Le mie tre "R" ricordi, rimpianti e rimorsi ...
Di Rema
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Le mie tre "R" ricordi, rimpianti e rimorsi ... - Rema
dell’Autore.
Revisione editoriale a cura di lessicoitaliano.it
A mia Madre e a mio Padre,
per avermi sopportato
ma non supportato…
e che guardino giù…
Rema
Prefazione
È un triste pomeriggio di fine anno, sono qui nello studiolo di casa mia, con addosso quel non so che, probabilmente portato dall’influenza e dalla situazione che sto vivendo, non del tutto rosea, dal punto di vista degli affari.
L’azienda, dopo tanti anni di euforica attività, negli ultimi tempi si è avviata verso lo sfacelo e, come erede di una famiglia che cominciò la propria attività alla fine dell’800, sono angustiato dall’idea di lasciare ai miei figli, che non hanno più vent’anni, e ai miei collaboratori, una situazione pesante e insostenibile; allo stesso tempo, mi avvilisce veder confermate le teorie di
Giambattista Vico (con i suoi corsi e ricorsi
) e di mio padre che asseriva: Qualche volta il comunismo non ha ragione di essere, perché quello che il capostipite crea, molto spesso le
degenerazioni postume ridistribuiscono
.
Forse è proprio questo che mi ha portato a riconsiderare la mia vita e di qui ho cominciato a buttar giù tutta una serie di ricordi, di rimpianti e, perché no, anche di rimorsi.
Sicuramente non interesseranno nessuno, ma mi permetteranno di fare il punto, di analizzare con calma e tentato distacco ciò che è stata la mia vita fino ad oggi.
Non me ne vogliano le generazioni attuali e future, ma probabilmente loro non riusciranno a gioire della vita come, a volte, è riuscito a me.
Non per merito mio, ma per l’insieme di situazioni particolari, oggi impensabili, che esistevano a quei tempi. Devo anche al mio carattere l’aver vissuto esperienze indimenticabili con serenità e spensieratezza, cercando di rispettare le altre persone. Ahimè, forse non sempre ci sono riuscito.
Il denaro non è tutto, ma certamente aiuta.
Nello stesso tempo, non deve mai rappresentare l’unico scopo della vita, altrimenti inaridirebbe l’animo e non lascerebbe spazio all’umano. Riesco ancora a sorridere e ridere, a commuovermi ed anche a piangere e non me ne vergogno.
Ritengo che ogni essere umano, dall’ultimo al primo, sia sopra ogni cosa e vada preso così com’è e rispettato: le persone non si possono cambiare, ma solo accettare come sono.
Sono convinto che gli interessi finanziari esasperati abbiano logorato l’umanità, perché troppe volte indifferenti e distanti dalle esigenze della gente della strada. L’ossessione per il denaro sembra essere il Dio assoluto …
Rema
P.S. Alcuni nomi sono di fantasia per la tutela della privacy.
Capitolo I
I miei primi anni
Venni al mondo la notte del 1° giugno 1944, nella cascina Molinetti, che era stata di dimensioni ben maggiori prima che il mio bisnonno, amante del gioco, delle donne e dei cavalli, la perdesse al gioco in una notte del 1888.
Mio padre era riuscito a riacquistarne una parte e durante la guerra la utilizzò come residenza da sfollato. Quella cascina rimane uno dei posti più belli e più cari della mia vita, alla quale sono legati ricordi indimenticabili di bambino.
In seguito, finita la guerra, mio padre ci portò ad abitare in una casa che possedeva a Milano ed è lì che nacque mio fratello Ugo il 23 marzo 1946, anticipato di qualche mese da mio cugino Mario, figlio del nostro zio paterno, venuto al mondo il 14 dicembre 1945.
Durante la guerra, a causa dell’autarchia, non era stato possibile approvvigionarsi di materie prime e così l’azienda, attiva nella produzione di calzature di gomma, era stata momentaneamente chiusa.
Il distacco di mio padre da mio nonno Mario e mio zio Alfredo era avvenuto nel 1933, quando mio padre aveva deciso di aprire la sua
fabbrica di calzature di gomma, mentre mio nonno e mio zio continuarono a fabbricarne calzature di cuoio.
Finita la guerra, mio padre, ispirato da alcune conoscenze bocconiane (nel 1940 si era iscritto alla facoltà di Economia e Commercio alla tenera età di trentadue anni e aveva dato un buon numero di esami), decise di intraprendere la carriera d’agente di borsa.
