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La Grande Sciagura. Scrittori e prima guerra mondiale
La Grande Sciagura. Scrittori e prima guerra mondiale
La Grande Sciagura. Scrittori e prima guerra mondiale
E-book171 pagine1 ora

La Grande Sciagura. Scrittori e prima guerra mondiale

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Info su questo ebook

Cento anni fa, il 23 maggio 1915, l’Italia dichiarava guerra all’Austria-Ungheria, entrando così nel primo conflitto mondiale. A questa infausta ricorrenza è dedicato il numero 1 di Giona, rivista-libro che sonda gli abissi della letteratura. "La grande sciagura" è un viaggio in tre atti nelle trincee reali e mentali della Grande Guerra.
"La paura" è un racconto di Federico De Roberto, al quale è ispirato l'ultimo film di Ermanno Olmi, "Torneranno i prati": sul fronte italo-austriaco, un cecchino nemico inizia a far fuori uno dopo l’altro i soldati italiani incaricati di fare il turno in una piazzola di guardia.
Di Carlo Stuparich, scrittore triestino arruolatosi come soldato volontario e uccisosi sull'altopiano di Asiago per non cadere in mano austriaca, pubblichiamo per la prima volta in digitale le sue "Lettere dal fronte" e il "Testamento", tratti da "Cose e ombre di uno", volume postumo apparso nel 1919 che raccoglie i suoi scritti e le sue lettere.
Chiude la trilogia l' "Esame di coscienza di un letterato", di Renato Serra, capolavoro della letteratura italiana del primo Novecento, riflessione lucida e tormentata di un intellettuale sulla guerra e sulle sue mistificazioni. Partito anche lui per il fronte, sarebbe morto sul Podgora il 20 luglio 1915.
LinguaItaliano
Data di uscita5 mag 2015
ISBN9786050377002
La Grande Sciagura. Scrittori e prima guerra mondiale
Autore

Federico De Roberto

Italian writer, 1861-1927

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    La Grande Sciagura. Scrittori e prima guerra mondiale - Federico De Roberto

    Giona #01: La Grande Guerra dell’Italia, cento anni dopo

    Morire non ripiegare!

    (ordine del giorno del generale Cadorna, 7 settembre 1917)

    Cento anni fa, il 23 maggio 1915, l’Italia dichiarava guerra all’Austria-Ungheria, entrando così nel primo conflitto mondiale. A questa infausta ricorrenza è dedicato questo numero (il numero 1!) di Giona: un viaggio in tre atti nelle trincee reali e mentali della Grande Guerra attraverso le parole di tre scrittori d’eccezione, Carlo Stuparich, Renato Serra e Federico De Roberto. I primi due parteciparono al conflitto in prima persona, perdendovi la vita; il terzo ne fece il soggetto di alcuni racconti scritti nella fase più tarda della sua attività letteraria, le cosiddette novelle della guerra.

    Di queste ultime la migliore è senz’altro La paura, pubblicata per la prima volta su Novella il 15 agosto 1921, e qui riproposta in apertura del nostro viaggio nella grande sciagura (la definizione è di De Roberto stesso).

