I conflitti armati hanno rappresentato sin dall’antichità un evento sconvolgente per ogni aspetto... more I conflitti armati hanno rappresentato sin dall’antichità un evento sconvolgente per ogni aspetto della vita umana, ivi compresa la sfera culturale. I beni archeologici ed artistici dei Paesi in guerra non sono esposti soltanto ai danni cagionati dalle operazioni belliche, ma anche ai saccheggi da parte di militari e civili i cui beneficiari finali sono le reti del commercio illegale.
La pratica dello ius predae è assai risalente, per cui la problematica della restituzione del bene culturale al suo Paese d’origine si è posta primariamente come questione afferente allo jus belli. L’evoluzione di una norma consuetudinaria in materia è strettamente legata al declino dello ius predae, il quale ha inizio con l’opera ermeneutica dei giuristi fra XV e XVI secolo e passa per il Congresso di Vienna del 1815, che vide la definitiva ed incondizionata sanzione del divieto della pratica del bottino di guerra in riferimento ai beni culturali. Nella successiva prassi convenzionale compaiono sovente norme che vietano alle forze armate d’impossessarsi dei beni privati e di quelli dello Stato occupato aventi valore artistico, religioso o scientifico.
Furono, tuttavia, le immani devastazioni subite dal patrimonio storico ed artistico dei Paesi belligeranti nel corso della Seconda guerra mondiale a stimolare l’elaborazione di un accordo che disciplinasse a livello universale la tutela dei beni culturali pendente bello. Fu così che nel 1954, sotto l’egida dell’UNESCO, ebbe inizio la Conferenza diplomatica dell’Aja che condusseall’adozione della “Convention for the Protection of Cultural Property in the Event of Armed Conflict” del 14 maggio 1954, il cui articolato però non disciplina la restituzione di quanto trafugato nel corso del conflitto. Tale regolamentazione, infatti, è rinvenibile in un atto distinto, il Primo Protocollo del 1954, soggetto a ratifica separata. Detto protocollo sancisce l’obbligo dello Stato occupante di impedire l’esportazione dei beni culturali dai territori occupati e di restituire quelli eventualmente fuoriusciti al termine del conflitto. Sebbene la dottrina evidenzi come le sue disposizioni siano difficilmente attuabili in concreto, questo strumento internazionale è stato ratificato da ben 102 Paesi.
Nonostante gli alterni successi delle summenzionate norme pattizie, esse possono fungere da utile strumento al fine di rilevare lo stadio di formazione ed il contenuto di una norma consuetudinaria sancente un generale dovere di restituzione dei beni culturali appresi pendente bello. La nascita di una nuova consuetudine in materia, peraltro, sembra confermata dalla prassi degli organi giudiziari nazionali e, per quanto concerne il nostro Paese, da un’interessante sentenza del Consiglio di Stato del 2008 relativa alla c.d. Venere di Cirene.
La restituzione dei reperti archeologici trafugati continua ad essere un problema dati i numerosi... more La restituzione dei reperti archeologici trafugati continua ad essere un problema dati i numerosi limiti interni ed i casi di inapplicabilità delle convenzioni internazionali in materia (si pensi alla Convenzione UNESCO del 1970 ed alla Convenzione dell’Unidroit del 1995), per tale ragione nella risoluzione di simili controversie i giudici dovranno ricorrere ai comuni criteri di collegamento internazionalprivatistici.
Il traffico internazionale di reperti archeologici si configura quale commercio di beni mobili, conseguentemente laddove un giudice venga chiamato a dirimere una causa che li abbia per oggetto, egli, al fine di individuare la disciplina applicabile, dovrà far ricorso al comune criterio di collegamento della lex rei sitae, principio riconosciuto sia dai sistemi di civil law che da quelli di common law. In forza di tale criterio la proprietà, il possesso e gli altri diritti reali sul bene mobile sono disciplinati dalla legge del luogo di situazione del bene stesso.
