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Fame usurpate
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E-book438 pagine6 ore

Fame usurpate

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LinguaItaliano
Data di uscita27 nov 2013
Fame usurpate

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    Anteprima del libro

    Fame usurpate - Vittorio Imbriani

    ————

    INDICE

    QUALCHE SPIEGAZIONE

    AVVERTENZA

    IL NOSTRO QUINTO GRAN POETA

    A TOMMASO GAR

    I.

    II

    III.

    IV.

    V.

    VI.

    VII.

    VIII.

    IX.

    X.

    XI.

    XII.

    POSCRITTA

    UN CAPOLAVORO SBAGLIATO

    I. — Impressione e Giudizio.

    II. — Imparzialità Italiana.

    III. — Digressione.

    IV. — Importanza storica e concetto filosofico.

    V. — Tre esempli.

    VI. — Ulteriori conseguenze.

    VII. — Fausto è l'uomo.

    VIII. — Triplice contenuto.

    IX. — L'epopea del Fausto.

    X. — Seconda Digressione.

    XI. — Una ballata di Vittorio Hugo ed il prologo in cielo.

    XII. — L'antica Leggenda di Fausto.

    XIII. — Modo in cui il Goethe poetava.

    XIV. — Genesi del Fausto e la Dedica.

    XV. — La novella del Fausto ed una romanza di Federico Schiller.

    XVI. — Incertezze.

    XVII. — Disocchiatezza e la scena della maliarda.

    XVIII. — Intervento diabolico.

    XIX. — I caratteri de' protagonisti.

    XX. — Conclusione.

    UN PRETESO POETA

    POSCRITTA

    TRADUTTORE, TRADITORE

    POSCRITTA

    DANIELE MANIN

    II.

    III.

    È GALANTUOMO IL CAIROLI?

    APPENDICE

    ————

    QUALCHE SPIEGAZIONE

    Affidatomi il grato compito di curar la ristampa di questo volume, ho cercato di riprodurre fedelmente la edizione eseguita sotto gli occhi dell'autore pei tipi di A. Trani, — Napoli, 1877; ed ormai resa irreperibile. Solo, mi son permesso mutare, dove si vedeva chiaro, trattarsi di mende tipografiche. Nel resto, ho spinto la fedeltà, fino allo scrupolo, specie per la punteggiatura, la quale, — quantunque un po' diversa da quella adoperata dall'Imbriani, negli ultimi anni, — pure, giova a spiegarci, come, dopo maturo esame, a poco a poco, era venuto formandosi il suo metodo ortografico.

    Certo, io non potevo far diversamente... Ma l'autore, — che non si stancava mai d'adoperar la lima, — vi avrebbe trovato da modificare e da correggere, come, del resto, ce ne fa fede una copia del libro, che egli andava preparando per la futura edizione, nelle prime pagine con ritocchi e mutamenti, di tutt'i quali ho tenuto conto.

    Ai quattro studî si sono aggiunti due altri, l'uno sul Manin e l'altro sul Cairoli, secondo era divisamento dell'istesso Imbriani, tanto da esserne in trattative con qualche editore; trattative non conchiuse per ragioni, che, qui, è inutile specificare. In fine, ho raccolto, in appendice, tre o quattro altre cosette, che, altrimenti, sarebbero andate smarrite; e che, (se non m'inganno) giovano alcun poco a meglio chiarire il suo pensiero.

    E godo commemorare il secondo anniversario, (che ricorre oggi) della morte immatura del povero Imbriani, con la pubblicazione di un'opera, la quale maggiormente giovò a farlo conoscere che è tanta parte di lui. Anzi, fo voti, che questo sia l'inizio d'una serie di ristampe de' tanti suoi lavori, perchè ritengo, non potersi meglio onorare la memoria, se non divulgandone gli scritti, in cui rivive la sua simpatica ed originale personalità, e contribuire, in tal guisa, a fargli rendere giustizia dalla coscienza nazionale.

    Capodanno, M.DCCC.LXXXVIII.

    Gaetano Amalfi.

    ————

    AVVERTENZA

    Ripubblico, ritoccati, ma senza alterazioni sostanziali, quattro studî critici, scritti parecchi anni fa. Vennero stampati dapprima in giornali o riviste; e conservano sempre la macchia originale, essendo conditi di capestrerie, che dovevano, secondo me, renderli tollerabili al palato de' lettori di Appendici, Se non erro però, sotto all'intingolo più o men pruriginoso, v'è cibo sano e nutriente.

