.

    Mollai lo zaino sul pavimento e chiusi la porta per contemplare il costume che avrei indossato quella sera. Il segreto serbato gelosamente per l’ultima settimana e col quale mi prefiggevo di stupire tutti. Quella mattina, prima di uscire, avevo steso sul letto la tuta di pelle nera e il giubbotto borchiato stile dark punk motociclista. Non mancava la bandana e, sul tappeto, c’erano gli anfibi, recuperati in un emporio di vestiario militare. Una mise molto aggressiva, in contrasto con la mia solita immagine da brava ragazza, a cui avrei aggiunto il trucco accentuato. Pensai alla faccia che avrebbe fatto Elias, nel vedermi vestita a quel modo, e sorrisi compiaciuta.

    Sotto la doccia indugiai, lavandomi anche i capelli, poi avvolta nell’accappatoio rosa e con un asciugamano in testa, controllai la posta al portatile. C’erano due messaggi della mamma. Nel primo mi rimproverava per aver tardato a scriverle. Nel secondo diceva di essere preoccupata per la festa e mi raccomandava di non bere, non cacciarmi nei guai e non fare tardi. Mi chiedeva anche dove si sarebbe svolta la festa e chi avrebbe partecipato.

    Le risposi subito.

    Eccomi, mamma. Va tutto bene e non c’è motivo che ti agiti. Prometto che stasera farò la brava. Andremo a casa di un amico e praticamente ci sarà tutta la scuola.

    Domani ti racconto.

    Ti voglio bene anch’io.

    Isabella

    Inviata la mail e chiuso il PC, indossai la vecchia tuta di felpa e coi capelli ancora umidi scesi in cucina a preparare i panini. Papà era uno che non badava a ciò che mangiava ed ero io a fare la spesa e a cucinare per assicurargli pasti decenti. Non ero una gran cuoca, ma me la cavavo abbastanza bene e stare ai fornelli mi divertiva. A tavola non parlavamo granché e la maggior parte delle volte ero io a raccontargli della scuola e dei miei amici. Lui ascoltava, sorrideva, si limitava a qualche commento, ma sembrava avere la mente rivolta altrove. Specie in quell’ultimo periodo era più elusivo e taciturno del solito. Doveva esserci qualcosa che lo preoccupava seriamente e che riguardava il lavoro, ma quando gli facevo delle domande lui mi assicurava che andava tutto bene e cambiava argomento.

    In realtà ne dubitavo e avevo sondato la mamma per saperne di più. Però lei non aveva trovato strano quel comportamento. Svolgendo una professione nell’ambito della ricerca scientifica era obbligato a rispettare il più assoluto riserbo anche in famiglia. La spiegazione non mi aveva confortata. Papà era davvero cambiato e le rughe comparse sulla sua fronte confermavano i miei sospetti. Ma non avevo idea di cosa mi stesse nascondendo e perché.

    Farciti i panini con maionese, fettine d’arrosto e foglie di lattuga, li posai sul piatto. Mi girai per aprire il frigo e prendere una bottiglia di birra analcolica e papà era sulla porta che mi guardava. Per poco non mi lasciai sfuggire la bottiglietta gelata, tanto il suo sguardo era fisso e inespressivo.

    «Tutto a posto, papà?»

    Sorrise in modo vacuo. «Ma certo.»

    «I panini sono pronti, e c’è anche la tua birra preferita. Li mangi qui, o te li porto nello studio?»

    «Verrò a mangiarli più tardi, appena finito il lavoro.»

    «Allora rimetto in frigo la birra. Non te ne dimenticare però, mi raccomando.» Avvolsi il piatto con della stagnola e lo sistemai sul ripiano della cucina, vicino al cesto della frutta, così magari avrebbe anche mangiato una mela. Mi stava ancora fissando con quell’aria strana e non riuscii a trattenermi. «C’è qualcosa che mi vuoi dire?»