Le cose gli andarono molto bene per un paio di anni, poi, a detta del Signor Emilio, un caro amico di mio padre (perché lui non lo confessò mai a noi figli personalmente), in un solo mese perse una somma ingente di denaro: la borsa è la borsa …
Questo comportò il suo ritorno alla produzione. Vivemmo a Milano dal 1945 al 1949 e rientrammo poi a Molinetti, in attesa che la casa di C. fosse riassestata. Una persona che mi stette molto vicino è la sorella di mia madre, la zia Luigina, che ha tredici anni più di me e che, ancora oggi, considero più come una sorella maggiore che come una zia.
Fu un periodo per noi tranquillo e di libertà completa ed è allora che la Pina fece ingresso in casa nostra, la più dolce delle tate e la mia seconda mamma. Nel 1950, a ottobre, cominciai la prima elementare e così ci trasferimmo a C., dove la casa era stata sistemata.
Tutti gli anni, fino al 1956, il mese di settembre lo trascorremmo a Molinetti. Magnum Gaudium!
Il mio primo grande amico, Tonino, il genio dell’elettricità, era nato anche lui a Molinetti, dove risiede tuttora. Fin da bambino si era interessato a tutto quello che riguardava l’elettricità e la meccanica, tanto che è ancora oggi uno dei migliori specialisti nell’ambito. Con lui si giocava e si andava in giro per la cascina, si andava a pescare nel canale che portava l’acqua alla ruota del molino o altrimenti al torrente Staffora. Fu lui che mi mostrò come funzionava il molino.
Ricordo ancora come se fosse ora, quando suo padre si ammalò di TBC, e lui, giovanissimo, con suo fratello Luigi, più anziano di qualche anno e la mamma Erminia, si trovò a dover far andare avanti il molino. La cosa che più mi impressionava erano gli episodi in cui il padre, seduto sotto la pergola di casa loro, aveva delle emottisi: il sangue mi ha sempre lasciato sgomento.
In ogni caso Tonino per me è e rimarrà sempre il mio Tonino.
Un’altra grande amica, che conosco da allora e alla quale sono ancora molto unito, è la Franca, figlia del signor Emilio e di sua moglie Luisa, con cui trascorremmo diverse festività dell’anno per tanto tempo.
A Molinetti, avevamo tutto lo spazio per correre e giocare con tanti altri bambini, figli di agricoltori che lavoravano la terra e si occupavano del bestiame della cascina. Ogni giorno si scopriva qualcosa di nuovo: la gallina che aveva fatto l’uovo nella stalla dei cavalli, o le galline americane che con i loro pulcini si rifugiavano nella stalla delle mucche cercando di sottrarsi alle nostre attenzioni.
L’orto, nel periodo di fine agosto, ci dava la possibilità di mangiare dei gustosissimi pomodori, il pescheto produceva degli ottimi frutti, c’erano le prime noci e il vigneto aveva una spalliera di uva americana dolcissima, perciò, era quasi certo, il primo giorno a Molinetti, un’indigestione non ce la toglieva nessuno.
Avevo cinque anni quando un muratore mi sorprese con M.L., una bambina della mia età, nel fienile dove stavamo cercando di analizzare le differenze... tra maschi e femmine. Lei, seppi dopo, si prese una buona serie di ceffoni dai suoi; io, invece, fui fortunato: i miei non c’erano e quando tornarono, due giorni più tardi, preferirono glissare sull’accaduto e mi fecero solo una paternale sul comportamento e il rispetto che si doveva avere nei confronti delle bambine.
La sera del 16 ottobre 1951, Ugo aveva cinque anni ed io sette, mio padre e mia madre ci presentarono Mademoiselle, al secolo Maria Teresa B., come nostra futura istitutrice, poiché erano tre mesi che la inglese
(la precedente istitutrice, rimasta in carica per sei mesi) se ne era andata.
Mademoiselle aveva un notevole bagaglio d’esperienza, sapeva scrivere e parlare in quattro lingue diverse: italiano, russo, inglese e francese. Era una gentile signorina del 1900 di origine italiana, di Carezzano (AL), cresciuta a Mosca dall’età di tre anni da una zia sposata con il conte Stawinsky (di origini polacche), residente nella capitale per un incarico presso la corte russa.