    Ho intitolato il volume Fame Usurpate. Un birrichino d'un pretazzuolo schiericato, mi fece un casa del diavolo addosso, perchè avevo adoperato, in non so che versucciacci, Fame, plurale di Fama. M'ero servito di quel vocabolo pensatamente e confortato anche da esempli numerosi del Petrarca e del Boccaccio. Quindi, invece di recitarne il mea culpa, colgo con piacere l'occasione di ripeter la parola sopra un frontespizio, per mostrare in qual conto tenga le riprensioni delle birbe, degli sciocchi e degl'ignoranti, che s'imponeano a parlar di lingua, senz'aver neppur letto i migliori nostri scrittori.

    Non c'è cosa, ch'io aborra quanto le riputazioni scroccate d'ogni genere; quanto le virtù posticce, gli eroi (façon Sapri) finti ed i falsi dei. Nulla di più dannoso per un popolo de' culti irrazionali, di ogni venerazione inconsistente. Ho cercato sempre di purgarne l'animo mio; ed ho sempre consigliato altrui di tenersene immune, di resistere agli andazzi, di non venerare od amar checchessia, se non a ragion veduta. Da sedici anni, in questa Italia, che mi riesce tanto diversa dal mio desiderio, veggo invece l'impostura e la ciarlataneria riscuoter plauso e trionfare; farabutti e dappochi incensarsi a vicenda; le fabbriche di grandi uomini artificiali ingombrare il mercato politico e letterario, e cattedre e parlamento, di prodotti di scarto. Non inchinandomi ad alcun vitello, nè di carne nè d'oro; non comperando io lodi bugiarde con encomî menzogneri; dicendo sempre quel, che io stimo vero; mi son procacciato nemici e malevoli senza fine, molti dolori e non ho fatto gli affari miei. Ma non me ne duole; ch'io so d'aver fatto il dover mio, ch'è meglio.

    Potrà darsi, che la pubblicazione di questo volumetto stuzzichi un vespaio. Che m'importa? Ad un Italiano, amante della patria e devoto alla dinastia, che può importare di persecuzioncelle letterarie in questo momento? Qual pettegolezzo o briga o dissapore privato può aggiungere all'amarezza, ch'io provo, vedendo il potere in mani abjette e malfide, scorgendo i pericoli, che corrono la Monarchia e l'Unità, prevedendo l'avvenire, che ci minaccia?

    . . . . La cruda e iniqua

    Ragion di parte vinse

    Valor, senno e virtù; sì che in segreto

    Ne geme Italia, rossa di vergogna¹.

    Uomini peggiori e più scadenti no, che non è possibile l'immaginarne, ma uomini ugualmente malvagi ed insipienti, son forse giunti qualche rara volta altrove al potere: però sempre in tempo di rivoluzione, ne' parossismi della massima perturbazion morale, quando la canaglia prevaleva e sopraffaceva armata mano. Che il santuario dello Stato potesse venir profanato in tempi ordinarî e per le vie legali da tanta dappocaggine ed iniquità; che, per un voto delle Camere, ratificato dagli elettori, dovessimo subire questo obbrobrio di Ministero; mi spaventa e sgomenta. Qual è dunque mai lo stato morale e sociale dell'Italia, se qui è possibile e si tollera pazientemente quel, che altrove non si ammetterebbe neppure come ipotesi?

    Per la patria e la dinastia, inseparabili nel cuor mio, nulla posso: non posso nè lavar la macchia, nè rimuovere il pericolo. Ma stimando, che chiunque, comunque, ancorchè per un solo istante abbia potuto acquetarsi ed anche solo mentalmente consentire ad un tanto vitupero e scempio, debba arrossirne; voglio almeno, a tutela della fama mia, dichiarare, pure innanzi a questo volumetto, ch'io non ho nulla di comune con la banda de' sedicenti progressisti.

    Roma, 7 Gennaio 1877.

    Imbriani.

    IL NOSTRO QUINTO GRAN POETA

    (ALEARDO ALEARDI)

     —

    M.DCCC.LXIV.

    A TOMMASO GAR

    — «Mesi fa, Ella, per ispronarmi, a scrivere, sulle poesie d'Aleardo Aleardi, mi fu cortese dell'ultima edizione fiorentina, impressa da Gaspare Barbèra, nel MDCCCLXIV. Veramente, percorse, io le aveva, già, non tutte, altra volta, e quando la fama dell'autore era bambina, accogliendone un'impressione, ma senza badare a formarmene un criterio proprio. Non mi pareva roba da badarci più che tanto. Stavolta,... La lo sa, La lo sa, son fanatico per l'incisione: baratterei tutta l'incolore scuola pittorica lombarda, per un'acquaforte del Rembrandt! Oh s'immagini, dunque! Quel ritrattaccio dell'Aleardi impomatato e stregghiato, che sta rimpetto al frontespizio, come drago sul sogliare d'orti incantati. All'adocchiarlo, raccapricciai; ed il volume ruzzolò, per le terre.» —

