Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $9.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Omero è nato a mogadiscio
Omero è nato a mogadiscio
Omero è nato a mogadiscio
E-book332 pagine3 ore

Omero è nato a mogadiscio

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Dove sono finiti tutti migranti che affollavano le prime pagine dei giornali nel 2011, quando in Libia scoppiava la guerra e dalle nostre coste partivano gli allarmi per l’“emergenza profughi”? E che fine fanno tutti i viaggiatori della speranza che continuano a sbarcare a Lampedusa, salvo tragici naufragi?

Per alcuni sono “flussi migratori”: un appello alla coscienza. Per altri sono “orde di clandestini”: un pericolo alle porte. Eppure, orde e flussi, coscienze e allarmismi hanno un minimo comun denominatore: si dissolvono appena le notizie scivolano via dalle sigle dei tg. I migranti non sembrano mai essere materia di attualità, a meno che non si decidano a commettere qualche atto eclatante, come morire in massa o scippare qualcuno. Scompaiono. E in questa scomparsa, oltre alle persone, vanno persi due grandi patrimoni: quello delle loro storie di vita “pre-Lampedusa” – una letteratura orale che non è mai stata trascritta, ma che ha l’insospettata forza e il respiro dell’epica omerica – e quello delle loro vicende “post-Lampedusa” – la miriade di ostacolati e tenaci tentativi di inserirsi nella società europea; avventure che vanno a intessere la trama agrodolce di un romanzo picaresco.

Un operatore della Caritas di Udine, che dal 2011 al 2013 ha seguito i richiedenti asilo arrivati in Italia a seguito del conflitto libico e della successiva “Emergenza Nord Africa”, racconta la loro vita dopo che si sono spenti i riflettori. Il libro, con particolare attenzione alla realtà friulana, prende le mosse da quello che è successo a seguito degli sbarchi, a partire dal “progetto di accoglienza” che il governo e il mondo del volontariato hanno organizzato per gestire l’“Emergenza”.

Ma, al di là di un progetto di cui vengono messi in luce tanto gli aspetti virtuosi che quelli critici, “Omero è nato a Mogadiscio” è innanzitutto un libro di storie. Storie malinconiche e divertenti, epiche e imprevedibili, i cui protagonisti sono i profughi, quando da notizie diventano persone.

Li vediamo alle prese con lo shock culturale di un mondo nuovo, che li accoglie e li giudica. Li sorprendiamo ad “innamorarsi” della sanità occidentale, salvo poi scontrarsi con l’alterità del nostro concetto di cura e di persona. Li seguiamo nella vana ricerca del lavoro e nei loro viaggi caotici per l’Europa, in una corsa ad ostacoli in cui sembrano esserci ben pochi vincitori. E infine li troviamo a bussare alla porta della legge, come personaggi kafkiani, beffati da un sistema burocratico che non fa altro che autoalimentarsi, respingendo chi dovrebbe tutelare.

Conosciamo così persone come Hani, che volle farsi contadino friulano e che trovò la strada del suo successo sbarrata da un gallo bellicoso. Come Ekow, che arrivò ad ispirare nientemeno che Melville, tacendo in un dialetto a tutti sconosciuto. E come Mehmet, che una notte, senza saluti nè bagagli, partì per Palmanova o per la Svezia. E poi ci mandò una cartolina da Foggia, che diceva: aspettiamo i pomodori.
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2013
ISBN9788868559083
Omero è nato a mogadiscio

Correlato a Omero è nato a mogadiscio

Ebook correlati

Articoli correlati

Recensioni su Omero è nato a mogadiscio

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Omero è nato a mogadiscio - Michele Brusini

    PINI²

    PREMESSA

    Nella città tunisina di Sidi Bouzid, il venditore ambulante Mohamed Bouazizi grida in mezzo al traffico: Come credete che io possa guadagnarmi da vivere? Quindi si ricopre di benzina e si dà fuoco. È il 17 dicembre 2010.

