Oltre il velo della realtà
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Oltre il velo della realtà - Patrizia Catenuto
Titolo | Oltre il velo della realtà
Autore | Patrizia Catenuto
ISBN | 9788891195630
Prima edizione digitale: 2015
© Tutti i diritti riservati all’Autore
Youcanprint Self-Publishing
Via Roma 73 – 73039 Tricase (LE)
www.youcanprint.it
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A mia madre
1
Vivere per il presente, sognare per l’avvenire,
imparare dal passato
Anonimo
Affacciandomi dalla finestra della mia stanza potevo spaziare con lo sguardo sulla strada e sugli alberi secolari interrotti qui e là da villini d’antica costruzione. Le auto passavano lentamente, come se seguissero un corteo funebre, percorrendo una delle strade provinciali che costeggiavano la periferia della città di Catania, rinomata località turistica, che accentrava ogni estate un gran numero di villeggianti, in cerca di svago e d’attrazioni culturali. La strada era animata da bambini di tutta l’età, che giocavano allegramente con le loro bici. Alcuni erano seduti sui gradini davanti casa e si raccontavano storie fantastiche, di Draghi ed Elfi, storie da innocenti. Le bimbe erano vestite con abitini che coprivano loro le gambe e la più piccola indossava una maglietta rosa col disegno di Titty, il povero canarino giallo, ambito pranzo di gatto Silvestro, stampato sul davanti. Portava dei sandali bianchi che evidenziavano le piccole dita abbronzate dal sole d’estate. Erano adorabili; con il loro viso angelico e la loro vocina impalpabile queste bimbe riuscivano a farmi entrare nei loro discorsi: giocavano a fare la mamma con vecchi bambolotti, alcuni addirittura privi di braccia o di occhi, pettinandoli, dando loro da mangiare, cambiandogli il pannolino e i vestitini. Ridevano divertite perché i loro bambolotti avevano fatto la popò e non riuscivano più a rimettere il pannolino. Sgridavano le loro bambole perché non volevano mangiare e davano loro delle sculacciate nel tondo e roseo culetto. Forse era così che facevano le loro mamme.
Da lontano la voce stridula di una mamma chiamava la figlia e la invitava a tornare a casa. Era quasi il tramonto, che in certe sere, quando il sole illuminava le nubi dal basso e l’aria era tersa e secca per un leggero effetto favonico, in pianura, particolarmente in Sicilia, assumeva tonalità veramente da fiaba. Mi protendevo dalla finestra, appoggiando a fatica i gomiti, per capire da dove proveniva la voce, quando un olezzo di carne alla brace m’invase le narici. Non riuscivo a capire da dove provenisse, ma l’insieme dei colori del tramonto, dell’odore dell’estate, delle risate dei bambini, dell’odore della carne alla brace e del soffio del vento estivo sul viso, mi faceva ritornare bambina.
A dodici anni giocavo anch’io su quella strada, ma costretta a restare davanti al portone di casa perché mia madre era apprensiva, allora come oggi. Non nego che aveva buon senso, a dodici anni si è ancora bambine. Qualche anno dopo riuscii a conquistare la strada e anche la fiducia di mia madre, a condizione di tornare a casa prima che facesse buio.
Allora quella strada non era affollata come oggi. Ricordo ancora quando compii sedici anni, mio padre mi regalò, con disapprovazione di mia madre, la vespa N, mitica in quegli anni. M’insegnò a guidarla proprio su quella strada, fiero e felice di aver sopraffatto mia madre.
Inserisci la prima e accelera con la mano destra girando la manopola
suggeriva mio padre.
Sembrava un’impresa impossibile o quasi. Inserii la prima e iniziai ad accelerare.
Brava continua così. Ora premi di nuovo la frizione e inserisci la seconda e subito dopo la terza.
Davo l'impressione di saperla guidare con sicurezza. Inserii la seconda e subito dopo la terza, come mi disse mio padre, e accelerai.