I beni illecitamente fuoriusciti da uno Stato e venduti all’estero sono dunque soggetti a discipline nazionali che possono differire di molto dalla lex originis, la legge dello Stato d’origine. In primo luogo, il possesso può godere di una tutela più o meno stringente a seconda dell’ordinamento preso in considerazione. In merito possono di- stinguersi i Paesi di common law, i quali consentono al proprietario spossessato di rivendicare i bene anche presso il possessore di buona fede, dai paesi di civil law ove vige il principio “possesso vale titolo”. Un caso eclatante a tal riguardo è la causa “Winkworth v. Christie, Manson & Woods Ltd.”, nella quale il giudice britannico applicando la disciplina codicistica italiana, in quanto legge del luogo di situazione delle opere rubate al momento della compravendita, giudicò a favore del convenuto decretando che in forza della lex rei sitae egli acquistò validamente la proprietà degli oggetti in buona fede.
In secondo luogo, gli Stati manifestano approcci deci- samente diversificati rispetto alla questione della tutela del patrimonio culturale, ve ne sono alcuni liberali ed altri più protezionisti, come l’Italia. Nella maggior parte dei casi le norme di tutela hanno natura di diritto pubblico, in conseguenza di ciò assai di rado, in assenza di un strumento pattizio internazionale, esse saranno prese in considerazione dalle autorità dello Stato di destinazione del reperto trafugato. Conseguentemente la loro applicazione dipenderà dal gioco dei comuni criteri di collega- mento e, quindi, dalla lex rei sitae. Esemplari a tal riguardo sono la causa “Repubblica dell’Ecuador - Casa della cultura ecuadoriana c. Danusso Matta e altri” e la vertenza “Ministero francese dei beni culturali c. Ministero dei beni culturali e ambientali e De Contessini” le cui pronunce sono diametralmente opposte.
In ambito statunitense si evidenziano alcuni tentativi d’accogliere il diritto pubblico straniero, ci si riferisce in particolare alla cd. “McClain doctrine”, anche se pur sempre attraverso il filtro di norme interne, quali l’NSPA. La problematica della lex rei sitae si pone anche in relazione al patrimonio culturale subacqueo. In Italia una corrente giurisprudenziale risalente al caso del Melqart di Sciacca, ha ribadito che i reperti archeologici “pescati” in acque internazionali appartengono allo Stato italiano qualora la nave batta bandiera italiana, in quanto il
bastimento è per fictio iuris, territorio italiano.
Per queste ragioni gli esiti di azioni giudiziarie volte alla restituzione di reperti archeologici trafugati sono
tutt’altro che scontati.
I conflitti armati hanno rappresentato sin dall’antichità un evento sconvolgente per ogni aspetto... more I conflitti armati hanno rappresentato sin dall’antichità un evento sconvolgente per ogni aspetto della vita umana, ivi compresa la sfera culturale. I beni archeologici ed artistici dei Paesi in guerra non sono esposti soltanto ai danni cagionati dalle operazioni belliche, ma anche ai saccheggi da parte di militari e civili i cui beneficiari finali sono le reti del commercio illegale.
La pratica dello ius predae è assai risalente, per cui la problematica della restituzione del bene culturale al suo Paese d’origine si è posta primariamente come questione afferente allo jus belli. L’evoluzione di una norma consuetudinaria in materia è strettamente legata al declino dello ius predae, il quale ha inizio con l’opera ermeneutica dei giuristi fra XV e XVI secolo e passa per il Congresso di Vienna del 1815, che vide la definitiva ed incondizionata sanzione del divieto della pratica del bottino di guerra in riferimento ai beni culturali. Nella successiva prassi convenzionale compaiono sovente norme che vietano alle forze armate d’impossessarsi dei beni privati e di quelli dello Stato occupato aventi valore artistico, religioso o scientifico.
