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Cassia
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E-book416 pagine5 ore

Cassia

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Info su questo ebook

Non posso tornare indietro, né procedere con la mia vita.
Sono stata classificata inadatta a vivere nella società. Rinchiusa come un animale.
E questo ha attirato la loro attenzione.
Stanno venendo a prendermi.
Uno dei due vuole quello che nascondo nella testa. Vuole scagliarmi contro la sua preda.
L'altro vuole togliermi di mezzo per sempre.
Entrambi mi spingono verso il precipizio e io sono costretta all'impensabile.
La loro offerta non ha affatto il gusto di un'offerta.
Uscirne è impossibile.
Divengo parte di un piano già in atto.
Divengo l'ultima creatura nella quale pensavo di tramutarmi per continuare a vivere.
Divengo una cacciatrice.
LinguaItaliano
Data di uscita15 mag 2017
ISBN9788826486048
Cassia

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    Anteprima del libro

    Cassia - Giovanna Roma

    Note

    CASSIA

    Deceptive Hunters #3

    Giovanna Roma

    Copyright © 2017 Giovanna Roma

    © 2017 Immagine di copertina di Cora Graphics

    © Depositphotos.com/ aarrttuurr

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, memorizzata in sistemi di recupero, o trasmessa in alcuna forma o con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso scritto dell’autore. Non può essere rivenduto o ceduto a terzi. Vi prego di rispettare il lavoro dell’autrice.

    Questo racconto è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell'immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, vive o defunte, è del tutto casuale.

    **Attenzione**

    Dark contemporary romance

    Questo romanzo contiene situazioni inquietanti, scene violente, linguaggio forte e rapporti sessuali di dubbio consenso o non consensuali. Non adatto a persone sensibili al dolore e alla schiavitù.

    Non sono frasi fatte, è la verità. Si prega di seguire l'avvertimento.

    Scorri tra i miei capitoli,

    senza aspettarti di conoscere già la storia.

    Scorri tra le mie pagine,

    senza pretendere di ritornare a casa.

    Scorri tra le mie parole,

    anche quelle che non posso narrare.

    A chi non sa nulla di quest’opera

    1.

    «Tenente De Vries, da questa parte» mi indica il sergente.

    Prime due ore nella nuova città e già lavoro su un caso di omicidio. Delle telefonate anonime hanno avvisato la centrale di una sparatoria sull'Amstel [¹] e una pattuglia è andata a controllare. Io ero ancora in treno.

    Supero il nastro segnaletico ed entro nella scena del crimine. La scientifica è già impegnata a raccogliere le impronte da mobili e porte. È la prima volta che entro in una casa galleggiante. È molto luminosa, lussuosa e priva di tende come tutte. Penso subito di poter ricavare qualche testimonianza dai vicini. Dopo un piccolo orto all'entrata, un telo steso a terra ostruisce il passaggio.

    Ecco la prima vittima.

    Mi piego sui calcagni, benedicendo le scarpe comode da viaggio. Scopro un lembo e il volto pallido di una giovane donna è il primo a darmi il benvenuto ad Amsterdam.

    «Si chiamava Eleanor, faceva la spogliarellista nel distretto a luci rosse. Al momento non sappiamo altro» spiega il sergente alle mie spalle.

    «Chiediamo lì e diffondiamo una foto.» Ricopro il cadavere. «Qualcuno verrà a cercarla. C'è altro? Abbiamo trovato l'arma del delitto?»

    «Sì, è una pistola... vecchio modello. Era sotto il divano.» Rigira l'involucro di plastica che la conserva e non sembra capirci molto. La farò analizzare più tardi. Con lo sguardo percorro i marcatori numerati appostati dalla scientifica. Avremo pochi elementi probatori.

    Mentre mi sollevo, sento due agenti parlottare e sbuffare sotto la porta.

    «Abbiamo qualche problema?» chiedo con un tono più acido di quanto desideri. Sono sveglia da ore, ho attraversato il paese per essere qui. Il programma era raggiungere il nuovo appartamento, godermi una vasca calda e profumata, incontrare il capitano e dormire per il resto della giornata, invece l'unica acqua che vedo è l'Amstel e non c'è niente di caldo in questa casa.