    — «Sicchè, non ha letto?» —

    — «Anzi! Raccattai l'opera; la spolverai; tagliai, con la stecca, i fogli; e, poi, mi dissi: Coraggio! Avanti, marsc'! E lessi, rilessi, studiai, postillai, da cima a fondo, il cosiddetto e sedicente poeta civile. Ma...». —

    — «Ma che?». —

    — «Ferma un'opinione in capo, esito a porla in carta! L'impegno assunto, duolmi, oltre ogni dire, per un giusto riguardo. Maledettissimi riguardi! Inceppano, precludono qualunque libero moto, al malcapitato estetico. Sono mostri, che non lasciano altrui passar per la sua via. Stai, per isnocciolare quattro verità, forse, dure, ma che stimi utili e che ti costan fatica, quando ti si para davanti una considerazione, uno scrupolo di convenienza; ed o t'imbavaglia o ti sforza a balbettare qualche scempiaggine menzognera e lusinghiera. Non se la pigli, con l'amico, che ommise d'avvertirla, quand'Ella, ierdassera, sedette a carteggiare, con quel baro: caspita! egli tacque, per onesti riguardi. E, sempre, per qualche buon riguardo, che mogli e drude c'infinocchiano; e che i ministri.... ne sballan tante. Qual meraviglia, quindi, se, per convenienza, per delicatezza, un critico anch'esso s'inducesse a mentire od almanco ad ammutolire?». —

    — «Pure, abbiamo dietro le spalle i tempi, quando si pagava in busse od a pugnalate le giuste riprensioni. Ma comprendo! Il quieto vivere è desiderabile; e, talvolta, si teme, che gli scrittori biasimati.....». —

    — «No, giuraddio! Temere? Un corno. Temere chi? La mi farebbe attaccar moccoli e ceri! O ch'io mi spiego male o ch'Ella m'ha franteso. Potrà darsi, che, altrove, allignino, tuttavia, scribacchini, a' quali imporre silenzio, con l'intimidazione; ma quì, tra noi, mi giova crederne spenta la razza. I riguardi ci s'impongono non dalla violenza, anzi dalla seduzione, ch'è vera forma di violenza, come sclama l'Emilia Gallotti, nel povero dramma lessinghiano. Sempronio ci pare un imbrattacarte: foss'egli efferato e potente, al pari del tiranno siracusano, glielo spiattelleremmo, sul muso, lì. Ma c'è, che, quantunque imbrattacarte, ha congiunti e congiunte, amici ed amiche, ammiratori ed ammiratrici; ed il critico meschinello (guarda combinazione!) sarà congiunto, ammiratore od amico od altro di alcuna od alcuno fra loro. C'è, che visceri d'uomo, ne abbiamo, ancor, noi, checchè blaterino gli scrittorelli tartassati. Abbiamo le debolezze della carne; ed, al postutto, non siamo angeli, come piagnucolava l'anima candida di Tartufo. Crocifiggeteci e non ritratteremo la menoma scioccheriuola, rivaleggiando coi fanatici (politici e religiosi), i quali si saranno, pur, talvolta, accorti delle assurdità, che perfidiavano nel confessare, per amor proprio malinteso. Ma non oseremmo affermare, che, a mezzogiorno, il sole sta, nel punto zenitale, ove dubitassimo di contristare persona cui ci leghi affetto; di attirarci, puta, occhiatacce bieche, da quel par d'occhi bruni, tanto gentili quando sorridono..... Ecco, io mi trovo, ad un simil bivio: o non dar parola al mio concetto d'Aleardo Aleardi; o calpestare riguardi e rispetti di non piccol momento». —

    — «Che? Un par d'occhi bruni.... eh?» —

    — «Nossignore: una barba grigia. Si tratta d'uno di que' pochi Italiani, esuli, tuttora, sul territorio del Regno d'Italia; d'un uomo, che ha mezza logora la vita negli studî e mezza per la patria; ambasciadore della seconda efimera repubblica veneta alla seconda efimera repubblica gallica; del quale ho sperimentata la solerte benevolenza. Come non volergli bene? Ed egli, intimo dell'Aleardi lo ha incuorato a poetare; ne ha ricorretti gli stracciafogli; e si compiace della celebrità, che altri, forse, chiamerà facile ed usurpata, ch'egli rèputa, appena, adeguata, a' meriti dell'amico. Quest'uomo è la Signoria Sua. So, che Le dorrà, ch'io scriva, come sto per iscrivere. Me ne spiace, assai; pure.....» —

