La notte del coccodrillo
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Info su questo ebook
Simone Buchholz
Simone Buchholz was born in Hanau in 1972. At university, she studied Philosophy and Literature, worked as a waitress and a columnist, and trained to be a journalist at the prestigious Henri-Nannen-School in Hamburg. In 2016, Simone Buchholz was awarded the Crime Cologne Award, and second place in the German Crime Fiction Prize, for Blue Night, which was number one on the KrimiZEIT Best of Crime List for months. The next in the Chastity Riley series, Beton Rouge, won the Radio Bremen Crime Fiction Award and Best Economic Crime Novel 2017. She lives in Sankt Pauli, in the heart of Hamburg, with her husband and son.
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Anteprima del libro
La notte del coccodrillo - Simone Buchholz
Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone viventi o defunte, luoghi o fatti reali è puramente casuale.
Della stessa autrice:
Revolver. Le ragazze del porto di Amburgo
Titolo originale: Blaue Nacht
© Suhrkamp Verlag Berlin 2016
© 2017 Emons Verlag GmbH
Tutti i diritti riservati
Impaginazione: César Satz & Grafik GmbH, Colonia
Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck
ISBN 978-3-96041-300-4
Distribuito da Emons Italia S.r.l.
Via Amedeo Avogadro 62
00146 Roma
www.emonsedizioni.it
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SIMONE BUCHHOLZ
LA NOTTE DEL COCCODRILLO
Traduzione di Fabio Lucaferri
Per Rocco Willem Bruno
Conquistavo la mia poltrona preferita accanto all’ascensore e mi fumavo una sigaretta. Quando mi andava di dormire, mi ritiravo nell’ufficio persone scomparse, lasciando detto al poliziotto di guardia che non volevo essere disturbato, a meno che non uscisse dalla telescrivente qualcosa di veramente scottante.
Weegee (Arthur Fellig), fotografo della polizia a New York fra gli anni Trenta e i Sessanta.
Un calcio sul rene destro, per piegarti le ginocchia.
Uno in pancia, e qui vai al tappeto.
Un altro sul rene, il sinistro stavolta, per tagliare corto.
Poi gli sfollagente, sfilati da sotto le giacche.
Tre giacche, tre sfollagente.
Gamba sinistra, gamba destra.
Braccio sinistro, braccio destro.
E sei piedi per dodici paia di costole.
È un demone a tre teste, il tuo demone personale.
Evocato appositamente per te.
Il guizzo di una pinza.
L’indice destro.
Uno schiocco secco.
Probabilmente ignorano che sei mancino.
Ancora un ultimo calcio, a qualcosa di già rotto.
Alla fine ti lasciano a terra.
Cinque minuti in tutto, al massimo sei.
Il dolore è puro, sconcertante, gelido e bollente al tempo stesso. È ovunque. Il sangue cola caldo dalla mano destra, quasi consolatorio.
Dunque è così che finisce.
CANDELE PER TUTTI, PREGO
Il motore emette un ultimo colpo di tosse, si raschia la gola come un vecchio sotto un cielo scuro, e s’ingolfa. Scendo, mi siedo sul cofano color ruggine, il viso esposto all’aria fredda, pesante.
Sigaretta.
Prima cosa: asciugare un po’ di nebbia, fumando.
Un fine settimana in campagna, che scemenza.
Proprio io. È stata un’idea bacata fin dall’inizio. Comprati una macchina, almeno cambi aria. Fai qualcos’altro.
Trovata geniale, davvero.
La macchina è un bidone, al volante sono peggio di una mucca sui pattini, e mai nessuno che mi accompagni quando ho voglia di andare da qualche parte. Così alla fine resto sempre da sola come un cane, cosa che in città mi pesa meno che altrove. Fare una gita in campagna da soli è come mangiare del nastro adesivo.
In città c’è qualcuno che mi aspetta, ho finalmente la sensazione di essere utile. E invece sono bloccata qui. Anche se la persona che mi aspetta non sa di aspettarmi, visto che è all’ospedale ridotta a un ammasso di carne trita.
Mi hanno chiamata. Lo fanno sempre in casi simili.