    «No, tenente, solo che il caso è abbastanza semplice. È inutile tirarla per le lunghe.»

    «Si è trattato di un delitto passionale» spiega l'altro.

    Un delitto passionale? Da quale dannata telenovela sono usciti questi due? E saranno in Stazione con me per i prossimi anni! Stringo gli occhi e inspiro a fondo. Ripeto le loro parole, sperando che colgano la follia di certe riflessioni da femminuccia.

    No, non la colgono.

    «Lui è geloso, entra in casa della ragazza, la uccide e poi si spara. Un classico.»

    Un classico della televisione argentina.

    «Lui?» Mi avevano parlato di una sola vittima.

    «Ce n'è un altro in fondo alla stanza» indica con il pollice. «Anche per lui niente portafogli o documenti.» Mi sporgo oltre le sue spalle e scopro un secondo telo contro il muro.

    «Non è un delitto passionale» sentenzio con tono pacato.

    «Ma-» Lo interrompo con un gesto della mano.

    «Vi siete guardati intorno? Elettrodomestici di ultima generazione, un balcone che prospetta sul fiume.» Non credevo che avrei fatto scuola a due uomini con più anni di servizio di me. «Non è una dimora accessibile a una spogliarellista.»

    «Magari la manteneva lui» ipotizza uno degli agenti.

    «Se così fosse, sarebbe vissuta. Le pareti, i mobili non hanno una sola fotografia. Controllate la camera da letto. Sono certa non troverete abiti femminili.»

    Studio la posizione dei corpi. «Era dentro casa, questo è certo.» Percorro a grandi passi diverse distanze. Raggiungo il secondo telo e scopro il volto di un uomo. Le ciocche lunghe dei capelli sono appiccicate alla faccia. «Conosceva il suo assassino, gli ha aperto la porta e lui le ha sparato» ipotizzo.

    «Perché non può essere stato lui? L'arma è ancora qui» insiste uno degli agenti.

    Non rispondo, indico solo il cadavere, sperando che ci arrivino. Silenzio. Mi guardano tutti, ma nessuno vede.

    «C'è stata una colluttazione» snudo i denti. Il volto è tumefatto, il collo ha i chiari segni violacei di uno strangolamento. Il medico confermerà, quando si degnerà di raggiungerci.

    «Non potrebbe essere stata lei?»

    «L'hai vista? È la metà di lui, come potrebbe affrontarlo o addirittura raggiungerlo?»

    Si guardano e abbassano il capo. Forse per oggi hanno finito di sparare idiozie.

    «Sappiamo di chi è questa casa?»

    «Non ancora, tenente. Dai documenti risulterebbe intestata a un certo Abram Vos, ma all'anagrafe risulta deceduto settant'anni fa.»

    «Lui chi è?»

    «Wil Moord. Viveva da recluso in un vecchia villa. Non ha mai dato problemi, anche se si diceva che fosse un po' strano.» Con l'indice disegna dei cerchi sulla tempia. «Gli hanno sparato durante la colluttazione.»

    «L'autopsia ci dirà se la pistola è la stessa e dalle diverse angolazioni capiremo chi ha sparato a chi e se c'è stato un terzo uomo.» Mi sollevo in piedi pronta a uscire, ma è l'arrivo di un secondo squadrone a farmi voltare.

    «Uscite tutti, state contaminando la nostra scena del crimine.» Un uomo sulla trentina entra spavaldo nella casa galleggiante. Col suo giacchetto di pelle e uno stuolo di agenti alle spalle. Solleva dal naso i Ray Ban e sonda l'ambiente. Mi punta e con un cenno del mento ripete l'ordine di uscire. Non ho il tempo di dare fiato al pensiero, che il sergente mi risponde.

    «È il tizio che ha quasi catturato il trafficante d'armi Razov Kosloff. È apparso su tutti i giornali, ha ricevuto delle promozioni.»

