Paralisi Notturne
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Anteprima del libro
Paralisi Notturne - Cesare Cameli
Capitolo primo
Aprii gli occhi e mi resi conto di essere disteso nel mio ampio letto a una piazza e mezzo. Era ancora buio, non un rumore. Cercai a tastoni l’interruttore della luce alla mia destra e mi parve strano trovarlo dopo una decina di secondi, di solito ce ne mettevo appena un paio. Sembrava come se qualcuno l’avesse spostato più in alto, ma subito capii che era una sciocchezza; chi poteva aver spostato l’interruttore durante la notte?! Lo premetti. Niente. Ritentai almeno una quindicina di volte ma nulla, la luce non si accese.
- Che strano – pensai annebbiato.
Probabilmente si era rotto nell’arco della nottata, dato che la sera prima, quando mi ero coricato, avevo spento la luce proprio da lì. Decisi di alzarmi al buio e raggiungere l’altro interruttore vicino alla porta. D’altronde conoscevo quella stanza a memoria, non avrei avuto grossi problemi a orientarmi al buio. Quando mi alzai mi sentii stranamente leggero, un’estatica sensazione. Nell’oscurità raggiunsi a tentoni la porta e premetti l’interruttore. Le tenebre avvolgevano ancora la mia stanza.
– Possibile che si sono rotti tutti gli interruttori? – riflettei sbalordito tra me e me.
Non che avessi paura del buio, tutt’altro. Non sono mai riuscito a dormire con la luce da notte, nemmeno da molto piccolo. Addirittura avevo bisogno di stare con la porta completamente chiusa per fare in modo che non entrasse nemmeno il più flebile arco di luce. Infatti ho sempre avuto una passione particolare per i film dell’orrore e per le storie da brividi. Quando avevo dieci anni vidi il mio primo film horror, e da quel momento non ne potei più fare a meno, diventarono come una splendida droga. Penserete sia esagerato. Probabilmente avete ragione, ma credo sia capitato a tutti di desiderare talmente tanto una cosa da sentirsi realizzati soltanto quando finalmente è stata ottenuta. Ecco, quello per me era vedere un film del terrore, perciò stare al buio nella mia stanza non era un grosso problema; anche se era molto strano che non funzionasse la luce. Aprii la porta.
Mi ritrovai in macchina con mio padre, un uomo sempre attivo e dedito al lavoro. Per lui non esistevano momenti di pausa durante il giorno, tranne la sera quando finalmente poteva rilassarsi con mia madre davanti alla televisione o un buon libro. Di media statura, robusto, capelli ricci e brizzolati. Portava un paio di occhiali dalla montatura nera assai vistosa, però gli donavano; non è che non ci vedesse, li usava per non sforzare troppo la vista durante la guida e le letture. Sguardo dolce ma autoritario al contempo, portava baffi e pizzetto, con un’interessante macchiolina di peli neri proprio in mezzo alla barba, sul mento. Vestito sempre in maniera impeccabile, elegante e preciso.
Stavamo percorrendo la sopraelevata a Porto D’Ascoli, il paese in cui sono nato. Si tratta di una località balneare presso la foce del fiume Tronto, parte integrante di San Benedetto del Tronto, splendida città marchigiana che si affaccia sulle coste del mar Adriatico. Un piccolo borgo sorridente dove splende sempre il sole. Viaggiavamo diretti a nord, verso San Benedetto. Avevamo appena superato l’uscita in direzione depuratore
quando vidi due bellissimi cani bianchi, probabilmente due pastori abruzzesi (cani di grossa taglia), sulla strada poco avanti a noi. Si tratta di una sopraelevata, quindi non ci sono zone di sosta. Percorre la città dal fiume Tronto, a confine con l’Abruzzo, fin quasi allo stadio Riviera delle Palme
, il maestoso stadio che ospita la squadra della nostra città, la Sambenedettese. Colto dal panico urlai a squarciagola a mio padre di evitarli. Adoro gli animali, in special modo i cani. Non avrei dormito chissà per quanto tempo con impressa a fuoco in mente la tragica immagine di quelle povere bestie finite sotto le devastanti ruote della macchina.