    Si toccò la fronte con due dita, come faceva sempre per sforzarsi di ricordare, e le rughe fra le sopracciglia si accentuarono. «Hai risposto alle mail della mamma?»

    «Come fai a sapere che erano due mail? Hai curiosato nel mio PC?»

    «No. Lo so perché oggi tua madre mi ha chiamato all’istituto per sapere come mai non le avessi ancora scritto. Mi ha pure sottoposto a una specie di interrogatorio in merito alla festa di stasera. Pare che questa cosa le metta ansia.»

    «La mamma è sempre in ansia. È la sua condizione perenne», sospirai. «Spero che tu non le abbia detto che la festa si fa a casa di Jimmy, in campagna.»

    «Per vederla piombare qui e sentirmi accusare di essere un padre irresponsabile? Tranquilla, tesoro, il tuo segreto è al sicuro.»

    Sorrisi. «Grazie.»

    Abbozzò un gesto vago. «Be’, torno di là. Vieni a farti vedere col costume, quando sarai pronta.»

    Non volevo interrompere quel contatto e lo raggiunsi, infilandogli la mano sotto il braccio e stringendolo leggermente. «Stai bene, papà?»

    «Sì, Bella. Sono solo stanco.»

    Lo baciai sulla guancia. «Lavori troppo, papà. Stanotte sei di nuovo stato al computer fino a tardi. Erano quasi le due quando sei salito.»

    «Mi stai rimproverando perché ti trascuro? Mi era parso di capire che volessi i tuoi spazi.»

    «Nessun rimprovero, e sono contenta che tu mi lasci i miei spazi. A essere invadente ci pensa già la mamma.»

    «Ti tieni sempre in allenamento, vero?»

    Papà aveva le sue fissazioni, e questa era la più stramba di tutte.

    «Almeno due o tre volte la settimana. Devo anche studiare per mantenere alta la media dei voti.»

    «Sei una brava ragazza, Bella, e sono fiero di te. Adesso lasciami andare a lavorare. Prometto che quando tutto sarà finito faremo un bel viaggetto insieme. Ti piacerebbe?»

    «Certo, papà.» Feci un sorriso forzato e mi girai per nascondergli la mia agitazione.

    Mi precipitai in cucina e aprii il rubinetto per spruzzare in viso l’acqua fredda. Poi mi appoggiai al lavello in preda a un profondo turbamento. Ormai da anni non facevamo vacanze assieme e che l’avesse proposto era la conferma alle mie inquietudini. Non erano i problemi di lavoro ad affliggerlo, ma il suo stato di salute: papà era malato. Gli sbalzi d’umore, i lunghi silenzi, le risposte evasive alle mie domande e, infine, la tensione che traspariva dai suoi gesti, erano segnali che fino a quel momento avevo male interpretato.

    Lui taceva per non angosciarmi. Si teneva tutto dentro e lottava da solo mentre forse stava morendo e il progetto del viaggio significava che aveva scelto quel modo per dirmi addio. Probabilmente neppure la mamma sapeva. E come avrebbe potuto, del resto? Anche quando abitavano ancora nella stessa casa erano praticamente degli estranei e ciascuno viveva nel proprio mondo, separati dall’abisso incolmabile delle incomprensioni. La mamma, che con gli anni non era maturata, sarebbe stata l’ultima a conoscere la verità.

    Sospirai, premendo le mani sulle guance umide. Mi era passata la voglia di andare alla festa, convinta com’ero di aver collocato tutti i tasselli al loro posto, e uscire a divertirmi con gli amici quando papà stava soffrendo mi sembrò crudele. A lunghi passi uscii dalla cucina e mi diressi verso lo studio. Indugiai sulla soglia. Papà digitava sui tasti e fissava lo schermo, il viso illuminato da una luce vagamente spettrale. Non si accorse della mia presenza ed esitai.

    «Papà?»