    Guardo il collega, scettica. «Ah, sì e se l'avesse catturato, l'avrebbero fatto presidente?»

    «Non si faccia ingannare dall'atteggiamento» avverte. «Io l'ho conosciuto quando era ancora un novellino» e torna a fissarlo. «La fama l'ha cambiato.»

    «Non avete la giurisdizione. È un caso ungherese, non olandese» sibila il nuovo arrivato, stringendo i denti. Mi punta ancora come se la mia sola presenza gli impedisse di lavorare. Magari è lui che lo impedisce a noi! È a un nulla dal mio viso e ripete l'avvertimento come fosse l'ultimatum della Nazione più potente al mondo.

    «Fuori dalla mia scena del crimine!»

    «Posso almeno sapere il suo nome?»

    «Frank Jónás. »

    2.

    Sbatto la porta del mio ufficio con un gesto impetuoso. La cravatta stringe ogni giorno di più. Passo in rassegna gli alcolici dall'altra parte della stanza.

    Gin, whisky.

    No, questo è un lavoro per la vodka.

    Una marcia rabbiosa verso l'armadietto dei liquori e un fuoco giù per la gola. Pochi sorsi e sono già impegnato a svuotare la bottiglia direttamente dal collo. Siedo sul bordo della scrivania, lo sguardo perso nei disegni del tappeto. Abbandono il fiasco vuoto per terra. Il manto attutisce il rumore.

    Troppo per i miei gusti.

    Il cuore mi batte forte, il sangue pompa persino nelle tempie. Ghermisco la bottiglia e la scaglio contro la parete di fronte. I mille frammenti, il fracasso cristallino innalzano un silenzio tombale.

    Non mi sento meglio. Cazzo, non mi sento mai meglio e tutto per colpa loro. Cosa diamine li pago a fare? Sono stufo di aspettare.

    Lo sguardo guizza sul telefono e poi sulla rubrica nera nascosta nel cassetto della scrivania. Detesto usarla, la scelta del colore non è casuale. La mascella ha uno scatto involontario e le mani sudano. Riporto un dito al colletto della camicia. La cravatta è sciolta, eppure mi sento soffocare. Libero i primi bottoni e ruoto intorno al tavolo. Siedo sulla poltrona con un tonfo e mi impongo due minuti per pensare. Dopo i primi trenta secondi ho già la rubrica in una mano e il telefono nell'altra.

    «No, no.»

    Chiudo tutto e scatto in piedi. Tasto le tasche del petto, dei pantaloni. «Possibile che non abbia una cazzo di sigaretta?» Cassetti, vuoti. Giacca appesa alla poltrona, pulita. Uscirei a chiederle al primo passante, ma avverto Kirill nei paraggi, pronto alla lavata di capo o all'ennesima cattiva notizia. Basta! Questa settimana ho fatto il pieno. Accidenti, ne ho per una vita intera. L'ira è nutrita dal tempo perso, dai buchi nell'acqua, dalle promesse non mantenute. La collera splende nei miei occhi. La frustrazione mi corrode. Ristabilire l'equilibrio è l'unico mantra. Riprenderla è il traguardo. Ucciderla è la sola pace.

    Giro di nuovo intorno alla scrivania prima di sedermi. Riempio i polmoni d'aria e sfoglio brusco la rubrica. Strappo qualche pagina, però trovo il numero che cercavo. So che mi pentirò, so che richiederà molto più lavoro di adesso. Chiudere la faccenda è la mia priorità, un ultimo sforzo e sarà tutto finito. Dall'altra parte della linea starà aspettando la mia telefonata. Digito i numeri sulla tastiera, il pollice trema per la rabbia sul pulsante di avvio della chiamata. Sto per scagliare contro la parete anche lui, quando il dito è più veloce e innesca la telefonata.

    Inspiro a fondo.

    Due squilli.

    Immagino già il suo silenzio.

    Tre squilli.

    Chiudo gli occhi.

    Parte la segreteria telefonica e distruggo tutto.

    3.

    Le mie mani non sono state mai tanto rosse.