Rallenta, rallenta. Frena col piede destro
gridava mio padre mentre mi allontanavo da lui. Dallo specchietto retrovisore lo potevo vedere correre verso di me, e continuai ad accelerare fino a quando la sua figura svanì. Mi fermai davanti al nostro portone e tornai indietro a riprenderlo.
Sei una scio…sciocca, mi sono imp… impaurito, saresti potuta cade…
Non riusciva a parlare, dopo aver corso vari metri aveva il fiatone, ma i suoi quarant’anni, e la sua piccola statura gli permettevano ancora di poter correre come un’atleta. Non potevo dire lo stesso l’anno successivo; prese ben otto chili per stress da lavoro.
Fu l’anno dell’entrata in vigore delle cinture di sicurezza. Ne acquistò centinaia, poiché era un rappresentante di ricambi auto messo in proprio da poco tempo. I primi mesi la vendita fu straordinaria. Nel 1993 entrò in vigore anche l’obbligo delle cinture posteriori su qualsiasi auto avesse nella carrozzeria i fori per ancorarle e cioè in quasi tutti i modelli, a prescindere dalla data d’immatricolazione. Mio padre, dato che la prima vendita andò bene, ne acquistò ancora di più, firmando assegni e cambiali. La vendita andò male, nessuno si adeguò, anche perché una circolare della Motorizzazione chiarì che l’obbligo sarebbe scattato in seguito all’emanazione di un decreto del ministro dei Trasporti, di cui non si ebbe mai notizia.
Fu l’anno della rovina, sia economica che mentale.
Sei impazzito. Perché non rifletti prima di firmare tutte quelle cambiali? Qualsiasi cosa fai la sbagli. Mi stai distruggendo la vita. Grazie a te ho dovuto iniziare a lavorare e ora tu vuoi anche i miei soldi?
gridava mia madre.
Ogni volta che mio padre tornava a casa, c’erano sempre guai. Non erano mai andati d’accordo, per il loro carattere così diverso. Lui, Biagio, l’eterno bambinone, lei, Angela, la classica donna perfetta che non riusciva ad accettare gli errori del marito.
Angela prometto che te li restituisco. Ho bisogno solo di cinque milioni di lire. Devo pagare una cambiale che scade domani.
"Lo scorso mese ne hai voluti due, e mi avevi promesso che me li avresti rimborsati dopo una settimana. Oggi ne vuoi altri cinque?
Un cliente, alla fine del mese, mi deve firmare un assegno di quattro milioni di lire. Non preoccuparti mi rifarò.
I suoi clienti non gli pagarono mai le cinture di sicurezza e così le cambiali andarono in protesto.
Dove stai andando?
A lavorare, amore
Ma sono le tre di notte!
Sono già le sette, non vedi la sveglia?
Caro sono le tre, la sveglia segna proprio le tre, e fuori c’è buio. Stai qui a letto, tra un po’ ti sveglierò io.
Sei sempre la solita, così andrò tardi a lavoro.
Non preoccuparti ti sveglierò mezz’ora prima, così avrai tutto il tempo per lavarti e vestirti con calma.
Non hai capito. C’è un cliente che mi attende alla reception dell’hotel Penegalli, devo vendergli il mio orologio.
Amore, per favore, ritorna a dormire, stai dicendo delle corbellerie. Tu non vendi orologi, ma ricambi auto, e inoltre non c’è nessun cliente che ti attende all’hotel Peregatti… Penelli...
Penegalli
.
Quello che è, perché non esiste un hotel con un nome del genere.
Dopo pochi secondi di silenzio mio padre ritornava a dormire.
Per molti mesi sono stata costretta a subire queste discussioni nel cuore della notte. Mio padre non riusciva più a dormire. Forse per la forte stanchezza.
La malattia di papà cominciò allora, dallo stress. O forse era già cominciata da tempo, e quello che noi e i dottori inizialmente chiamavamo stress era la prima manifestazione del morbo.
Il calvario di papà ebbe inizio proprio in quell’anno.
La psicologa (la quarta in un mese) sottopose papà all’anamnesi per accertare i disturbi che lo tormentavano.
Buongiorno Signor Biagio, come sta oggi?