Lo zio, in seguito alla rivoluzione bolscevica e dopo aver perso quasi tutti i suoi averi, nel 1921 era riuscito a trasferirsi a Parigi, dove rimase per cinque anni. Nel 1926 morì, la zia tornò in Italia e Mademoiselle, grazie alle vecchie e buone conoscenze dello zio, fu assunta come istitutrice dal duca di K. in Inghilterra, per insegnare russo e francese ai suoi nobili rampolli. Dopo tre anni, passò a un’altra nobile famiglia e poi a un'altra ancora, continuando ad occuparsi di bambini dai sei ai quattordici anni.
Nel 1937, per stare più vicina alla zia, tornò in Italia, a Genova, dove fu assunta come istitutrice dagli S., noti armatori e poi, cresciuti i rampolli, lavorò da altre ricche famiglie genovesi fino ad approdare nella nostra su consiglio della Pina, sua compaesana.
Mademoiselle rimase con noi dal 1951 al 1958 e anche in seguito tornò in visita almeno due volte l’anno, per qualche settimana; con nostro piacere, poiché non la vedevamo più nelle vesti del cerbero che avevamo conosciuto, ma in quelle di chi ci aveva insegnato tante cose della vita, comprese una discreta conoscenza della lingua francese e qualche parola di russo e d’inglese.
Ricordo alcuni episodi, solo in parte affievoliti nella memoria, se il comportamento mio e di mio fratello non era corretto, durante le due ore di ricreazione pomeridiana eravamo obbligati per metà del tempo a leggere in francese dei passi della "Bibble de Grande-Mère (La bibbia della nonna), o altrimenti, dopo lo svago, si leggevano
Les contes de Bécassine" (I racconti di Becassine), anch’essi scritti in francese, ma sicuramente più piacevoli per dei bambini di sei e otto anni.
Le vacanze natalizie, dal 1951 al 1955, le trascorremmo in compagnia dei miei e di Mademoiselle a Nizza (Nice), posto di cui ho uno splendido ricordo: l’Hotel Negresco, dove avevamo una suite all’ultimo piano, era veramente un albergo molto bello. Ho avuto modo, in seguito, di soggiornarci di nuovo una notte di qualche anno fa... e, ahimè, il tutto è cambiato in maniera negativa e molto kitsch.
Tra i tanti buoni ricordi del Negresco, rimangono le piccole colazioni che la mattina si consumavano con i miei in camera: i croissant freschi, profumati e croccanti, le confetture di ogni tipo, le spremute di arancia, pompelmo e il portafrutta colmo di frutti esotici. Ogni giorno si svolgevano attività diverse: mio padre e mia madre avevano degli amici con i quali uscivano e mio fratello ed io giravamo per Nizza con Mademoiselle, oltre a dedicare alcune ore allo studio quotidiano e alle letture di "Bécassine o della
Bibble", queste ultime dipendenti dalla nostra condotta. Una sera, mentre eravamo a cena solamente con Mademoiselle al ristorante del Negresco, poiché i miei erano usciti con degli amici, ricevemmo i complimenti per il nostro comportamento a tavola dal Conte di Parigi[1], che Mademoiselle aveva conosciuto tramite suo zio, il quale esclamò: "Regarde comment ils mangent bien ces petits italiens". (Guarda, come mangiano bene quei piccoli italiani).
Devo ammettere che il Negresco era veramente sfarzoso all’epoca, aveva quel fascino che le nuove catene di hotel (Hilton, Sheraton, Intercontinental e altri ancora) non sono più riuscite a possedere. Era ancora espressione della classe di una vecchia Europa che stava avviandosi verso la decadenza. Quel tipo di servizio e di accoglienza si trova oggi in pochi hotel europei privati, ma non più con lo stesso sfarzo.
Ugo ed io, fino all’età di quattordici anni, cenavamo con i miei genitori solo la domenica, durante la settimana consumavamo i pasti con Mademoiselle e mia madre la vedevamo raramente: i bambini con i bambini, gli adulti con gli adulti, tale era la regola nel quotidiano ed anche quando avevamo o eravamo ospiti.
Nell’estate del 1949, passammo per la prima volta le vacanze estive a Nervi per il mare e a Caldirola per la montagna.
Il 23 gennaio 1950 nacque la mia cugina preferita, Adriana, sorella di Mario; era la prima femmina della famiglia, e con lei ho ed ho sempre avuto uno splendido rapporto.