Furono, tuttavia, le immani devastazioni subite dal patrimonio storico ed artistico dei Paesi belligeranti nel corso della Seconda guerra mondiale a stimolare l’elaborazione di un accordo che disciplinasse a livello universale la tutela dei beni culturali pendente bello. Fu così che nel 1954, sotto l’egida dell’UNESCO, ebbe inizio la Conferenza diplomatica dell’Aja che condusseall’adozione della “Convention for the Protection of Cultural Property in the Event of Armed Conflict” del 14 maggio 1954, il cui articolato però non disciplina la restituzione di quanto trafugato nel corso del conflitto. Tale regolamentazione, infatti, è rinvenibile in un atto distinto, il Primo Protocollo del 1954, soggetto a ratifica separata. Detto protocollo sancisce l’obbligo dello Stato occupante di impedire l’esportazione dei beni culturali dai territori occupati e di restituire quelli eventualmente fuoriusciti al termine del conflitto. Sebbene la dottrina evidenzi come le sue disposizioni siano difficilmente attuabili in concreto, questo strumento internazionale è stato ratificato da ben 102 Paesi.
Nonostante gli alterni successi delle summenzionate norme pattizie, esse possono fungere da utile strumento al fine di rilevare lo stadio di formazione ed il contenuto di una norma consuetudinaria sancente un generale dovere di restituzione dei beni culturali appresi pendente bello. La nascita di una nuova consuetudine in materia, peraltro, sembra confermata dalla prassi degli organi giudiziari nazionali e, per quanto concerne il nostro Paese, da un’interessante sentenza del Consiglio di Stato del 2008 relativa alla c.d. Venere di Cirene.
La restituzione dei reperti archeologici trafugati continua ad essere un problema dati i numerosi... more La restituzione dei reperti archeologici trafugati continua ad essere un problema dati i numerosi limiti interni ed i casi di inapplicabilità delle convenzioni internazionali in materia (si pensi alla Convenzione UNESCO del 1970 ed alla Convenzione dell’Unidroit del 1995), per tale ragione nella risoluzione di simili controversie i giudici dovranno ricorrere ai comuni criteri di collegamento internazionalprivatistici.
Il traffico internazionale di reperti archeologici si configura quale commercio di beni mobili, conseguentemente laddove un giudice venga chiamato a dirimere una causa che li abbia per oggetto, egli, al fine di individuare la disciplina applicabile, dovrà far ricorso al comune criterio di collegamento della lex rei sitae, principio riconosciuto sia dai sistemi di civil law che da quelli di common law. In forza di tale criterio la proprietà, il possesso e gli altri diritti reali sul bene mobile sono disciplinati dalla legge del luogo di situazione del bene stesso.
I beni illecitamente fuoriusciti da uno Stato e venduti all’estero sono dunque soggetti a discipline nazionali che possono differire di molto dalla lex originis, la legge dello Stato d’origine. In primo luogo, il possesso può godere di una tutela più o meno stringente a seconda dell’ordinamento preso in considerazione. In merito possono di- stinguersi i Paesi di common law, i quali consentono al proprietario spossessato di rivendicare i bene anche presso il possessore di buona fede, dai paesi di civil law ove vige il principio “possesso vale titolo”. Un caso eclatante a tal riguardo è la causa “Winkworth v. Christie, Manson & Woods Ltd.”, nella quale il giudice britannico applicando la disciplina codicistica italiana, in quanto legge del luogo di situazione delle opere rubate al momento della compravendita, giudicò a favore del convenuto decretando che in forza della lex rei sitae egli acquistò validamente la proprietà degli oggetti in buona fede.
In secondo luogo, gli Stati manifestano approcci deci- samente diversificati rispetto alla questione della tutela del patrimonio culturale, ve ne sono alcuni liberali ed altri più protezionisti, come l’Italia. Nella maggior parte dei casi le norme di tutela hanno natura di diritto pubblico, in conseguenza di ciò assai di rado, in assenza di un strumento pattizio internazionale, esse saranno prese in considerazione dalle autorità dello Stato di destinazione del reperto trafugato. Conseguentemente la loro applicazione dipenderà dal gioco dei comuni criteri di collega- mento e, quindi, dalla lex rei sitae. Esemplari a tal riguardo sono la causa “Repubblica dell’Ecuador - Casa della cultura ecuadoriana c. Danusso Matta e altri” e la vertenza “Ministero francese dei beni culturali c. Ministero dei beni culturali e ambientali e De Contessini” le cui pronunce sono diametralmente opposte.