    Bouazizi lo ha fatto perché era stufo di sopportare le umiliazioni e le prevaricazioni della polizia locale, che continuava a sequestrargli il carretto e le merci, infierendo su di lui. Non avendo i mezzi per corromperli, in un paese dove la tangente è la prassi, l’ambulante sceglie un’autoimmolazione che riecheggia quella dei monaci tibetani, in protesta contro il governo cinese. A questo estremo episodio di ribellione, la storia e i media hanno voluto dare il ruolo di goccia che fa traboccare il vaso. Il rogo di Bouazizi dà simbolicamente il la a quella che in Occidente abbiamo imparato a chiamare la Primavera Araba: una catena di rivolte che nel 2011 hanno scosso i regimi da tempo al potere in Nord Africa. Col senno di poi, gli esiti di questi moti rimangono incerti, ma è fuori discussione l’effetto che hanno avuto e continuano ad avere sui flussi migratori.

    Nel febbraio 2011 la Primavera raggiunge anche la Libia di Gheddafi, il colonnello al governo da più di 40 anni. La rivolta libica si trasforma presto in guerra civile: il rais dà ordine all’aviazione di aprire il fuoco sui manifestanti. A marzo, la NATO decide di intervenire con missili e navi d’assalto.

    A pagare le spese del conflitto non sono solo i cittadini libici, ma anche un milione e mezzo di immigrati provenienti dall’Africa subsahariana. Profughi in fuga da povertà e guerra, nella Libia ricca di petrolio avevano trovato una seconda patria o, se non altro, un lavoro e una situazione semi-pacifica, per quanto precaria. Questi migranti, chi di propria volontà e chi costretto dai miliziani di Gheddafi, si imbarcano ora in massa verso l’Europa. E la porta d’Europa è l’Italia.

    Dopo la guerra, scoppia l’Emergenza Nord Africa.

    Il centro di accoglienza di Lampedusa è presto allo stremo: impossibile garantire un’accoglienza dignitosa per tutti i migranti che sbarcano. Il 12 febbraio 2011, il Ministero dell’Interno italiano dichiara quindi lo stato di emergenza nazionale per l’eccezionale afflusso di cittadini provenienti dal Nord Africa.

    Il 30 marzo, governo, regioni, province autonome ed enti locali firmano un accordo in previsione dell’arrivo di 50.000 profughi, da distribuire equamente sul territorio italiano. Il governo affida alla Protezione Civile il compito di coordinare il trasferimento dei migranti in tutta Italia e di gestire la neobattezzata Emergenza Nord Africa (ENA).

    L’11 aprile viene reso noto un Piano per l’accoglienza dei migranti, in cui sono designati al massimo due soggetti attuatori per regione (nel caso del Friuli saranno il prefetto di Trieste e il delegato alla Protezione Civile), che dovranno individuare strutture adatte ad accogliere i profughi, e stipulare convenzioni con gli enti gestori dell’accoglienza (cooperative, ONLUS e associazioni di volontariato). Si stabilisce che questi enti gestori ricevano 46 euro pro capite, pro die, da gestire autonomamente, per garantire vitto, alloggio e ulteriori spese legate alla vita quotidiana e all’assistenza.

    Dalla seconda metà di aprile, la Protezione Civile regionale individua delle strutture alberghiere con le quale siglare accordi informali per la prima accoglienza dei migranti. Da maggio a settembre del 2011 arrivano in Friuli 531 profughi.

    A partire dal mese di luglio, a seguito di apposite convenzioni della Prefettura di Trieste con le Caritas diocesane regionali, parte dei migranti è trasferita dagli alberghi alle strutture delle Caritas. In alcuni casi, non essendo possibile trovare ulteriori sistemazioni nelle strutture, i migranti rimangono ospitati negli hotel, anche se il percorso di accoglienza è ora gestito dalla Caritas.

    In base alle convenzioni stipulate, oltre al vitto e all’alloggio i servizi da garantire riguardano la fornitura di vestiario, di prodotti per l’igiene personale, di biglietti per i mezzi pubblici e di mezzi di comunicazione; l’orientamento giuridico e legale sulla normativa relativa alla protezione internazionale; l’insegnamento della lingua italiana; la mediazione linguistica-culturale; la formazione professionale e il successivo inserimento lavorativo.

    La convenzione che la Caritas di Udine ha firmato il 6 luglio 2011 scadrà il 31 dicembre dello stesso anno, per essere poi prorogata e rivista in più occasioni, fino a chiudersi definitivamente il 28 febbraio 2013.