    — «Pure?» —

    — «Scrivo! certo, ch'Ella mi perdonerà. Le debbe esser noto a pruova, che, per l'onesto scrittore, quando ha la penna in mano, è giuocoforza scarabocchiare sotto la dettatura di quell'accattabrighe della coscienza. Il solo giornalista di qualche merito in Italia, Ruggiero Bonghi, dice (non so se sinceramente, ma, certo, congruamente): Io non vedo altro compenso dello scrivere, che giovare, dicendo il vero. Quando lo scrittore o non sa o non può vincere le difficoltà, che gli si oppongono a ciò, meglio tacere; e scegliere soggetti, ne' quali non debba mentire o dissimulare, a sè medesimo. Ma il galantuomo, la penna non può non recarsela in mano, quando ha qualcosa da bandire. Chi stima di posseder la verità e non si sbraccia per acquistarle fautori, aderenti, proseliti, partigiani, mi fa schifo. Al levita, capitato in mezzo ad un sinedrio di crisomoscolatri e che si sa provvisto di saldi muscoli abduttori ed adduttori, la sindèresi non concederebbe, mai, pace o tregua, s'egli non iconoclasteggiasse un tantino. Conoscendo quanto io La riverisca, Ella comprenderà, quanto mi affligga, il dover porre alla berlina un verseggiatore mediocre, ma protetto da Lei. E da un tale atto e dalla presente dedica, che ad uomo volgare parrebbe impertinenza, trarrà motivo, per confermarmi quella Sua stima, che tanto ambisco». —

    Angosce finse e simulò letizie

    Con quell'accento che non vien dal core.

    Aleardo Aleardi Accanto a Roma.

    I.

    Discuto il poeta, non l'uomo. Osservazioni, epiteti, giudizî s'hanno a riferire, alla personalità dello scrittore Aleardo Aleardi, ente astratto; non allo Aleardi, uomo in carne ed ossa, che, da taluni, mi si afferma essere una cara persona. Se questo è, debbo rimpiangere di non aver avuto seco relazione di sorta, tranne una sola stretta di mano e momentanea. Potrà darsi, ch'io paja talvolta troppo acerbo, (com'ebbe a dire Alessandro Manzoni;) e mi spiacerebbe, se l'irruenza del dire scemasse credito alla cosa detta; prometto d'avere ogni riguardo, ogn'indulgenza possibile. Ma so scriver solo, fotografando i sentimenti miei: la rettorica mia consiste nell'esprimere quantunque io pensi, comunque il pensi. Ora, basta il barlume d'intelligenza, largito a' cretini, per comprendere, come un Italiano non possa ragionar di quanto, a parer suo, ammorba la nostra letteratura contemporanea, accademicamente, spassionatamente, in quella guisa, che discorrerebbe d'un cattivo andazzo antico, degli Arcadi o de' Frugoniani. Altro è il passato, altro il presente. Mentre ferve la mischia, io me n'infischio di mostrarmi garbato e cavalleresco. Che un pessimo verseggiatore, dugent'anni sono soddisfacesse, perfettamente, a' bisogni estetici della nazione, è fenomeno storico, che ci aveva la sua ragion d'essere; giudicarlo o discuterlo, non serve; bisogna rendersene conto. Al male odierno, invece, conviene ostare, rimediare, aprendo gli occhi agli illusi, mostrando alla gente di facile contentatura quel, che, pure, avrebbe il dritto di pretendere. Questa norma vale e per la politica e per le lettere. Nel combattere un error divulgato e radicato, sarò, quasi chirurgo, che intende a guarire una cancrena profonda e diffusa, adoperando, senza alcun ritegno, tutti i ferri del mestiere: chi l'ha per mal, si scinga. Si sbaglia, addirittura, ritenendo la calma contrassegno dell'aver ragione, e l'irruenza per indizio dell'aver torto: è faccenda di temperamento. Chi s'appassiona (già, si sa!) facilmente, trasmoda: ed io non nego di parlare, appassionatamente. Son certo, che l'Aleardi, lui, me ne saprà grado. Lo sdegnarsi di qualcosa parmi un renderle omaggio, prendendola sul serio. Una volta, trattenendosi il Goethe, in una cittaducola di bagni, nel passeggiar, per un viottolo, che conduceva, ad un mulino, incontrò non so qual principe: sopravvennero alcuni muli carichi di sacca di farina, e bisognò ricoverarsi in una casipola. I due intavolarono discussioni profonde sulle cose umane e divine. Ed essendosi mentovati I Masnadieri dello Schiller, quel principe sclamò: — «S'io fossi stato messer Domineddio, nell'accingermi a creare il mondo, prevedendo, che vi si sarebbero scritti I Masnadieri, io non l'avrei creato.» — Il giudizio era, passionalmente, esagerato: lo Schiller, però, avrebbe avuto torto di lagnarsene, perchè attribuiva tanta importanza, ad una sconciatura da collegiale. E, poi, distinguiamo: c'è passione e passione. C'è la passione, che rampolla da un interesse personale, esclusivo e, quindi, irrazionale, o illogico; e la passione monda, razionale, che mira al vantaggio universale. E di quale altro genere potrebb'essere l'affetto immenso, che ho riposto nella Letteratura Italiana, reputandola la incarnazione più sublime del bello poetico? Questo, a scanso d'equivoci.