Eh…bene.
Facciamo due chiacchiere?
Con una donna bella come lei, anche quattro.
Mio padre scherzava con chiunque e dispensava complimenti a belle donne anche in presenza di mia madre.
Dottoressa lo perdoni, è sempre stato un mattacchione,
si scusò mia madre con un pizzico di gelosia.
Non si preoccupi signora, questo è il mio mestiere.
La guardai attentamente, era veramente una bella donna. Alta, filiforme, con dei lunghissimi capelli biondo dorato e un portamento da fotomodella, che invidia.
Torniamo a noi, signor Biagio.
La psicologa prese un fascicolo dal cassetto della scrivania, e distrattamente lo urtò contro una cornice che si capovolse e così potei osservare una foto di famiglia; lei, un uomo con gli occhiali e una bambina che ricordava proprio Shirley Temple.
L’altro giorno abbiamo parlato del suo lavoro, oggi mi vorrebbe parlare della sua famiglia? Quanti figli ha?
Lucidamente mio padre rispose: Una. Eccola qui.
Si girò verso di me col dito puntato. Si chiama Patrizia, anche se io volevo chiamarla Rossella e mia mamma voleva che la chiamassimo Natala.
Rise come un bambino. NA TA LA come mia madre, povera la mia bambina. Per fortuna l’abbiamo chiamata Patrizia.
Un bel nome complimenti.
Grazie dottoressa
risposi.
Signor Biagio, si ricorda la nascita di sua figlia?
Eh, come se fosse stato ieri.
Ma ieri si ricorda cosa ha fatto?
Ieri…ieri ero in Sardegna, col terzo reggimento bersaglieri.
Non dire idiozie, ieri siamo stati a casa
rispose mia madre.
La dottoressa la fulminò con gli occhi.
Mi scusi,
disse lei sottovoce.
Vedo che ha le idee confuse riguardo ieri. Mi racconti la nascita di sua figlia. Sono convinta che ha dei bei ricordi
disse la psicologa continuando a scrivere sul fascicolo, avendo cura di non perdere lo sguardo di mio padre.
Voltandosi verso di me e prendendo un bel respiro iniziò a parlare come se avesse un registratore incorporato: Era l’11 marzo del 1974, un pomeriggio freddo e piovoso. Accompagnai mia moglie in clinica e dopo un’ora eravamo in sala parto. Lei gridava come una matta. Che motivo avevi per gridare così, ancora non l’ho capito
disse rivolto a mia madre. Lei lo guardò storto e non fece in tempo a rispondergli.
Signora…
disse la dottoressa alzando il palmo della mano come un vigile.
Mia madre non fiatò e mio padre continuò: Le stringevo la mano e lei continuava a gridare, dicendomi che la colpa era tutta mia. Non la capii, ma quando iniziai a vedere mia figlia nascere, così piccola e incantevole, mi sentii male a tal punto che il dottore mi invitò a uscire se non mi fossi calmato.
E lei ci riuscì?
chiese la dottoressa scrivendo speditamente come una stenografa.
Eh, logico!
e continuò Mia moglie fu addormentata, la bambina aveva difficoltà a nascere, ma grazie all’abilità del ginecologo si evitò il peggio. Ero felice, volevamo una bambina e mia moglie ci riuscì. Forse per questo restò figlia unica.
Fece una pausa e la dottoressa ne approfittò per fargli un’altra domanda.
Saprebbe dirmi perché lei è qui da me, signor Biagio?
Sono qui da lei perché mia moglie si è ammattita e ogni giorno mi accompagna da persone col camice bianco.
La deve ringraziare se fa tutto questo
rispose la dottoressa, con un sorriso di compassione.
Non mi ero mai posta la domanda perché fossi figlia unica e quel giorno, dopo tanti anni, seppi la verità dalla bocca di mio padre. Non nego che desideravo avere una sorella. Ero stata sempre invidiosa delle mie amiche che avevano la fortuna di confidarsi con le loro sorelle, uscire assieme, scambiarsi gli abiti e consolarsi a vicenda quando una di loro veniva mollata dal ragazzo.