    Ho ucciso.

    Ho ucciso tante volte, è vero. Solo che adesso il verbo acquisisce un significato nuovo. È macchiato di un cremisi che conosco bene. È questo che si prova davanti all'ultima commissione della vita? Ho appena capito di aver strappato l'ultimo respiro.

    Il più importante per me.

    Io sono la prova che gli eventi ti trasformano, che il male inferto ad altri cambia perfino te. Sono un involucro che non riconosce la propria anima. Un proiettile l'ha alterata o forse spenta per sempre. Oggi la pesantezza della vita mi schiaccia. Non mi ero mai spinto così lontano. Quando uccidevo uno sconosciuto, provavo un senso di quiete in corpo. Questo adesso mi è estraneo.

    Non avevo dei veri limiti, solo tre regole: i miei rivali potevano abbaiare quanto volevano, ma sarei stato io a mordere; quando qualcuno credeva di fregarmi, si stava solo scavando la fossa da solo, perché io regolavo i conti e non facevo prigionieri.

    Erano andate bene finora. Le trovavo perfette finché rivolte a degli estranei. Quando Wil ed Eleanor si sono intromessi, hanno cambiato i parametri. Prima che me ne accorgessi, vivevo senza regole e ho permesso lo scontro.

    No, ho fatto di peggio.

    Ho lasciato che l'ira, il dolore fossero i muscoli e i nervi di mani omicide. Quale orrendo destino è il mio. Il progetto di vita si è macchiato di sangue sul pavimento della casa galleggiante. Lo scoppio del proiettile è stato una deflagrazione nelle orecchie. Un rumore sentito milioni di volte. Se mai qualcuno avesse creduto che io provassi amore, quel momento l'ha freddato per sempre. Non c'era amore nel mio gesto. Non c'era cuore nella decisione presa. Ragionare era pura follia. Riflettere era una perdita di tempo. Col senno di poi, non lo sarebbe stato.

    Su quel pavimento rifiutavo di violentare la mia mente con ricordi di noi due bambini, di percosse con la cintura di nostro padre. Fissavo Eleanor in una pozza di sangue e Wil stringere la pistola del nonno. Se avessi accolto la ragione, avrei adottato la scusa dell'incapacità psichica di mio fratello. Se non si fosse trattato di loro, avrei saputo cosa fare.

    Definire la collera di quel momento un'emozione è riduttivo. Si trattava di un altro Adam che cresceva nelle più oscure profondità. La pelle vibrava. Non erano formicolii. Era lui che si estendeva. In quell'istante mi sembrò giusto liberarlo. Io non sapevo cosa fare. Lui, sì.

    Volevo prendermela con Wil, eppure la parte di me che stava morendo, sentiva di dovermi frenare. Gli lasciai controllare quello che di umano Eleanor stava costruendo dentro di me, senza sapere di concedergli l'anima.

    Tutti noi abbiamo un lato che nascondiamo perché malvagio, avido o aggressivo. Rimane sotto la superficie finché qualcosa non scatta e lo sputiamo fuori perché agisca per noi.

    Ce ne pentiamo. Ce ne pentiamo sempre.

    Mentre la bara di Eleanor scende sotto terra, riesco ancora a udirne la voce. È così che voglio ricordarla. Non i suoi occhi terrorizzati, velati di lacrime e le dita tremanti. Non la vita che fluiva via dal suo petto, ma la sensualità del corpo. Ho il timore che quel lago di sangue l'accompagnerà sempre nei miei pensieri. Le avevo promesso il mondo e guardala adesso.

    Mi aspetto quasi che lei sollevi le palpebre, sbatta le ciglia e mi sorrida. Peccato che non lo faccia. Né lo farà mai. Non potevo perdonare Wil per avermela strappata e ora non posso perdonare me stesso per averlo ucciso. Quando la polizia ha fatto irruzione, lei aveva smesso di lottare per vivere. Mi cercava con lo sguardo, però non so se mi abbia mai trovato. Si era aggrappata avida alla vita sino all'ultimo.