    II

    Ire bollenti e fuggitive; santa

    Ignoranza dell'odio e dell'oblio;....

    Carità di perdoni; una serena

    Purezza di pensier, mista a febbrile

    Sperïenza di cupide carezze;

    Ingenue fedi; desiderî audaci

    E insazïati; avidità di arcane

    Ebrezze; del martirio e de la tomba

    Uno sprezzo magnanimo; un perenne

    Vagheggiamento dell'eterna idea;

    Ecco, Elisa, il poeta....

    No, cara ed ignota Elisa, non creder, mica, da gonza, quanto scarabocchia l'Aleardi in una delle peggiori fra le sue Ore cattive. Dato e non concesso, che questa addizione impoetica di qualità sopraccariche d'epiteti, abbia, per prodotto, una persona, io, francamente, non saprei ravvisare, nelle poste, le membra disjecta d'un poeta, anzi, piuttosto, quelle d'un frate. Non i requisiti politici, fisici, morali o religiosi costituiscono il poeta; anzi la virtù di sentire ogni pensiero, in modo da trasformarlo in fantasma: tutto il resto è puro ammenicolo, quando non guasta. Che il viceconte Vittorio Hugo viva fra gli adulterî o che il conte Giacomo Leopardi muoja vergine; che il consigliere intimo Gian Lupo di Goethe strisci, nella corte d'un principato lillipuziano, o che Giorgio Byron aspetti, imperterrito, il naufragio imminente, sulle coste della Corsica; che Alessandro Manzoni sia capace di perdonar finanche a que' tedeschi, i quali fustigarono in pubblica piazza le sue milanesi, o che Dante Allaghieri sia uomo, da non perdonarla, neppure al suo Brunetto Latini; gua', sono accidenti! ci spiegano le peculiarità di que' valenti; bisogna conoscerli, per rendersene conto e del contenuto delle scritture; ma, con essi e senz'essi, e' si puole essere poeta. Un Byron impotente e leccazampe, un Allaghieri codardo e perdonevole, un Manzoni scettico e donnajuolo, un Goethe patriota e tribuneggiatore, un Leopardi ignorante e spensierato, un Hugo che non fosse banderuola politica, avrebber possedute le istessissime facoltà poetiche, la medesima immaginativa. Sia di creta, di bronzo o di oro la lampade, il valore della luce, che ne scaturisce, non cambia. Sia rosso o verde o bianco il vetro del cartoccio o della palla, non importa; importa, bensì, che l'intensità della luce valga ad illuminare e adombrare gli oggetti, nel microcosmo della stanza, per modo, che acquistino fisonomia. Ogni determinazione, che non è essenziale alla fantasia, non influisce sul valore poetico dello scrittore. Il sentimento del poeta, trasfuso nella cosa vagheggiata (impressione, riflessione, idea, fatto, eccetera,) ne trasfigura l'effettività in guisa, ch'essa implichi un cotal concetto dell'Universo, la cui special forma è indifferente, il cui pregio artistico dipende, da tutt'altre ragioni, che non è il merito intrinseco. E, nel mondo ideale, dove il caso, il fortuito sono sconosciuti, ogni parte implica il tutto, ogni individuo contiene la legge generica, più, ancora, che nel mondo effettivo. La rappresentazione d'un'onda può rendermi l'immensità de' mari. Gli adagi veneti m'insegnano, che do' done e un'oca fa un marcà e che tre femene e un pignato e 'l marcà ex fato. E, se una rondine non fa primavera nel proverbio, in quante poesie popolari è il contrario! Un uomo raffigura l'umanità; e nelle vicissitudini d'un amore si espongono le vicende dell'universo. In pittura, in iscultura, nella musica, è lo stesso.

    Il poeta porta (o conscia od inconsciamente) un mondo, in sè: cioè, un sistema; cioè un concetto. Mondo, che, apparirà tanto più poeticamente perfetto, quanto più risponderà a tutte le peculiarità dell'animo suo, quanto più sarà subjettivo. Difatti, allora, esso poeta saprà infondere più vita e più caldo alle singole parti. Che s'egli, invece, non ha sentite e trovate, nel proprio petto, le leggi del suo mondo, questo mancherà di spontaneità e di originalità, potremo chiamarlo rettorico. Vi sorprende, neh, ch'io parli, così, avvezzi a sentir lodare gli antichi pel loro objettivismo poetico? Ma bisogna distinguere! Il concetto vuol essere subjettivo, specifico dell'artista; e la sua fantasia deve aver tanto vigore, da rappresentarglielo come piena e perfetta objettività.