In ambito statunitense si evidenziano alcuni tentativi d’accogliere il diritto pubblico straniero, ci si riferisce in particolare alla cd. “McClain doctrine”, anche se pur sempre attraverso il filtro di norme interne, quali l’NSPA. La problematica della lex rei sitae si pone anche in relazione al patrimonio culturale subacqueo. In Italia una corrente giurisprudenziale risalente al caso del Melqart di Sciacca, ha ribadito che i reperti archeologici “pescati” in acque internazionali appartengono allo Stato italiano qualora la nave batta bandiera italiana, in quanto il
bastimento è per fictio iuris, territorio italiano.
Per queste ragioni gli esiti di azioni giudiziarie volte alla restituzione di reperti archeologici trafugati sono
tutt’altro che scontati.
Uploads
Papers by Diego Favero
La pratica dello ius predae è assai risalente, per cui la problematica della restituzione del bene culturale al suo Paese d’origine si è posta primariamente come questione afferente allo jus belli. L’evoluzione di una norma consuetudinaria in materia è strettamente legata al declino dello ius predae, il quale ha inizio con l’opera ermeneutica dei giuristi fra XV e XVI secolo e passa per il Congresso di Vienna del 1815, che vide la definitiva ed incondizionata sanzione del divieto della pratica del bottino di guerra in riferimento ai beni culturali. Nella successiva prassi convenzionale compaiono sovente norme che vietano alle forze armate d’impossessarsi dei beni privati e di quelli dello Stato occupato aventi valore artistico, religioso o scientifico.
Furono, tuttavia, le immani devastazioni subite dal patrimonio storico ed artistico dei Paesi belligeranti nel corso della Seconda guerra mondiale a stimolare l’elaborazione di un accordo che disciplinasse a livello universale la tutela dei beni culturali pendente bello. Fu così che nel 1954, sotto l’egida dell’UNESCO, ebbe inizio la Conferenza diplomatica dell’Aja che condusseall’adozione della “Convention for the Protection of Cultural Property in the Event of Armed Conflict” del 14 maggio 1954, il cui articolato però non disciplina la restituzione di quanto trafugato nel corso del conflitto. Tale regolamentazione, infatti, è rinvenibile in un atto distinto, il Primo Protocollo del 1954, soggetto a ratifica separata. Detto protocollo sancisce l’obbligo dello Stato occupante di impedire l’esportazione dei beni culturali dai territori occupati e di restituire quelli eventualmente fuoriusciti al termine del conflitto. Sebbene la dottrina evidenzi come le sue disposizioni siano difficilmente attuabili in concreto, questo strumento internazionale è stato ratificato da ben 102 Paesi.
Nonostante gli alterni successi delle summenzionate norme pattizie, esse possono fungere da utile strumento al fine di rilevare lo stadio di formazione ed il contenuto di una norma consuetudinaria sancente un generale dovere di restituzione dei beni culturali appresi pendente bello. La nascita di una nuova consuetudine in materia, peraltro, sembra confermata dalla prassi degli organi giudiziari nazionali e, per quanto concerne il nostro Paese, da un’interessante sentenza del Consiglio di Stato del 2008 relativa alla c.d. Venere di Cirene.
Il traffico internazionale di reperti archeologici si configura quale commercio di beni mobili, conseguentemente laddove un giudice venga chiamato a dirimere una causa che li abbia per oggetto, egli, al fine di individuare la disciplina applicabile, dovrà far ricorso al comune criterio di collegamento della lex rei sitae, principio riconosciuto sia dai sistemi di civil law che da quelli di common law. In forza di tale criterio la proprietà, il possesso e gli altri diritti reali sul bene mobile sono disciplinati dalla legge del luogo di situazione del bene stesso.