    Sul fronte italo-austriaco, un cecchino nemico inizia a far fuori uno dopo l’altro i soldati italiani incaricati di fare il turno in una piazzola di guardia. È questo il nucleo narrativo, crudo e semplice, attorno al quale prende le mosse e si sviluppa in un climax inarrestabile di tensione – fino allo sconvolgente finale ­– La paura. L’autore de I viceré costruisce un congegno narrativo perfetto, di straordinaria modernità: ambientato in un’immaginaria Valgrebbana, La paura ci offre uno spaccato realistico della vita in trincea che è anche un atto d’accusa contro la guerra e la sua assurdità. Il cecchino nemico, invisibile e apparentemente invincibile, assurge a simbolo metafisico del male, di fronte al quale cade ogni retorica bellica e rimangono gli uomini, con tutta la loro fragilità e verità: se la morte è lì, acquattata, vigile, pronta a balzare e a ghermire; se bisogna andarle incontro fissandola negli occhi, senza difesa, allora i capelli si drizzano, la gola si strozza, gli occhi si velano, le gambe si piegano, le vene si vuotano, tutte le fibre tremano. E accanto alla paura di morire, emergono anche il disappunto e la rabbia muta e impotente dei soldati nei confronti di chi li ha mandati a morire: il cruccio e lo sdegno contro i fieri proponimenti ostentati dagli imboscati, dagli eroi da poltrona, dagli speculatori che lucravano sulla grande sciagura. De Roberto, che pure prima dello scoppio della guerra si era espresso a favore di un moderato interventismo (come interventista del resto era stato Giovanni Verga, suo maestro dichiarato), con La paura mette a nudo l’atrocità della guerra e l’ipocrisia che ne alimenta il mito, con una forza espressiva che ricorda quella di un altro capolavoro della letteratura antimilitarista, Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu.

    Proprio sull’altipiano di Asiago morì, togliendosi la vita per non cadere in mani nemiche, il ventunenne Carlo Stuparich. [...] adesso è epoca di dovere e di sacrifizi e l’uomo può liberarsi dal suo egoismo abitudinario, adesso si vive un poco più per gli altri: così aveva scritto in una lettera del 1° giugno 1915 annunciando la sua partenza imminente per il fronte insieme al fratello Giani e a Scipio Slataper (autore de Il mio Carso, morto sul Podgora pochi mesi prima di Stuparich). Le sue Lettere dal fronte, insieme al suo Testamento, costituiscono il secondo atto del nostro percorso. Come il fratello Giani e come Slataper, Carlo Stuparich era irredentista e partì volontario per il fronte mosso dal desiderio di restituire la natìa Trieste all’Italia. Animato da ideali mazziniani e da un sincero patriottismo libero da ogni forma di imperialismo, Carlo era però anche uno spirito inquieto e come tanti altri della sua generazione, che si raccolsero attorno alla rivista La Voce di Giuseppe Prezzolini, sentiva la crisi della civiltà europea e vedeva nella guerra un’occasione di riscatto, pur tra dubbi e ripensamenti: tutti questi morti dignitosamente, e i grandi sforzi collettivi, le grandi risoluzioni dei governi gridano: l’Europa è eroica e dimostra una forza viva che non ha mai dimostrato, mentre fino a ieri faceva il suo cotidiano giro attorno al sole come un borghese ordinato, e non produceva nulla che meritasse veramente il nome di geniale. Nondimeno lo scetticismo fine fine non vuol svaporare, scrive il 22 ottobre 1915. E il giorno seguente aggiunge: Talvolta il pensiero che può darsi il caso ch’io sopravviva a questa guerra con tutti quelli che mi son più vicini non mi dà nessuna gioia; perché ho un presentimento ch’io non potrò svolgermi più altro che ripetere quotidianamente la mia poverissima vita. Ma oltre alle inquietudini esistenziali, nelle sue lettere emerge anche la durezza della vita in trincea: Da tre giorni dormo nel fango, tra il fango col fango, mangio e bevo misto a fango, respiro fango, le mia pelle le mie ossa sono infangate. Nelle sue lettere Stuparich non nasconde le difficoltà, la nostalgia lancinante per i suoi luoghi e i suoi cari, l’isolamento e il presentimento di morte che sempre l’accompagna.