    Sua sorella Agnes la seppellisce con una rosa bianca al petto. Avrei voluto farlo io. Avrei preferito portarla ad Amsterdam – lei odiava Haarlem, nessuno la voleva qui – avrei osservato la bara dall'alto e mi sarei punito mentre scendeva giù per essere ricoperta di terra.

    Invece non posso niente.

    Non desidero rovinarle la funzione e rimango appartato. Nascosto tra le lapidi, fingendo di sistemare i fiori per qualcun altro. Vestito di una misera tuta e un berretto con la visiera. Testa bassa, dita intrecciate in una preghiera.

    Resto inginocchiato fino al tramonto, fino a quando il sole scompare, annunciando un'oscurità che sento già mia. Notte e dolore sono tutto ciò che resta. La pioggia cade sulle guance e non devo aspettare molto prima di avere i vestiti umidi e pesanti, ma l'agonia scivola così in profondità nel petto, da sopprimere ogni altro senso. Delle pozzanghere mi allagano i piedi e le ginocchia, rovinando le scarpe da ginnastica. A Eleanor piacevano i miei vestiti costosi. Credo non mi abbia mai visto in jeans e felpa. L'avrebbe fatto se Wil le avesse dato tempo. Mi avrebbe visto in tuta fare jogging, con lo smoking in un ristorante.

    E invece niente. La vita ha tolto molto a entrambi.

    Stronzate!

    Io ho tolto tutto a tutti. Avrei potuto ascoltarla e chiudere mio fratello in un istituto, invece ho scelto di lasciarlo a casa. Avrei dovuto smetterla di sperare e capire quanto fosse impossibile vivere al fianco di un sicario, invece le ho chiesto di restarmi vicina. A quest'ora saremmo tutti più felici, saremmo tutti... qui.

    Ben diverso il funerale di ieri, dove ho potuto salutare Wil con un minimo di rispetto.

    Condoglianze, signor Moord. Le mani fredde del prete stringevano le mie altrettanto gelide. Sarà stato solo per quello che non percepivo calore?

    Non so che farmene di consolazioni vuote, parole senza significato. Non è venuto nessuno al suo funerale. Io per Wil ero il nemico più temuto e l'alleato più vero. Ero tutto ciò che gli rimaneva. Conoscevo il pericolo che correvamo, il costo delle mie scelte, ma speravo di poterne uscire vincitore. Ieri scossi la testa, leggendo la sua lapide.

    Nome e cognome.

    Niente preghiere, niente amato fratello, nulla che spiegasse chi fosse, chi avrebbe visitato la sua tomba o cosa lasciasse in questo mondo. Quel luogo sarà solo per chi lo conosceva davvero. Posai un pugno sulla pietra e promisi di raggiungerlo, di ritrovarci ancora insieme e per sempre.

    Non mi considero un uomo loquace, divertente o sincero. Ora più che mai sono rivestito di niente. Scendo dal letto la mattina, raccolgo i pezzi di me sparsi nella camera di un motel ed esco. Dentro di me, dove nessuno riesce a sentirmi, urlo in agonia. Ho gli occhi rossi di dolore, di scelte sbagliate, di decisioni prese a sangue caldo. Il petto si carbonizza, eppure nessuno avverte il fetore della carne bruciata. Nessuno vede mai il fondo di un iceberg.

    Abbiamo perso entrambi. Se ne è andato portandosi via Eleanor e lasciandomi qualcosa che non merito più: la vita. La pena più straziante mai provata.

    Se ho provocato io tanto dolore, perché sono ancora vivo? Per provarne uno maggiore? Ho spinto l'ultima tessera di un domino fatto di errori. La mattina in cui le ha sparato, il proiettile ha colpito anche me.