    Nel periodo di massima affluenza, ad essere ospitati sono circa 200 migranti, provenienti, in ordine di presenza, da Mali, Somalia, Costa d’Avorio, Sudan, Nigeria, Burkina Faso, Senegal, Ghana, Niger e Ciad, con una ristretta minoranza di migranti palestinesi e pakistani. Si tratta in grande maggioranza di uomini soli, tra i venti e i trentacinque anni, con l’eccezione di tre nuclei famigliari. Vengono alloggiati in diverse strutture di accoglienza dislocate sul territorio della Diocesi, in alcuni appartamenti affittati per la gestione dell’emergenza e in due strutture alberghiere individuate in collaborazione con la Protezione Civile.

    INTRODUZIONE

    Mare nostrum

    È nato a Mogadiscio, 35 anni fa.

    La Somalia in cui è cresciuto è uno Stato fallito, segnato dalla ventennale dittatura del generale Siad Barre e dalla guerra civile seguita alla sua deposizione. Un caos sociale che fa da habitat naturale a capi-clan e signori della guerra.

    La missione delle Nazioni Unite, significativamente nominata Ristabiliamo la speranza, si è significativamente conclusa con la ritirata dei caschi blu dalla capitale somala.

    Lui è di famiglia benestante: il padre ha lavorato per una ditta asfaltatrice italiana. Ha quindi i mezzi per mettersi in salvo dalla guerra civile, attraversando il confine con il Kenya.

    Qui vive fino al ‘95, quando il campo profughi che lo accoglie viene chiuso. Si trasferisce allora in Etiopia, dove riesce a guadagnarsi da vivere con lavori precari.

    Quando torna a Mogadiscio si sposa e viene assunto come interprete per il Ministero dell’Interno: durante le intermediazioni militari traduce dal somalo all’amarico, la lingua ufficiale etiope.

    Inizia presto a ricevere minacce da Al Shabaab, un gruppo islamista somalo vicino ad Al Qaeda, radicato nel populismo tribale e nel diffuso antioccidentalismo. Lo accusano di essere colluso con il nemico etiope, di essere una spia e un nemico dell’Islam. Gli chiedono informazioni militari, di cui lui non è mai stato a conoscenza.

    Lo chiamano al telefono di notte, spiegandogli cosa faranno a sua moglie.

    Violenza incontrollata, sequestri e attentati in luoghi pubblici sono all’ordine del giorno. Un commando in passamontagna spara a un suo collega, in pieno centro.

    Insieme alla moglie decide di fuggire, con l’aiuto di un militare etiope. Dopo un viaggio di una settimana è ad Addis Abeba. Qui conosce un passeur che gli promette di portarli in Libia. Se non hanno i soldi, possono ripagarlo all’arrivo, lavorando per lui.

    Accettano: si indebitano per 2.000 dollari.

    In una settimana di jeep arrivano in Sudan, poi proseguono a piedi per 3 giorni: non hanno i documenti e vogliono evitare i controlli della polizia. In marcia con loro ci sono altri 30 migranti. A Khartum salgono su un camion, e per dieci giorni attraversano il Sahara.

    Arrivano nell’oasi libica di Kufra, in Cirenaica.

    Mesi dopo, saldato il loro debito lavorando nelle coltivazioni, si spostano verso Tripoli. Con l’aiuto di connazionali che vivono lì da anni, lui riesce a mantenere la famiglia cambiando occupazione ogni settimana: a Tripoli il lavoro saltuario non manca. Vai in piazza, e aspetti che ti assumano.

    In Libia nasce suo figlio.

    La Primavera Araba raggiunge il paese, scoppia la guerra civile. Lui, sua moglie e il figlio di un anno fuggono dalle bombe, scappano verso il porto di Zuwarah, 100 km ad ovest di Tripoli.

    Pagano 1.000 dollari uno scafista, perchè li aiuti a fuggire in Europa. Vogliono raggiungere la comunità somala in Svezia.

    È nato ad Abyei, 30 anni fa.