Frequentai le elementari fino alla quarta a C. Avevo diversi compagni di classe con i quali condividevamo le attività scolastiche e qualche ora di gioco. Con Enrica, incontrata in prima elementare, cominciammo a lavorare insieme dopo il diploma e da allora son passati trentacinque anni durante i quali mi ha sempre aiutato a uscire da tante impasse. Poi Tonino, Ernesto, Gianni, Carla, Angioletta, Giorgio, Renzo, Angelo, Marié, Gino e tanti altri che ricordo con simpatia e affetto.
Un giorno avvenne un fatto spiacevole, uno stupido incidente.
Eravamo a fine gennaio e sul selciato c’era parecchia neve, allora nevicava molto più spesso rispetto a oggi. Uscendo da scuola, quattro miei compagni di classe decisero di farmi uno scherzo, cosa normale tra bambini, sennonché, rendendomi conto che mi volevano afferrare per mani e piedi e buttare in un cumulo di neve, sferrai un calcio. Fatalità volle che centrassi in pieno i denti di Stefano, uno dei due che si erano chinati. Il ragazzo, neanche a farlo apposta, era il figlio di una collaboratrice di mio padre. I problemi e le conseguenze furono abbastanza importanti: dovemmo ripagare i danni subiti e feci la figura del prepotente (cosa che non sono mai stato, almeno penso).
L’episodio mi lasciò addosso una cattiva fama che si diffuse in paese, e i miei genitori, che avevano una reputazione da mantenere, decisero allora, ultimato l’anno scolastico, che era meglio per Ugo e per me continuare le scuole da un’altra parte. Andammo a Nervi, dove avevamo un appartamento che si usava per un mese durante l’estate e sporadicamente durante l’anno.
Ancora oggi abito felicemente in paese. La vita in un piccolo centro è, a mio modo di vedere, molto più a misura d’uomo di quella in città, anche se non mancano risvolti spiacevoli, sintetizzabili nella massima: Ognuno in paese conosce la mia vita meglio di me
. Il pettegolezzo, le maldicenze, l’ingigantire le ricchezze o le miserie altrui e altre cose, non sempre simpatiche, costituiscono il lato negativo della vita in un piccolo centro. Il consiglio che do sempre a chi vuole vivere serenamente in un paese è: Male non fare, paura non avere... e cerca di fregartene sempre delle cose che dicono sul tuo conto…
.
Gli anni di Nervi, con la Pina e Mademoiselle, sono stati anni tranquilli, senza nessun evento di grande importanza o meritevole di particolare attenzione.
Si abitava in un bell’appartamento in via Capolungo e tutte le mattine si percorrevano a piedi i quasi due chilometri della Passeggiata Anita Garibaldi fino al collegio Emiliani, che si affacciava sul porticciolo di Nervi. Nel 1954 mio padre decise di acquistare una villa in via Ravano, più vicina al centro e al collegio, più confortevole e con più stanze. D’altra parte, contando i miei genitori, mio fratello, la Pina, Mademoiselle ed io, eravamo ben sei persone ed era importante che ognuno potesse avere il proprio spazio; inoltre quella di Nervi non era più la casa delle vacanze, ma quella principale.
Avevo appena compiuto dieci anni e da qualche giorno avevo finito le scuole, quando mio padre mi fece sentire adulto, portandomi con lui e l‘allora rappresentante aziendale, prof. B., in visita da alcuni clienti dell’Emilia e della Romagna.
Mi sentivo al settimo cielo, facemmo visita a diversi clienti (allora il traffico non era quello di oggi) e alle tredici, c’eravamo spostati fuori Bologna, verso Ferrara, per incontrare un cliente alle 14.30.
A pranzo, bevvi, per la prima volta in vita mia, un bicchiere di Lambrusco, di colpo mi sentii euforico, tanto che sia il prof. B., che mio padre si misero a ridere e mi dissero che mi ero ubriacato.
La visita delle 14.30 la passai a dormire in macchina, per riprendermi dal pranzo e seguire poi in modo più partecipe le successive due visite. L’ultima sosta fu da un cliente che, come mio padre, amava la pittura e lo convinse a pernottare a Ferrara e visitare l’esposizione del micro quadro, che era appena stata inaugurata al Palazzo dei Diamanti.
Così, ci si fermò a Ferrara. Finita la visita all’esposizione, andammo a cena con un pittore, Lanfranchi, dal quale mio padre aveva acquistato alcuni piacevoli quadretti (metafisici).
