Eterni per poco
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Anteprima del libro
Eterni per poco - Franco Mac Rìben
633/1941.
Prefazione
Cosa faresti se ti svegliassi in un luogo sconosciuto, se ti accorgessi di non ricordare più il tuo nome, né cosa ti è accaduto fino a quel preciso istante? Se pian piano capissi di appartenere a una minoranza, un uomo colorato
in un mondo nuovo abitato da grigi
? Come se tutto ciò non bastasse, le poche notizie pervenute riguardo agli uomini colorati sono ammantate dal mistero.
Molti rimarrebbero atterriti di fronte a tale situazione nella quale, come in un incubo, sono tante le paure primordiali che prendono vita, ma non Miko, il protagonista di questa straordinaria avventura che ti accingi a leggere. Egli decide di credere ai racconti del saggio Sante Lupa, di fidarsi dei compagni che questi gli pone accanto e intraprende un viaggio alla ricerca dei suoi simili che, per l’avidità di pochi, vivono in schiavitù. La sua speranza è di raggiungere, grazie a essi, la conoscenza del loro comune passato.
Attraverso le lenti di un mondo immaginario, nel romanzo si affrontano con sapienza temi cruciali per la vita di ogni uomo e di tutte le società; il sottile equilibrio tra libertà individuale e sopraffazione del prossimo, la dignità di ogni essere umano, la brama di potere che esercita un richiamo irresistibile su di noi, come un fuoco nella notte attrae le falene
.
Nel racconto le scene d’azione adrenalinica si intrecciano sapientemente con l’evolversi del delicato sentimento che coinvolge Miko e Mya, e con l’analisi introspettiva che permette di conoscere i pensieri, le paure e le ansie che attanagliano i diversi personaggi.
Tutto è immerso nella natura che, dalle dorate e pacifiche spiagge dell’arcipelago della Krayzja, alle aspre montagne dell’Handymor, dalle acque agitate e distruttrici del Mare del Gigante, al territorio arido del Tryland, mostra i suoi diversi e affascinanti volti. Una natura sempre presente e ricca di vita che, con i suoi fenomeni, accompagna Miko e i suoi uomini nell’impresa.
La natura, con le sue sfumature di colori e di suoni, non era lo sfondo di una vicenda umana, era essa stessa la storia centrale e dominante. Tutte le ansie, i pensieri, i travagli di quegli uomini, non avrebbero scalfito minimamente la trama primordiale di quella realtà. Essi attraversavano quei sentieri come profanatori provvisori, poi tutto si sarebbe chiuso alle loro spalle come un sipario, qualunque fosse la cosa che custodivano e portavano con il loro passaggio
.
Il senso di giustizia, la ricerca della conoscenza, la voglia di riscatto, il dono di sé per la causa, il coraggio, l’amicizia, la fiducia, sono i temi e i valori che si stagliano sullo sfondo di un’emozionante storia. Il romanzo scorre con un ritmo incalzante e uno stile essenziale e moderno che appassiona e coinvolge il lettore fin dalle prime righe.
1
Accade spesso di fare strani sogni, di svegliarsi con ancora le dinamiche e le immagini che li hanno animati. Capita pure di non riuscire a trovare in essi un senso logico o una qualsiasi attinenza con la realtà; dopo qualche ora, di solito, perdono di forza e sfumano definitivamente nell’oblio.
Esiste anche un’emozione particolare che accompagna quei sogni, che persiste alle visioni ormai andate e che suscita un pizzico di nostalgia. Come se si fosse perso qualcosa e si volesse tornare indietro per rivivere quei momenti. Come se non fossero solo miraggi, immagini residuali di un mondo misterioso e lontano, forse il nulla.