    Torno in camera e trascorrono mesi. Penso al suicidio sei-sette volte al giorno. In ogni angolo della stanza del motel intravedo l'occasione per farla finita. Dicono che dopo la perdita dell'appetito, la vita trovi un modo per smuoverti: bollette; uscire per la spesa. Aver ignorato i richiami esterni, deve avermi fatto saltare l'ultimo stadio. Non serve pagare l'affitto o comprare da mangiare. Se l'intento è morire, perché stabilire un contatto con il mondo? In compenso ho vissuto appieno lo stadio del rifiuto categorico. Accettare la loro morte mi concederebbe quel respiro che non merito.

    Negazione e isolamento. Mi torturo rivivendo le ultime immagini dell'incidente, temendo di portare con me un po' della pazzia di Wil. Giaccio nell'oscurità, nel bel mezzo del nulla. Nessuno anela di trovarsi nelle profondità della propria desolazione. Eleanor riappare in questi momenti di alienazione. Indossa la mia camicia sporca di sangue. Stira le labbra, pallida e mi allunga la mano, perché io l'afferri.

    «Voglio stare con te, Adam.»

    Hai scalfito la mia armatura, ragazzina. Ero disposto a permetterti di entrare nella mia vita, ma tu te ne sei andata. Sei divenuta il mio dolore e quell'ardore che non stringerò mai più.

    «Moriresti per me?»

    Tu sei morta per me. Non le rispondo, uccidendola di nuovo.

    Poi sopraggiunge la rabbia per non aver avuto quel famigerato sangue freddo, l'unica volta che contava davvero.

    Inizio a pregare. Prego qualcuno lassù che ci ripensi e prenda me al posto loro. È allora che penso di velocizzare i tempi. Mi ammazzo e ritorniamo tutti insieme.

    E la giostra ricomincia.

    È possibile intorpidire le emozioni? Eleanor assumeva droghe. «Maledizione!» Perché cerco di stare meglio? Non lo merito. Ho ucciso mio fratello.

    Bip.

    Oltre al cibo, non mi preoccupo neanche dei messaggi che ricevo. Ho portato l'attrezzatura con me. Avrei corso troppi rischi, abbandonandola nella casa galleggiante. Il cellulare sul tavolo suona ogni ora. Potrei spegnerlo, ma i più tenaci – Razov fra tutti - scoverebbero lo stesso il modo per contattarmi. Attendo solo che l'oscurità mi inghiotta prima dell'arrivo di chiunque e per sempre.

    Apro il frigo e basta la sua luce ad accecarmi. Da quanto sono al buio? All'angolo a terra giace ancora uno specchio. Un reticolato di sangue incrostato mi restituisce l'immagine del mostro che sono. L'ho rotto il primo giorno trascorso a deprimermi in questa topaia.

    Afferro una birra e sbatto subito la porta del frigo. Abbasso le palpebre e aspetto di riabituarmi a una vecchia quiete. Quella che precedeva l'arrivo di Eleanor nella mia vita. Niente lotte per resisterle, niente pensieri perversi da tenere a bada.

    Un tonfo rompe il silenzio. Il legno scricchiola e impiego il doppio del tempo abituale per individuarne la fonte. Neanche se ci fosse una folla in delirio a confondermi.

    La porta della camera si spalanca all'improvviso, illuminando qualche mobile e i miei piedi scalzi.

    Gareth non l'avevo messo in conto.

    Resto immobile con la birra ghiacciata in mano. Le ombre si accovacciano negli angoli ancora bui. Non saluto, non muovo un muscolo. Spero quasi che mi confonda con la tappezzeria e se ne vada. Potrei approfittare della luce per cercare la pistola. Ci sono solo ripiani coperti da cartoni di cibo messicano e lattine di birra.

    «Oh, cazzo.» La sua voce si spegne, mentre compie un passo esitante nella stanza. «Il buio ti ha reso cieco? Mi vedi?» Agita la mano come se fossi un vecchio con la cataratta.

    «Se rispondo di sì, te ne vai?»

    Tira un respiro di sollievo e sono certo se ne penta l'istante dopo. Arriccia il naso e corruga la fronte. «Cos'è questa puzza? Nascondi un cadavere?»

    Ancora no, ma tra poco ce ne saranno due.

    «Mi sto decomponendo, vai via.»