I beni illecitamente fuoriusciti da uno Stato e venduti all’estero sono dunque soggetti a discipline nazionali che possono differire di molto dalla lex originis, la legge dello Stato d’origine. In primo luogo, il possesso può godere di una tutela più o meno stringente a seconda dell’ordinamento preso in considerazione. In merito possono di- stinguersi i Paesi di common law, i quali consentono al proprietario spossessato di rivendicare i bene anche presso il possessore di buona fede, dai paesi di civil law ove vige il principio “possesso vale titolo”. Un caso eclatante a tal riguardo è la causa “Winkworth v. Christie, Manson & Woods Ltd.”, nella quale il giudice britannico applicando la disciplina codicistica italiana, in quanto legge del luogo di situazione delle opere rubate al momento della compravendita, giudicò a favore del convenuto decretando che in forza della lex rei sitae egli acquistò validamente la proprietà degli oggetti in buona fede.
In secondo luogo, gli Stati manifestano approcci deci- samente diversificati rispetto alla questione della tutela del patrimonio culturale, ve ne sono alcuni liberali ed altri più protezionisti, come l’Italia. Nella maggior parte dei casi le norme di tutela hanno natura di diritto pubblico, in conseguenza di ciò assai di rado, in assenza di un strumento pattizio internazionale, esse saranno prese in considerazione dalle autorità dello Stato di destinazione del reperto trafugato. Conseguentemente la loro applicazione dipenderà dal gioco dei comuni criteri di collega- mento e, quindi, dalla lex rei sitae. Esemplari a tal riguardo sono la causa “Repubblica dell’Ecuador - Casa della cultura ecuadoriana c. Danusso Matta e altri” e la vertenza “Ministero francese dei beni culturali c. Ministero dei beni culturali e ambientali e De Contessini” le cui pronunce sono diametralmente opposte.
In ambito statunitense si evidenziano alcuni tentativi d’accogliere il diritto pubblico straniero, ci si riferisce in particolare alla cd. “McClain doctrine”, anche se pur sempre attraverso il filtro di norme interne, quali l’NSPA. La problematica della lex rei sitae si pone anche in relazione al patrimonio culturale subacqueo. In Italia una corrente giurisprudenziale risalente al caso del Melqart di Sciacca, ha ribadito che i reperti archeologici “pescati” in acque internazionali appartengono allo Stato italiano qualora la nave batta bandiera italiana, in quanto il
bastimento è per fictio iuris, territorio italiano.
Per queste ragioni gli esiti di azioni giudiziarie volte alla restituzione di reperti archeologici trafugati sono
tutt’altro che scontati.
La pratica dello ius predae è assai risalente, per cui la problematica della restituzione del bene culturale al suo Paese d’origine si è posta primariamente come questione afferente allo jus belli. L’evoluzione di una norma consuetudinaria in materia è strettamente legata al declino dello ius predae, il quale ha inizio con l’opera ermeneutica dei giuristi fra XV e XVI secolo e passa per il Congresso di Vienna del 1815, che vide la definitiva ed incondizionata sanzione del divieto della pratica del bottino di guerra in riferimento ai beni culturali. Nella successiva prassi convenzionale compaiono sovente norme che vietano alle forze armate d’impossessarsi dei beni privati e di quelli dello Stato occupato aventi valore artistico, religioso o scientifico.
Furono, tuttavia, le immani devastazioni subite dal patrimonio storico ed artistico dei Paesi belligeranti nel corso della Seconda guerra mondiale a stimolare l’elaborazione di un accordo che disciplinasse a livello universale la tutela dei beni culturali pendente bello. Fu così che nel 1954, sotto l’egida dell’UNESCO, ebbe inizio la Conferenza diplomatica dell’Aja che condusseall’adozione della “Convention for the Protection of Cultural Property in the Event of Armed Conflict” del 14 maggio 1954, il cui articolato però non disciplina la restituzione di quanto trafugato nel corso del conflitto. Tale regolamentazione, infatti, è rinvenibile in un atto distinto, il Primo Protocollo del 1954, soggetto a ratifica separata. Detto protocollo sancisce l’obbligo dello Stato occupante di impedire l’esportazione dei beni culturali dai territori occupati e di restituire quelli eventualmente fuoriusciti al termine del conflitto. Sebbene la dottrina evidenzi come le sue disposizioni siano difficilmente attuabili in concreto, questo strumento internazionale è stato ratificato da ben 102 Paesi.