Se invece, svegliandosi da un sonno profondo, si scoprisse che quel sogno strampalato è un evento reale, in che modo si reagirebbe? Se non ci fosse bisogno di ricostruire i suoi contenuti, perché sarebbero davanti agli occhi, incredibili ma concreti con tutte le loro incongruenze, quali emozioni si scatenerebbero? Sarebbe sufficiente guardare il cielo e cercare di convincere se stessi che si tratta solo di un sogno o, nella peggiore delle ipotesi, di un incubo?
Fu a Vilago, un piccolo villaggio della Krayzja, che ebbe inizio una storia in apparenza incredibile. Con le sue abitazioni distribuite in modo casuale, si affacciava sul mare in una delle tante piccole baie della costa. I suoi abitanti, alcune centinaia di anime, vivevano in prevalenza di pesca e di caccia. Per quanto lontano da altri centri relativamente più popolati, anche Vilago aveva una sua peculiarità: s’inseriva benissimo nella struttura sociale e nella tipologia di quella piccola regione. Essa, con il suo territorio ad arcipelago fin troppo irregolare, rendeva più problematico lo sviluppo di grossi agglomerati urbani. In parte per questo motivo, poi anche per la natura riservata della sua gente, la Krayzja era conosciuta come la regione dei villaggi. Ognuno di questi, pur nella sua povertà, era luogo adatto dove poter trascorrere tranquillamente le giornate. Soprattutto nei periodi caldi dell’anno quando, un posto all’ombra e nient’altro, era più che sufficiente per stare bene e per sentirsi in armonia con il tutto.
In una di quelle mattinate estive, al riparo di una tettoia fatta di rami e foglie di palma, qualcuno era giunto al termine di un lungo sonno ristoratore. Furono il chiasso e i continui strilli di alcuni bambini che finalmente lo svegliarono. Non aprì subito gli occhi, indugiò in uno stato sospeso di dormiveglia, come se ciò fosse sufficiente per rimanere all’infinito in quella comoda incoscienza. Pensò vagamente a cose che si accavallavano in modo confuso e instabile nella sua mente. Dalla bocca impastata dal sonno gli uscì qualche borbottio incomprensibile e si rigirò in quello che avrebbe dovuto essere un letto. Lo scricchiolio di foglie secche sotto il suo corpo era, invece, quello di un giaciglio fatto con fogliame di pannocchie.
Una fitta alla costola destra lo costrinse a bloccarsi e a lanciare un piccolo ululato
di dolore. Altre parti del corpo lo avvertirono di ammaccamenti e bruciori diffusi che lo indussero a evitare movimenti bruschi. Gli schiamazzi dei bambini gli divennero più percettibili, tanto che aprì gli occhi per individuarli, ma non vide altro che un ambiente semi buio, chiuso e un po’ angusto. Quando, finalmente, decise di ritornare sveglio, si guardò attorno e fece fatica a realizzare dove si trovasse. In quel luogo avvolto nella penombra, riusciva comunque a intravedere qualcosa. Alla sua destra notò un tavolo malconcio e sgangherato, sul quale erano stati messi alcuni bicchieri e un boccale d’acqua. Disposti ai lati, alcuni piccoli tronchi sistemati in verticale facevano da sedute. Sopra una mensola della parete, alla sinistra del giaciglio, c’erano alcuni recipienti e delle stoviglie allineate con ordine.
Cercò di rimettersi in piedi, anche se tormentato da continue fitte. Si mosse lentamente e con cautela, finché riuscì ad alzarsi. Un accenno di capogiro lo colse e lo costrinse a sostenersi con le mani al tavolo vicino. Si prese una pausa e guardò meglio: le pareti erano piene di feritoie, costruite con tronchi e tavole inchiodate tra loro, così alla buona, per niente sigillate. Esse erano attraversate da sottili fasci di luce che, come animate, s’intrecciavano in curiosi giochi con la polvere sospesa nell’aria. Quei riverberi gli arrivavano da tutte le parti e, seppure al chiuso, immaginò che fuori ci fosse una giornata di sole.