    «Stai diventando vecchio» mi sfotte. «Inizi a brontolare e lamentarti. Dov'è il pazzo pieno di sé che ha sfidato il suo boss? Sono qui per lui.»

    Pazzo? Sì, lo sono stato. Pieno di me? No, non mi risulta. Non sono presuntuoso, ma consapevole di ciò che ero.

    Gareth sgrana gli occhi e si avvicina ancora. Cosa devo fare per scacciarlo? Non ci penso neanche di pregare perché sparisca. Ho smesso di credere in una forza divina in grado di fulminare a comando.

    «Come puoi vivere in questo schifo?»

    Ritorno sulla poltrona e prendo un sorso. Nel momento in cui raggiunge lo stomaco sto per rispedirlo indietro, ma stringo i denti e mi costringo a un secondo. Curioso come il dolore emotivo ne generi uno fisico. Puoi essere in salute come un trentenne, ma non conta un cazzo. Il mio corpo vive ogni sofferenza.

    «Nessuno ti ha detto di venire a cercarmi.» Sto per voltarmi verso di lui, peccato colga troppo tardi le sue intenzioni. Gareth tira le tende e spalanca le finestre. Al di là del sole, un vento gelido abbatte al suolo tutte le scatoline del pranzo e le lattine vuote. Perdo la vista per un istante.

    «Sono venuto a salvarti il culo.»

    «Nessuno te l'ha chiesto», sbraito sofferente con una mano sugli occhi.

    «Lo sai che difficilmente faccio quello che mi si chiede.» Poi si blocca e tutto sembra cambiare. «Ho saputo di tuo fratello ed Eleanor. Mi dispiace.» Queste parole suonano meno vuote di quelle del prete. «Ma non potevi prevederlo e sono certo che ora sono in un posto-»

    Mi viene da ridere. Alzo un braccio, interrompendolo. Il tempo può aiutarci ad accettare la verità, ma la speranza... No, quella ci uccide ogni giorno e io ne ho la prova. Con un calcio sposto di lato un divanetto, rivelando pile e pile di libri.

    «Lo so già. Sono in un posto migliore, esiste un disegno più grande di noi, la morte fa parte della vita, devo accettarla.» Mi allungo verso il primo volume. «Poi c'è la fisica quantistica» e lo lancio ai suoi piedi. Si alza una nuvola di polvere, ma Gareth rimane con le mani nelle tasche. «Le religioni e la filosofia.» Secondo e terzo volume sui suoi piedi. «Un mucchio di cazzate!» Ormai inizio a lanciargli contro i libri, deluso dei loro silenzi. Quando li finisco, mi ritrovo in piedi, a respirare con la bocca aperta, coperto di sudore. Realizzo che tutte le ore trascorse a leggere non mi hanno aiutato perché «Loro non sono più qui ed è questa l'unica cosa che conta.»

    Fissandolo dritto nelle pupille, non noto neanche il suo incedere lento e costante. Le mani dietro la schiena, l'espressione seria. Sono troppo preso da me e i miei cazzo di problemi.

    «Tutti noi dobbiamo pagare per quello che abbiamo fatto. Motivo per cui ti è stato tolto quasi tutto.» Abbassa gli occhi sui libri. «La religione, la scienza, il fato...» Ne sposta uno con la punta della scarpa. «Dai la colpa a chi ti pare, ma devi venire con me in un posto. È una questione di vita o di morte, Adam.» Mi parla con una serietà che non gli ho mai sentito. La nube della mia depressione si dirada di poco, giusto lo spazio per capire cosa stia succedendo.

    «Non ci vorrà molto» incalza, fissando le lattine. «Alcune notizie scendono meglio con del gin.»

    «Se hai bisogno di parlare sono qui. Ti concedo due minuti, poi inizio a sparare e ti avverto», oscillo la birra davanti a lui e l'equilibrio diventa precario. Meglio sedersi. «Sono ubriaco, la mira potrebbe non essere delle migliori.» Poi sghignazzo, immaginando la scena. «Potrei colpirti diverse volte prima del colpo di grazia.»