    Intendiamoci bene, però! Si tratta non d'un sistema o d'un concetto scientifico o filosofico, anzi di un concetto poetico. Poco monta, ch'e' sia falso, in sè, purchè bello; e, quando risponda, onninamente, al cuore del poeta, non potrà non rappresentarci un momento dello spirito dell'epoca; il modo di sentire sempre conforme a sè stesso (sibi constat) fa sì che egli in ogni immagine ti lascia sfolgorare dinanzi l'intero concetto, perchè ogni suo fantasma contiene l'universale. Quella unità, che la scienza dimostra, vien sentita dalla Poesia; e per questo Scienza e Poesia s'invadono a vicenda, come due larghe fiumane, che provengano da giogaje discostissime, ma scorrano vicine, e delle quali or l'una or l'altra straripando allaghi l'alveo della contigua. Di fatti: — «senza immaginazione non vi è nessuna specie di scienza; e chi non ha fantasia può a sua posta chiamarsi uno scienziato, ma in realtà non è che un'eco esterna, un pappagallo senza ragione; e noi, per non privarlo di un'illusione che gli procura un piacere, lo tratteremo a tutto pasto di naturalista, ma fra noi non possiamo dissimularci che egli non è che un copista, perchè non riconcepisce e non comprende la Natura. Comprendere è rifare il fatto, e ricreare il creato; fare o rifare, creare o ricreare, è sempre immaginare». — Dice il De Meis e dice benone; e quando mai no?

    Or bene, qual'è l'idea logica del mondo poetico di Aleardo Aleardi? l'occhiale ch'egli adopera per guardare i fatti e le idee? il sentimento dominante sustrato del suo carattere poetico?

    III.

    Quel sentimento che nel mondo delle cose si chiama fatuità.

    L 'Aleardi non giunge mai a percepire chiaro e spiccato il fantasma, ad infondergli autonomia, perchè tra 'l fantasma contemplato e lui contemplatore s'inframmette sempre un'altra immagine: quella della sua propria riverita persona. Non ci ricorda l'attore interamente assorbito dal personaggio, anzi il burattinajo che ti dimena sugli occhi de' fantoccini di legno, e quasi gli dolesse di dar campo all'illusione, caccia di tempo in tempo la propria zucca sul palcoscenico. Sembra preoccupato da paura che l'opera faccia dimenticare il poeta; e s'interrompe, al meglio, e si lascia cader la maschera per rettificare il vostro abbaglio, caso aveste supposto daddovero in iscena altri che lui. Siffatta relazione fra l'autore e le sue creazioni è giustificata nell'umoristico, quando lo scrittore intende appunto ad uccidere la poesia, riducendola a fantasmagoria col dimostrare la nullità intrinseca, la dipendenza del fantasma dal suo capriccio; ma dovunque è serietà diventa incompatibile. Pare che di ciò l'Aleardi non abbia sospetto: per lui, temi e concetti non sono qualcosa d'essenziale, anzi lo svariato scenario che il farà figurare, innanzi al quale ei potrà pavoneggiarsi ora in una, ora in altra veste. L'universo esiste soltanto per suscitargli un'emozione ch'egli esprime con più civetteria che poesia. Il Giusti scriveva ad un amico celiando: — «sa, che l'Io è come le mosche; più lo scacci, più ti ronza d'intorno, e per questo non ti maravigliare se io comincio dal mio signor me.» — L'Aleardi comincia e finisce da sè. E sì, pretende che l'ammiriate, com'egli si ammira; registra ogni suo moto, ogni gesto, ogni atteggiamento, quasi che importassero molto; ed esagera ed ostenta e vuol che guardiate attraverso una lente magnificativa tutte le miserie di una vita prosaica, d'un animo comune: tepidi amorazzi, peccadigli che non son delitti, le solite lacrimette, le solite orazioncelle. Questo per mostrarsi uomo di carattere, dopo detto Che l'angoscia profonda ha il suo pudor, dopo affermato di sdegnare l'indiscreto verso Che pubblica gli affetti intimi al volgo. L'effetto non può non essere comico. Scartabellando il suo volume sei indotto in tentazione di credere che nelle brigate le belle signore invitate da lui per la contraddanza gli rispondano: — «Tropp'onore, mio poeta;» — che scarrozzando col virginia in bocca alle Cascine, tremi per l'olimpia febbre de' carmi; e che pappandosi il mezzo sorbetto la sera, innanzi al Caffè d'Italia su' deschetti in via Santa-Trìnita, ad ogni cucchiaino rimastichi qualche acre reminiscenza del passato pianto.

    L'idea, ridicolamente eccessiva, della sua importanza come poeta, si manifesta in modo presso che io non dissi scandaloso nelle dediche premesse ad ogni singolo componimento, dove la forma epigrafica le dà spicco e la scusanda del verso è svanita. Citerò qualche esempio caratteristico.