Attento!
strillai, e così dicendo presi il volante girandolo violentemente fuori strada, verso il guard rail.
In quell’istante capii che eravamo spacciati, saremmo finiti fuori strada, magari dritti nel depuratore. Avremmo fatto un volo di un bel po’ di metri. Un insieme indescrivibile di emozioni mi pervase il corpo intero, una marea di scosse e brividi attraversarono ogni centimetro del mio involucro umano. Non era proprio paura, bensì emozioni mai provate prima, molto più intense. Il tutto durò pochissimi secondi, forse anche meno. Fu come teletrasportarsi.
Puff! All’improvviso mi ritrovai in un canyon, non avevo la più pallida idea di come ci fossi finito. Non ci feci molto caso. Ero da solo, in mezzo a quell’angolo di natura. Il tempo era soleggiato e c’era una temperatura gradevole, non sentivo né caldo né freddo. Non mi chiesi nemmeno perché mio padre non fosse più lì con me e cominciai a camminare. Pensavo di trovarmi nella Sentina, importantissima riserva naturale situata a nord della foce del fiume Tronto, esattamente sotto al pezzo di strada che prima stavamo percorrendo io e mio padre in macchina. Camminai a lungo in quel canyon fuori dal tempo e dallo spazio; a un tratto guardai per terra e mi resi conto che il letto di un fiume ormai prosciugato pullulava di piccole rane. Ne erano veramente tantissime. Mi ricordai di quando ero più piccolo, quando avevo 5 anni o giù di lì, e di come catturavamo tutte quelle piccole rane per studiarle e a volte ne uccidevamo qualcuna. Rabbrividii pensando a quei poveri animali e alla loro triste sorte se fossero finite nelle mani sbagliate. Decisi di vederle da più vicino, in fondo erano anni che non ne avvistavo più. Così presi il coltellino svizzero multifunzionale regalatomi tempo prima dai miei.
– Cosa avrei fatto in tutti questi anni senza di te? – pensai, guardando quel piccolo aggeggio così utile, soprattutto per chi come me era anche un appassionato campeggiatore.
Avvicinai la lama al fango tentando di spostare qualche rana per vederla più chiaramente, dato che erano tutte coperte da una melma densa e impenetrabile dalla luce. Quello che accadde poi mi lasciò senza fiato. Il tempo di un respiro e il piccolo anfibio saltò con accurata precisione sulla lama del coltello, infilzandosi con essa. Rimasi senza parole, anche se esterrefatto sarebbe il termine più idoneo. La piccola rana fu come risucchiata
dalla lama. So che sembra incredibile ma è proprio ciò che successe. Il mio incubo si era avverato, avevo ucciso quell’animale, proprio come da piccolo. Sembrò come se dentro al mio coltellino fosse posta una potentissima calamita, e per la rana questa era irresistibile come miele per api. Continuai a camminare pensando a ciò che era appena successo, sconvolto.
- Come poteva essere capitata una cosa del genere? - mi chiesi, proseguendo per la mia strada, per niente voglioso di ripetere una simile esperienza per vedere se si era trattato semplicemente di un caso.
Continuando a camminare vidi molte persone affacciarsi dalle sponde del canyon e guardare in giù. Non guardavano direttamente me, ma comunque mi fecero molta impressione.
– Cosa vogliono? – pensai angosciato.
Mentre rimuginavo sugli strani accadimenti di quel giorno alzai lo sguardo e vidi, in lontananza, un vecchio casolare sulla cima di una collinetta spoglia come il paesaggio circostante. Solo pochi alberi la circondavano, anch’essi nudi e lugubri. Non avevo mai visto quella casa prima di allora né avevo idea a chi appartenesse, sapevo solo che la dovevo raggiungere; ero attratto da essa come lo è una falena da una forte luce. Il tragitto fu breve, però man mano che scalavo la ripida collinetta dei brividi freddi mi salirono lungo la schiena. Non so dire il perché, ma provai sensazioni mai avute prima, indescrivibili. Ora avevo davanti a me solamente la porta, antica e rustica come il resto di quella spettrale casa. Inspirai profondamente, la aprii ed entrai.