    Abyei, del Kordofan meridionale: Nord Sudan. Oppure Abyei, del Bahr al-Ghazal settentrionale: Sud Sudan. È nato in una regione ricca di risorse, e quindi contesa. Un confine in bilico che è campo di battaglia, dove i ribelli del Sud e l’esercito del Nord fanno prove di forza.

    Lui studia e lavora a Khartum. Grazie al sostegno economico della famiglia, riesce ad iscriversi all’Università. Ma già al secondo anno è costretto a lasciare: la polizia fa irruzione durante un’assemblea studentesca e gli trova in tasca la tessera del Movimento di Liberazione Sudanese, una formazione politica antigovernativa. Ribelli che denunciano le discriminazioni subite da tutti i gruppi etnici ritenuti di origine africana e non araba da parte del governo e dei Janjaweed, le tribù dei demoni a cavallo accusati di genocidio in Darfur.

    Lo arrestano. Vogliono dei nomi: i suoi compagni, i leader del movimento studentesco…

    Lo torturano.

    Di queste torture non parlerà con nessuno, per anni. Quando proveremo a ricostruire la sua storia, in questo punto rimarrà uno spazio bianco.

    La dignità che allora hanno voluto sottrargli, lui proverà con tenacia a difenderla. La dignità sarà il suo silenzio su quanto gli è accaduto: tacere torture che annientano la persona e disperdono la sua storia.

    Una lacerazione, di cui noi potremo al massimo esplorare i margini, i lembi spalancati.

    Riesce a fuggire in Ciad, su un camion carico di migranti. Durante il viaggio, senza acqua, rischia di morire di sete. Il camion sterza e i ciadiani che sono stati caricati sul tetto cadono. Non vengono raccolti, rimangono nel deserto.

    Dei 50 che sono partiti, 30 riescono ad arrivare in Libia, a Kufra. Da lì lui parte per Bengasi, pagando un passeur. A Bengasi non passa neanche una settimana da uomo libero: una notte la polizia arresta lui e un gruppo di altri migranti, denunciati come clandestini dallo stesso passeur che li ha trasportati, e che così allarga i suoi margini di guadagno.

    In carcere divide la cella con mezza Africa: Ciad, Somalia, Niger, Ghana, Mali… le guardie libiche sono analfabete e chiedono aiuto a lui per leggere l’appello.

    L’aiuto alle guardie non è ben ripagato: maltrattamenti e percosse sono la prassi.

    Un giorno il pavimento della cella viene innaffiato d’acqua. Nell’acqua vengono appoggiati fili della corrente. Passa un anno.

    Il primo giorno di settembre del 2009, lui e i suoi compagni di cella vengono rilasciati: è il 40° anniversario della salita al governo di Gheddafi, e si festeggia con un’amnistia. Lui, clandestino, deve però essere espulso verso il Sudan. Lo trasportano fino al confine con il suo paese di origine, in un camion pieno di prigionieri. Qui i poliziotti fanno scendere i prigionieri, per poi venderli tutti all’ennesimo passeur.

    Sono liberi, nel deserto.

    Il passeur che li ha acquistati è disponibile ad ospitarli, in attesa che si facciano spedire dei soldi dalle loro famiglie. Soldi con cui pagheranno a lui un nuovo trasporto su camion. Per facilitarli, il passeur mette a disposizione alcuni suoi contatti ed intermediari: sarà lui stesso ad assicurarsi che i soldi arrivino a destinazione.

    I soldi arrivano, il viaggio ricomincia. Riprovano ad andare verso nord, verso Bengasi, ma questa volta la polizia li ferma prima.

    Si rimette in moto la filiera dei clandestini: di nuovo in carcere, di nuovo venduti, di nuovo comprati, di nuovo trasportati.

    Finalmente lui arriva a Tripoli, e qui per 3 anni può condurre quanto di più simile a una vita tranquilla abbia avuto dai tempi dell’Università. Lavora come piastrellista e fa amicizia con molti altri sudanesi che vivono in città.

    Quando Gheddafi inizia a sparare sui manifestanti, capisce che sarà presto costretto all’ennesima fuga. Non sa ancora dove e come vuole scappare, quando un gruppo di miliziani gli punta un fucile alla tempia e gli intima di salire su un barcone.