Cenammo al Castello Estense, dove all’epoca c’era un ristorante, e mangiammo delle grosse rane, rinomato piatto della cucina ferrarese. Quella sera, andai a dormire, e si trattò per me di un’altra prima volta, verso le due. Mi sentivo grande
, adulto.
Il giorno seguente continuammo il giro dei clienti per poi passare alla Toscana, dove con un altro rappresentante, il signor Luciano L., ricordo di aver fatto un’altra grossa scorpacciata, finiti gli affari di quadri. Fu durante quel viaggio che, a Viareggio, in una galleria vicina al porto, mio padre acquistò il quadro Piazza d’Italia
di Giorgio De Chirico e un pastello di Lorenzo Viani. La sera prima, a Pisa, avevamo visto degli splendidi De Pisis, ma non c’era stata la possibilità di acquistarne.
Sulla strada del ritorno, percorrendo il Bracco, che all’epoca era tortuoso come una strada di montagna, soffrii terribilmente il mal d’auto, anche a causa della guida di mio padre che si divertiva a correre. Quell’anno le vacanze le trascorremmo per due settimane all’Abetone, perché mio padre voleva rivedere Zeno Colò, che, con Achille Compagnoni, l’aveva iniziato allo sci.
Al ristorante del Grande Hotel dell’Abetone, con mia madre e mio fratello Ugo, avevamo un tavolo a poca distanza dalla marchesa A.
Capitò un giorno che mio fratello, disturbato d’intestino come me, durante il pranzo, non riuscì a trattenere un rutto… mia madre diventò rossa in volto ed io esordii: Ma Ugo…
, non feci in tempo a dirlo che si lasciò scappare una sonora flatulenza. Mia madre, allora, si alzò ancora più scarlatta e afferrandoci per mano ci portò in camera, come una chioccia con i suoi pulcini.
Ho davanti agli occhi, come se fosse ora, l’espressione del suo viso, a ragion veduta contrariato, perché il comportamento di Ugo a tavola non era sicuramente stato consono al suo rango (personale révanche).
Ripartimmo per l’adorato Molinetti, liberi e scevri da qualsiasi prevaricazione, (Mademoiselle in quel periodo prendeva le sue ferie). Anche quell’anno rifacemmo, come consuetudine, indigestione di pomodori, di pesche e per finire d’uva: niente di nuovo!
Durante le due settimane trascorse a Molinetti, Ettore, uno dei tre fratelli che conducevano la cascina, amante dei cavalli, cominciò a dare a Ugo e a me le prime nozioni di equitazione. Continuai qualche anno dopo, a Salice T., ma non fui mai un grande cavallerizzo; non mi attraeva, riuscivo a montare e comportarmi discretamente … ma senza grandi pretese.
Ritornammo a scuola e cominciai a prendere lezioni di pianoforte, attività che svolsi inizialmente con molto piacere e poi, come tutte le cose imposte, con molto meno trasporto, fino ad abbandonare definitivamente lo strumento una volta ultimate le medie. Oggi rimpiango di non aver perseverato tutte le volte che, per distendermi, mi metto al piano e strimpello rendendomi conto che non sono sicuramente un talento. Qualsiasi cosa per essere fatta al meglio deve essere amata.
Durante la prima media per un anno fui, con Ugo, semiconvittore dagli Emiliani, sennonché mi ammalai di una forma molto grave di difterite che mi provocò la paralisi, per una decina di giorni, degli arti inferiori e del velopendulo.
Solo grazie al pediatra, il Dottor Onofrio Giovenco, che non si mosse dal mio capezzale per quasi tre giorni, sono qui a raccontare questa storia. La malattia mi costrinse in casa per quasi due mesi, prima di poter riprendere la scuola. In quel periodo Mademoiselle si era congedata perché doveva seguire la zia ammalata.
Era mia madre che badava a me, insieme alla Pina e alla cara e vecchia zia Peppina, sorella anziana di mio nonno paterno Mario, che era venuta a trovarmi e aveva deciso di fermarsi per un paio di mesi.
Ricordo come un grande insegnamento la frase che disse il dottor Giovenco a mia madre, dopo che la situazione era tornata sotto controllo: Quando entro in una casa con un bambino malato, il mio sguardo va in primis alla mamma… e se lei è molto preoccupata, immediatamente mi allerto maggiormente
.