Ciao Alessandro!
mi salutò Giancarlo, il compagno della madre del mio migliore amico.
Era seduto su di un divano davanti alla tv, insieme ad altri suoi amici. Non risposi.
– Ma cosa sta succedendo? – riflettei confuso. – Il mio nome è Massimo, Alessandro è il mio migliore amico! –
Non riuscivo a credere a ciò che stava accadendo. Possibile che Giancarlo mi avesse scambiato per Alessandro?! La faccenda si complicava sempre più. Non capivo nulla, ma feci finta di niente; avevo troppa paura per replicare. E se si fosse accorto che non ero Alessandro? Più in là c’era una seconda porta che probabilmente conduceva alle camere. La aprii, come guidato da una mano invisibile che non mi lasciava il tempo di fermarmi a riflettere.
Panico! La madre di Alessandro si materializzò davanti ai miei occhi. Aveva una faccia serena e sorridente; io, invece, ero terrorizzato. Ero certo mi avrebbe scoperto, in fondo una madre riconoscerebbe suo figlio tra mille, a dispetto della somiglianza. Tra l’altro noi non ci somigliamo affatto: lui è più basso di me ma più robusto; ha tre orecchini sul lobo sinistro, mentre io nemmeno uno. È biondo e ha i capelli più corti dei miei, che li ho marroni. Per non parlare del modo di vestirsi, io casual mentre lui, per usare un eufemismo, in maniera un po’ più larga
, insomma alla rapper americano.
In ogni caso svoltai a destra, dove si trovava un bagno, lungo e stretto. Mi diressi verso il lavandino e aprii il rubinetto. La luce era già accesa. Non guardai subito lo specchio davanti a me, bensì presi a sciacquarmi vigorosamente la faccia con l’acqua fresca come l’aria del mattino. Provai una strana sensazione, in fondo quello era un giorno pieno di nuove e strabilianti emozioni. Mi girai nuovamente verso la madre di Alessandro, ma non appena la vidi rimasi paralizzato. La sua espressione era totalmente cambiata: lei sapeva! Mi guardava con una espressione indecifrabile, non mi riconosceva più. Finalmente mi guardai allo specchio. Volevo urlare, ma la bocca non fece una smorfia. Volevo scappare, ma le gambe non si spostarono di un millimetro. In quel momento provai davvero cosa vuol dire sentirsi completamente soli. Mi sentivo come una nave nel bel mezzo della tempesta perfetta. Isolato e senza aiuto, non c’era porto sicuro. Ciò che vidi allo specchio non fu la mia solita faccia, bensì quella di Alessandro. IO ERO ALESSANDRO!
– Ma come è possibile ciò? – pensai esterrefatto.
Poi il genio. Improvvisamente compresi ogni cosa, e un gigantesco sorriso prese vita sul mio volto. Si trattava di un sogno, io stavo sognando! Per la prima volta nella mia giovane vita mi accorsi di star sognando, stavo facendo un sogno lucido! Una serie ininterrotta di fortissime emozioni percorse tutto il mio corpo come fosse un’autostrada trafficata da migliaia di tir modificati che sfrecciavano a più di 1000 km/h. Mi sentivo come un bambino che prova per la prima volta il gelato al cioccolato. Felicità non è il termine adatto, troppo riduttivo. Si tratta di sensazioni che ognuno dovrebbe provare almeno una volta nella propria vita. Ero carico e pieno di energia come mai prima di quel momento. Ora non pensavo più alla madre di Alessandro (cioè la mia, in quel sogno). Ero rimasto solo con le mie meravigliose emozioni, volevo piangere per la gioia. Mi sembrò come se non avessi mai vissuto veramente prima.
Poi però accadde, tutto si smaterializzò davanti ai miei occhi, come una televisione che perde il segnale. Mi stavo nuovamente teletrasportando contro la mia volontà in un altro luogo, così mi ritrovai ancora una volta sul mio letto, al buio. Ero dispiaciuto fosse durato così poco, ma comunque felicissimo di quell’esperienza e voglioso di parlarne col mio amico, Alessandro, che mi aveva iniziato a quel meraviglioso piano dell’esistenza.