    A. Te.

    Nina. Sarego-Alighieri-Gozzadini.

    Che. Comprendi. Più. Che. Non. Dico.

    Il rivolgersi ad una donna, ad una giovane sposa, accennando in nube ad una secreta intelligenza, è una impertinenza tanto fatta, una incontrovertibil pruova di fatuità indelicata. Inoltre il poeta sembra alludere ad un senso profondo, remoto d'ogni sua parola, senso intelligibile soltanto a pochi eletti: ed oltre i miracoli espressi ne' versi, ci ha le mirabilia taciute, i portenti rimasti chiusi nell'animo di lui ed i quali non gli è dato manifestarci, senza dubbio perchè: — «quantunque v'ha di meglio nel cuore, non n'esce mai» — per dirla col Lamartine, ingegno della stessa tempra, ma di ben altre proporzioni. Bella frase! gentil pensiero! se non che l'ammetterlo per vero equivarrebbe ad una sentenza capitale contro la poesia. Il contrario è vero, come dice Ludovico Börne: — «In quella forma che ogni spirito trova la propria glorificazione in un corpo, anche ogni pensiero vede nella parola la sua perfezione». — Certo, qualche volta, si pruova una giusta renitenza a pubblicare od anche scrivere de' versi che rivelano alcune parti o piaghe segrete dell'animo nostro. Il Musset, parlando in una lettera confidenziale di certe stanze ad una suora della Carità che lo avea accudito, dice: — «I versi per suor Marcellina, io li finirò uno di questi giorni, l'anno prossimo, fra dieci anni, quando mi piacerà e se mi piacerà. Ma non li pubblicherò mai e non voglio neppure scriverli. È già troppo l'averteli recitati. Ho detto tante cose a' gonzi e ne dirò loro ancor tante, che ho pure il dritto, una volta in vita mia, di comporre qualche strofa per uso mio particolare. La mia ammirazione e la mia riconoscenza per quella santa ragazza non saran mai impiastricciate d'inchiostro da' rulli del torcoliere. Cosa fatta capo ha; non toccar più questo tasto. La Signora Di-Castries m'approva, asserendo: che giova aver nell'animo un cassetto segreto, purchè vi si nasconda solo roba salubre.» — Benone, ma non bisogna andar decantando il contenuto del ripostiglio occulto; nèd il Musset pretese mai d'essere ammirato per que' versi alla Marcellina che nessuno avea visti. Chi si vanta di ciò che non mostra, induce a credere di non aver che mostrare; appunto come uno che non ispendesse mai e parlasse delle sue ricchezze le farebbe credere immaginarie.

    Pongo. Sul. Sepolcro.

    Di.

    Carlo Troja

    Questo. Canto.

    Che. Vivendo. Ebbe. Caro.

    Non appurandosi altro di questo Carlo Troja (da non confondersi col grande istorico napolitano) che l'aver egli ammirato i versi d'Aleardo Aleardi, e' ci si para davanti come un uomo il quale non abbia fatto altro vita natural durante (vita bene spesa affè!); come una ristampa peggiorata di quel Jacopo Boswell; che per la prona ammirazione verso Samuele Johnson s'è lucrata una ridicola immortalità fra gl'inglesi, tanto che Tommaso Babington Macaulay chiama spiritosamente lue boswelliana ogni venerazione inconsulta, irragionata, inintelligente.

    A. Giuseppe. Garibaldi.

    Aleardo. Aleardi.

    Da pari a pari. Narrano che Goffredo Augusto Bürger visitasse una volta il Goethe, col quale non s'era per anco incontrato personalmente, e che per farsi conoscere gli dicesse: — «Voi siete il Goethe, io sono il Bürger;» — ma soggiungono che il Goethe gli voltasse le spalle, lasciandolo in asso.

    La fatuità non è l'orgoglio, rimpicciolisce: quindi (se m'han detto il vero: ma, se non è vero, è ben trovato!) quindi la debolezza dell'Aleardi di mutarsi il prenome di Gaetano, che veramente è un po' volgare, in quello inaudito d'Aleardo, che è d'un buffo, ma d'un buffo!...... Vergognarsi d'essere l'omonimo dell'autore della Scienza della Legislazione! Ma il Foscolo si vergognò di portare lo stesso prenome dell'autore del Principe, — «quando in Ugo cambiò ser Nicoletto!» — Piccolezze umane! Il volgo si preoccupa molto de' nomi, e da essi giudica gli uomini: non del tutto irrazionalmente, s'e' si trattasse de' cognomi, i quali indicano la schiatta, sebbene la fragilità delle mogli cagioni molte perturbazioncelle note ed ignote; ma scioccamente affatto, per quanto concerne i prenomi, dipendendo questi dall'arbitrio de' genitori, de' parenti, de' compari. Un critico inglese a proposito di alcuni verseggiatori americani scriveva: — «C'era o c'è un certo Dwight, il quale ha stampato un poema in forma d'epopea; ed il nome suo di battesimo era Timoteo». — Il lettore volgare sogghigna d'un poema epico che ha per autore un Timoteo e l'opera gli par giudicata. Sarebbe come se un napoletano per confutar la filosofia del Gioberti, si limitasse a dire-: — «Che razza di filosofia volete che stampi uno che si chiama Si Vicienzo?» — Ma se l'Aleardi fosse davvero quello sdegnoso pel quale e' si spaccia, avrebbe pensato l'uomo illustrar il nome, non il nome l'uomo.

