Le scarpe del tuo numero
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Mio padre mi diceva: “Con le donne devi scegliere le scarpe del tuo numero!”.
Non l’ho mai ascoltato, sapendo di pagare per questo. Parlo delle persone che ho conosciuto nella mia vita, di quelle che mi hanno emozionato e di quelle che mi hanno fatto soffrire, di quelle che avrei voluto per sempre e non mi hanno voluto, e di quelle che mi volevano senza essere corrisposte. Parlo del film affettivo che ho vissuto e del mio modo d’interpretare la vita.
Se potessi tornare indietro, rifarei le stesse cose.
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Anteprima del libro
Le scarpe del tuo numero - Gino Cortucci
Introduzione
La vita ci dà sempre un’altra possibilità, si dovrebbe sempre trovare la forza per rialzarsi.
Mio padre mi diceva: Con le donne devi scegliere le scarpe del tuo numero!
.
Non l’ho mai ascoltato, sapendo di pagare per questo. Parlo delle persone che ho conosciuto nella mia vita, di quelle che mi hanno emozionato e di quelle che mi hanno fatto soffrire, di quelle che avrei voluto per sempre e non mi hanno voluto, e di quelle che mi volevano senza essere corrisposte. Parlo del film affettivo che ho vissuto e del mio modo d’interpretare la vita. Se potessi tornare indietro, rifarei le stesse cose.
Inizia da qui
Non sono sicuro se sia stato un sogno, o se invece è accaduto tutto davvero. Talvolta i sogni si confondono con la realtà. A me accade spesso di sognare la mia vita.
Non ho mai dimenticato dove sono nato, né da dove vengo. Vengo dalla campagna: non avevamo la luce elettrica, ma i lumi a petrolio. Ricordo quando impiantarono i pali per l’allaccio e lo stupore nel vedere la lampadina che illuminava la cucina per la prima volta.
Eravamo più famiglie, come si usava una volta, e abitavamo in una casa colonica; a piano terra c’era la stalla per gli animali e una scalinata esterna portava al piano superiore dove abitavamo; una grande cucina comune dove mangiavamo tutti assieme e camere separate con un unico bagno esterno. Pur vivendo insieme, i rapporti umani erano molto duri, senza alcuna dolcezza. Una gerarchia fatta di uomini più anziani che impartivano ordini ai figli e alle donne.
Anni fa sono tornato in quella casa, per fotografarla prima che la demolissero e vi costruissero una villa; la ricordavo molto più grande, o forse fa questo effetto quando si ricordano momenti e vicissitudini di quando eravamo bambini.
Mentre vagavo attorno alla corte, camminando tra l’erba alta cresciuta selvaggiamente, mi tornavano in mente ricordi di quando ero piccolo. Ripenso a quando camminavo con ai piedi dei sandali costruiti con strisce di gomma tagliate dai copertoni delle moto. Un giorno calpestai un forcone nascosto dall’erba: mi trapassò la pianta del piede dal basso verso l’alto e mia nonna dovette sfilarmelo con la forza. E poi, quando facevo i capricci perché volevo provare a zappare e caddi sopra la zappa che mi tagliò il naso: ancora oggi porto la cicatrice come fosse un marchio. Oppure quando i miei genitori furono costretti a cercarmi nei campi, pensando mi fossi perso: mi trovarono seduto sotto una vigna che mangiavo uva. In effetti, non mi sembrava vero poter stare seduto in terra, davanti a tanta abbondanza di uva, e poterne mangiare quanta ne volevo!
Allora c’era poco di tutto e il pasto principale era il pancotto, un piatto preparato con i pezzi di pane bagnato, sale e olio. Solo nelle grandi occasioni si mangiava la carne e il pasto era abbondante: ad esempio, nella festa della vendemmia, quando le donne a piedi nudi pigiavano l’uva nelle tinozze di legno all’aperto e l’odore del mosto quasi soffocava l’aria; poi la grande tavola imbandita e, a seguire, il ballo accompagnato con la sola musica della fisarmonica.
Ricordo quando una mattina mio padre mi mandò da mio zio, che viveva con noi in casa, per chiedergli la moto. Mentre si faceva la barba, mio zio mi rispose: Di’ a tuo padre che la moto oggi la prendo io
. Era il solo mezzo che avevamo, una Moto Guzzi rossa. Lo zio Vittorio era fratello di mio padre, litigavano spesso e quella mattina, mentre mio padre tentava di partire con la moto a motore acceso, mio zio la tratteneva per il sellino.
Quando avevo tre anni, i miei si sono trasferiti ad Ancona e mi hanno messo in un collegio fino a quattordici anni. I miei genitori avevano trovato un posto di lavoro in un istituto, mio padre come bidello e mia madre donna delle pulizie. Del collegio ricordo le punizioni dietro la lavagna, le bacchettate nelle mani, mangiare in quindici minuti e terminare di masticare in piedi. Preti e suore erano i nostri superiori. Le cicatrici dell’infanzia non vanno più via! Avrei voluto fare l’istituto d’arte e studiare musica per imparare a suonare uno strumento. Mi è stato impedito e ho finito per odiare la scuola. Passavo le ore chiuso in camera a disegnare sopra i libri nuovi mai aperti. Avevo preso l’abitudine di uscire da casa con i fogli da disegno e la matita per andare a disegnare i paesaggi dal vivo. Poi amavo la musica e le sensazioni che mi trasmetteva. Con alcuni amici ci ritrovavamo a suonare in una soffitta, ma solo alcuni avevano la chitarra: io non potevo permettermela, così mi sono improvvisato batterista suonando sui fustini di detersivo per lavatrici (da militare mi hanno messo a suonare come primo tamburino nella banda della caserma).
Quando invece giocavo a pallone nel campo dell’oratorio, mi mettevano sempre in porta. Avevo i pantaloni corti con le scarpe da passeggio e le ginocchia sbucciate per i tuffi che facevo cercando di mettermi in mostra.
In generale, però, la scuola mi terrorizzava: quando venivo interrogato ero una statua