-Mi sono eccitato troppo- riflettei consapevolmente. –Per questo mi sono svegliato subito. -
Vari ricordi riaffiorarono nella mia mente, Alessandro mi aveva accennato anche questo particolare. Tentai di alzarmi ma il mio corpo non si mosse.
-Strano- pensai irrequieto e riprovai una seconda volta.
Nulla da fare. Un brivido gelato mi salì lungo la schiena. Cercai di chiamare i miei, ma l’unica cosa che riuscii ad emettere fu un rantolo soffocato.
-Cosa diavolo sta succedendo?!- mi chiesi, in un crescendo di paura mista a preoccupazione.
Riuscivo solo a produrre rochi versi con la gola. Non potevo né muovermi né parlare come un qualsiasi essere umano.
-Magari mi è preso qualche shock dovuto alla sorpresa di essere diventato lucido nel sogno- ragionai, cercando una giustificazione all’accaduto.
Mentre tentavo di muovermi o dire qualcosa di sensato, iniziai a sentirla. Dapprima sembrava solo un’innocua brezza che spostava qualche foglia secca, ma ben presto crebbe d’intensità. C’era qualcuno o qualcosa insieme a me nella stanza. Un’oscura presenza che lievitava nella mia direzione; proveniva dalla finestra aperta. Eravamo a settembre, e io dormivo ancora con la finestra spalancata; serranda chiusa, ovviamente. Dovete sapere che la mia camera da letto si trovava all’ultimo piano, nella mansarda. Il posto più freddo della casa d’inverno e il più caldo d’estate. Perciò capirete se in un settembre così piacevolmente caldo lasciassi ancora la finestra aperta, quella stessa finestra da cui era entrata l’inquietante presenza aleggiante. La sentivo indistintamente. Era nella stanza e si avvicinava sempre più. Ero coricato sul mio lato sinistro, in direzione opposta alla finestra, che si trovava vicino alla porta. Il rumore crebbe d’intensità fino a diventare quasi assordante; era agghiacciante. Il verso più spaventoso che avessi mai udito in tutta la mia vita. La paura che provai non è descrivibile in termini umani. Mi sentivo completamente indifeso, come un simpatico delfino rinchiuso in una vasca piena zeppa di squali voraci. Il panico era acuito dal fatto che non potessi vedere di cosa si trattasse; l’immaginazione ti inghiotte più a fondo della realtà. In ogni caso non avrei potuto far proprio nulla, ero paralizzato dalla testa ai piedi!
L’immagine che mi creai di quell’essere (non so dirvi quale fosse il confine tra finzione e realtà) fu quella di una presenza spettrale, completamente avvolta in un lungo mantello nero. Lievitava col favore del vento, trasportando foglie secche col suo incedere. E, nel buio, allungò una mano invisibile verso di me … allora decisi che non mi sarei mai arreso senza lottare! Così, con tutta la forza che avevo in corpo, tentai di sbloccarmi da quell’inspiegabile paralisi, provando a muovermi e a gridare. Finalmente, quando gli atroci rumori ebbero raggiunto l’apice della ferocia, sentii di essere libero. Mi alzai di scatto da letto e mi misi a sedere. Ero stravolto, zuppo fradicio di sudore. Tutto tacque, in maniera tanto repentina quanto era iniziato. Non c’era assolutamente nulla nella mia stanza. Realizzai che quei raccapriccianti rumori altro non erano che l’aspirapolvere di sotto; qualcuno lo stava azionando.
-Possibile che sia stato tutto frutto della mia immaginazione? - mi chiesi stravolto.
Mi sentivo completamente svuotato, senza più un filo di energia. Tutta la positività donatami dal sogno lucido era svanita in un lampo. Al suo posto era subentrato un incolmabile sensazione di vuoto. Mi alzai dal letto, desideroso di raccontare l’accaduto ad Alessandro, ma per niente voglioso di un nuovo giorno di scuola.