    Scoprirà la sua destinazione solo 3 giorni dopo, 3 giorni passati a cercare la rotta nel Mediterraneo: Lampedusa, Italia.

    È nato a Boulgou, Burkina Faso, 18 anni fa.

    Analfabeta, l’unico posto di studio e di lavoro che abbia mai avuto è il campo di famiglia. Arachidi e poco altro: agricoltura di sussistenza, che non gli lascia molte speranze per il futuro.

    La siccità rende sempre più difficile andare avanti. Quando lui ha 12 anni, il padre decide quindi di emigrare in Costa d’Avorio, a cercare fortuna. Trova lavoro come giardiniere e al suo ritorno può così aiutare la famiglia comprando qualche mucca. Anche se lavorano molto, i guadagni continuano però a non andare mai oltre al necessario alla sopravvivenza.

    Con il tempo la situazione peggiora: nemmeno la sopravvivenza sembra essere più garantita.

    Lui parla solo bissa, la lingua locale. Non si interessa di politica e le sue conoscenze si limitano al villaggio. Dell’Europa non sa molto. Ma si dice che in Europa tutti abbiano la possibilità di lavorare, di diventare ricchi. Chi torna dall’Europa compra auto e vestiti di lusso, regala soldi ai parenti. Decide quindi di fare il possibile per raggiungerla: vende due mucche per andare in Libia, e da lì si organizzerà per partire.

    Passa per Agadez, il crocevia del Niger, per arrivare a Sabha, in pieno deserto libico, dove si ferma un anno lavorando come muratore. Con i risparmi si trasferisce a Tripoli. Fa lo spazzino e impara un po’ di arabo.

    All’inizio, della guerra civile ha notizia solo grazie alla tv: vede quello che sta succedendo a Bengasi. Vede, non capisce: di governo e ribelli non sa nulla.

    Quando gli chiederemo di raccontarci qualcosa della Primavera Araba, non capirà la domanda, neanche dopo le nostre spiegazioni.

    Poi la guerra arriva a Tripoli.

    Vede il caos nelle strade. Viene rapinato e picchiato da un gruppo di banditi armati. Hanno 12 anni.

    Pochi giorni dopo viene circondato dai ribelli, che lo minacciano di morte. Lo accusano di essere un mercenario. Lui riesce a scappare, ma in città i linciaggi rendono ormai impossibile la vita di chi ha la pelle scura: viene considerata un marchio di compromissione con il regime in caduta. Tutti i mercenari di Gheddafi sono neri, quindi tutti i neri sono mercenari di Gheddafi.

    Alla guerra civile si affianca la pulizia etnica, indiscriminata, indisturbata.

    Lui riesce a salvarsi dai ribelli, ma non dai lealisti: quando gli impongono di arruolarsi e di diventare davvero un mercenario di Gheddafi. Lui rifiuta. Scappa ancora una volta, ma viene ferito da un colpo di machete al braccio.

    Si cura a casa, con l’aiuto di un amico infermiere. Quando decide di tornare a lavoro, viene arrestato sulla porta di casa. Lo fanno salire su una macchina e lo scaricano direttamente nella zona del porto.

    Lui non vuole salire sulla barca, non sa dove sta andando.

    I soldati tengono sotto tiro l’imbarcazione, finchè non salpa: un barcone di 30 metri, con a bordo 740 persone.

    Lui chiede da bere. Gli viene data una bottiglia: fattela bastare, non ne avrai altre.

    Un muro di suoni lo circonda: l’arabo lingua franca, il bissa che sa di casa, il soomaali e l’amarico, e poi l’africa africana di bambara, djola, soninke, wolof, fula, yoruba, pidgin english

    Dopo ore di veglia, si addormenta seduto, stretto tra le cinque persone con cui condivide un metro quadro di nave.

    Apre gli occhi quando la nave si ferma, dopo un giorno di navigazione: è finita la benzina.

    Girano voci, urla: il pilota tunisino ha chiesto soccorso con il telefono satellitare, ma gli è stato risposto che è ancora da verificare in che acque siano. Maltesi o italiane?

    Passa un giorno.

    Passa un altro giorno.

    Tre corpi vengono gettati in mare.