Non hanno chiamato nessun altro, perché non sanno chi sia.
Telefono a Faller, grazie a dio ancora non ci siamo dimenticati l’uno dell’altra. Non è ancora successo nulla che possa recidere la nostra confidenza.
Risponde al secondo squillo.
Buongiorno, ragazza mia.
Buongiorno, Faller.
Che mi dice di bello?
La Ford ha tirato le cuoia.
Oh.
Può passarmi a prendere? Ho fretta di tornare in città.
Dove si trova?
Fucking Nowhere,
dico.
E dove precisamente?
In Meclemburgo. Fra Zarrentin e lo sa il diavolo dove. Da qualche parte sulla B195, a nord dell’autostrada.
Ah.
Faller è nella zona ovest di Amburgo, presumibilmente a colazione. Se si sbriga, può essere qui in poco più di un’ora.
Non si muova,
mi ordina. Arrivo. Però mi dia un po’ di tempo.
Ho le sigarette. Mi chiami quando è nei paraggi, va bene?
Attacco, poggio entrambe le mani sul cofano ormai quasi freddo. Non abbiamo fatto amicizia, io e questa vecchia auto. Può darsi che l’approccio sia stato niente male, può darsi che ci fosse un’intesa superficiale, può darsi perfino che qualcuno si sia detto: Calzano a pennello! Strano che nessuno avesse ancora pensato ad accoppiarli.
Invece alla fine è stato soltanto uno di quegli incontri seducenti all’inizio, ma che a uno sguardo più attento non sopravvivono alla luce del mattino seguente.
Alzo il bavero della giacca, tiro fuori la borsa dal portabagagli e m’avvio a piedi lungo la strada, in direzione ovest. Davanti a me un paesaggio aperto fatto di campi e pascoli e prati e qualche albero solitario. Una spruzzata d’ocra qui, una di verde là. Accendo un’altra sigaretta e ascolto il rumore dei miei stivali. Facciamo presto a trovare un ritmo, io e i miei stivali, marciamo sull’asfalto che è una gioia.
Faller mi troverà.
Dietro di me, a est, al di là delle nuvole umide e implacabili, lontano nel cielo incredibilmente ampio del Meclemburgo, spunta un miserabile spicchio di sole.
Sembro un cowboy a cui hanno ammazzato il cavallo.
Faller sta attraversando una specie di tardiva crisi di mezz’età. Stento ancora a credere che abbia comprato una Pontiac azzurra degli anni Settanta, modello Catalina. È stata sua moglie a pregarlo di acquistare una macchina così, quando si è accorta che lui iniziava, con relativa disinvoltura e sempre più insistenza, a mangiarsi le ragazze con gli occhi. O meglio, ad affermare che sempre più ragazze se lo mangiavano con gli occhi.
Ti serve un’occupazione,
aveva stabilito lei. Adesso ce l’ha. La Pontiac gli dà sempre noie. Che il suo ferrovecchio funzioni quando il mio getta la spugna è la mia grande fortuna, altrimenti chi diamine avrei potuto chiamare?
Al momento Calabretta gira con un gran cartello di FUORI SERVIZIO appeso proprio davanti al cuore. Una vista squallida che questa mattina non potrei sopportare.
Sberla dorme ancora e dato che fino a poche ore fa si trovava dietro il bancone del suo bar, anche in stato di veglia non sarebbe servito granché al volante.
Carla e Rocco non hanno la patente e per giunta sono ufficialmente incaricati di badare a Calabretta.
Nel complesso, la banda di cui faccio parte è piuttosto carente in quanto a mezzi di trasporto.
Faller mi affianca lentamente, la sua Pontiac gorgoglia. Si ferma e abbassa il finestrino del lato passeggero.
Le avevo detto di non muoversi.
Non ho avuto scelta.
Per il resto? Passato un buon fine settimana?
Apro la portiera, getto la borsa sul sedile posteriore e mi lascio sprofondare nella pelle nera.
Altroché, un fine settimana da sballo. Questa è la mia ultima gita del cazzo in una cazzo di campagna.
Mi squadra scuotendo la testa.