Mia madre, donna di una fede veramente unica, aveva fatto un voto: se mi fossi salvato, avrebbe cercato di avere un altro figlio.
Per le vacanze estive andammo un mese a Limone Piemonte, perché un cliente e amico di mio padre gli aveva messo a disposizione un appartamento. Lì conobbi due belle ragazze, la Gegia e la Dada, di qualche anno più grandi, le quali mi fornirono le prime informazioni su come nascevano i bambini. Mia madre era incinta di mio fratello Ferdinando e questo me lo fecero scoprire e me lo spiegarono proprio loro.
Il 27 febbraio 1956 nacque a Genova mio fratello Ferdinando, combinazione, lo stesso giorno che era mancata mia nonna materna Fernanda sette anni prima.
Di quel periodo, ricordo un breve viaggio fino a Napoli in auto e poi da lì fino a Palermo in nave. Il rappresentante, il signor C., con il senso dell’ospitalità che contraddistingue gli isolani in genere, ci fece ammirare le meraviglie di Palermo, lo splendido duomo di Acireale, il palazzo Gangi, la spiaggia di Mondello e altro ancora.
Prima di partire in aereo per Catania, il signor C. aveva avuto l’idea di farci visitare le catacombe di Palermo, che si trovavano lungo la strada per l’aeroporto. L’incontro con tutti quegli scheletri, poco prima del mio battesimo dell’aria, non mi riempì di felicità.
Come prima esperienza, fu veramente disastrosa. Per problemi tecnici, fummo obbligati a un atterraggio di emergenza a Reggio Calabria, che ritardò di circa otto ore il nostro arrivo a Catania. Oggi, una cosa del genere non mi stupisce più, ma come primo volo fu certamente negativo. Da Catania, tornammo in treno a Napoli dove recuperammo l’auto per poi rientrare a casa.
Durante i tre anni delle medie, il mio compagno di banco fu Gigi Rizzi, che abitava qualche villa più in là della mia. Eravamo entrambi dei trapiantati in Liguria: Gigi aveva origini piacentine (Monticelli d’Ongina) ed io piemontesi e questo ci avvicinò ancora di più.
In terza media, con Gigi, cominciammo ad azzardare i primi approcci con le ragazze, lui era ed è rimasto un tombeur de femmes. È sempre stato spigliato, brillante e la sua appartenenza ad una famiglia molto ricca gli forniva una serie di vantaggi che lui sfruttava per i suoi scopi. Ricordo che la sua famiglia era molto amica di persone di spicco, tra queste c’era Renato Rascel, che quando passava da Genova, pernottava a casa loro.
Durante la stagione sciistica, i suoi frequentavano spesso Cervinia e lui era diventato in quel modo amico dei figli di Achille Compagnoni, Paolo e Maurizio (quest’ultimo tragicamente scomparso a 30 anni in un incidente d’auto), che anch’io conoscevo bene. Achille era stato il primo maestro di sci di mio padre; una volta andammo a trovarlo a Rapallo, dove soggiornò per un mese di convalescenza al suo ritorno dall’impresa del K2, altre volte lo incontrammo a Cervinia, dove andavamo a sciare.
Nel 1957 si andò in Veneto durante le vacanze di Pasqua, lì visitammo diverse città ma non fu affare di poco conto, va detto infatti che allora le autostrade erano ancora in via di costruzione e pertanto viaggiare in auto era una vera e propria impresa, anche su una tratta di soli 200 Km.
Non dimenticherò mai l’intossicazione da pesce al ristorante Storione di Padova. Ancora oggi, se il mio fegato non è in ordine, mi fa stare male anche il solo sentirne l’odore.
L’episodio ci costò una sosta di due giorni all’Hotel Danieli di Venezia, salvo poi rientrare in anticipo perché i disturbi intestinali non mi permettevano di muovermi come volevo. Ci volle qualche tempo per rimettermi completamente.
Riebbi lo stesso problema molti anni dopo a Manila, nelle Filippine, con un’altra età sulle spalle e, soprattutto, in un posto molto più lontano.
Una cosa che ho ancora impressa nella mente, malgrado siano passati così tanti anni, è la visita che facemmo con mio padre alla S. di Milano, allora in via Celestino IV.
