La storia di Michele Sorova
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Vi si narrano le disavventure di un povero uomo intento a migliorare la propria esistenza e purtroppo destinato a soccombere perché privo di scaltrezza e dotato di una buona dose di ingenuità.
I paesani prendono a pretesto le sue vicissitudini, trovando così un modo per divertirsi e passare il tempo, in un luogo in cui la monotonia era di casa.
E questa era un po' la vita dei piccoli insediamenti, in un periodo in cui nemmeno la televisione era entrata nelle nostre dimore.
I personaggi ed i fatti descritti nel racconto sono immaginari.
Al racconto seguono alcuni aneddoti, riferiti allo stesso periodo, alcuni dei quali tratti da fatti liberamente rivisti.
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Anteprima del libro
La storia di Michele Sorova - Carlo De Angelis
SOROVA
LA STORIA DI MICHELE SOROVA
La vicenda ambientata in un paesino di montagna, si svolge nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale.
Vi si narrano le disavventure di un povero uomo intento a migliorare la propria esistenza e purtroppo destinato a soccombere perché privo di scaltrezza e dotato di una buona dose di ingenuità.
I paesani prendono a pretesto le sue vicissitudini, trovando così un modo per divertirsi e passare il tempo, in un luogo in cui la monotonia era di casa.
E questa era un po' la vita dei piccoli insediamenti, in un periodo in cui nemmeno la televisione era entrata nelle nostre dimore.
I personaggi ed i fatti descritti nel racconto sono immaginari.
Al racconto seguono alcuni aneddoti, riferiti allo stesso periodo, alcuni dei quali tratti da fatti liberamente rivisti.
Capitolo I
Meditando fra le tombe
I miei capi
mi avevano mandato a Pozzuoli, a riscuotere le tasse in un’esattoria acquisita da poco, per fare quella carriera che non arrivò mai.
In compenso crebbero per me i disagi, perché ero più lontano dai miei familiari.
Oltre a Pozzuoli, ogni tanto dovevo chiudere i buchi nelle collettorie distaccate: Quarto, Bacoli, Melito, Giuliano.
Vi lascio immaginare la mia gioia.
Le uniche note liete di quel trasferimento erano il carattere allegro dei napoletani e la bellezza dei luoghi.
Mangiavo in una bettolaccia zozza e lurida vicino al porto di Pozzuoli, città che di lì a poco (siamo intorno agli anni 70) sarebbe stata interessata da un bradisismo, con conseguente pericolo e allontanamento temporaneo, da parte degli abitanti.
Quando qualche volta arrivavo in zona con la FIAT 500 giardinetta, di proprietà di mio fratello ed usata per circa 20 anni prima di essere mandata al macero, a volte mi avvicinavano i barcaioli, pescatori di mestiere, che mi offrivano a borsa nera la benzina non raffinata, che il governo regalava loro, almeno così dicevano, per incentivare e comunque aiutare l’attività peschereccia. Era un esempio dell’arte di arrangiarsi, arte nella quale i napoletani sono maestri.
Io quella benzina non la compravo, perché alcuni colleghi ‘ esperti’ mi dicevano che la benzina sporca creava problemi al carburatore e che la 500 era una macchina molto sensibile alla qualità della benzina.
La paura di restare per strada era più convincente del prezzo scontato. Ma gli acquirenti non mancavano in quella città malmessa e che apriva proprio nel periodo della mia residenza le sue falle. Una l’aprì proprio nella parete di quella squallida stanza dove dormivo. Una crepa nel muro che aumentava vistosamente ogni giorno, vistosa come la mia incoscienza. Ma a Pozzuoli la gente era allegra e, come si sa, l’allegria riesce a mandar via i pensieri tristi, almeno in parte.
Ogni tanto veniva, in quella specie di ufficio sistemato alla meno peggio, con poca luce e con poche finestre, l' Ispettore’, per ‘ registrare’ la nuova esattoria acquisita insieme agli impiegati, abituati a tutt’altro regime, meno poliziesco e più napoletano. E siccome l’ ’Ispettore’ indugiava sulle carte, con intenti inquisitori,ogni tanto qualche impiegato ‘ indigeno’, considerandomi in tutto e per tutto un collega, se pure venuto da fuori e perciò non ‘doc’, confidenzialmente mi sussurrava: " ma su rompiscatole, che vò!" Io ridevo ed il mio collega insieme a me.