Che le è saltato in mente, Chastity? Abbandonare la città? Lei non può stare senza il suo cemento.
E che ne so. Ho pensato: Fammi dare ascolto agli amici, qualcosa succederà. A scaldare la sedia mi viene la smania. Ufficialmente sono ancora procuratrice, però in pratica dopo quella storia al porto mi hanno tagliata fuori dai giochi. Quando si è trattato di decidere come procedere con una come me ci hanno girato intorno un bel po’. Visto dall’esterno, se spedisci al fresco un tuo superiore per corruzione ti spetta una promozione. Invece dall’interno i capi non lo vedono di buon occhio. E poi la grana dell’uso illegittimo di arma da fuoco. Che abbia salvato la pelle a Calabretta è una cosa; che abbia colpito un brutto ceffo non alla gamba, ma ai gioielli di famiglia, un’altra. Non so che ne sia stato poi del tipo, di questa storia non si è saputo niente. La stampa non ha battuto ciglio. Non so come hanno fatto i colleghi e preferisco non saperlo. Mi hanno assicurato che non ho niente da temere, hanno preso la pistola militare di mio padre e mi hanno tolta dalla circolazione. Alla fine, dopo mesi sospesa nel nulla, tirano fuori dal cilindro un nuovo incarico. Un ufficio creato apposta per me: Protezione vittime di violenza.
Quando ad Amburgo uno finisce quasi al cimitero per un pestaggio, un proiettile o perché l’hanno investito, quando viene spinto giù da un ponte o da una finestra e non ci resta secco, quello è un caso di mia competenza.
Pazzescamente eccitante.
Fate largo, arriva quella pagata per tenere la mano alla vittima.
Durante le prime settimane sono rimasta nell’ombra, da brava, come si aspettavano da me. Ormai mi faccio meno scrupoli, mi avvento senza riguardo sui pochi casi che piovono dal cielo, anche se i patti non erano proprio questi. Finora nessuno ha aperto bocca. D’altronde che potrebbero dire? In fondo siamo tutti nella stessa barca, il che significa non dare troppa importanza a un uomo senza più le palle.
Tanto per intenderci.
Nel complesso una situazione di provvisorietà che non mi fa saltare di gioia.
Nel complesso mi sento continuamente come una tigre in gabbia.
E dunque la fesseria della scampagnata.
Dove siamo diretti?
domanda Faller con una voce da tassista. A casa?
Io devo andare al St. Georg. All’ospedale.
Ah. Un nuovo paziente.
Un nuovo assistito,
lo correggo.
E la sua macchina?
Che renda felice qualcun altro.
Faller accelera e la Pontiac emette un rombo sotto il mio culo. È un po’ come viaggiare su un carro armato.
Fa’ sempre quello che ti suggerisce il cuore, oppure seppelliscilo nell’ansa del fiume.
Mio padre si compiaceva spesso di simili uscite, quando gli chiedevo un consiglio. Un proverbio indiano, suppongo. Quei vecchi sputasentenze avevano una frase a effetto per ogni occasione.
Il mio cuore mi dice: Siediti e prendigli la mano. Non sembra che qualcun altro lo farà al posto tuo.
Le facce solitarie le riconosco a miglia di distanza.
La mano è calda e asciutta e sorprendentemente morbida per le sue dimensioni. Una vera e propria pala. Provo a tenerla con entrambe le mie. Il risultato è patetico.
L’hanno ricoverato stamattina presto, poco dopo le quattro. Braccia, gambe e costole fratturate in più punti, la clavicola sinistra fracassata. Una spessa fasciatura avvolge la mano destra. L’infermiera dice che ha perso l’indice. Però non è che un indice si perda così. Non ha ferite alla testa e anche i polmoni sono illesi. I reni gonfi, ma tutto sommato funzionanti. A una vena del collo è attaccato un catetere centrale. Da lì entrano i medicinali, liquidi scintillanti come una palla da discoteca che colano da sacchetti appesi a un’asta portaflebo. Gli somministrano sonniferi e probabilmente un’infinità di antidolorifici contro un’infinità di dolori. Siccome fanno di certo effetto e, a parte qualche graffio per l’asfalto, la faccia non riporta molti segni, l’uomo ha un aspetto curiosamente sereno.