Il frastuono dei bambini attirò ancora di più la sua attenzione, tanto che ebbe la sensazione di essere osservato; eppure, in quel luogo, c’era soltanto lui. Poi, d’istinto, diresse lo sguardo verso il pavimento e tra le feritoie di quelle assi vide tanti occhietti che lo fissavano.
«Ehi… ehi!» urlò battendo i piedi.
Un fuggifuggi sotto il pavimento provocò una sorta di piccolo terremoto che fece tremolare quella che, in realtà, era una semplice baracca sgangherata. Di questo non ebbe più dubbi. Gli occhietti sparirono e tornò la quiete, poco dopo seguita da un concitato latrare di cani. Fuori, probabilmente, si stava innescando un piccolo parapiglia.
Si fece forza, si avvicinò a quella che gli parve fosse una porta e la aprì. La luce del giorno lo colpì violentemente, tanto da costringerlo a coprirsi gli occhi con la mano. Poi, poco per volta, si adeguò alla nuova visibilità e guardò fuori curioso.
Davanti a sé il mare si distendeva ampio e calmo, diviso dal cielo da una linea continua che separava a fatica i colori dei due elementi, quasi che sembravano tutt’uno. Era l’ora mattutina che colorava tutto della stessa madreperla. Ogni cosa, racchiusa dentro quella cornice suggestiva, appariva immobile, quasi incantata.
L’uomo, attratto dallo scenario, continuò a guardare attorno e la sua attenzione si soffermò su una distesa di sabbia che, a riva, si sposava con il movimento del mare fatto di brevi e appena percettibili risacche.
Vide che il pavimento della baracca poggiava su pali di legno infissi nella sabbia, quindi era molto agevole intrufolarsi sotto carponi e di nascosto guardare attraverso le fessure. Soprattutto se, a spiare, erano dei bambini curiosi…
Il sistema a palafitte non era prerogativa della sua sola baracca, era stato adottato in modo sistematico per tutte le altre, sia per quelle più interne che per quelle a ridosso del mare. Allo stesso modo erano costruite alcune passerelle, dei veri e propri piccoli moli con attraccate barche e canoe, attorno alle quali ferveva l’attività di pescatori appena rientrati dopo l’uscita notturna.
Fu da queste osservazioni che dedusse di trovarsi in una piccola località di mare a lui sconosciuta. Detto ciò, francamente, continuava a non avere la più pallida idea di cosa facesse in quel posto e di come ci fosse arrivato.
Scese da una scaletta che, dalla baracca, gli permise di mettere i piedi sulla sabbia e si diresse verso la riva del mare. Un lieve calore sotto le piante dei piedi nudi, di primo mattino, era il segno di un sole che, se pure ancora basso, presto avrebbe reso la sabbia rovente. Volle godere di quel tepore e indugiò brevemente prima di raggiungere il mare. S’incamminò lungo la riva, verso sinistra, con i piedi immersi nell’acqua e trovò che anche questa fosse gradevolmente tiepida.
La temperatura del mare, di notte, quando l’aria si raffredda più rapidamente, è come se fosse più elevata in relazione al giorno. Di mattino, comunque, l’acqua mantiene ancora un certo calore residuo e siccome l’escursione termica si percepisce maggiormente durante la stagione calda, questo bastò per convincerlo di essere in piena estate. Non pensò che avrebbe dovuto saperlo a priori, cioè avere la consapevolezza delle stagioni in base ad altri criteri. Presto si sarebbe reso conto che parecchie cose non erano più patrimonio del suo pensiero…
Non era completamente in sé e lo capiva: un’apatia mentale gli spezzettava i pensieri, lo rendeva incapace di dare a essi una stabilità e una sequenza che avessero un senso compiuto.
A un tratto, lo stato di torpore che lo accompagnava da quando si era svegliato, fu interrotto da un qualcosa che lo costrinse a una maggiore attenzione, quasi uno schiocco di frusta che ruppe quell’atmosfera ancora assopita:
«Miko!». Una voce femminile era risuonata improvvisa alle sue spalle.