Una volta lì mio padre chiese alla reception di vedere la signora M., compratrice dlle nostre calzature, con la quale aveva un appuntamento. Cinque minuti dopo, la signora M. si presentò e andammo con lei in un parlatorio. Durante la discussione si udirono voci alterate nel corridoio e dopo poco si presentò lì davanti il C.d.L. I. M., fondatore della S. (che rividi in seguito a
Courmayeur). Dopo averlo salutato velocemente mio padre (si conoscevano dal 1933, quando la S. portava il nome di B.33
), riprese a sbraitare con la povera signora M. in una maniera indegna. Da bambino quale ero, mi chiesi se fosse quello il sistema di trattare i propri collaboratori di fronte ad estranei. In cuor mio, mi augurai di non aver niente a che fare con lui in ambito lavorativo in futuro, cosa che successe, in effetti, molto raramente.
Il C.d.L. I. M. morì all’età di 91 anni nel 1994: la sua era stata una carriera ricca di egregi successi, ma il suo carattere era sicuramente stato una cosa diversa …
Capitolo II
Primo anno in Svizzera
Finite le medie, i miei genitori decisero di mandarmi in collegio in Svizzera, nel cantone San Gallo[2], all’Institut auf dem Rosenberg.
Fu uno dei periodi più interessanti e spensierati della mia vita e, nonostante qualche episodio spiacevole, fu allo stesso tempo quello che mi diede una formazione cosmopolita, considerando che eravamo 430 ragazzi dai dieci ai venti anni di varie nazionalità.
Il primo anno fui in camera con un tedesco, Lutfi, e un indonesiano, Moktjiono, che si trovava lì con suo fratello Irawan; quest’ultimo lo rividi a Hong Kong anni dopo.
Inizialmente, per farmi capire, andavo due camere più in là dove c’era Michel, un ragazzo francese, figlio di un diplomatico, che già a quattordici anni parlava spigliatamente quattro lingue. Il collegio era formato da diverse sezioni: quella italiana (con circa 65 ragazzi), quella tedesca (ca. 90), quella anglo-americana (ca. 110), quella svizzera (ca. 85) e infine quella linguistica, che comprendeva le nazionalità più disparate; c’erano colombiani, indonesiani, indiani, iraniani, kuwaitiani, pakistani, sauditi, turchi e tanti altri.
Questa molteplicità costituiva il tratto distintivo del collegio internazionale svizzero: si viveva insieme serenamente al di là delle ideologie, delle religioni o di qualsiasi ostacolo.
Ripensando oggi ad alcuni di quei momenti, mi rendo conto di come si riuscisse a intendersi e convivere pacificamente a prescindere dalle lingue e dalle culture. Quanto sarebbe bello poter estendere oggi quell’atmosfera a tutto il mondo: un po’ di utopia non guasta!
Il primo mese in collegio fu una sofferenza; ero senza mio fratello, non mi trovavo più nella bambagia ed ero fuggito dalle grinfie
di Mademoiselle, con tutto il suo miglior bon ton, nessuna parolaccia, né gesto che non fosse più che educato. Le mie buone maniere, ad alcuni dei miei compagni, non interessavano affatto.
Il collegio era suddiviso in sei case: il Nussbaum, che era per ragazzi dai 10 ai 12 anni, l’Ulrichshof, dove c’erano la mensa, gli uffici amministrativi, qualche aula e poche camere per ragazzi dai 13 ai 14 anni, il Talsteig (dove ero io), per ragazzi dai 14 ai 16 anni, l’Ekkehard, con qualche aula e qualche camera per ragazzi dai 15 ai 17 anni, l’Hochsteig, per ragazzi dai 18 ai 20 anni, il Niedersteig, anch’esso per ragazzi dai 18 ai 20 anni, dove c’erano alcune aule e infine la Stammhaus, per ragazzi dai 18 ai 20 anni.
Mi ricorderò sempre il mio secondo giorno lì: mi trovavo proprio di fianco al Talsteig, dove c’erano due campi da tennis occupati da alcuni ragazzi che giocavano. Essendo un appassionato del gioco, ma sentendomi abbastanza sperduto nel nuovo ambiente, andai a sedermi su una panchina solo per guardare. Il primo ragazzo che conobbi fu Roberto P., di Roma, che era al suo secondo anno e stava anche lui al Talsteig; poi altri due italiani, due tedeschi, un turco, tre americani e altri giovani di cui non ricordo la provenienza.