    What's in a name? That which we call a rose,

    By any other name would smell as sweet.

    Questa idiosincrasia, che nell'Aleardi ci stomaca, non è punto rara nella colonia europea del Parnaso. Splendido esempio presso i francesi Alfonso di Lamartine, pertinace a descrivere se dovunque ed ognora, nel parossismo dell'effusione lirica, quasi nel momento dell'affetto avesse avuto uno specchio davanti ed equanimità da studiarvi le mosse, il nodo della cravatta e la discriminatura. Finanche quando da una sua parola dipendono le sorti della patria, quando volgo ed assemblea aspettano che egli decida, per proclamare o la repubblica o la reggenza della duchessa d'Orléans, ha tempo da pensare all'atteggiamento, da notare i gesti propri. Finanche piangendo una figliuola unica, perduta per sua colpa!

    Le front dans mes deux mains, je m'assis sur la pierre,

    Pensant à ce qu'avait pensé ce front divin,

    Et repassant en moi de leur source à leur fin,

    Ces larmes dont le cours a creusé ma carrière.

    Or bene, Aleardo Aleardi ha trovato modo di superare Alfonso di Lamartine! Allegramente, pècori giobertiani! ecco un nuovo documento del nostro primato! Anche rivedendo la madre in cielo, egli pensa solo a coglier l'occasione per esaltar sè, calunniando un popolo ed un secolo, dei quali non possiede e non comprende la robusta virtù:

    Nuovamente accorrâi questo sdegnoso

    Che partorivi con fatica tanta,

    O troppo presto o troppo tardi, in mezzo

    A le viltadi d'una fiacca stirpe.

    Ogni quadro gli sembrerebbe imperfetto s'egli non vi occupasse il primo piano. In un canto profetizza l'ingresso trionfale del Re nella patria Verona, la dimane d'una vittoria sugli Austriaci: benchè la descrizione sia mediocrissimamente favoleggiata, pure il semplice pensiero della cosa descritta esercita tal potenza su d'un patriota Italiano, ch'e' si riman compunti fino alle lacrime. Quand'ecco, sul più bello, l'autore, quasi arrovellato che veronesi e leggitori, assorti nell'immagine simpatica del Re, dimentichino lui, scappa fuori così:

    Emanuele, Re d'Italia, anch'io

    Non ultimo poeta,

    Un saluto t'invio. Certo mia madre,

    Santa com'era, divinando il figlio,

    Me al nascere di panni

    Tricolori fasciò. Sin da fanciullo....

    eccetera. E così giù per ventun verso farnetica di sè, finchè gli paia tempo, dopo essersi ricordato e raccomandato all'attenzione del rispettabil pubblico e dell'inclita guarnigione, di riprendere l'interminabile pittura, slavata in guisa da sembrare quel che ahimè! non puol essere, copiata dalle gazzette.

    In una poesia volante (dichiaro fra parentesi di non capire come possano volare le poesie) troviamo il Nostro prigione oltr'Alpi. Una giovanetta, fior di cortesia, ch'ei non vide mai, nè vedrà forse in terra mai, gli ha usato di quelle benevolenze che scendono tanto dolci al cuor dell'esule e del captivo. Come ringraziare una donna se non lodandola? e che lodare credibilmente in una ignota ed incognita? Il nome: questo nome fu anche della madre di lui e par quasi che stabilisca una parentela fra' due. Benone! chi non ha talvolta profittato di simile coincidenze, chi non le ha spesso astutamente mentite, per trovare punti di contatto con qualcuna che gli premeva? Fin qui la poesia riesce gentile, affettuosa; la situazione è felice: commuove daddovero quell'uomo costretto ad accettare alcunchè da una donna ed il quale può rimeritarnela solo con poche strofette. Ma l'Aleardi non si ferma su questo motivo; non può rassegnarsi a rimaner nella mente della giovane Fraile un carcerato qualunque; vuol darsi importanza; gli manca la sublime verecondia che nel Conte di

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