Poi, ancora:
«Miko Brekin… dico a te!».
Era indeciso su cosa fare, mentre sentiva la voce sempre più vicina:
«Miko, aspettami, dico a te!».
Non gli rimase che voltarsi, ma trasalì e arretrò di un passo, vinto dalla sorpresa.
La donna che si dirigeva rapida verso la sua direzione lo aveva ormai raggiunto; lui la fissò confuso e incredulo, cercando di capire qualcosa di lei che, in quel momento, gli sfuggiva.
«Miko, come stai?» disse lei. Poi, notando in lui una certa inquietudine, aggiunse:
«Non devi temere, non voglio farti del male».
Aveva il fiatone per la corsa appena fatta. Era minuta, con un corpo ben proporzionato, armonico e molto attraente. Aveva due occhi nerissimi, un viso molto bello e un’espressione amichevole. Fu questo insieme di cose che, probabilmente, indusse Miko a non darsela a gambe, come aveva pensato di fare in un primo momento.
Perché, allora, si era turbato tanto? Che cosa aveva visto di straordinario e di così inquietante?
Raccolse le ultime risorse di autocontrollo che aveva e, con estrema calma, impose a se stesso di guardarla.
La ragazza era senza capelli! Il suo capo completamente glabro appariva con una pelle chiara e grigia, priva di sfumature pigmentarie colorate!
«Chi… sei?» le chiese balbettando, sempre più confuso e preoccupato.
«Mi chiamo Mya… Mya Lupa» rispose subito.
Lui riprese a camminare come se volesse scostarsi, ma lei lo tallonò:
«Sono una donna della medicina, figlia di Sante Lupa, il capo del villaggio».
«Ah!» esclamò lui in modo distratto.
In quel momento gli interessava poco o nulla sapere chi fosse il padre. Un altro pensiero si era insinuato prepotentemente nella sua testa, uno strano dubbio che fece nascere in lui la necessità impellente di fugarlo.
«Potrei farti una domanda?» le chiese.
«Certo, dimmi pure».
«Perché mi hai chiamato Miko
? Non è il mio nome!»
«Non è il tuo nome?»
«No!»
«E allora qual è?»
«Mi chiamo… mi chiamo…». La voce gli si strozzò e, di botto, smise di camminare. Non c’era alcun nome che gli venisse in mente. Allora chiuse gli occhi, si toccò la fronte con la mano destra come se ciò lo aiutasse a ricordare, ma fu inutile. Preso dall’angoscia, si volse verso Mya e la guardò come per avere una risposta da lei.
«Ho letto la scritta sulla medaglietta che porti al collo» disse la ragazza. «Non capisco il significato dei numeri, ma suppongo che quel nome sia il tuo».
L’uomo, con un gesto rapido, si portò la mano al collo. Trovò la medaglietta e lesse:
"Miko Brekin - 2304/05/05
N 42°20.223/ E 10°19.415
(SIS=*=) - Earth".
Neanche lui comprese tutto. Il nome, però, era inequivocabile. Certo, nulla poteva dimostrare che fosse il suo, ma era lui che portava al collo la medaglietta con quelle incisioni. Non gli rimase che rivolgersi nuovamente alla ragazza, ancora con l’espressione supplichevole di chi ha bisogno di aiuto e le chiese di fargli capire cosa gli stesse accadendo e cosa lo avesse condotto in quel posto.
«Alcuni pescatori ti hanno trovato per puro caso» lo informò lei. «Giacevi moribondo sulla sabbia, portato lì dalle onde mentre eri alla deriva. È un miracolo che tu sia ancora vivo, cosa impossibile se fossi finito tra gli scogli. Il tuo corpo presenta tumefazioni e ferite diffuse, hai pure qualche costola conciata male e sono due giorni che ti sto curando. Hai avuto la febbre e momenti di delirio. Soltanto adesso hai ripreso conoscenza». S’interruppe, pensò per un momento, poi riprese: «Che cosa sia potuto accadere e da dove tu provenga, lo ignoro».