Nonostante gli alterni successi delle summenzionate norme pattizie, esse possono fungere da utile strumento al fine di rilevare lo stadio di formazione ed il contenuto di una norma consuetudinaria sancente un generale dovere di restituzione dei beni culturali appresi pendente bello. La nascita di una nuova consuetudine in materia, peraltro, sembra confermata dalla prassi degli organi giudiziari nazionali e, per quanto concerne il nostro Paese, da un’interessante sentenza del Consiglio di Stato del 2008 relativa alla c.d. Venere di Cirene.
Il traffico internazionale di reperti archeologici si configura quale commercio di beni mobili, conseguentemente laddove un giudice venga chiamato a dirimere una causa che li abbia per oggetto, egli, al fine di individuare la disciplina applicabile, dovrà far ricorso al comune criterio di collegamento della lex rei sitae, principio riconosciuto sia dai sistemi di civil law che da quelli di common law. In forza di tale criterio la proprietà, il possesso e gli altri diritti reali sul bene mobile sono disciplinati dalla legge del luogo di situazione del bene stesso.
I beni illecitamente fuoriusciti da uno Stato e venduti all’estero sono dunque soggetti a discipline nazionali che possono differire di molto dalla lex originis, la legge dello Stato d’origine. In primo luogo, il possesso può godere di una tutela più o meno stringente a seconda dell’ordinamento preso in considerazione. In merito possono di- stinguersi i Paesi di common law, i quali consentono al proprietario spossessato di rivendicare i bene anche presso il possessore di buona fede, dai paesi di civil law ove vige il principio “possesso vale titolo”. Un caso eclatante a tal riguardo è la causa “Winkworth v. Christie, Manson & Woods Ltd.”, nella quale il giudice britannico applicando la disciplina codicistica italiana, in quanto legge del luogo di situazione delle opere rubate al momento della compravendita, giudicò a favore del convenuto decretando che in forza della lex rei sitae egli acquistò validamente la proprietà degli oggetti in buona fede.
In secondo luogo, gli Stati manifestano approcci deci- samente diversificati rispetto alla questione della tutela del patrimonio culturale, ve ne sono alcuni liberali ed altri più protezionisti, come l’Italia. Nella maggior parte dei casi le norme di tutela hanno natura di diritto pubblico, in conseguenza di ciò assai di rado, in assenza di un strumento pattizio internazionale, esse saranno prese in considerazione dalle autorità dello Stato di destinazione del reperto trafugato. Conseguentemente la loro applicazione dipenderà dal gioco dei comuni criteri di collega- mento e, quindi, dalla lex rei sitae. Esemplari a tal riguardo sono la causa “Repubblica dell’Ecuador - Casa della cultura ecuadoriana c. Danusso Matta e altri” e la vertenza “Ministero francese dei beni culturali c. Ministero dei beni culturali e ambientali e De Contessini” le cui pronunce sono diametralmente opposte.
In ambito statunitense si evidenziano alcuni tentativi d’accogliere il diritto pubblico straniero, ci si riferisce in particolare alla cd. “McClain doctrine”, anche se pur sempre attraverso il filtro di norme interne, quali l’NSPA. La problematica della lex rei sitae si pone anche in relazione al patrimonio culturale subacqueo. In Italia una corrente giurisprudenziale risalente al caso del Melqart di Sciacca, ha ribadito che i reperti archeologici “pescati” in acque internazionali appartengono allo Stato italiano qualora la nave batta bandiera italiana, in quanto il
bastimento è per fictio iuris, territorio italiano.
Per queste ragioni gli esiti di azioni giudiziarie volte alla restituzione di reperti archeologici trafugati sono
tutt’altro che scontati.