    Le sue labbra si riducono a una linea sottile e i pugni si stringono lungo i fianchi. È rigido, teso. Non scherza, deve essere successo qualcosa. La mia attenzione scatta verso il telefonino sul tavolo, sommerso da altre lattine e cartoni. Un messaggio mancato? Mi alzerei, ma rischierei di vomitarmi addosso. Sono ridotto uno schifo.

    Gareth mi agguanta sotto il braccio e trascina verso la porta. Lo lascio fare solo perché gli ho promesso due minuti. Afferra una giacca di pelle e chiude la camera alle nostre spalle.

    Solo in seguito mi accorgo di aver dimenticato la pistola per sparargli.

    Sono talmente stanco da addormentarmi nel suo furgoncino. Per tutto il tragitto sogno Eleanor perdere i sensi proprio qui, mentre la conducevo da Wil. Farli incontrare è stato uno sbaglio.

    Appena entrati nel coffe shop [²] più distante che potesse scovare dal motel, Gareth saluta il barista. L'ambiente è illuminato da penose lampade gialle e peggiorato da una carta da parati sfilacciata. Non mi meraviglia riuscire a contare i clienti sul palmo di una mano. Siamo qui per uno di loro? Mi accosto a un tavolo da biliardo, ipnotizzato dal verde brillante del panno.

    «Facciamo una partita» propone Gareth.

    Afferro una coppetta di noccioline dal bancone e la sistemo sulla sponda del biliardo. Scruto il mio amico, riempiendomi il pugno di arachidi.

    «A te la spaccata [³] iniziale» concede.

    Sto al gioco e impugno una stecca. Sfrego il gessetto sulla punta e ci soffio sopra per eliminare la polvere in eccesso. Ogni gesto è a rallentatore per avere tempo di entrargli nella testa vuota e intuire cosa lo preoccupi. Una donna l'ha prosciugato una volta di troppo? Qualcuno lo minaccia?

    Colpisco la biglia battente, la partita è aperta. Giriamo intorno al campo come avvoltoi, però aspetto di terminare la razione di noccioline prima di spazientirmi.

    «Allora, cosa vuoi?» Sono piegato in avanti, le braccia tese sul tavolo, il berretto con la visiera sempre addosso. Lo adotto come mirino per la prossima buca.

    «Niente, avevo bisogno di una scusa per farti uscire da quello schifo.»

    Mi raddrizzo di scatto, steccando il colpo [⁴] .

    Incredulo.

    No... incazzato.

    Per tutta risposta Gareth scrolla le spalle. «Non resistevo un secondo di più in quella puzza nauseante.»

    Potrei fregarmene dei presenti e stenderlo con un gancio destro. Come sempre, il ragazzino ignora l'esistenza delle mezze misure. O tutto o niente, o è una questione di vita o di morte o non sapeva che inventarsi per trascinarmi nel buco del mondo.

    «Ci conosciamo da anni, Adam e non sopporto di vederti depresso o sentirti dire stronzate.»

    Ne abbiamo passate tante insieme, ma assecondarlo richiederebbe troppe energie. Una voglia di perdonarmi che non ho. «Due in buca due» annuncio per tagliare il discorso. Imbucata regolare. [⁵]

    «Senza contare che tu non sei un uomo qualsiasi. Tu sei-» Chiude la bocca e sonda i tavoli per essere sicuro di non essere ascoltato. Si china, abbassando il tono della voce. «Beh, lo sai cosa sei e sei il migliore. Mi fa incazzare vedere sprecare il tuo talento e per cosa? Cos'era quello schifo di motel?» Poi prende la mira e segna il suo primo punto.

    Stringo le labbra e aspetto che i crampi di uno stomaco vuoto passino.

    «Cosa ne puoi sapere tu?» espiro una volta superato il peggio. Gli odori degli aperitivi, due noccioline nello stomaco sono più esplosivi di quanto immaginassi. Si contorce e ricomincia a lavorare nel modo più doloroso che conosca. Quasi mi appoggio alla stecca.

    «So che ti comporti

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