In quel mentre furono attorniati da un nugolo di bambini festanti, come apparsi dal nulla, probabilmente gli stessi che avevano spiato Miko da sotto il pavimento della baracca. Rassicurati dalla presenza di Mya, erano diventati più intraprendenti, anche se con una certa cautela. Infatti, facendosi scudo di lei, si mantenevano a distanza di sicurezza da quell’uomo che continuavano a fissare, incuriositi e sospettosi, come se fosse chissà chi.
Anche alla loro vista lui rimase sorpreso e turbato, allo stesso modo di poco prima quando gli era apparsa Mya. Non perché lo preoccupassero, ma anche loro erano senza capelli e di carnagione grigia. Bambini indubbiamente graziosi, ma quell’aspetto particolare gli giunse inatteso, estraneo e inspiegabile. Tutto gli appariva irragionevole. Cercò di concentrarsi per capire, ma senza esito. Quella situazione paradossale era una fonte continua di turbamento e, soprattutto, senza il conforto di una qualsiasi risposta.
I bambini, vivacissimi, quasi incontenibili, erano ignari di tutte quelle ansie e continuavano a saltellare attorno ai due adulti.
«Basta, smettetela d’infastidire!» intervenne Mya con tono autoritario, sgridandoli. «Miko è ammalato e non sopporta il vostro chiasso».
I discoli interruppero i loro girotondi, ma continuarono a tenersi per mano senza staccare gli occhi da quell’uomo.
«Piuttosto, andate immediatamente da nonna Rima, ditele che Miko si è svegliato e che ha tanta fame. Vi darà del cibo per lui».
«Dove dovremo portarlo?» chiese il più grandicello.
«Portatelo nella baracca dove ha dormito in questi giorni, sapete benissimo qual è…».
I bambini si allontanarono strillando e, rincorrendosi, puntarono decisi verso una di quelle capanne dove abitava nonna Rima.
Appena furono soli, Mya si rivolse a Miko:
«Cerca di capire quei bambini, per loro sei una novità, non hanno mai visto uno
come te».
«Come sarebbe a dire uno
come me?» reagì lui, molto infastidito e trovando incomprensibile quel genere di affermazione. «Che cosa significa?»
«Sei pieno di peli da tutte le parti e sei colorato» disse Mya. «I bambini non sanno che esistono i colorati, sono curiosi e ti trovano strano».
Queste parole non contribuirono a semplificare le cose e, nella mente di Miko, crebbe sempre di più un angoscioso senso di smarrimento.
«A essere sincera, neanche io avevo mai visto uno come te» continuò Mya. «Sapevo della vostra esistenza. Mio padre mi ha detto che ci saranno un centinaio di colorati sparsi per il mondo, non di più».
Miko apprendeva, basito, cose che per la sua concezione logica erano chiaramente assurde e pazzesche. Quello che però lo faceva dannare e lo rendeva sempre più furibondo, era l’assenza totale di argomenti nella sua testa. Mancava di consapevolezza, cioè di una qualche pur minima prova che gli permettesse di riconoscere o di confutare tutte quelle cose inverosimili.
Realizzò, infine, di aver perso completamente la memoria!
Non sapeva praticamente nulla di se stesso, vittima del peggiore incubo che potesse capitare a un essere umano.
«Allora sarei un colorato, uno dei rari individui sparsi per il mondo, magari in via d’estinzione?» chiese, sarcastico, cercando anche di mantenere la calma.
«Sì!» rispose lei. «So che attorno a questa vicenda c’è qualcosa di misterioso e spero che un giorno mio padre me ne parli».
«Tuo padre? Cosa c’entra tuo padre in tutta questa storia?» chiese Miko.