La psicologa, dirigendosi verso la porta, chiamò l’infermiera: Lucia, per favore, vorresti accompagnare il signor Biagio in sala d’attesa e fargli compagnia?
Lucia lo prese sotto braccio e insieme uscirono dalla stanza.
La psicologa tornò a sedersi, guardò negli occhi mia madre, ma non riuscì a vedere i miei. Fissavano ancora la maniglia della porta che si stava chiudendo.
Mi girai di scatto e vidi la psicologa che attendeva il mio sguardo.
Signora, suo marito soffre di depressione. In un primo momento ho sospettato che soffrisse del morbo di Alzheimer, ma dalle sue risposte non credo sia questo, perché chi ne soffre perde tutti i suoi ricordi, anche quelli più vecchi, e suo marito invece li conserva ancora.
(Oggi dopo tante ricerche ho scoperto che non è così, ma all’epoca mi fidai di quanto diceva la dottoressa.) Riprese nuovamente il fascicolo: Ho pensato che soffrisse della perdita di memoria a breve termine, ma dai suoi comportamenti stravaganti ho scartato questa ipotesi.
Disse poi volgendo lo sguardo verso me:
Suo padre soffre di una forma grave di depressione, non preoccupatevi gli prescrivo una cura da seguire per almeno tre mesi
e guardò mia madre affranta dalla notizia.
Era quasi il tramonto dell’ultimo venerdì di giugno, mia madre guidava, mio padre le sedeva accanto e io ero nel sedile posteriore. Percorremmo delle strade secondarie, evitando il traffico della circonvallazione. Osservavo il mondo dal finestrino: gli abitanti della città apparivano felici; una donna stendeva i panni sporgendosi da una minuscola finestra, dei ragazzini giocavano a pallone in una piazza di periferia, anziani che sorridevano alla vita e auto che sfrecciavano come se fossero al circuito di Monza, non curandosi dei bambini che giocavano in strada.
Mio padre non fiatò per tutto il tragitto - strano per un logorroico come lui - accrescendo la tensione che c’era nell’aria.
La sera stessa iniziò la cura.
Dopo una settimana mio padre iniziò a dare segni di squilibrio, il suo parlare divenne come un puzzle da incastrare, sbavava e dormiva continuamente.
La cura della psicologa fu un vero disastro.
Gli antidepressivi prescritti gli causarono gravi disturbi. Mio padre si era spento, i suoi occhi cerulei vagavano nel vuoto, erano diventati come il cielo prima di una tempesta.
Non può una depressione correre così velocemente.
Papà, papà svegliati è già mezzogiorno.
Eh sì, devi dare i soldi io devo al bar con tua sorella.
Papà, cosa dici, io non ho sorelle, ricordi?
Sì, sì Teresa quella del bar, sclergio fac coinc
, farfugliava.
Papà non ti capisco, cosa vuoi dire?
La bava gli colava lentamente dalle labbra arrivando a bagnare il cuscino, presi dei tovaglioli e lo asciugai delicatamente. La sensazione era terribile. Non credevo a quello che stavo facendo. Stavo asciugando la bava di mio padre, il mio idolo, l’uomo da prendere come esempio.
Mi abbassai ai piedi del letto, gli presi la mano e lo osservai, come si fa con un bimbo appena nato.
Indossava un pigiama azzurro sbiadito dagli anni, quello con una piccola corona reale raffigurata nella tasca destra, il mio preferito.
Da bambina lo chiamavo Re Biagio, per via del ricamo.
Lui stava al gioco, comportandosi come un Re. Prendeva un’insalatiera e la indossava in testa come una corona. Poi prendeva la vestaglia di mamma e la utilizzava come un mantello. Mamma lo rimproverava dicendogli che era un bambino, ma io mi divertivo da matti.
Dov’è la mia piccola principessa?
Nascosta sotto il tavolo della cucina ridevo, perché ingenuamente ero convinta che non riuscisse a trovarmi. Dopo pochi minuti uscivo dal tavolo e andandogli incontro lo