I suoi vestiti li ha presi la scientifica. Documenti non ne aveva.
È un vero colosso, con tutte quelle stecche alle braccia e alle gambe entra a malapena nel letto. I capelli mandano riflessi grigio argento, corti ai lati e poco più lunghi al centro. Il suo viso è del tipo tutto spigoli, che gli uomini raggiungono soltanto a una certa età. Valuto che abbia circa cinquanta, cinquantacinque anni. L’età migliore per un uomo, se non fosse messo tanto di merda.
Esatto, se non fosse messo tanto di merda avrebbe qualcosa di George Clooney, ma in formato extra-large.
Le apparecchiature alla parete oltre il letto cominciano a suonare a intermittenza, l’infermiera entra e spinge un paio di pulsanti. Si muove per la stanza con un sorriso compassionevole, come se fossi una parente, pur sapendo che non lo sono.
Mi capita in continuazione.
Non so mai come reagire.
Che cosa portava?
domando. Prima della camicia da notte, intendo.
Lei spegne il sorriso, nei suoi occhi compaiono opachi punti interrogativi lampeggianti.
Okay. Spiacente.
Dov’è stato trovato?
Non lo so di preciso,
dice. Non distante da qui.
Il suo sguardo si fa sempre più irrequieto.
Sembra se la sia presa a male che io, che non sono una parente, quantomeno non mi comporti come tale. Sposta nervosamente un paio di oggetti da sinistra a destra, poi esce in fretta dalla stanza, prima che le possa porre altre domande insolenti.
Rimango dal gigante addormentato e lo guardo finché le nubi non coprono definitivamente il cielo e poco a poco diventa buio. A quel punto torno a casa.
Quando scendo dal taxi, gocce di pioggia fredda mi cadono sulla testa. Dalle finestre di Sberla fuoriesce luce gialla.
Sberla è in cucina e prepara un paio di panini al formaggio. Seduta sul pavimento del soggiorno tengo d’occhio due bottiglie di birra, non sia mai diventino calde. È stato Sberla a iniziare con questa storia, l’anno scorso: una candela per quelli di noi che ne hanno bisogno. Attualmente ne bruciano tre, una per Calabretta, una per me e una per la nonna di Sberla, che è a letto, ricoverata in una clinica a nord di Amburgo. Ormai non ci sta più con la testa, di notte devono legarla perché vuole scappare dalle bombe e rifugiarsi nel bunker di Moorweide.
Io non ho mai avuto una nonna.
Ormai la mia candela si può togliere,
dico.
Sberla è accanto a me alla finestra, con i panini su un piatto. Sul formaggio ha distribuito dei cetriolini.
Apri la birra,
mi esorta. Sulla mia candela nessun commento.
Non ne ho più bisogno.
Della birra?
Della candela. Sto bene.
Certo,
fa lui.
Brindiamo e beviamo un sorso di birra, poi addentiamo i panini.
Come sta il nostro amico italiano?
domanda, mastica due volte, inghiotte. Altro boccone, grande. Ragazzo grande, fame grande.
Ieri ho parlato al telefono con Carla,
racconto. Calabretta stava guardando una trasmissione di calcio, dopo aver trascorso la giornata sul divano, però senza coperta. Di tanto in tanto ha perfino risposto alle domande di Carla e ha pure mangiato un piatto di pasta. Lei pensa che cominci a riprendersi.
Rocco dice che ha una cera terribile.
È logico,
ribatto e addento il panino. Un sapore ricco e succoso. Il cetriolino si spezza fra i miei denti con uno schiocco. Un buon panino al formaggio può salvare vite umane, ne sono convinta.