«Sappi che quando ti abbiamo soccorso, mio padre è partito immediatamente per riferirlo al Grande Consiglio di Medusya, nel Tryland. Dalla sua sollecitudine, e dalla particolare espressione del suo viso, devo supporre che tu sia qualcosa di molto importante. Presto sarà di ritorno e, certamente, saprà essere più esaustivo. Anch’io vorrei sapere qualcosa di più».
Poi, in un breve silenzio, continuarono a camminare ognuno con i propri pensieri, prendendo a calci le piccole onde della risacca.
A un tratto, Miko si fermò. Un leggero capogiro lo indusse ad appoggiarsi alla spalla della ragazza che lo sorresse prontamente.
«Sei ancora molto debole» disse Mya. «Sarà meglio ritornare a casa. Hai ancora bisogno di cure e di riposo».
Lo accompagnò alla baracca, gli tolse la lunga benda che gli fasciava il tronco e lo fece distendere supino sul giaciglio. Fu la volta in cui Miko ebbe una nuova sorpresa: Mya gli aveva accostato le mani al torace dove lui accusava i dolori più acuti. Poi, senza mai toccarlo, lasciò che rimanessero in quella posizione, con i palmi aperti e con le dita unite. Trascorso qualche minuto, Miko avvertì un calore diffuso provenire da quelle mani, per poi sentirlo intensificarsi gradualmente in corrispondenza delle parti più doloranti. Provò un grande sollievo e riuscì a respirare meglio. Alzò lo sguardo verso la ragazza con l’intento di ringraziarla, ma si trattenne: Mya aveva gli occhi socchiusi e respirava lentamente, molto lentamente. Anche lui, allora, trovò naturale chiudere gli occhi e respirare piano, molto piano…
Quando si svegliò, qualche ora dopo, guardò attorno e la ragazza non c’era più. Si tastò le parti indolenzite e notò che la fasciatura al suo torace era stata rifatta. Non riuscì a ricordare quel momento e a fatica rammentò di quelle mani che lo avevano accompagnato in un sonno profondo.
Si rimise in piedi, poi vide della frutta sul tavolo e la divorò.
Con il pensiero ritornò a quando, poco prima, aveva scoperto di chiamarsi Miko Brekin. Mentalmente e nei minimi particolari, rifece tutto il film
di quando aveva incontrato Mya sulla spiaggia. Cosa che, con sua sorpresa, questa volta ricordò facilmente. Cercò di mettere un po’ di ordine nei suoi pensieri, ricomporre quei pochi e strani eventi delle ultime ore e finì con il chiedersi cosa fosse il panico, temendo di caderci da un momento all’altro.
Quante domande appese per aria, dove ciascuna ne generava un’altra, in una sequenza di successioni senza fine come un cane che cerca di mordersi la coda! Quello che provò fu come un senso di vertigine, questa volta non più fisica. Per fortuna, a volte, c’è una forma di autodifesa mentale per cui, quando certe situazioni sembrano insostenibili, scatta una specie di meccanismo che porta lentamente verso altri pensieri. Come se dentro il cervello ci fosse un congegno di sicurezza.
La luce fioca che proveniva dalle fessure gli fece dedurre che la giornata era agli sgoccioli e che aveva dormito ancora a lungo.
Si sentì meglio e pensò di uscire, voleva godersi gli ultimi istanti del tramonto sul mare; nonostante tutto gli era rimasto il gusto delle cose belle, l’abitudine di dedicare particolare attenzione a ciò che accadeva intorno a lui. In quel momento di buio non lo sapeva, ma questo comportamento faceva parte della sua indole.
Appena fuori, si sedette con le gambe penzoloni sulla passerella attigua alla baracca. Vide strani e inconsueti riflessi sul mare. Alzò istintivamente gli occhi per guardare il cielo e si sentì gelare il sangue: c’erano due lune! Palesemente più piccole, tutt’altra cosa rispetto a quella che si era immaginato di vedere.
La maggiore stava appena sopra l’orizzonte che, acceso da incantevoli sfumature tra il rosso e l’arancio, calamitava