    La nostra trilogia di testi sulla guerra si chiude con l’Esame di coscienza di un letterato, di Renato Serra, una delle opere più importanti della letteratura italiana del primo Novecento. Mentre infuriava il dibattito tra interventisti e neutralisti (l’Italia sarebbe entrata in guerra due mesi dopo), Serra, intellettuale orgogliosamente defilato e di provincia, scrivendo dalla sua Cesena demolisce una a una tutte le presunte ragioni a favore della guerra, rivelandone anche tutte le mistificazioni: la guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati. E, per quanto riguarda la letteratura: è inutile sperare che i letterati ritornino cambiati, migliorati, ispirati dalla guerra. L’Esame esprime tutto il dissidio interiore di un uomo sospeso tra l’adesione a una letteratura libera, svincolata da ogni preteso impegno politico e sociale, e il desiderio di sottrarsi a una sensazione di impotenza di fronte ai grandi eventi che segnano la vita dei popoli (Fra mille milioni di vite, c’era un minuto per noi; e non l’avremo vissuto), facendosi uomo tra gli uomini, nel nome di una fratellanza che possa immergerlo nel flusso della vita, restituire un senso all’esistere: Si ha voglia di camminare, di andare. Ritrovo il contatto col mondo e con gli altri uomini, che mi stanno dietro, che possono venire con me. L’adesione di Serra alla guerra non è dunque ideologica o politica, ma esistenziale: Mi contento di quello che abbiamo di comune, più forte di tutte le divisioni. Mi contento della strada che dovremo fare insieme, e che ci porterà tutti egualmente: e sarà un passo, un respiro, una cadenza, un destino solo, per tutti. Partito volontario per il fronte, sarebbe morto sul Podgora, quattro mesi dopo aver scritto queste parole, il 20 luglio 1915.

    Giona

    Federico De Roberto, La paura

    Nell’orrore della guerra l’orrore della natura: la desolazione della Valgrebbana, le ferree scaglie del Montemolon, le cuti delle due Grise, la forca del Palalto e del Palbasso, i precipizii della Fòlpola: un paese fantastico, uno scenario da Sabba romantico, la porta dell’Inferno.

    Non una macchia d’albero, non un filo d’erba tranne che nel fondo delle vallate: lassù un caotico cumulo di rupi e di sassi, l’ossatura della terra messa a nudo, scarnificata, dislogata e rotta. Gran parte delle trincee s’eran dovute aprire spaccando il vivo masso, a furia di mine: il monte delle schegge aveva dato il materiale per i muretti e il pietrisco era servito a riempire i sacchi-a-terra. L’acqua mancava del tutto e doveva essere trasportata a schiena di mulo, nelle ghirbe, insieme con i viveri.

    Tuttavia i soldati s’erano accomodati anche lì e non parevano starci di peggio umore che altrove. Il posto era spaventoso, ma in compenso tranquillo. Ogni idea di altri sbalzi, da quelle parti, pareva deposta; poteva soltanto temersi che gli Austriaci volessero essi profittare delle loro posizioni più vantaggiose, e quindi occorreva stare molto attenti, segnatamente nel tratto avanzato del costone della Venzela, dal cui mantenimento dipendeva la saldezza della linea retrostante. Ma neppure i nemici si mostravano animati da proponimenti bellicosi, e a poco a poco s’era così venuto formando una specie di tacito accordo in virtù del quale nessuno dei due partiti dava molestia all’altro. Vigilanza incessante, ma non ostilità.

    Il servizio più penoso toccava alla vedetta posta all’imbocco del canalone che andava a finire nella conca del Corbin: poiché solamente di lì i nemici potevano tentare una sorpresa, gli ordini portavano che quel passaggio fosse continuamente esplorato dall’alto, e precisamente dal punto già designato per la postazione d’una mitragliatrice alla quale si era poi dovuto rinunziare non essendo riuscito possibile mascherarla.

    La piazzola, quantunque lontana soltanto una cinquantina di metri dalla trincea, ne pareva remotissima essendone distaccata del tutto: un certo tratto della linea d’accesso restava bene o male riparato da due muriccioli formanti camminamento; ma più oltre, per la natura e la configurazione del terreno, non si era potuto improvvisare nessuna sorta di riparo, e l’uomo destinato alla fazione doveva avanzarsi carponi, insinuandosi fra le pieghe del suolo, fino a una radice di parapetto formato dalle sporgenze delle roccia e rialzato alla meglio con sassi e sacchetti. Lì, durante due ore, in una posizione incomodissima, sotto il sole dei meriggi estivi e al gelo delle notti, la vedetta aveva la consegna di non perder mai di vista il fondo

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