    «Cosa c’è, Isabella?»

    «Pensavo che… che forse non dovrei uscire, questa sera. Ceniamo insieme e poi guardiamo la tivù. C’è una maratona di film dell’orrore.»

    Alzò il capo e aggrottò la fronte. «Ti senti poco bene?»

    «No, sto benissimo. È solo che mi farebbe piacere passare una serata con te.»

    «Non posso credere che tu preferisca stare col tuo vecchio invece che andare a divertirti coi tuoi amici. È successo qualcosa?»

    «Niente. Mi è solo sembrata una buona idea.»

    «Lo faremo un’altra volta. Adesso smetti di girarmi attorno come una chioccia e vai a prepararti.»

    «Okay. Ti voglio bene, papà.»

    «Te ne voglio anch’io, tesoro.»

    L’eccitazione per la festa tornò a fare capolino quando mi guardai allo specchio e vidi l’effetto che l’aderente tuta di pelle faceva su di me.

    Mi faceva apparire molto sexy e molto aggressiva. Col rossetto fiammante e gli occhi bistrati sarei potuta passare davvero per una cattiva ragazza. Sorrisi alla mia immagine e infilai il giubbotto. Una ciocca di capelli si impigliò in una borchia e dovetti trafficare un po’ per sbrogliarla. Annodai la bandana sulla fronte e assunsi una posa da rockstar. Sarebbe stato ancora più fico se avessi potuto presentarmi alla festa in motocicletta, ma papà non mi aveva dato il permesso di cavalcare la sua amata Harley.

    Finalmente distolsi l’attenzione dall’immagine tanto diversa dalla solita che mi rimandava lo specchio e infilai in tasca cellulare e documenti. Erano quasi le nove e fra poco le gemelle sarebbero arrivate. Andai alla porta, l’aprii e dalla soglia mi girai a guardare la stanza con un’assurda sensazione di rimpianto, poi scrollai le spalle e mi diressi alla scala. Scesi adagio, un po’ impacciata dai pesanti anfibi, e attraverso il salone raggiunsi lo studio. Mentre facevo la mia apparizione e papà mi guardava scioccato, un’auto si fermò davanti al cancelletto e si udì il suono del clacson.

    «Sono le ragazze», dissi con un sorriso. «Che ti pare del mio costume?»

    «Ti sta benissimo, ma ti fa apparire così diversa che non sembri più tu.»

    «Solo per stasera, papà. E non è che un gioco, una mascherata.»

    «Certo. Divertiti, tesoro.»

    Gli feci un cenno con la mano e corsi fuori prima che il ripetuto suono del clacson facesse indispettire i vicini. Come mi aspettavo, le gemelle emisero gridolini estasiati a cui fecero eco i miei per i costumi da vampire che indossavano.

    «Sei fantastica, Bella. A Elias verrà un colpo quando ti vedrà.» Rebecca accelerò e l’auto partì con un balzo.

    «Non immaginavo che scegliessi una mise di questo genere», osservò Marcia girandosi sul sedile per guardarmi.

    «Per questo ho voluto che fosse una sorpresa.»

    «E ci sei riuscita, cavolo! Tutti davamo per scontato che ti saresti travestita da angelo.»

    «Troppo banale. Solo nella nostra classe ci saranno almeno tre angeli, da quanto ho sentito dire.»

    «Elias quale costume ha scelto?»

    «Da demone», sospirai. «Lucifero, per l’esattezza.»

    Rebecca mi lanciò un’occhiata dallo specchietto. «Angeli e demoni. La serata promette bene.»

    «Per non parlare degli zombie e dei mostri tirati fuori per l’occasione da tutti i racconti dell’orrore.»

    «Inclusi film e serie tivù.»

    «Speriamo che Lucy abbia portato l’attrezzatura.»

    «Quale attrezzatura?» chiesi curiosa.