I momenti di depressione però non mancavano, perché la famiglia non era lì, ma era qui, vicino a Roma.
Un giorno mi trovavo a Quarto di Napoli, non quello di Genova, da dove salpò Garibaldi con la spedizione dei " Mille".
Quel Quarto di Napoli non mi sembra sia passato alla storia. Fra l'altro non sono mai riuscito ad identificare mentalmente quel paese, tanto mi era parso dispersivo ed anonimo. Ricordo solo la stanza dell'esattoria, che forse era collocata nel palazzo comunale. Ma un impiegato di quel Comune lo ricordo bene. Era uno di quei soggetti – rari – dei quali si pensa subito: questo è un signore d'animo. Di corporatura robusta, maturo ma non anziano, solo a vederlo dava sicurezza, rafforzata da quel timbro di voce potente. Sapeva far coraggio e quando mi chiese: " a cosa pensi?" io, poco propenso a raccontare i fatti miei, gli risposi che pensavo ai genitori, alla famiglia lontana. E' naturale
, mi disse : io i genitori li ho persi, ma in un certo senso li porto sempre con me. Prima di perderli, ogni giorno della mia vita, alzandomi, mi ripetevo: un giorno perderò i genitori. Quando il triste evento è avvenuto, già me lo era rappresentato tante volte. Ma anche ora che sono morti, li sento sempre parte integrante della mia vita, apparentemente lontani, sostanzialmente vicini
.
Me ne andai da Pozzuoli, e quindi da Quarto, prima che la televisione accennasse, nel telegiornale, al bradisismo che aveva colpito la città.
Non sono tornato né a Pozzuoli, né a Quarto, né ho più rivisto quel signore, dal quale ignoro e ignoravo il nome. Me lo sono però ricordato quando è morto mio padre, in quei giorni di dolore, in cui sembra che tutto il mondo ci crolli attorno e non vogliamo rassegnarci a quel distacco, che pure se è naturale, è comunque assai triste. Papà è morto di vecchiaia a 82 anni, compiuti qualche giorno prima, sul letto di morte. Il suo corpo si è venuto dissolvendo lentamente. Già da qualche anno non era più lui. Ricordava a tratti, aveva amnesie, a volte pronunciava frasi senza senso. Però c'era. Quel calvario doloroso si è compiuto lentamente ed anche papà ha bevuto, goccia a goccia, l'amaro calice del dolore e della sofferenza.
Allora, invece di pensare all'immobilismo della morte, mi sono ricordato di quel 'signore' che a Quarto mi disse, proprio vent'anni prima: "i miei sono morti, ma li porto sempre con me e in questo modo la loro vita continua nella mia".
Così è pure per me.
Finché vivrò, avrò mio padre sempre vivo nella memoria. Così il funerale dell'addio solo materialmente aveva messo papà da parte, nella tomba di famiglia, nella quiete del cimitero.
Già, il funerale, una cerimonia di rispetto, di omaggio, di fede. Quello di papà fu celebrato in un paesino di montagna, nella sua chiesa natale, la stessa che aveva visto le esequie dei miei nonni paterni, zii e zie sempre con lo stesso sacerdote, per tanti e tanti anni parroco di quel paesetto. Un mesto saluto alla bara, da parte della famiglia proprio iure e di quella communi iure, sempre legatissima e affezionata. " Buon sangue non mente", diceva mia nonna.
Ed è proprio così. Discretamente vicini, questi parenti communi iure, nella malattia e nella morte. Il mio è stato il loro dolore. Sono quei parenti che non si vedono e non si sentono, ma che al momento del bisogno ritrovi, memori di quel vincolo di sangue che da sempre ci ha accomunato.
Era presente al funerale anche un compagno d'infanzia di mio padre. Seduto vicino a me, in chiesa, al primo banco, che ha fatto le condoglianze a me ed a mia madre. Camminava a fatica, ma era contento di presenziare a quella cerimonia, e non faceva che pregare, anche lungo il percorso che portava al cimitero. Forse era contento perché lui, mio padre, Nazzareno, rappresentava il passato, l'infanzia, la vita vissuta, un granello della piccola comunità che si ricomponeva, seppure al cimitero, in quel pezzo di terra che pure a papà doveva appartenere, perché in quei luoghi era venuto al mondo ed era vissuto, nella prima giovinezza.
Ora torno ogni tanto al cimitero, in quella