    Il terzo giorno li sorvola un elicottero militare.

    Si scatena dal nulla uno scontro tra etnie diverse a bordo. Lo scafista grida insulti in arabo. Lui viene colpito e colpisce alla cieca: vuole mangiare, vuole mangiare; vuole lavarsi, vuole lavarsi. A questo punto non sente altro che il suo corpo, il linguaggio della privazione, l’alfabeto del bisogno.

    Colpisce un ragazzo ghanese: il ragazzo ghanese cade a terra, immobile.

    Altri corpi vengono scaricati in mare, con le braccia legate.

    Dopo cinque giorni avvistano un porto, il tunisino al timone grida, per la prima volta grida contento.

    Ma il porto è Misurata, Libia, guerra: hanno girato a vuoto.

    A Misurata fanno il pieno di carburante e 10 persone vengono scaricate a riva: intemperanti, ingestibili.

    Ripartono. Il GPS ammutolisce, si perdono di nuovo.

    Non sembra esserci più meta. La meta è: bere. La meta è: un bagno, un vero bagno, con il water, con le porte.

    Motovedette maltesi li avvistano. Lanciano acqua e biscotti e li scortano in mare aperto.

    Passa un tempo che lui non ricorda, un tempo in cui sente che finirà così, morto di sete.

    Salta l’ordine cronologico, e salta il conto dei giorni che passano prima che l’elicottero della Guardia Costiera segnali la loro presenza alle motovedette della Guardia di Finanza.

    Li portano a riva; trovano 25 persone asfissiate dai fumi del motore nella sala macchine.

    Quella sera il TG attacca così:

    Lampedusa allo stremo per l’emergenza profughi: la situazione è esplosiva, dopo gli sbarchi di massa di questi giorni. Scoppia il centro di accoglienza di Lampedusa.

    Sbarcano 692 persone.

    692 richiedenti asilo politico, 23 dispersi nel mare di Sicilia.

    Uri, uri e uri a caminari

    Ora semu arreri cca in viaggiu senza tempu

    Strati sicuri unni 'un c'e' scantu ri guerra

    Quantu su longhi i' strati i stu munnu

    Navi e strati genti ammassati comu cani

    In cerca ri posti d'oru e d'argentu³

    Le storie e la Storia

    Protagonisti di questo libro sono i richiedenti asilo, e in particolare i migranti arrivati in Italia nel 2011, a seguito della guerra in Libia, e accolti dalla Caritas diocesana di Udine nell’ambito della cosiddetta Emergenza Nord Africa. Ma che cosa conosciamo di queste persone, al di là dell’emergenza?

    Quello che sappiamo della loro vita precedente allo sbarco in Italia, lo sappiamo dalle loro storie, quelle che hanno voluto condividere con noi perché si era creato un rapporto di fiducia, e quelle che sono state raccolte nel periodo in cui li aiutavamo a preparare il fondamentale colloquio con la Commissione Territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale⁴.

    Erano, come lo sarebbero le nostre, storie personali in cui la Storia faceva da sfondo, a volte dettagliato, a volte decisamente fuori fuoco, come per il ragazzo del Burkina Faso che non aveva idea di che cosa fosse successo in Nord Africa nella primavera del 2011. Se c’era, la Storia nelle loro storie faceva la sua comparsa a tratti, come uno scoglio inaggirabile nel quale si erano imbattuti (è il caso di chi era travolto da una guerra civile che non lo riguardava, ed era così costretto a fuggire), o come uno scenario gigantesco in cui loro si erano mossi per un certo tempo da protagonisti o comparse (è il caso, ad esempio, di chi era stato parte attiva nei movimenti politici dei propri paesi di origine).

    Confrontate a noi occidentali, in un caso o nell’altro, queste persone si collocano all’avanguardia della storia contemporanea. Non malgrado la propria marginalità, ma proprio in virtù di essa. Quello che per noi è solo un approfondimento mediatico con collegamento via satellite, per loro è vita quotidiana, decisioni senza ritorno, Storia che schiaccia e dà forma alle storie di vita. Le notizie con cui apriva il telegiornale nei giorni dell’emergenza profughi, per noi erano solo notizie.

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1