Calabretta ci ha riprovato con Betty, la nostra avvenente patologa. Negli ultimi anni lei gli aveva risposto picche già diverse volte, probabilmente anche perché lui si era comportato da deficiente. Nelle questioni d’amore Calabretta è una frana quanto me. Invece stavolta Betty c’è stata, dio solo sa perché. Quindi alla fine ce l’hanno fatta, forse sono state le stelle, la luna, l’aria del porto o semplicemente lei è diventata più indulgente. Per un anno intero sono stati come spillati assieme, lui sempre a casa di lei o viceversa, insomma tutto rose e fiori. Un’armonia quasi inquietante, nemmeno avessero il sole in tasca. Poi da un giorno all’altro su Betty è sorto un nuovo sole, migliore a quanto pare. Un professore svizzero incontrato durante un congresso di anatomia patologica a Monaco. Lei ha dato un taglio netto alla sua vita ad Amburgo e alla relazione con Calabretta.
Era l’inverno scorso e da allora nell’animo di quell’uomo è calata la notte.
Beviamo le nostre birre.
Racconto della mia visita in ospedale.
Non sai chi sia?
chiede Sberla.
No. E finora nessuno sembra aver notato la sua scomparsa.
Che intendi fare?
domanda.
Il mio lavoro, penso. Andare alla scientifica,
rispondo. Dare un’occhiata alle sue cose. E stare seduta accanto al suo letto ad aspettare che si risvegli.
È sotto protezione?
chiede. Sberla viene dalla strada. Non ha perso l’istinto del pericolo. I suoi capelli arruffati d’un tratto si drizzano come antenne, i suoi occhi verdi si mettono sull’attenti.
Finché non scopro il motivo del pestaggio, un poliziotto vigila fuori dalla sua porta,
spiego.
Sberla annuisce, abbassa le antenne e beve un sorso di birra.
Accendiamo una candela anche per lui?
propone.
1982, estate
FALLER, GEORG
Due volte a settimana, poco prima che il cimitero chiuda, vado a trovare Minou. A quell’ora c’è poca gente, solo i vecchi alberi a osservarmi, che annuiscono qua e là verso di me con un ramo. Come compagnia mi basta e avanza. Nessuno sa di me e Minou, né i miei colleghi del dipartimento, né i pochi amici. Nessuno sa che è morta perché ero innamorato di lei.
A Sankt Pauli chi vuole una squillo e non è il suo magnaccia deve pagarne il riscatto. Questo ovviamente lo sapevo. Però non pensavo che qualcuno se ne sarebbe accorto.
Non che fosse successo granché, tutto entro i limiti del servizio. Nessuno può guardare nei cuori, pensavo.
E improvvisamente è morta.
Segna: il prezzo che Minou ha dovuto pagare perché io la volevo.
Le hanno sparato.
Nel quartiere le ragazze sono un modello imprenditoriale, amico. Lo sapevi. Quindi non fare tante storie.
Eccome se faccio storie. Mi manca. Ce l’ho sulla coscienza. Come la giri la giri. Mi butterei da un ponte per il rimorso.
Davanti alla sua tomba cado in ginocchio. Che lo voglia o no.
Talvolta qualcuno le porta dei fiori.
Non io, non ci riesco. Le scrivo piccoli biglietti e li sotterro.
E poi resto lì sulla sua tomba, metà inginocchiato e metà raggomitolato, finché non piomba dal cielo la notte.
Non permetterò che facciano di nuovo una cosa simile, né a me né a nessuno dei miei.
La ragazza della Herbertstraße e lo sbirro innamorato.
Una storia che si preannuncia di merda fin dal titolo.
RILEY, CHASTITY
Le ultime vacanze lunghe, prima che il liceo ci separi tutti quanti, uno di qua l’altro di là.
L’ultima estate, prima che la vita si faccia dura, dice mio padre.
Come se finora fosse stata un giro al luna park!
Porto jeans tagliati e vecchie camicie militari di papà. A volte zoccoli, di solito vado a piedi nudi. Mi piace l’asfalto caldo sotto i piedi. Mi piace dover essere cauta.
Giochiamo a James Bond in riva al Meno. I ragazzi vogliono essere James Bond. Oppure giochiamo alla Seconda guerra mondiale e allora attraversiamo Sachsenhausen sulle nostre bici pieghevoli. Tedeschi contro alleati.
Io sono sempre l’americana.
I ragazzi vanno