Non erano ancora passati dieci minuti, quando arrivò un convittore di qualche anno più grande di me, non tanto alto, biondino, che appena mi vide si rivolse agli altri e disse: Ma chi è ‘sto nuovo figlio di una gran mignotta? È appena arrivato e non saluta nemmeno
.
Non abituato ad un tale linguaggio, la mia prima reazione fu di difendere l’onore di mia madre: mi alzai e feci per togliermi la giacca, ma rimasi con le braccia bloccate nelle maniche. In quell’istante, mi arrivarono due pugni che mi misero KO. Fu Roberto a portarmi alle docce per farmi riprendere.
Come inizio non era stato sicuramente dei migliori. Il mio aggressore, con il quale in seguito si divenne anche amici, si chiamava Pachito B.
Le giornate erano così programmate: alle 7,00 "aufstehen", la sveglia, che era data da un ragazzo a turno; alle 7,30 la piccola colazione all’Ulrichshof e alle 8,00 l’inizio delle lezioni.
Ogni professore aveva la sua aula e quindi, a ogni cambio di materia, avevamo cinque minuti di tempo per recarci da un posto all’altro.
Il primo anno, nella mia classe, eravamo in sei: Sergio B. (Forlì), Massimo B. (Lecco), Augusto C. (Milano), Alvise C. (Venezia), Ettore D. N. (Napoli) ed io.
Questo comportava che a ogni lezione, una volta terminata la spiegazione di un argomento, il professore avesse modo di interrogare ognuno di noi su quanto avevamo appreso il giorno prima.
Era chiaro che non si poteva sgarrare più di tanto, non erano tutte interrogazioni per il voto, ma se non davamo risposte adeguate, i professori ne prendevano nota e all’atto dell’interrogazione ufficiale, la nostra impreparazione aveva un suo peso.
Alle 10,00 c’era una pausa di quindici minuti, durante la quale chi voleva poteva scegliere tra un porridge, uno yogurt, una tazza di tè caldo o una mela.
Alle 10,15 riprendevano le lezioni, che terminavano alle 12,15. Il pranzo era servito alle 12,30.
Prima di iniziare il pasto, a turno, era chiamato un ragazzo a recitare la preghiera di ringraziamento:"Vater segne diese Speise, uns zur Kraft und dir zum Preise." (Signore benedici questo cibo e noi te ne saremo debitori).
Finito il pasto, si era liberi fino alle 13,45. Alcune volte c’erano lezioni anche dalle 14,00 alle 16,00, poi la merenda e il tempo libero fino alle 17,30. Compiti fino alle 18,30 e dalle 19,00 alle 20,00 cena e tempo libero; dopodiché, bisognava tornare in camera per terminare i compiti e lo studio.
Dalle 21,30 alle 22,30 (a seconda delle case e dell’età degli studenti), passava il ragazzo di turno ad annunciare "Die Lichter ausschalten (spegnere le luci). Durante la notte, alcune volte, un professore o il guardiano notturno passavano a controllare che lo spegnimento delle luci fosse stato rispettato e che nessuno fosse uscito senza permesso, compiendo una
Schwarzausgang" (uscita clandestina), che comportava l’espulsione.
Una cosa molto importante era la puntualità, se non si rispettavano gli orari, esistevano diversi tipi di punizione: decurtazione della paga settimanale, annullamento o riduzione della libera uscita in proporzione al ritardo.
In base all’età e alle istruzioni fornite dalla famiglia, ognuno di noi percepiva una paga settimanale (Taschengeld), che si ritirava in un’aula del Nussbaum il sabato.
Il consiglio della direzione era di dare settimanalmente: 3,00 Sfr[3] ai ragazzi dai dodici ai quattordici anni, 4,50 dai quattordici ai quindici, 6,00 dai sedici ai diciassette, 8,00 dai diciotto ai diciannove e 10 ai più grandi.
La quarta sera, finita la cena, eravamo fuori dall’Ulrichshof ed io mi trovavo con i nuovi compagni, quando arrivarono quattro ragazzi più anziani che mi presero, mi portarono cinquanta metri più in là dove c’era una fontana e m’infilarono la testa dentro l’acqua.
Malgrado avessi cercato di divincolarmi, loro erano stati più forti. Quella specie di battesimo era chiamato la matricola
, dopo di me toccò ad altri tre, mentre il palo
controllava che non arrivassero professori.
Con il senno di poi posso dire che sbagliai, non avrei dovuto divincolarmi, ma rimanere tranquillo in