    «Come, non te l’ha detto? In solaio ha scovato una tavola Ouija e faremo una seduta spiritica. Sarà eccitante.»

    Non mi sentii di condividere il loro entusiasmo. «Credete che sia una buona idea? Insomma, sono sicura che ci siano altri modi per divertirsi.»

    «Ma è Halloween!» protestò Rebecca. «E noi vogliamo comunicare coi fantasmi.»

    «I morti vanno lasciati in pace.»

    «Dai, non fare la guastafeste!»

    «Non voglio sciuparvi il divertimento, ma questa cosa mi dà i brividi.»

    «Allora stanne fuori, però non sai che ti perdi.»

    Nella seguente mezz’ora restammo in silenzio e un brano hard rock, tutto percussioni e chitarre elettriche, riempì l’abitacolo.

    La strada che si snodava fra i campi immersi nel buio era rischiarata dai fari delle auto che ci precedevano. Dietro di noi ne venivano molte altre, più qualche moto che zigzagava rombando. Si percepiva un’insolita eccitazione, come se quella serata rappresentasse un evento unico e irripetibile e noi ne fossimo i protagonisti. In certo qual modo era così, per noi dell’ultimo anno, a cui il diploma avrebbe spalancato le porte di un futuro pieno di promesse, ma anche di incognite.

    Rebecca guidava disinvolta, a velocità moderata, e la campagna piatta e uniforme sembrava sconfinata quasi quanto il cielo velato dalle nuvole, nel quale a tratti occhieggiava la luna. Eravamo assorte nei nostri pensieri quando un SUV che ci precedeva frenò bruscamente e costrinse Rebecca a fare altrettanto per non urtarlo.

    «Ehi, ma che fa quell’idiota?»

    «Sarà già ubriaco», commentò Marcia.

    Mi voltai a guardare la processione di veicoli che ci seguiva, costretta a una fermata imprevista, e si udì qualche secco colpo di clacson.

    «E quello chi sarebbe?» esclamò Rebecca.

    I fari del SUV illuminarono un tizio che attraversava la strada con andatura barcollante. Abiti a brandelli gli pendevano dal corpo scarnificato e la faccia era una maschera in disfacimento. La singolare apparizione ci lasciò senza parole per qualche istante e nel frattempo si trascinò dalla parte opposta e si dileguò nel buio.

    «Dov’è finito?» chiese Marcia.

    «Chi se ne importa? Spero proprio di non ritrovarlo alla festa.»

    Rebecca ripartì e tutto il corteo si rimise in moto. Anche lei accelerò appena il SUV aumentò la velocità per recuperare il distacco dagli altri e presto anche noi imboccammo la stradina sterrata in fondo alla quale brillavano le luci tremule del casolare.

    2

    Lo spiazzo era già gremito di macchine, moto e alcuni pickup.

    Rebecca infilò la Ford nel primo posto libero che trovò e spense il motore. Scendemmo, e insieme a un altro gruppo mascherato e chiassoso ci avviammo all’ingresso. Nonostante le luminarie la casa conservava il lugubre aspetto e la folla di creature mostruose che la popolava rendeva l’atmosfera molto verosimile.

    Un brivido mi attraversò nel varcare la soglia, e quando una folata di vento fece tremolare le fiammelle delle candele e tintinnare le gocce del lampadario di cristallo, provai una strana inquietudine.

    Rebecca e Marcia si guardarono attorno. «Dove sarà Lucy?»

    «Qua in giro. Andiamo a cercarla.» Rebecca prese per mano la sorella, che si girò verso di me. «Tu non vieni?»

    Esitai e mi lasciarono per tuffarsi in mezzo ai mostri. Mentre scrutavo qua e là alla ricerca di Elias, partì una musica da spaccare i timpani. Fra schiamazzi e risate, grottesche facce bianche e canini appuntiti, diavoli e diavolesse, lunghe palandrane nere e mantelli rossi, le figure delle ragazze che si erano travestite da angeli apparivano incongrue.