Mi chiamo Massimo Capeccioni, ho sedici anni e frequento il terzo superiore del liceo scientifico B. Rosetti di San Benedetto del Tronto. Sono abbastanza alto, circa un metro e settantotto, e magrissimo, quasi pelle e ossa; tanto che i miei ogni volta che tira un po’ di vento mi ripetono scherzosamente di attaccarmi a un palo per non rischiare di volare via (che simpaticoni …!). Porto i capelli lunghi ma non troppo, perennemente in disordine, senza un senso; direi che assomigliano più a un campo di battaglia medievale che alla capigliatura di un teenager. Non ho tatuaggi né orecchini e sinceramente non mi interessano, ma adoro indossare diversi tipi di braccialetti sul polso destro e porto un grosso orologio su quello sinistro; non lo scordo mai in quanto per me sapere l’orario è più importante che respirare. Controllo spesso l’ora a scuola e puntualmente mi preparo prima del suono della campanella; non rischio quasi mai di attardarmi in classe senza la presenza dei professori, causa bulli. Vorrei farmi crescere il pizzetto, ma per ora non ho la fortuna di avere una folta peluria sul mento, solo qualche rado cespuglietto. Ah! Quasi dimenticavo: porto l’apparecchio. Perciò cerco di non sorridere mai in pubblico e fare fotografie non è proprio la mia passione, per usare un eufemismo.
Quello fu il mio primo sogno lucido. La più bella emozione della mia vita, seguita dalla più brutta; insomma, un’orgia di sentimenti e sudore. Non mi ero mai interessato ai sogni lucidi, anche se Alessandro me ne aveva già parlato, senza che io gli dessi peso. Soprattutto perché ero scettico nei riguardi delle loro potenzialità: a forza mi sarei ricreduto.
L’orologio segnava le 7 e 5 minuti del mattino. Mancavano cinque minuti alla sveglia per suonare, ma oramai ero sveglissimo. Mi sollevai nel buio più fitto, dirigendomi verso la serranda. La aprii. Un potente fascio di luce mi accecò facendomi distogliere lo sguardo, ma solo per un momento. Era una fantastica giornata settembrina, gli uccelli cantavano felici e una leggera brezza entrò dalla finestra aperta. Inspirai a pieni polmoni. Ero ancora sconvolto e a fatica mi diressi verso il bagno per sciacquarmi. Da sotto saliva un invitante profumo di caffè che mi solleticò l’appetito. Mi lavai e vestii in quattro e quattr’otto, poi scesi di corsa le scale per andare al primo piano (casa mia aveva quattro piani: potrebbero sembrare molti, ma ogni piano non sarà più di 30 mq). La tavola era imbandita a festa. Vassoi ricchi di brioche, marmellate, succhi e quant’altro possibile avevano invaso il tavolo. Era una vera e propria occupazione alimen-tare. Mi sedetti pronto alla firma dell’armistizio per poter festeggiare con il mio saporito premio. Dopo tutto avevo avuto un risveglio alquanto intenso e mi meritavo un attimo di tregua. Iniziai a rifocillarmi con una tazza di caffè, tè verde aromatizzato al gelsomino e brioche ripiene di marmellata di prugne ricoperta di pezzetti di cioccolato fondente. Nella mia bocca si stava consumando un baccanale in mio onore. Questo fu il primo tassello che iniziò a farmi passare di mente l’accaduto. Dopo aver consumato un lauto pasto (solo come al solito, in quanto mia madre Marina, alta, magra e bellissima coi suoi lunghi capelli ricci castani e le ciglia che formavano un’adorabile curva in su, faceva colazione molto presto e mio padre consumava uno striminzito caffè al bar in fretta e furia per essere puntuale al lavoro), sazio e deliziato, mi diressi verso il bagno in cerca del mio spazzolino e del suo fidato compagno, Sir dentifricio. Mi sciacquai la bocca, due spruzzi di profumo e via. Pronto a prendere la borsa per dirigermi verso la fermata del bus.
Erano due anni ormai che andavo a scuola con l’autobus, da quando mio padre ebbe un attacco allergico molto forte (sincope fu il termine utilizzato dai dottori) e passò un breve periodo all’ospedale; prima mi accompagnava sempre lui. Da quel nefasto periodo presi l’abitudine ad andare da solo col pullman; ero maturato e non volevo pesar troppo su di loro. Questo