    Jimmy Spencer, vestito da Jack lo Squartatore, mi venne incontro sorridendo.

    «Benvenuta nella Casa degli Spettri.»

    Ricambiai il sorriso. «Grazie. Hai visto Elias?»

    «Sarà da qualche parte con la sua banda di demoni. Se vuoi qualcosa da bere, il bar è aperto. Divertiti. Io cerco la mia prossima vittima.» E con una risata agghiacciante se ne andò.

    Mi addentrai fra la calca, aprendomi un varco fra gli esseri più spaventosi che mai mi fosse capitato di vedere a una festa di Halloween. I ragazzi si erano davvero sbizzarriti nel rendere il più verosimiglianti possibile i loro costumi e avevo qualche difficoltà a identificare i miei amici sotto le maschere ghignanti. Stavo ancora tentando di individuare Elias e la sua combriccola quando fui raggiunta da Marcia.

    «Abbiamo trovato un posticino tranquillo per la seduta spiritica e siamo quasi pronte. Ti unisci a noi, Bella?»

    Fui tentata di rifiutare perché mi sembrava davvero una pessima idea scherzare coi morti la notte di Halloween, ma lo sguardo di Marcia era pieno di aspettativa e non mi sentii di deluderla. «Ma sì, andiamo. Cosa può succedere di brutto?»

    Ci arrampicammo su per una stretta scala di legno che scricchiolò a ogni passo fino a un pianerottolo su cui si affacciavano due piccole stanze. La carta da parati cadeva a brandelli, rivelando l’intonaco, e l’aria sapeva di stantio. La camera in cui si erano radunate le ragazze sembrava perfetta per lo scopo e lì sopra il chiasso arrivava smorzato. Il chiarore delle candele creava un’atmosfera surreale da cui, mio malgrado, fui contagiata. Entrai al seguito di Marcia e ci unimmo al gruppetto formato da Celeste, Emma, Sarah, Rebecca e Lucy. Anche loro sedettero nel cerchio al centro del quale c’era la Tavola Ouija, ornata da fregi, disegni e, lungo i margini, con incise le lettere dell’alfabeto che formavano due linee rette. Agli angoli erano ben visibili le parole SI e NO, contornate da misteriosi ghirigori. L’insieme era completato da una serie di numeri e da altri simboli dall’oscuro significato.

    Rebecca mi toccò il braccio. «Ti sei decisa, eh? Ero sicura che non avresti potuto resistere.»

    «Spero di non pentirmene», sussurrai.

    Lucy prese da un sacchetto di panno verde un piccolo bicchiere a gambo lungo che posò capovolto al centro della tavoletta. Sorrideva compiaciuta e sembrava sapere il fatto suo.

    «Ci spieghi come funziona?» chiese Emma con un filo di voce.

    «Il bicchiere capovolto serve per comunicare col mondo degli spiriti. Non ve l’ho mai detto, ma le donne della mia famiglia possiedono poteri medianici e so di cosa parlo. Servono tutte le nostre energie perché la seduta abbia esito positivo e ci dobbiamo concentrare. Ciascuna di noi dovrà posare il dito indice sulla base del calice, senza premerlo troppo, altrimenti si rischia di bloccare il flusso di energia. Quando entreremo in contatto con lo spirito, esso ci detterà il suo messaggio. Avanti, mettete il dito sul bicchiere e cominciamo.»

    Una alla volta ubbidimmo. Io per ultima e con un po’ di esitazione.

    «Adesso che succede?» bisbigliò Sarah.

    «Aspettiamo che il bicchiere si muova.»

    «Cosa? Tutto qui? Chi ci assicura che una qualsiasi di noi non muova il bicchiere e scriva ciò che vuole?»

    Lucy, immersa nel proprio ruolo, le riservò un’occhiataccia. «Tesoro, non c’è trucco e non

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